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Autore: Lady Vibeke    09/06/2011    7 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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16. SCHELETRI E FANTASMI

 

Those nightmares still keep me awake  
I wish that I could just sleep  
And when I open my eyes  
Somehow I don't feel the same

– Night Visions, Sixpence None The Richer –

 

 

 

La cucina di Astereis era grave di condimenti e ingredienti grassi. Olio, burro, strutto e una lunga sequela di altre cose che Regan non riuscì a distinguere appesantivano oltremodo le pietanze, pur garantendone un sapore gustoso e la morbidezza al palato. Persino nella zuppa di legumi che aveva ordinato lei grosse bolle di olio galleggiavano in superficie, inzaccherando le croste di pani che vi aveva buttato dentro di aloni giallognoli.

L’Osteria del Falco Cieco di Cittanuova (una volta detta semplicemente Osteria del Falco, ma, a detta di Lucius e Shin, era stata poi ribattezzata poiché il falco ritratto sull’insegna metallica che penzolava fuori dal portone era stato privato degli occhi di pietra rossa da qualche ladruncolo di passaggio), la prima a essere aperta nella capitale ancora neonata, era il posto ideale per rendersi veramente conto di come abitudini e usanze variassero da zona a zona. Abituata al concetto di osteria che si era fatta bighellonando per Kauneus assieme alla combriccola degli Edelberg, e cioè sale rustiche e chiassose ma pulite e ben illuminate, era difficile credere che anche il Falco Cieco meritasse il medesimo appellativo: erano due grandi stanze contigue, separate solo dalla massiccia arcata portante in pietra grigia al centro del soffitto. C’erano spesse mensole in legno a correre tutt’intorno al perimetro delle pareti e su di essere giacevano una quantità esorbitante di ceri e candele, tra cui ogni tanto si annidava un fagiano impagliato, o una scultura intagliata a forma di orso rampante, o ancora vasi di fiori rinsecchiti e barattoli polverosi pieni di spezie. Addirittura in un angolo c’era un intero teschio di drago inchiodato nel muro, con fauci allungate e adorne di denti acuminati e letali, due lunghe corna incurvate a sovrastare le orbite vuote degli occhi.

La clientela era rumorosa e di estrazione molto più varia rispetto a quella che si poteva incontrare nelle taverne di Kauneus: viandanti dagli accenti marcati fermatisi per la notte, forse anche ad alloggiare nelle camere dei piani superiori; omaccioni grossi e abbronzati che trangugiavano boccali di birra che Regan avrebbe sollevato a fatica anche con due mani e si raccontavano in un dialetto volgare storie di vita vissuta e grane lavorative; pochi erano gli avventori benvestiti e che azzardavano esibire qualche gioiello e si trattava perlopiù di uomini. Le sole donne che ci fossero erano abbigliate in modo vistoso, camicette scollate abbinate a busti e gonne sgargianti, come i fiori della foresta di Ferentaur, e trucco pesante a dare risalto a occhi, guance e labbra, degno accompagnamento alla loro pubblica condotta a dir poco licenziosa. Dame d’intrattenimento, come le aveva elegantemente definite Lucius.

Lui e Shin mangiarono a volontà un po’ di tutto quello che la pingue cameriera passava a servire tra i tavoli misti, dove chiunque sedeva con chiunque, e Regan ringraziò il cielo che i due ragazzi avessero deciso di mettersi ai suoi due lati, risparmiandole così di subire la discutibile compagnia della dama d’intrattenimento che al momento stava starnazzando alla sinistra di Lucius e del fetido contadino alla destra di Shin, intento a sbranare come una belva famelica, e in maniera altrettanto civilizzata, un cosciotto di maiale arrosto.

– Hai barato con il nano –

– In che senso? – chiese Lucius, mentre masticava un boccone di pane.

Regan cercò un modo neutrale per esprimersi senza compromettersi a eventuali orecchie indiscrete.

