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Autore: Lacus Clyne    02/07/2011    5 recensioni
"Cominciò con un incubo. Un incubo tornato dalle profondità dell’anima in cui avevo cercato di relegarlo innumerevoli volte, da quando ne ho memoria." Per Aurore Kensington i sogni si trasformano in incubi sin da quando era una bambina. Sempre lo stesso incubo, sempre la voce gentile del fratello Evan a ridestarla. Finchè un giorno l'incubo cambia forma, diventando reale. Aurore è costretta a fare i conti con un mondo improvvisamente sconosciuto in cui la realtà che le sembrava di conoscere si rivela essere una menzogna. Maschere, silenzi, un mistero dopo l'altro, fino al momento in cui il suo adorato fratello Evan e la loro mamma scompaiono nel nulla...
Genere: Drammatico, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nuovo capitolo, buona lettura! :D

 

 

Era impossibile ascoltare le parole di Shemar Lambert senza domandarsi se avesse capito che aveva davanti a sé dei ragazzi e non i suoi simili. Ci raccontò dell’Underworld, il mondo in cui la luce non splendeva, dei governi oligarchici dei singoli territori che componevano l’Impero, delle dinastie che si succedevano al trono imperiale e delle dispute tra le famiglie che davano i natali ai futuri sovrani. Era come ascoltare un bel racconto antico se non fosse che quel racconto prendeva forma nei miei incubi più nascosti ed era infinitamente reale, tanto quanto il mio mondo.

- Ogni territorio è governato da un’oligarchia facente capo a una famiglia ben precisa. Io provengo dalla regione di Shelton, e sono al servizio della famiglia Trenchard.

Sollevò la mano guantata, su cui era ben evidente il sigillo del giglio ambrato.

- Che bello…

Commentò Violet. E lo era. Era un sigillo estremamente delicato, che risaltava sul nero dei suoi guanti.

- Ogni territorio ha un suo sigillo distintivo. Non importa quante siano le famiglie che compongono i governi oligarchici, ogni territorio ha un suo sigillo d’appartenenza. Tranne Adamantio, il cuore dell’Impero, il cui sigillo è la Croce di diamante e che vale come simbolo stesso dell’Underworld.

- La Croce di diamante?

Avevo già visto quel sigillo, esattamente sui guanti dei tre uomini che erano venuti a cercare me e la mamma.

- E’ un controsenso.

Contestò polemicamente Damien. Stava pensando qualcosa già da un po’, avevo notato che non aveva ancora preso parte alla discussione.

- Cosa, Warrenheim?

Domandò Shemar, guardandolo di sottecchi. A quanto pare il despota non gli piaceva particolarmente.

- Hai parlato di oligarchia e di Impero, si tratta di differenti e non conciliabili forme di governo. In altre parole è come affermare che esista una dittatura in un contesto di democrazia. Un paradosso.

Non aveva tutti i torti, effettivamente, ma la risposta di Shemar ci stupì non poco.

- Nel vostro mondo forse. Ma l’Underworld non risponde a regole comunemente definite umane. Per usare le vostre stesse parole, il Despota che governa l’Underworld è l’equivalente del vostro concetto di Imperatore. La sola differenza è che è scelto tra i successori delle famiglie al governo dei cinque territori che compongono il nostro mondo.

Ci guardammo increduli.

- Despota?

Domandai incredula.

- Sì, certo.

Mi rivolsi a Damien, indicandolo.

- Quindi tu saresti un candidato?

- Non dire assurdità.

Borbottò il nostro despota. Era quasi divertente quella parola alla luce delle rivelazioni di Shemar.

- Ovviamente lui non potrebbe essere un candidato. I Warrenheim non sono ben visti nell’Underworld.

Riprese Shemar, rispondendomi.

- Perché?

Si interessò Violet. Sembrava che la storia la stesse appassionando. C’era qualcosa di incredibile nelle parole di Shemar. Qualcosa di assolutamente incomprensibile, ma per quanto potesse suonare come tale, purtroppo per me sapevo che era la verità.

- Perché i Warrenheim sono dei mercenari. Hanno prestato fedeltà alla Croix du Lac, e al momento… la Croix du Lac non ci concede più il suo favore.

- Che vuoi dire?

Chiesi.

- C’è un motivo preciso per cui sono qui, signorina Aurore. Per conto della mia casata, ho il compito di proteggervi. Proteggere voi e l’ametista. Se dovesse cadere in mani sbagliate, la nostra speranza di vedere tornare la luce nel nostro mondo svanirebbe completamente e saremmo condannati. E’ molto tempo che la luce non splende più nell’Underworld.

