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Autore: Onigiri    01/06/2011    2 recensioni
Ci sono mostri che non stanno sotto, ma sopra i letti, e i giochi pericolosi delle farfalle, e re piccolissimi, e stelle marine carnivore, e alberi che piangono, e maschere di carne, e bambole che si vedono solo ad occhi chiusi, e mongolfiere nell'acqua con pesci di carta, e donne che piangono con forza negli angoli più bui degli incubi peggiori.
E c'è una bambina. E favole da raccontare. E legami pericolosi.
Genere: Dark, Fantasy, Horror | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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(Le pietre blu) 











Capitolo 10










Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
E si mettono lì tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia.

"Le Nuvole" - Fabrizio de André









 

C’era un favola che a Mila piaceva molto, una storia sul principino di un regno lontano che aveva fama d’essere molto saggio. Nel regno di suo padre dominava un grande malcontento, perché poveri e ricchi si lamentavano in continuazione della mancanza o di cibo, o di altro oro da contare: fu così che un giorno, esasperato, il sovrano decise di chiedere consiglio al principino suo figlio. “Bisogna fare come le nuvole sagge”, aveva subito detto lui: perché esistono tante nuvole stolte che si fermano sopra i mari o sopra i fiumi, che hanno già tanta acqua e non vale la pena di ascoltare se pretendono la pioggia.

 Mila, invece, pensò che le nuvole che stava guardando dalla finestra dovevano essere molto intelligenti, se avevano deciso di far piovere sulla terra.

In realtà non stava ancora piovendo, ma il cielo era denso e grigio come una coperta polverosa, e l’aria era pesante, umida, con un odore speziato d’erba bagnata simile a un piccolo prurito sul naso: che di lì a non molto sarebbe iniziato un acquazzone non vi erano molti dubbi.

Quel giorno faceva freddo, così freddo da convincere Daniela a farle indossare le calze di cotone e, sopra il pigiama, l’unico maglioncino che avevano dentro la valigia –e che in realtà era suo: aveva dovuto arrotolare le maniche e infilare gli orli dentro i pantaloni del pigiama per farlo star giusto. Mila aveva immediatamente odiato il maglioncino di sua madre: il tessuto pizzicava e pesava, e il colore era di un tristissimo giallo sbiadito, quello che il suo compagno di scuola Roberto avrebbe chiamato color scorreggia; l’unica cosa che le piaceva erano quei tre grossi bottoni a forma di fiore. Se li rigirava tra le mani immaginando che fossero veri e di poterne sentire persino l’odore, non di plastica ma di rosa. Le piaceva contare i petali di ciascuno con le dita mentre nel frattempo guardava fuori dalla finestra.

  Studiava le nuvole perché aveva pensato di non aver mai visto il momento esatto in cui cade la pioggia, ed era curiosa di sapere come sarebbe successo  –C’era qualcuno nascosto nel cielo che la gettava giù?

Erano buffe, alcune scure e altre che parevano come fatte di luce. C’erano tante facce tra le nuvole: una somigliava a un carciofo dall’allegro volto rotondo, un’altra sorrideva con la sua cascata di riccioli bianchi sulla testa e il lungo naso da aristocratico, e un’altra teneva gli occhi chiusi e scuoteva lentamente il capo mentre esibiva sulla fronte altissima il suo turbante color fumo.

E poi ce n’era un’altra che cambiava sempre faccia, mentre osservava dall’alto il bosco e il prato, e a volte sembrava un buffo esserino dagli occhi quadrati, e poi un orco con le corna, e poi uno gnomo, e un folletto e un pollo e un drago e una nave dalle vele spiegate che poi si staccavano per diventare solo fazzoletti di carta.

Mila sbuffò, perché il maglione le faceva prurito e perché la mamma, dopo averle fatto fare quel bagno quasi bollente, le aveva raccolto all’indietro la frangetta con una piccola pinza che ora le stava facendo male, ma che non osava togliersi per paura di farla arrabbiare.

Se si toccava i capelli profumati di caldo e di shampoo  -quello di Biancaneve che avevano portato da casa-   , poteva sentirne le punte ancora umide appiccicarsi alle dita e bagnarle la pelle dei polpastrelli. Le piaceva la sensazione, anche se poi cominciarono a darle fastidio quei sottili  rivoli d’acqua che dal dorso della mano le si stavano infilando sotto la manica del pigiama e poi lungo tutto il braccio. Così lasciò presto anche quel gioco per concentrarsi ancora sul paesaggio, che però cominciava già a risultarle noioso, senza la pioggia che sperava arrivasse presto.

Cielo grigio. Tempo brutto, pensò d’un tratto.

 

Piove, piove dappertutto.

Fan la doccia i fiorellini

nelle aiuole dei giardini

e, nell'orto, il seminato

 

“E nell’orto il seminato…” canticchiò a voce, ma scoprì di non ricordare il resto.