– Il mio sangue è quello che è, ma non sappiamo se può fare lo stesso effetto se sfruttato da altri –

– Sì, è vero, ma in fondo non ho mentito e il vecchio Belenus conosce le regole e i limiti per i suoi esperimenti ed è tutto nel suo interesse rispettarli –

– E su cosa sperimenta, se vive come un eremita? Animali? –

– Non dire sciocchezze, cerbiattina, la Madre non sarebbe contenta se le sue creature più pure venissero sfruttate per i nostri sporchi giochetti –

 E allora come… –

– La cosa non ci riguarda – decretò Lucius, gettandosi sullo stufato che gli era appena stato servito, e Regan seppe che la questione era ufficialmente chiusa.

Era appena arrivato il dolce, crespelle fritte alla frutta secca accompagnate da miele e un intingolo rosato, quando dall’altra sala giunse un uomo dall’aria losca ammantato fino alle orecchie che, passando, si accorse di Lucius e gli rivolse un cenno fugace prima di infilare la porta e uscire.

– Ne conosci di gente insolita – gli disse Regan poco più tardi, mentre, pagata la lauta cena, uscivano all’aria aperta.

– Più di quanta ne vorrei conoscere, e più di quanta vorrebbe essermi nota –

Il pomeriggio era sereno e tiepido. I temporali che nottetempo avevano turbato Norden e le regioni settentrionali erano lontani e il sole scaldava il viso dei passanti.

– Sembra che tu abbia parecchi scheletri nell’armadio –

Le mani affondate nelle grandi tasche del pastrano, Lucius rise.

– Un intero ossario, oserei dire – riconobbe allegro. – Ci sono aspetti della mia vita che a volte vorrei ignorare io stesso –

Regan non faticava a crederlo. Tuttora lui restava un grande enigma avvolto dal mistero, per lei. Benché conoscesse molte cose di lui, o così presumeva, molte altre le erano ignote e non era nemmeno sicura che le avrebbe mai scoperte. C’erano le cicatrici che lo segnavano su tutta la parte superiore del corpo, grandi e piccole, troppe per essere giustificate da qualche colpo parato male; c’era il velo nero che celava il suo passato, e briciole sparse tutt’intorno che permettevano solo di indovinarne frammenti insignificanti; c’era la sua libertà, privilegio di cui, ne era certa, nessun altro della Lega godeva, vincolato da doveri precisi e rigorosi.

Cittanuova era bella, a suo modo, ma non aveva niente dello splendore regale di Kauneus, o dell’antico fascino di Medilana, e nemmeno la particolarità accattivante di Shjarna. Essendo una città relativamente giovane, come il nome stesso diceva, non possedeva edifici d’epoca: tutto era nuovo, di architettura sobria e lineare, e le strade lastricate si inserivano a linee rette, parallele e perpendicolari, attorno agli isolati di case, palazzi e botteghe. Persino le carrozze che circolavano sembravano meno caratteristiche: laccate perlopiù di nero o marrone scuro, e nessuna era decorata da stemmi distintivi, se non quello della Terra di Astereis, un occhio nero su sfondo dorato. Era evidente in ogni suo aspetto che fosse un crogiolo in cui affluivano viaggiatori da ogni parte del Mondo Occulto e di ogni livello sociale, e quella stretta peculiarità che Regan aveva notato nelle altre capitali che finora aveva visitato mancavano del tutto, forse per far sì che i visitatori si sentissero accolti in un ambiente il più possibile neutrale.

Ritornarono alla locanda dove avevano preso una stanza, leggermente fuori dal centro, piccola ma molto accogliente. Appollaiati su un lampione trovarono anche Rok e Libra ad attenderli. Salutarono il loro arrivo con un frullio d’ali, poi, una volta chiarito che li avevano trovati e sarebbero rimasti nei paraggi, spiccarono il volo verso la periferia, dove sicuramente avrebbero trovato di che nutrirsi.

Appena entrarono furono investiti dall’intenso profumo di cannella che sembrava impregnare l’intero edificio. Era tutto rivestito di perline di legno chiaro e c’erano vasi di fiori freschi a vivacizzare l’ambiente.

Appena li vide, Donna Melime, la vivace locandiera, si illuminò.