- E’ per questo che sei così pallido?

Chiese Violet.

- Dal mio punto di vista siete voi ad essere più… scuri.

Sorrise Shemar, meravigliato di quella domanda. Mi resi conto che dal suo punto di vista, dovevamo apparirgli davvero bizzarri.

Strinsi forte il ciondolo, prendendolo in mano.

- Non voglio nemmeno sapere altro. Se vuoi proteggermi, allora facciamo a modo mio.

Suggerii, alzandomi.

- Se permettete, non se ne parla. Ho già un piano ben preciso.

- Anch’io, e si fa come dico io.

Proclamai, cercando di conferire alla mia voce un tono quanto più possibile convincente.

- Signorina Aurore…

- Si va nell’Underworld.

- Sei impazzita?

La faccia scettica di Damien era tutto un programma.

- Ti sembra che io stia scherzando? Dato che questo qui è totalmente inutile, sarà il caso di andare personalmente in quel luogo e ritrovare mia madre e mio fratello.

- Signorina Aurore, non…

- Non sindacare, è la mia decisione.

Violet si alzò a sua volta, stringendomi forte. Lei era fatta così. Non le importava che fossero i momenti meno indicati, se desiderava fare qualcosa lo faceva in barba a tutto.

- Prima però… sfogati.

Mi suggerì, coccolandomi. Soltanto Evan e la mamma sapevano riconoscere la verità che mi riguardava quando io stessa non riuscivo nemmeno a immaginarla. Stavo correndo troppo, senza rendermene conto. La strinsi forte, in quel momento, il suo sostegno era ciò di cui avevo più bisogno. Se avessi avuto una coscienza in grado di farmi riflettere, quella sarebbe stata proprio Violet. In più, mi sentii improvvisamente bisognosa di conforto e di sicurezza. Anche se cercavo di dimostrarmi determinata, stavo cominciando a realizzare quanto fosse davvero accaduto. Era così innaturale ritrovarmi in casa mia, con Damien Warren, Violet e un bizzarro tizio che sosteneva di essere venuto da un altro mondo quando poco prima, c’erano mia madre e mio fratello. La paura che avevo provato e la morsa al cuore si fecero risentire, quando tornai con la mente al mio ultimo incubo, alla mamma che mi aveva lasciato un quantomai oscuro indizio, a Evan, che si allontanava ingoiato dalle tenebre più nere. L’idea che gli fosse accaduto qualcosa di brutto però, non volevo nemmeno più contemplarla. Evan non poteva essere morto, doveva esserci per forza un’altra spiegazione.

Strinsi più forte la mia amica, fissando la foto che ritraeva la mia famiglia durante un viaggio in Giappone. Era la più divertente, avevamo costretto Evan a indossare un kimono, ma non era particolarmente entusiasta e facemmo un grande sforzo per costringerlo a sorridere in quell’occasione. La mamma aveva voluto incorniciarla, nonostante il suo parere contrario, ma quando ci mettevamo d’impegno, nemmeno lui poteva opporsi. E così, quella foto aveva finito per troneggiare sul comò del nostro soggiorno, ricordandoci sempre quel momento così divertente e piacevole. Non credo di aver mai riso tanto quanto in quell’occasione. Sorrisi nuovamente al ricordo, giurando a me stessa che avrei fatto di tutto per ritrovarli e riportarli a casa. Che arrivassi all’inferno, se necessario, che vendessi l’anima al diavolo, non mi importava, ma avrei assolutamente ritrovato mia madre ed Evan.

- Grazie, Violet.

La guardai, sorrideva anche lei. Poi mi rivolsi a Damien e a Shemar, che ci guardavano. Il volto pensieroso del despota e quello incuriosito dello strano cavaliere, che con tutta probabilità stava chiedendosi quanto fossimo contro corrente rispetto al suo modo di intendere la realtà. Chissà che razza di usanze avevano nell’Underworld

 - Warren, te la senti di indagare su tuo padre?

Chiesi, determinata più che mai a cominciare a mettere insieme i tasselli.

Per tutta risposta, Damien prese un sospiro. A quanto pare aveva già cominciato prima di me.

- Se sapessi dov’è in questo momento. Ho provato a telefonargli ieri e non mi ha risposto. Stamattina il suo appartamento era vuoto e a scuola non ce n’era traccia. In compenso ha avvisato che sarebbe mancato qualche giorno. Comincio ad avere qualche idea su dove sia finito.