Se si fosse fatta interrogare senza saper completare la poesia, maestra Cristina si sarebbe arrabbiata tantissimo: lei, a chi non svolgeva bene i compiti per casa, scriveva un grande zero sul diario con la penna rossa, e poi diceva con quella sua voce potentissima che sotto ci voleva vedere la firma dei genitori  –le ricordava la Regina di Cuori del Paese delle Meraviglie quando urlava così, ma non era mai riuscita a confessarglielo.

Pensando a maestra Cristina e alla sua grande bocca squadrata, Mila si voltò nella sedia per guardare l’armadio, pensando sia che avrebbe potuto prendere il libro delle vacanze per fare qualche esercizio, sia che dopotutto non aveva alcuna voglia di farne.

 

“Tesoro”

Daniela si era fermata sullo stipite della porta del bagno, passando una mano umida sopra le palpebre socchiuse e cercando a stento di trattenere uno sbadiglio tra i denti.

La vista sfuggevole del loro letto ancora sfatto era un piacevole invito a lasciarsi cadere sul materasso e accoccolarsi tra i cuscini come un gatto, ma si sforzò di ignorare quella piccola tentazione mentre cercava il volto della figlia con lo sguardo.

“…che stai guardando? Non stare lì.”

Mila obbedì, saltando giù dalla sedia e precipitandosi verso di lei: Daniela la raccolse tra le braccia e la sollevò, portandola all’altezza del suo volto e accarezzandole piano i capelli della nuca.

“Come ti senti, amore?”

Mila annuì senza dir nulla, guardando le labbra della mamma per studiarne i movimenti mentre le parlava.

“…bene?! Tesoro, hai dormito tantissimo, sai? E ti sei pure agitata tanto.”

Daniela guardò sua figlia scuotere il capo e portare le braccia attorno al suo collo, per poi nascondere il viso dietro la sua spalla alla ricerca di qualche piccola coccola.

Non insistette, immaginando che con molta probabilità Mila avrebbe continuato rivolgersi a lei con gesti o monosillabi, e preferì lasciar cadere subito il discorso piuttosto che cercare di decifrare i suoi sguardi e le sue smorfie per ottenere una risposta.

Le coprì la schiena con una mano e la strinse a sé, facendola dondolare sulle braccia mentre percorreva distrattamente la stanza a piccoli passi.

Quando arrivò davanti alla finestra, Daniela guardò il paesaggio, come aspettandosi di vedere la pioggia che tanto sembrava voler farsi attendere o un’inaspettata schiarita che avrebbe potuto migliorare la giornata.

Ma continuavano ad esserci solamente le nuvole, in un cielo insabbiato da un infinito deserto di cenere. Ce n’era una più bassa delle altre, una nuvola solitaria che sembrava pronta a lasciarsi cadere a terra, lenta e gonfia come fosse un lenzuolo: e poi quella nuvola si stese, si stiracchiò fino a strapparsi e bucarsi, e due occhi rotondi scivolarono dalla fronte fino al naso di quella faccia improvvisata, un ghigno bianchissimo si distese nella sua bocca da spettro fino a spalancare le fauci.

Daniela dette le spalle alla finestra, ricominciando a camminare mentre cullava la bambina tra le braccia.

Pensò che quella mattina sembrava essere davvero troppo fredda (davvero troppo, per essere luglio), e che aveva fatto bene a decidere di far rimanere Mila a letto ancora per un giorno, anche se lei aveva tanto insistito per alzarsi e anche se sembrava essere già completamente guarita   -la febbre, la voce roca, le labbra secche, gli occhi lucidi e il naso rosso: era tutto passato, come se mai ci fosse nemmeno stato.

Ma anche se Mila sembrava davvero il ritratto della salute e non aveva voluto assolutamente saperne di rimanere a letto, Daniela non riusciva a dimenticare la paura provata nel vedere sua figlia distesa sulle coperte, a dare calci al vuoto in preda a terribili deliri: l’aveva sentita parlare nel sonno di farfalle, di spade, di bambini dalla lingua bruciata, con il piccolo corpo sudato e bollente come se stesse per prender fuoco. Quindici, forse anche sedici ore trascorse sul bordo di un letto a farsi portare bacinelle d’acqua ghiacciata, e a guardare la linea del termometro diventare più lunga ad ogni ora che passava.

Per fortuna c’era stata Natalie, e solo per questo Daniela non si era messa a piangere dalla disperazione.