– Bentornati! I vostri cavalli sono nelle nostre stalle e sono stati debitamente foraggiati. Spero abbiate trascorso un pomeriggio piacevole! –

Parlava al plurale, eppure guardava solo Lucius, le gote più rosee di quel che Regan avesse notato quando erano appena arrivati, e anche la camicetta di lino sembrava essersi fatta misteriosamente più scollata. Benché non più giovane, era una donna abbastanza attraente e Lucius non era per niente imbarazzato dai suoi espliciti tentativi di seduzione. Regan era quasi tentata di andare a dirle che stava perdendo il suo tempo, se sperava di fare colpo.

– Assolutamente delizioso – stava rispondendo intanto Lucius con le solite incorruttibili buone maniere. – Vi siamo grati per averci indicato il Falco Cieco, abbiamo mangiato molte bene –

– Permettetemi di ricordarvi che la nostra locanda offre un ottimo servizio di ristorazione, la sera – esclamò la donna, rigirandosi una ciocca di ricci biondo cenere tra le dita.

– Sarà per la prossima volta, temo. Questa sera ci risparmiamo la cena, il viaggio ci ha stancati –

– Certo, naturalmente! Buonanotte a tutti! –

Tutte le stanze avevano nomi di piante a contraddistinguerle. La loro, al secondo piano, si chiamava Betulla, e consisteva in un unico letto matrimoniale a ridosso della parete, un comò a tre cassetti e un tavolino con l’occorrente per la toeletta sotto alla finestra che dava sulla strada.

– Come facciamo a dormire? – domandò, accorgendosi del piccolo inconveniente logistico solo quando Lucius e Shin presero a spogliarsi senza alcuno scrupolo alla luce arancione del tramonto.

Lucius si sfilò la camicia e la gettò sulla sedia accanto al tavolino, dove già aveva ammassato il pastrano e il farsetto, e la occhieggiò con un’espressione di ovvietà:

– Semplice: spostiamo le coperte, ci sdraiamo, ci copriamo, chiudiamo gli occhi e aspettiamo che il dolce sonno sopraggiunga –

Lei lo trafisse con il più acido degli sguardi.

– Purtroppo non c’erano altre stanze disponibili. Nessuno di noi ha intenzione di fare niente di sconveniente, se è questo che ti preoccupa – la rassicurò Shin con uno dei suoi sorrisi serafici.

Si era spogliato anche lui e per la prima volta Regan lo vedeva con nient’altro che un paio di calzoni addosso. Era incredibilmente magro e delicato, e sembrava ancora più acerbo se paragonato a Lucius: solo un accenno di muscoli sulle spalle, sui bicipiti sottili, ma per il resto era ancora il ragazzino che il suo viso ritraeva, e la sua pelle non aveva nemmeno l’ombra dei segni che rovinavano quella dell’amico, liscia e perfetta, latte che non aveva mai conosciuto contaminazioni.

Per Lucius e Shin darsi una rinfrescata fu semplice, ma Regan pretese che loro due si voltassero mentre lei si passava la pezzuola bagnata sul collo e sulle braccia e si sciacquava il viso. Scioccamente non aveva pensato a portarsi una camicia da notte, perciò non le restò che infilarsi una sottoveste pulita prima di permettere ai ragazzi di smettere di fissare la parete.

Chiusi gli scuri e tirate le tende, si coricarono. Al limite della scrupolosità, fecero mettere Regan nel mezzo, cosicché se qualcuno si fosse introdotto nella stanza difficilmente avrebbe potuto arrivare a lei senza svegliare uno di loro.

– Be’, buonanotte, allora – grugnì Lucius, voltandosi su un fianco, e pochi minuti dopo il suo respiro regolare comunicò che si era addormentato. Shin ci mise di più, ma alla fine anche lui cedette alla stanchezza.

Regan rimase sveglia a lungo, cullata dai loro respiri, le palpebre pesanti ma che non ne volevano sapere di chiudersi definitivamente. Rimase supina a rimuginare su ciò che le era successo nell’ultimo mese e le sembrò strano essere lì, adesso, come se fosse da sempre che si accompagnava a quei due in giro per le Sette Terre.

Ed era buffo, dopo tutte le storie che aveva fatto, ma non si sentiva affatto in imbarazzo a dormire tra loro, e mentre pensava a questo con un sorriso, lentamente, i suoi occhi si chiusero.

 

 

Il pianto di una donna si fondeva con il sussurro sommesso di un uomo che cercava di consolarla. Buio ovunque. Braccia tenere che stringevano, avvolgevano, proteggevano. Un filo di falce di luna nel cielo, delineata dietro un sole dorato.

La morbidezza di un calore materno. Lacrime che scendevano sul viso.

Paura.

E una voce. Una voce stranamente familiare.

– Datemi la bambina –

Shin si svegliò di soprassalto, madido di sudore, ma era sudore freddo come mani di ghiaccio, che gli agguantavano i polmoni, soffocandoli. Un sudore figlio di incubi estranei che gli avevano perseguitato senza tregua un sonno privo di pace.

Si tirò su a sedere e si sfregò il viso umido, raccogliendo in un angolo più luminoso e sicuro della mente gli ultimi stralci di quei sogni angosciosi che pur non appartenendogli, gli erano già noti. Solamente non si spiegava come fossero penetrati nella sua mente.

O perché.

Lucius era profondamente addormentato. Il suo petto si alzava e abbassava a ritmo lento e regolare.

Anche Regan dormiva. La veste bianca a malapena si distingueva da lei, ruvida e inconsistente l’una dove l’altra era levigata e compatta. Qualche ciocca rossa le ricadeva sulla guancia. Shin le scostò delicatamente i capelli con le dita, premurandosi di non toccare direttamente la sua pelle, e fu allora che se ne accorse: sottili tracce di lacrime ancora fresche disegnavano rivoli invisibili nell’oscurità.

Regan piangeva nel sonno.

Fu obbligato a frenare l’impulso di asciugargliele una ad una; non voleva farle del male. Avrebbe solo voluto conoscere la radice di quegli incubi per poterle estirpare e liberare le notti di Regan da quell’incombenza angosciosa.

Si chiese se avesse avuto ragione lei, quando gli aveva detto che erano cose senza senso. Immagini frammentarie, voci confuse… impossibile collocare così pochi elementi in un quadro più vasto e comprensibile.

I tumulti interiori di Regan, nel frattempo, fortunatamente si erano acquietati e sembravano ormai lontani.

Shin si passò una mano sul viso, esausto. Quella che sentiva era una spossatezza che il riposo non era in grado di lenire, intaccava non le membra, ma lo spirito, rubava energie alla mente, e questo non era ammissibile: c’erano solo lui e Lucius a proteggere Regan, probabilmente i soli o quasi a poterlo fare degnamente, e per questo era necessario che fossero al massimo delle loro forze.

L’indomani sarebbero ripartiti alla volta di Lumbar, cittadina di Mauercast famosa per i traffici commerciali illeciti che si consumavano nei suoi vicoli, e lì avrebbero cercato il contatto di Lucius che potenzialmente avrebbe potuto fornire loro informazioni utili, e lui aveva il sentore che, ovunque quelle informazioni li avessero condotti, ci sarebbe stato di che preoccuparsi.

Fuori, Cittanuova non si sopiva nemmeno la notte. Le bische e le case chiuse lavoravano senza sosta e persino certi ristoranti restavano aperti fino anche dopo la mezzanotte. Risa e urla litigiose erano tutt’uno trasportati nel venticello freddo che spirava tra le vie, trascinandosi appresso l’odore acre raccolto nei sobborghi.

Nella sua testa vorticavano troppe domande che pregava avrebbero presto ricevuto una risposta.

Con un sospiro tornò a sdraiarsi. Chiuse gli occhi, mentre una parte di lui continuava a interrogarsi su come fosse possibile che una voce nei sogni di un’altra persona gli suonasse così inspiegabilmente familiare.

 

 

Ossa che erano state rotte in più punti e poi rinsaldate in fretta e furia dolevano nella gelida umidità notturna, trofei riportati da battaglie combattute in nome non di valori, ma di egoismo e avidità. Battaglie che, anno dopo anno, avevano fatto di lui il migliore nel suo campo.