La terza domestica di Amos era tornata non appena la febbre di Mila aveva iniziato a cuocerle brutalmente il corpo, e aveva gestito la situazione in maniera praticamente impeccabile: aveva spogliato Mila, le aveva fatto le spugnature, l’aveva avvolta in una coperta leggera quando le erano venuti i brividi e gliel’aveva tolta non appena quelli se ne erano andati. Natalie, poi, aveva un modo di fare autoritario che riportava facilmente all’ordine, e più di una volta era riuscita a non far andare Daniela nel panico quando anche tutti quei trattamenti non sembravano avere effetto.

Con lei, poi, c’era stato anche Amos. Non aveva contribuito molto alla cura, ma era rimasto a lungo seduto su una sedia osservando la nipote svenuta contorcersi per la febbre, come a volerla guarire con la forza dello sguardo: era stato accanto a Daniela e più di una volta l’aveva calmata, e quando lei aveva deciso di chiamare un’ambulanza glielo aveva subito sconsigliato. Le aveva detto che Mila aveva preso le medicine, che l’acqua col ghiaccio la stava raffreddando, e che con le attenzioni di Natalie di certo sarebbe guarita da sola.

E quasi per dare conferma alle sue parole, non aveva neanche finito di pronunciarle che Mila aveva smesso di parlare o di agitarsi, come fosse appena inciampata e precipitata in un sonno senza sogni, e la temperatura aveva gradualmente cominciato a calare. Quando la febbre era quasi passata le aveva messo un pigiama pulito, ed era stata tutta la notte a guardarla dormire. Fino all’alba, quando Mila si era seduta sul letto sveglia come non mai, e più fresca di una rosa aveva deciso che doveva alzarsi: Daniela non aveva voluto e tanto aveva cercato di farla rimanere sdraiata almeno fino a quando non sarebbe arrivato il dottore che Amos aveva deciso di chiamare: alla fine, complice la profonda stanchezza e il fatto che Mila sembrava davvero star meglio come diceva, l’aveva convinta a farle fare almeno un bagno caldo, e farle sgranchire un poco le gambe prima di rimettersi a letto.

Daniela però non era ancora tranquilla: non si intendeva di medicina, e se anche non era infrequente che Mila prendesse l’influenza non sapeva fino a che punto fosse normale che quaranta linee di febbre salissero e scendessero di colpo nel corso di meno di una giornata.

L’avrebbe portata da un medico, o a fare le analisi del sangue, non appena tornate a casa  -e anche per quella cosa, il sonnambulismo, doveva assolutamente rivolgersi a qualcuno per sapere cosa fare o se c’era il rischio che succedesse di nuovo.

Dischiudendo le labbra senza più riuscire a trattenere uno sbadiglio, Daniela dette un bacio leggero sulla guancia della figlia, scoprendo che stava giocherellando col suo ciondolo racchiudendolo in una mano e facendolo rotolare tra le dita.

Sorrise. “Ti piace?”

Mila non rispose ma annuì, guardando quel grosso occhio di Santa Lucia  imprigionato tra le sue dita come un tesoro nel suo forziere.

L’aveva già visto molte volte attorno al collo della mamma, e quando frugava nella sua scatola dei gioielli le piaceva guardarsi allo specchio e avvolgerlo attorno alla fronte come fosse il diadema di una principessa orientale.

Nel guardarlo in quel momento, a Mila tornò in mente la chiave che aveva sognato.

Quando si era svegliata, e quando le era tornato in mente il regalo che il Signor Moccio le aveva fatto nel sonno, l’aveva subito cercata: dentro la maglietta del pigiama, sotto le coperte, tra i cuscini, sul pavimento, aveva persino pensato che poteva essersi incastrata nel baldacchino di Kala Nag.

Ma non l’aveva trovata. Allora aveva provato a spiegarlo a Daniela, gliel’aveva descritta e più volte aveva chiesto se era davvero sicura, sicurasicurasicurissima di non averla proprio vista da nessuna parte: ma la risposta che ci guadagnava era sempre la stessa carezza sulla fronte. “Era solo un sogno” le aveva detto Daniela, con disarmante semplicità. Fu così convincente che Mila, nonostante avesse cercato di dire il contrario, finì col crederle: lo fece anche se ricordava bene di essersi svegliata con gli occhi ancora bruciati dal fumo.

Pensando a questo si grattò le palpebre con i pugni, e quando riaprì gli occhi si ritrovò sul letto, con le lenzuola tirate fino alle ginocchia e Kala Nag sdraiato sul suo cuscino. Daniela si sfilò la sua catenina e gliela fece indossare  “Ti sta bene” le disse, baciandole la fronte. “Me l’ha regalato mia nonna per la prima comunione. Lei aveva due case, sai? Una era in campagna, fatta con le pietre, ed era comodissima: faceva fresco d'estate e caldo d'inverno, l’adoravo. Poi ne aveva un'altra proprio davanti alla spiaggia. La mattina si alzava presto e raccoglieva tutto quello che trovava sulla sabbia, e poi molte cose me le regalava. Ha preso l’occhio di Santa Lucia più grande che ha trovato e ne ha fatto fare questa collanina. Ti sarebbe piaciuta, lo sai come si chiamava?”