Gerjen si strinse il bavero del mantello sdrucito intorno alla gola, ingoiando l’ennesimo sorso di liquore per aiutare il proprio corpo a sopportare il freddo incombente.

La torre dell’orologio che dominava la piazza si intravedeva appena tra le nebbie e segnava la Nuova passata da poco in una notte senza stelle. I lampioni e le lanterne pubbliche potevano solo dare visibilità a strade ed edifici, ma non riuscivano a smascherare tutto ciò che si celava negli anfratti bui e dietro gli angoli, consentendogli di sfruttare la nicchia di una statua come nascondiglio e riparo. Benché della confusione diurna non restasse che il ricordo, qua e là ancora si udiva il chiasso della piena attività dei locali che aprivano le loro imposte solo dopo il calar del sole. Ciò faceva sì che il lato oscuro e poco raccomandabile della vita di Cittanuova restasse confinato entro certi quartieri e lasciasse gli altri completamente deserti, eccetto lo sporadico passaggio di qualche ubriacone che si trascinava verso casa dopo una serata di bagordi, ma di quelli Gerjen non si preoccupava.

Erano gli altri a preoccuparlo, i fanatici da cui era stato messo in guardia che volevano lei.

Era per quello che si trovava lì.

Lord Desmond non gli aveva dato alcun tipo di spiegazione. Si era limitato a gettargli ai piedi un sacchetto contenente più oro di tutto quello che Gerjen avesse visto in una vita intera di fruttuosi traffici neri e a proporgli un accordo, da estendersi anche ai suoi uomini. Lui, incapace di cogliere quali oscure trame potessero mai occultarsi sotto un ordine tanto privo di senso, aveva accettato senza condizioni, facendosi carico di un compito che sembrava prendersi gioco di ciò che lui aveva scelto di essere.

Poche parole imperative e un mucchio d’oro: nessuno della sua risma di sarebbe mai sprecato in domande di fronte ad un’offerta così allettante, ma lui una si era riservato di porla.

“Perché mi state pagando per assicurarmi che qualcosa di vostro rimanga in mani altrui?”

Guardò in su, verso la finestra chiusa dietro la quale sentiva la ragazza annaspare nel sonno, piena di angoscia.

Lord Desmond gli aveva concesso una risposta che aveva solo reso più avida la curiosità che aveva spronato la domanda.

“Perché ho ragione di credere che loro sapranno disseppellire ciò che per più di trent’anni io ho tentato invano di ottenere.”

E lì Gerjen aveva capito che sarebbe stato nel suo interesse mettere da parte la curiosità ed esaudire i desideri, pur inspiegabili, del suo maggior mecenate.

“La ragazza deve rimanere con Luciferus e i suoi compari, ad ogni costo.”

 

 

Regan sgranocchiava beata biscotti allo zenzero mentre si aggirava con Lucius e Shin tra le bancarelle del mercato di Lumbar. Era un villaggio modesto, né grande né piccolo, e la maggior parte della popolazione era costituita da contadini e artigiani.

Lei, Lucius e Shin avevano dormito fino a tardi, quella mattina, poi, con sommo dispiacere di Donna Melime, avevano liberato la stanza e si erano rimessi in viaggio verso Mauercast. L’attraversamento da un Portale dall’altro a stomaco vuoto era stato meno traumatico del solito, per lei, ma ai cavalli non era piaciuto. Li avevano lasciati all’unica locanda del villaggio, peraltro sprovvista di stalle, e Lucius, oltre al saldo della loro stanza, aveva lasciato una manciata di corone in più al proprietario, insistendo perché trovasse a Freyr e Freya una sistemazione confortevole per la notte.

Regan stava rimirando le stoffe esposte da due donne identiche, quando all’improvviso si sentì strattonare per un braccio.

– Aranel! – gracchiò una vecchietta minuscola e rotondetta, puntandole severamente contro un dito nodoso. – Bambina mia, quante volte te lo devo ripetere? Sei una nobile Dresden, la devi smettere di sgattaiolare fuori di casa vestita come una sguattera, alla tua povera madre verrà un infarto! –

Regan trasse un sospiro di sollievo, rendendosi conto che non stavano cercando di rapirla, ma era un semplice malinteso. Il suo nome era una delle poche certezze che avesse riguardo a sé stessa.