Daniela le si sedette accanto, guardandola negli occhi nerissimi mentre le accarezzava i capelli accorgendosi di non averne asciugato bene le punte. Pensò di andare a prendere il phon dal bagno e ripassarglielo una seconda volta, ma lasciò perdere “…Massimiliana. Nonna Mila.”

Daniela godette di soddisfazione nel vedere la figlia lanciarle uno sguardo meravigliato. Sorrise della sua espressione così buffamente stupefatta e le sfiorò la testa e la guancia in un’unica carezza; nel farlo, lo sguardo le cadde sulla fede nuziale. Ricordò quasi subito la sera in cui sua nonna era tornata a casa dalla messa e lei le aveva raccontato di un tipo da sballo che aveva condiviso con lei il tavolino del bar perché era tutto pieno, e le aveva anche offerto il cappuccino: credeva che ne sarebbe stata contenta, e invece nonna Massimiliana si era arrabbiata tantissimo. Le aveva detto che non doveva mai accettare certe gentilezze da uomini adulti sconosciuti, e poi l’aveva mandata in camera con uno schiaffo. Daniela sorrise appena, un po’ nostalgica e un po’ divertita nel chiedersi come avrebbe reagito sua nonna se avesse scoperto che quel tipo da sballo lo aveva addirittura sposato.

“Andava matta per la marmellata di pomodoro” ricordò ad alta voce “anche se quando la faceva lei ci metteva sempre troppa vaniglia, ma la mangiavamo sempre insieme a merenda o a colazione. E’ buona, lo sai? Quando torniamo a casa ti insegno a farla…”

“La bisnonna?!” chiese Mila, continuando a giocherellare col ciondolo che la madre le aveva prestato.

“Sì, esatto, la tua bisnonna. Era la mamma della mia mamma, di tua nonna.”

“…e la nonna com’è?”.

Mila strinse le maniche de maglione, mordicchiandosi le labbra e fissando Daniela con impaziente curiosità.  Non sapeva nulla dei suoi nonni, ma anzi, prima di conoscere lo zio Amos non aveva mai nemmeno preso in considerazione l’idea di avere altri parenti al di fuori dei suoi genitori. E se anche non aveva mai sentito il bisogno di fare domande su sconosciuti altri membri della famiglia, in quel momento sentiva i brividi d’eccitazione sulle braccia tanta fu la voglia di saperne il più possibile.

Guardò sua madre sollevare le lenzuola e sistemarle una calza che le era scivolata via dal tallone “Non lo so, tesoro” spiegò Daniela senza guardarla “Dovremmo avere delle foto a casa, però la nonna se ne è andata quando io ero ancora molto piccola, sai?” si mise in piedi per stiracchiarsi la schiena, e vedendo che Mila stava allungando le braccia verso di lei la sollevò dal letto senza pensarci molto. Mila si lasciò prendere in braccio stringendosi forte al suo collo. Daniela da tempo usava sempre lo stesso sapone allo zolfo, uno specifico per la pelle grassa, ma quella volta odorava dello stesso shampoo di Biancaneve con cui le aveva lavato i capelli. Mila le annusò il collo trovando buonissimo l’effetto che aveva l’aroma del latte vanigliato sulla sua pelle. “Quanto piccola?” domandò alla madre senza guardarla.

“Ero appena nata. Ora non si dovrebbe morire più per avere un bambino, ma lei è sempre stata debole di salute. Il nonno mi ha chiamato come lei, Daniela”

“E il nonno com’è?”

Daniela non rispose, ma scostò subito la manica della maglietta per controllare l’ora dal suo orologio da polso. Forse perché la stanza si era fatta improvvisamente buia, ma ci mise molto più del solito per riuscire a decifrare le lancette. “Accidenti, sono già le otto e mezza?”

Come prima, iniziò a girovagare per la camera con sua figlia in braccio, cercandola con lo sguardo “Forse lo zio si è svegliato e tra poco verrà a vedere come stai. Lo sai che era molto preoccupato per te?”

Mila non gioì della notizia, aggrappandosi al braccio della madre con le labbra strette in una smorfia contrariata. Quando Daniela si avvicinò alla finestra e lì si fermò, Mila allungò il collo oltre la sua spalla e ci guardò subito fuori. Il vento si era alzato, gli alberi dondolavano ubriachi e gonfiavano tutte le loro foglie come pavoni vanitosi, e le nuvole non avevano più forma, ma si erano fatte così cupe e compatte da sembrare un enorme tappeto di cemento.

La pioggia era ancora un enorme blocco grigio incastrato nel cielo, ma era quasi certa di poterne lo stesso sentire l'odore di umido anche con la finestra chiusa.

Mila osservò il paesaggio aspettando che finalmente iniziasse a piovere, e Daniela, dando le spalle alla finestra, guardava invece  il pavimento, con un pugno di saliva intrappolato dentro la gola e le gambe barcollanti e deboli per il sonno.

Non pensava alla pioggia: Daniela pensava alla neve.

Pensava a fiocchi piccoli come punte di spillo, alle impronte dei suoi stivali lasciate sul marciapiede mischiate e calpestate da quelle di mille altri passanti, alle nuvolette di fumo che le impastavano la bocca di freddo e che sputava fuori in batuffoli di fiato bollente; ricordò un ombrello fradicio, una rampa di scale dai gradini scuri, il rumore di scarpe sfregate sullo zerbino, il portachiavi ovale con inciso il suo nome, la porta già aperta, il –Yesterday, love was such an easy game to play- suono arrugginito della televisione che l’aveva accolta dentro casa.

Neve.

Daniela scosse appena le spalle e socchiuse le labbra, e l’aria che ingoiò si fece pesante e aspra come una scorza di limone.

Non era neve, quella, ma da bambina il pavimento della sua vecchia cucina gliel’aveva sempre ricordata tanto: ci si sdraiava sopra e fingeva di avere una slitta sotto la pancia, e poi ci sbatteva le mani immaginando di poter prendere delle grumose palle di neve dalle mattonelle per lanciarle contro le sedie o contro la zia Emanuela che la faceva alzare perché ci doveva passare lo straccio. Daniela, da piccola, adorava immensamente le mattonelle della cucina: erano lisce, fresche, e lucide, e bianche.

E rosse.

“Mamma”

Mila la chiamò ancora, con voce sottile, stringendo il ciondolo nella mano e facendolo scivolare lungo la catenina dorata mentre ne assaggiava la consistenza con le piccole dita.

“Il nonno…?”

“E’ morto, Mila!”

Daniela rallentò il respiro  –non subito però: c’era ancora troppa neve tra i suoi pensieri per pensare alla figlia-  e fissò Mila negli occhi, studiandone l’espressione stupita e ripetendo mentalmente cosa e come le aveva appena risposto. Si bloccò e spalancò gli occhi, stupefatta un po’ della sua reazione, un po’ dal fatto che quella reazione l’aveva avuta proprio di fronte a sua figlia. Quando Mila sembrò iniziare a chiederle qualcosa con lo sguardo, Daniela chiuse e aprì più volte la bocca, non sicura se in quel momento stesse impallidendo o invece arrossendo furiosamente.

“I-il nonno…” farfugliò, sorridendo impacciata e facendo dondolare Mila tra le braccia come per volerla far divertire. “…era …simpatico, molto. Quando avevo la tua età piaceva a tutti i miei compagni di classe, sai? E poi il nonno aveva una barba bianca tipo quella di Babbo Natale, era buffissimo la vigilia quando si metteva il costume  … e… poi lui… lui invece la odiava, la marmellata di pomodoro. Sai invece per che andava pazzo?”

Mila non seppe mai cosa piaceva tanto al nonno; forse la mamma glielo disse, ma lei non la sentì lo stesso.

Perché la prima risposta di Daniela le aveva ricordato qualcosa che aveva a che fare col suo sogno  “E’già sveglia”-, e le era quasi sembrato di sentirla ancora scorrerle dentro le orecchie come acqua ghiacciata, come se la stesse chiamando: e si era voltata, senza pensare, verso la finestra.

Mila quasi tremò di sorpresa quando vide qualcuno in un punto del prato che prima le era sembrato vuoto. Spalancò gli occhi, sussultò a bassa voce e trattenne il fiato dentro la bocca.

Non distolse lo sguardo fino a quando alla finestra non si sostituì la tenda e la parete, e la mamma, portandola verso il letto per farla stendere, non richiamò la sua attenzione per chiederle se voleva sentirsi leggere la favola del principino saggio.

 

 






Distolse lo sguardo dalla finestra rivolgendo  la sua attenzione al paesaggio, non preoccupandosi nemmeno di cosa stesse facendo la persona vicino a lui quando lo intravide alzare la mano e schioccare un dito nel vuoto: un movimento semicircolare dell’indice, il graffio di un’unghia appuntita sul vento, un rumore simile alla carta strappata seguito poi da un piccolo taglio.

Il taglio nell’aria si aprì come una bocca distorta in uno sbadiglio, si allargò fino a prendere la forma di un cerchio, cominciò a dondolare su se stesso quasi fosse indeciso se lasciarsi cadere al suolo o volare via come una bolla di sapone.

Una mano dell’uomo si immerse nel taglio rotondo fino al polso, e scomparve, come se si fosse fatta invisibile, frugandoci dentro come si fruga in una tasca.