– Signora, mi state scambiando per un’altra persona –

– Via, andiamo a casa, sciocchina! Come sei arrivata fin qui tutta sola, me lo spieghi? –

Lucius e Shin, che erano fermi alla bancarella precedente, accorsero immediatamente.

– Che sta succedendo? –

– Nonna! Lascia stare quella ragazza! – esclamò nello stesso momento un ragazzetto, sgusciando tra un gruppetto di bambini che si rubavano l’un l’altro una mela caramellata. Si avvicinò con aria preoccupata e chinò desolato lo sguardo quando Lucius si volse verso di lui, inquisitorio.

– Vi prego di perdonarla. Lei non… –

– Aiutami, Brennan, dobbiamo riportare a casa questa piccola impertinente prima che Lady Fabel si accorga che è scappata di nuovo! – esclamò l’anziana donna, e la sua mano agguantava in braccio di Regan con una forza sorprendente.

– Nonna – sospirò il ragazzo nel tono frustrato di chi ripeteva lo stesso copione per l’ennesima volta. – Questa non è Lady Aranel, non lo vedi? Guarda i suoi capelli, il colore degli occhi… ed è solo una ragazzina –

Il volto rugoso della vecchina si fece smorto e indignato:

– Benedetta figliola, che cos’hai fatto ai tuoi bellissimi capelli dorati? –

Regan provò un misto di pietà e rispetto per lei, e quasi la ferì il sincero affetto con cui quella donna la guardava.

– Nonna, per favore, lasciala stare! – il ragazzo la prese per le spalle esili e la allontanò da Regan

Con dolcezza, poi rivolse a lei e ai suoi due accompagnatori un inchino di scuse. – Vi prego di perdonarla, signori. Non è più del tutto in sé da molti anni, ormai. Domando ancora scusa per il fastidio –

– Non importa, sta’ tranquillo – gli disse Lucius, ma si era leggermente incupito. Rimase a guardare circospetto mentre il giovane portava via la nonna, sussurrandole qualcosa per distrarla.

– Andiamo ­– disse poi, incamminandosi con fretta improvvisa.

 

 

Era quasi sera, ormai, e i venditori stavano iniziando a smontare la loro attrezzatura per ritornare a casa dopo la giornata di duro lavoro. Loro tre, invece, avevano una destinazione ben diversa.

Trovarono il contatto di Lucius in una taverna di ultim’ordine situata a circa mezzo miglio dall’ultimo gruppo di casolari del villaggio, un posto scuro e fumoso che a Regan non piacque per niente. L’insegna arrugginita che penzolava fuori dalla porta diceva semplicemente Taverna.

Lucius le impose di legarsi i capelli e nasconderli in uno scialle, prima avvolgerla nel mantello e entrare, e le comandò di comportarsi esattamente come aveva fatto da Belenus: zitta, remissiva, discreta.

Attraversarono l’unica stanza circolare di cui era composta la taverna e passando in rassegna le facce degli avventori, Regan capì il perché delle disposizioni ricevute: di lei erano visibili praticamente solo le labbra, e tanto bastò per attirarsi addosso occhiate fameliche e commenti osceni. Qualcuno osò persino latrare qualche apprezzamento altrettanto osceno a Shin, il quale, sebbene nettamente troppo alto per esserlo, avvolto dalla testa ai piedi nel lungo mantello poteva benissimo essere scambiato per una ragazza alla luce fioca delle candele, che accorreva ad accarezzare il suo viso delicato come a voler elogiare la sua bellezza nel mezzo di tutte quelle facce volgari.

Regan restò appiccicata a Lucius fino a che, lasciatisi alle spalle il locale vero e proprio, si trovarono quello che sembrava essere l’ingresso al retrobottega: un’apertura nel muro nascosta da uno straccio macilento che faceva da porta.