Quando la mano si ritrasse, il taglio, tremando, si afflosciò su se stesso con un sibilo sofferente, fino a richiudersi senza nemmeno lo spettro di suono. 

E da qualche parte un uccellino riprese il suo concerto solitario, il vento smise di trattenere il fiato, il cielo grugnì con un flebile tuono lontano.

 

La piccola ballerina attese tra quelle fredde pareti di carne che la imprigionavano, rannicchiandosi su se stessa con la fronte sulle ginocchia e le mani intrecciate lungo le gambe sottili.

Quando il pugno si schiuse, uno schiaffo d’aria fresca le soffiò addosso vestendola di brividi, e lei alzò il viso senza faccia verso l’alto  –non aveva occhi, ma percepì comunque le dita aprirsi e il palmo della mano distendersi e appiattirsi sotto di lei.

Allora si alzò, e la luce pallida del mattino fece brillare il suo corpo d’acqua e di vetro; incrociò le caviglie, i quattro piedini sui due talloni si sfiorarono l’un l’altro,  raccolse le braccia a canestro e fece una piccola giravolta. 

Una melodia simile a una ninnananna sembrò levarsi dal nulla, disegnata dai dolci movimenti della piccola ballerina: come se ogni suo passo fosse una nota, e la sua danza fosse fatta di musica. 

Tin Tin Tin, cantava quella danza, Tin Tin Tin Tin Tin Tin Tin….

Ma lei non aveva orecchie, se non delle piccole sporgenze trasparenti ai lati della testa, e non poteva sentirla, non poteva sapere nemmeno cosa fosse o che ci fosse; non si accorse neppure che l’uomo che la stava tenendo in una mano aveva cominciato a parlare.

“…non ti ho ancora ringraziato”

Amos sorrise con dolcezza, distogliendo la sua attenzione da quella creaturina trasparente e alzando gli occhi scurissimi verso la figura vicino a lui.

L’altro uomo non ricambiò lo sguardo, l’espressione scocciata e austera del suo viso non si scompose affatto, e non uscì nemmeno il fiato più flebile dalle sue labbra serrate, come se le parole di Amos non gli avessero mai neppure sfiorato le orecchie.

Ma Amos sapeva che in realtà lo stava ascoltando, e che se aveva deciso di ignorarlo era perché non lo riteneva degno di ricevere attenzione da parte sua.

Inclinò appena la testa in un lato, e il suo sorriso si fece più largo tra le labbra ancor più pallide del solito.

Balder

Una creatura superba quanto divertente.

“Voglio dire…”  proseguì, con la sua dolcissima voce di miele, voltando la mano e lasciando che la piccola ballerina continuasse a danzare sul dorso e sulle nocche bianchissime. “Grazie, per aver deciso di concedermi il tuo aiuto”

Per un attimo, di nuovo, tutto tacque: persino le foglie degli alberi smisero subito di sfregarsi tra loro come mani alla ricerca di calore.

Balder, senza cambiare posizione, socchiuse le palpebre in uno sguardo feroce, e un ringhio vibrò pericolosamente dentro la sua gola minacciando di uscire, di spalancare le zanne che nascondeva dietro le labbra e di lasciar andare un ruggito terrificante.

Amos osservò il suo profilo, i vestiti che indossava e che (seppur non gli si addicevano molto) erano sistemati alla perfezione, i suoi occhi grigi ancora immobili verso il bosco, le labbra scure, la pelle di un colore che gli ricordava la madreperla.

Provocarlo era un modo molto efficace per riuscire ad attirare la sua attenzione, e Amos adorava provocarlo: era tremendamente divertente vedere, nei minuscoli mutamenti della sua espressione, il desiderio cieco di tagliarli la gola combattere contro la consapevolezza di non poterlo fare.

Ridacchiò a bassa voce e distolse lo sguardo, osservando distrattamente il cielo e le sue nuvole grigie come ombre di polvere.

Non c’era nient’altro, in quel mondo, che racchiudesse così tanti profumi in una sola volta: se dilatava le narici, e alzava il naso verso l’alto, poteva sentire l’odore di acqua, di terra, di foglie di pino e di fico, di elettricità, di sale, di ruggine, di frutta, di sabbia asciutta e di zucchero caldo.

Poveri umani, pensava allora: non erano in grado neanche di immaginare quale potesse essere la fragranza incantevole delle nuvole.

“Direi che è gentile da parte tua, considerando i nostri…” si passò un dito tra le labbra, divertito dal dover cercare una parola adeguata al suo discorso “…precedenti. Mi dispiace non capirne il perché, però. O il come fai a sapere sempre dove cercare la bambina. Sai cosa penserei, se non lo ritenessi impossibile?”

Amos sapeva che Balder non gli avrebbe mai risposto, ma fece comunque una pausa, come a voler dare un effetto più teatrale alle sue parole. “Legame.”