Lucius lo scostò con familiarità e fece cenno a lei e a Shin di seguirlo. Regan quasi inciampò nel gradino, entrando. Non era un retrobottega, ma una saletta privata al centro della quale ardeva una stufa a legna collegata con il tetto, attorno alla quale erano disposti quattro tavoli dotati di panche e candeliere, tutti e quattro occupati. Lucius si diresse verso quello nell’angolo a sinistra al lato opposto della stanza, accanto al quale si apriva una grande finestra rettangolare che dava sulla prateria e sul cielo trapunto di pallide, rare stelle.

Al tavolo, vicino al muro, sedeva un uomo che era leggermente fuori contesto, in un posto come quello: vestito di grigio scuro e con gusto, ma senza ostentazioni, il mantello da viaggio accuratamente ripiegato accanto al gomito che poggiava sulla tavola, dove teneva le mani giunte in segno di paziente attesa, una brocca di vino e un calice a tenergli compagnia. Corporatura media, statura media, occhi e capelli castani, qualche ruga ad aggravargli l’espressione impassibile: una aspetto così comune e ordinario che nessuno avrebbe fatto caso a lui, anche in un covo di criminali come quello.

Vedendoli arrivare, lo spettro di un sogghigno gli balenò sulla bocca dalle labbra quasi inesistenti.

– Guarda chi si rivede, dopo tanto tempo… –

La sua voce era bassa e grattava in gola come quella dei fumatori incalliti.

– Possiamo sederci? – disse Lucius, senza salutare.

Nessuno aveva fatto nomi.

L’uomo fece loro cenno di accomodarsi. Il suo sguardo cadde sul petto di Regan, che nel sedersi le si era scoperto, e poi veleggiò nel mezzo, verso Shin.

– È la prima volta che ti presenti in compagnia –

– E tu è la prima volta che non ti fai trovare con una fila di clienti – replicò Lucius, affabile.

L’altro incassò il colpo e il suo pomo d’Adamo si sollevò mentre deglutiva.

– La caduta della Corte ha comportato la morte di molti di coloro che erano soliti richiedere i mie servigi – rispose, asciutto.

Regan rabbrividì a sentir nominare la Corte. Si chiese che razza di professione dovesse svolgere, se i suoi clienti migliori clienti erano gentaglia di quel tipo, ma giunse alla conclusione che preferiva ignorarlo. Gli scheletri nell’armadio di Lucius cominciavano a farle paura.

– Ditemi – riprese l’uomo. – Che cosa posso fare per voi? –

Al suo cospetto, Lucius incrociò le braccia al di sopra del tavolo.

– Ho bisogno che tu raccolga delle informazioni per me –

– Che genere di informazioni? –

– Tutto quello che riesci a trovare su questo e quanto vi concerne –

Trasse un foglio dal pastrano e lo dispiegò nell’alone di luce gettato dal candeliere. Al centro di esso era tracciato uno schizzo della fiamma stilizzata divisa nel mezzo, il simbolo che accompagnava i cavalieri che le davano la caccia.

Appena lo vide, l’uomo contrasse le sopracciglia e se lo avvicinò per studiarlo meglio.

– Ti costerà parecchio – decretò, dopo un minuto di riflessione.

Lucius sorrise.

– Ho un’offerta interessante da proporti –

L’altro fece lo stesso, ma in modo molto più inquietante.

– Ti ascolto –

Lucius fece un cenno veloce con la mano destra.

– Shin, per favore –

Solerte, Shin sollevò la sacca che teneva a tracolla e ne estrasse con attenzione il grosso volume che si erano procurati presso Belenus il giorno prima, ancora avvolto nel panno che lo proteggeva. Lucius lo prese, lo scoprì e lo collocò tra sé e l’uomo, lasciando che il discorso lasciato in sospeso lavorasse per lui.

– So che stai cercando di mettere le mani questo libro da molto, molto tempo – disse dopo un po’, quando fu certo di aver suscitato l’interesse dell’uomo, che infatti fissava l’oggetto come se non riuscisse a credere ai propri occhi, e il silenzio che seguì non ne fu che un’ulteriore conferma. Lucius era riuscito a stupirlo.

Il basso borbottio di coloro che sedevano agli altri tavoli era solo un sottofondo che risuonava fiacco tra le quattro pareti spoglie, spezzato solo dal crepitare dei ciocchi nella stufa e da qualche panca che ogni tanto grattava sul pavimento di pietra. Qualcuno si alzava e andava, qualcuno veniva, chi con le tasche appesantite d’oro, chi con un pacchetto misterioso o una busta sigillata, e tutti si facevano i fatti loro. Al di là del muro, l’osteria pubblica ribolliva di voci possenti e boccali metallici che si scontravano.

– Allora – esordì Lucius, dopo aver concesso un’attesa di riflessione ragionevolmente lunga. – Posso contare su di te? –

L’altro si sarebbe detto caduto in catalessi, tanto era concentrato a valutare il libro in ogni suo più insignificante dettaglio. Lo avrebbe ottenuto solo se avesse accettato la proposta e doveva trattarsi di una vera e propria sfida, visto che era un’impresa in cui non erano riusciti nemmeno i più alti esperti della Lega, con tutti i mezzi che avevano a disposizione.

– Dammi una settimana – mormorò infine, senza staccare gli occhi cupidi dall’oggetto. – Torna tra una settimana e avrai quello che vuoi. –

 

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A/N: ci ho messo secoli a postare, chiedo scusa. Maggio è stato un mese intenso e tra una cosa e l’altra ho sempre rimandato l’aggiornamento. E va beh, eccoci qui. Ringrazio Milou_ e LovelyAndy per le recensioni, sempre così gentili. J

Un grazie particolare a Soulmate, che mi ha lasciata letteralmente spiazzata con la sua recensione, sia per l’accuratezza e la maturità del commento, sia per l’acume sorprendente di certe osservazioni. Mi ha fatto piacere soprattutto che tu abbia notato (e apprezzato, grazie al cielo) che nessuno dei personaggi è perfetto. Il mio intento è in effetti proprio quello di scampare al cliché, anche se questo naturalmente significa auto-ritagliarsi fuori dalla prosperità dell’attuale corrente che traina il genere fantasy/soprannaturale. Twilight, da questo punto di vista, ha contaminato tutte le potenziali belle storie che ho sfogliato in libreria, e questo mi ricresce, perché, da accanita lettrice e amante del romance (ma quello serio, non i mucchi di “Ti amo, sei la mia vita, morirei se dovesse accaderti qualcosa!), purtroppo ogni volta che prendo in mano un romanzo di questo filone mi sento l’ulcera che torna. Altra cosa che mi ha davvero fatto piacere è che tu abbia capito la cura con cui ogni nome e ogni tratto si basino su motivazioni specifiche e non sono affatto messi lì tanto per dare un nome e un aspetto a qualcuno o qualcosa. Insomma, sono davvero davvero colpita!

Nel prossimo capitolo arriverà qualcuna delle famose risposte che tutti state tanto aspettando, brace yourselves! ;) Eccone un piccolo estratto:

 

Lucius le cinse le spalle con un braccio e la guidò verso una panchina nei pressi di una grande fontana, dove la pregò di sedersi.

– Suppongo di essere stato abbastanza maleducato, con te, non è così? –

Regan non aveva idea di che cosa stesse parlando.

– È giusto che tu sappia come io sono diventato quello che sono, e soprattutto perché – sospirò lui. Il cuore di Regan prese a battere più forte. – Credo che quest’altro mio Segreto risponderà a più o meno tutti i tuoi legittimi interrogativi su di me, e sappi che non sono molti a conoscere quanto sto per raccontarti. –

La rassegnazione si mescolava a una strana forma di sollievo in quella frase stentata che gli uscì dalle labbra con il sapore dell’impotente accettazione verso un’imminente condanna.

– È una storia piuttosto lunga, sai, e avrei preferito raccontartela in altre circostanze. Magari seduti in una taverna davanti a una bella zuppa calda, ma in effetti, ripensandoci, non sarebbe stato consigliabile. –

 

Alla prossima, aspetto le vostre opinioni! J

 

   
 
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