Sorrise, aspettando una reazione che, comunque, sapeva non sarebbe venuta: Balder infatti rimase immobile, con i capelli e i lembi della giacca in balia dei forti spruzzi di vento. Alzò appena il volto verso il cielo, osservando la pioggia ancora sbarrata dalle nuvole, con nelle orecchie quel fastidiosissimo tintinnio proveniente dal dorso della mano di Amos.

“ …ma forse sei tu a voler sapere cosa cerco da quell’umana e da sua figlia.”

Amos sorrise ancora quando Balder, finalmente, ricambiò il suo sguardo con un'occhiata indecifrabile.

Il vento si azzardò a soffiare con più forza, sollevandogli i ciuffi scuri  –chiari?-  della frangia verso l’alto, tirandoli all’indietro per poi lasciarli cadere sulle palpebre scure.

“…umana?” 

La voce era tagliente quanto i suoi occhi di ghiaccio.

Amos annuì e si appoggiò con la schiena al muro della casa, tornando a guardare la piccola ballerina sulla mano e contemplando con attenzione la musica dolcissima della sua danza.

“Umana, sì Balder. Anche se io per primo ammetto che non sembra… ha un odore così… particolare. L'hai notato anche tu, a quanto sembra.”

Sorrise, angelico e provocatore, e Balder sentì i muscoli delle dita dolergli dalla voglia di affondargli gli artigli nella carne della gola; invece si limitò a lanciargli uno sguardo d’avvertimento, e ad ingoiare quel disgustoso senso d’impotenza viscido come la pelle di un rospo, e a tornare ad ignorarlo per rifugiarsi ancora nelle sue silenziose riflessioni.

Particolare.

Sì, era così, era l’aggettivo giusto da dare all’odore asfissiante di quella donna.

L’aveva sentito quando erano arrivate lì, quando lei si era staccata dal taxi col ventro tra i capelli per andare a salutare Amos, quando si accarezzava il collo, quando si pettinava, quando rideva, quando apriva la finestra e cominciava a spogliarsi.

Era un profumo soffocante, nauseante, e di certo non buono. Ma nemmeno disgustoso come quello degli altri della la sua specie.

Quando Balder sentiva quell'odore, o anche solo immaginava di sentirlo,  gli tornavano alla mente tante cose che avrebbe volentieri dimenticato: erba coperta da ciuffi di capelli tagliati, voci, polvere, occhi umani sui suoi, mani umane sulle sue, labbra umane sulle sue.

Ringhiò appena, facendo scappare quei ricordi fastidiosi dalla sua testa.

Sentì ancora su di sé lo sguardo penetrante di Amos, ma continuò a ignorarlo.

“E’ umana” ripeté lui, più serio, come per ribadire il concetto. “Ma la domanda giusta, amico mio, è cosa sia la bambina”

Balder tornò a guardarlo una seconda volta, con un movimento veloce, lento, elegante, impercettibile del capo.

Un sopraciglio scivolò lungo la fronte, tracciando un’espressione ferocemente dubbiosa. “Lo sai che cos’è”

“Ma certo, certo che sì”  lo sguardo di Amos si fece morbido, la voce suonò leggera e carezzevole come una piuma. “Quello che mi chiedevo, però, è cosa mai quella bambina rappresenti per te…”

Balder non si preoccupò di lasciarlo concludere, e distolse lo sguardo, sprezzante.

“…tanto da renderti così cortese nei miei confronti da andare a correre a salvarla al posto mio”.

Le nuvole tuonarono ancora, come se il cielo avesse voluto rompersi e spaccarsi da un momento all’altro.

Amos avvicinò la mano sinistra alla destra, facendoci cadere sopra la piccola ballerina che mai una volta aveva interrotto la sua danza di musica.

Le sorrise, guardandola volteggiare sul palmo bianco anche mentre lui allungava il braccio verso il suo interlocutore, osservando i suoi passi farsi più frenetici, più nervosi, in un TinTinTinTin simile al suono confuso e argentino di mille campanellini.

“Quando sei venuto qui e hai iniziato ad aiutarmi –o vuoi intralciarmi? Confesso di non saperlo- non ho voluto dubitare che il tuo gesto sia dettato solamente dalla gentilezza, amico mio. Ma”  il sorriso di Amos si fece tagliente, i denti si aguzzarono come quelli di uno squalo “spero mi perdonerai se pongo fine a un mio piccolo dubbio.”

Balder non si voltò fino a quando non si accorse che la ballerina aveva cominciato a brillare.

Il suo corpo trasparente si fece opaco come vetro bruciato, la sua danza si concentrò su un unico punto della mano, il dolce tintinnio si trasformò in un’unica, stridulissima nota.

E poi la sua pelle d’acqua si illuminò come una lampadina, e la sua luce si fece circolare quasi fosse l’aureola di un angelo: dentro quella cornice di stelle Amos era caduto a terra, con gli occhi vuoti e il sangue nero che gli graffiava il corpo e la bocca, e Balder lo guardava dall’alto, gli artigli scaldati dalla carne e dal sangue che avevano appena assaggiato. E Ghignava .

Amos ritrasse la mano, socchiudendo gli occhi mentre rovesciava la testa all’indietro e si lasciava andare in una sonora risata.

La ballerina trasparente smise di brillare, danzò con dolcezza tra le dita di Amos fino al pollice, e con una piroetta si lanciò nel vuoto e atterrò delicatamente sulla ghiaia del terreno; nessuno badò a lei, e nessuno si preoccupò di fermarla mentre scappava ballando verso il prato, immergendosi nell’erba, col suono dei suoi passi che si faceva sempre più lontano, fino a sparire –tintintintintin….

“Oh, Balder…” sussurrò Amos, amabile, tra una risata e l’altra  -era così divertente tutto ciò che non ne poteva fare a meno.

“Non pensavo di essere io il centro dei tuoi pensieri”

Sorrise ancora, portando la mano tra i suoi lunghi boccoli neri per sistemarli dietro l’orecchio, e imitò Balder non badando alla sua reazione e guardando un punto impreciso del bosco.

Si grattò il mento con l’indice, pensieroso

“Che creature interessanti, non trovi? Di quelle che potresti uccidere con meno di un bacio, o con un sospiro troppo forte. Non sentono, non vedono nulla se non i desideri più nascosti di chi sta loro attorno…”

La sua espressione si fece più concentrata, e le labbra, per un solo momento, si strinsero tra loro dentro la bocca.

“Ti confesso, amico mio, che in realtà in quella danza avrei voluto vedere cosa mai ti interessasse tanto della bambina”

Un rumore simile a uno strappo sulla carta interruppe per un attimo il suo discorso.

“ma non fa nulla. Confido nel fatto che un giorno lo saprò lo stesso, e che forse scoprirò anche come ucciderti, mio caro Balder”.

Quando Amos, sistemandosi gli orli delle maniche della camicia, si voltò verso Balder, lui non c’era più.

 

La ballerina, con due giravolte, superò un altro filo d’erba, saltò su un sassolino e si mise sulle punte, e una goccia d’acqua precipitata dall’alto le spezzò un braccio; e un’altra il piede, e un’altra la testa, e un’altra spense la sua musica.

Le piccole gambe trasparenti continuarono le loro piroette anche mentre scappavano nella stessa direzione alla ricerca di un riparo. Danzarono fino a quando la pioggia non si rovesciò sul prato.

Della ballerina trasparente non rimasero neanche le briciole.

 

 

 

 

 

 














 


 




Onigiri






note autrice:



La canzone inseria nei ricordi di Daniela è quella dei Beatles... sperando comunque che fosse stato chiaro da subito >/>"
 Allordunque... e anche stavolta non ho spiegato niente di niente di cosa cavolo sta succedendo *_* !
...no, davvero, chiedo venia per starvi facendo attendere tanto per darvi uno straccio di spiegazione >.>! In realtà le spiegazioni sono tante, e ognuna ha il suo tempo per essere svelata... questo non rassicura, lo so, ma è così che andranno le cose. Non mi resta quindi che chiedere ancora una volta di aver pazienza ^__^  *schiva il primo pomodoro marcio*  e sperare che i capitoli siano lo stesso decenti.
Passando ad altro...

La favola del principino saggio è molto carina: non c'è molto in più da raccontare di quanto io non abbia già scritto nel capitolo, ma comunque se a qualcuno può interessare leggerla la trova Qui.
E Balder, Balder... nella storia ci metterò un po' a spiegare chi sia e non sia. Posso anticipare che il nome ha a che fare con la mitologia: se qualcuno vuole saperne di più, può dare un'occhiata Qua.

Ed ora, i ringraziamenti *__*!




 darllenwr  : ç//ç Grazie, come ogni volta che leggo uno dei tuoi bellissimi commenti: sono contenta perché da ciò che hai scritto mi sembra che quello che  hai provato sia esattamente quello che io volevo trasmettere attraverso il capitolo. So che Dhovir e la sua storia non sembrano c'entrare una cippa con Mila o con la storia, ma non è così... e spero di farlo capire presto. Grazie inifinite ancora, comunque ^_^: spero che quest'ultimo capitolo non ti abbia annoiato -Dho!  


E ovviamente, un grazie grandissimo anche a tutti i lettori giunti fin qui!  
Detto ciò...  auguro a tutti un buon primo giugno, e se non dovessi avere altre occasioni, buone vacanze estive a tutti!
E grazie, grazie mille ancora!


*onigiri






   
 
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