Strinse il pugno, tremando. Qualunque cosa ci fosse dietro, probabilmente doveva avere ragioni profonde.

- In ogni caso… a meno che non sia tornato nell’Underworld, non potrà accedervi per il momento.

Aggiunse Shemar, portando la mano al mento.

- Che vuoi dire?

- Non si entra ed esce a piacimento dall’Underworld. Un tempo, grazie al favore della Croix du Lac, l’accesso al vostro mondo e viceversa, era più facile, ma da quando l’abbiamo perso, abbiamo a disposizione solo poche occasioni a nostra disposizione e la maggior parte di queste sono destinate alle guardie imperiali ai suoi stessi ordini. Il motivo per cui sono riuscito ad accedere a questo mondo è stato l’intervento della mia signora, Lady Amber Trenchard.

Pronunciò quel nome con sincera venerazione, accarezzando il sigillo ambrato sul suo guanto nero. Doveva esserle davvero fedele. Lo osservai attentamente, mentre ci raccontava di come era riuscito a farsi passare per un membro delle squadre imperiali e a raggiungere il nostro mondo, mettendosi immediatamente alla nostra ricerca.

- Perché… ci stavate cercando? Non è la prima volta, vero? Mia madre… ha detto che ci avevano trovati anche qui, dunque…

Chiesi.

- Credo che sarà il caso di discuterne in altra sede.

Sospirò, alzandosi.

- Purtroppo, io non sono a conoscenza di tutti i dettagli. So soltanto che la vostra famiglia possiede l’ametista e immagino che le guardie della Croix du Lac abbiano supposto che sia in mano di vostra madre. Sono estremamente spiacente di non potervi essere d’aiuto più di così, ma in certi casi, è necessario precludere la verità, perché se fosse divulgata a persone sbagliate, sarebbe un vero guaio.

- Se ti riferisci a me, puoi stare tranquillo, non mi interessa.

Commentò Damien, alzandosi a sua volta.

- Non ricomincerete a litigare, spero.

Dissi, guardandoli entrambi.

- No.

Si affrettò a precisare il despota, raccogliendo il suo cappotto e mettendolo addosso.

- Vai via?

Chiese Violet.

- Sì. Questa storia ha dell’assurdo, ho ascoltato fin troppo. Insomma, non ha alcun senso, è peggio che stare a sentire quell’invasato di mio padre.

- Non osare paragonarmi a lui, Warrenheim!

Contestò Shemar, accendendosi di rabbia per quel commento molto poco gradito. Evidentemente questa famiglia Warrenheim doveva godere di una davvero pessima reputazione e valutando le azioni di Leonard Warren c’era ben poco da dubitare. Quell’uomo era subdolo ed estremamente viscido.

- Non chiamarmi in quel modo!

Tagliò corto Damien, con un tono minaccioso. L’avevo sentito già in passato, ma questa volta la sua irritazione era molto più forte, al punto da conferigli un’aura spaventosa. Il suo sguardo era diventato gelido e soltanto in un’occasione avevo visto uno sguardo assolutamente identico. Trasalii, stringendo forte il mio ciondolo. In quel momento, era come avere davanti agli occhi Evan.

- Il mio nome è Damien Warren, mettitelo bene in testa.

Pronunciò il suo nome con particolare freddezza, deciso a fare in modo che Shemar lo ricordasse per sempre. Era una sua caratteristica, mettere in chiaro le cose. Poi si rivolse a me.

- Non dovresti fidarti troppo. Al posto tuo mi rivolgerei alle forze dell’ordine.

L’avrei fatto, se avessero creduto ai miei incubi. Sfortunatamente, se avessi anche soltanto provato a raccontarlo a qualcuno meno pazzo di me, mi sarei ritrovata con una camicia di forza a vita. Non era esattamente la prospettiva più rosea, senza contare che non avevo bisogno di alcuna conferma per sapere cos’era accaduto alla mia famiglia.

- Non posso.

- In tal caso, ti auguro di riuscire a ritrovarli.

Disse, prima di allontanarsi verso l’uscita. Mentre si apprestava ad uscire, vidi che aveva preso il cellulare e stava per chiamare qualcuno. Per un attimo ebbi la sensazione che ci stesse ripensando, poi lo sentii all’istante cambiare tono, abbandonando la freddezza per una voce più allegra, mentre varcava la soglia e richiudeva la porta alle sue spalle. Abbassai lo sguardo, pensando a quanto fossi stata stupida a credere anche per un solo istante che mi avrebbe aiutata. Ma la posta in gioco era troppo grande e coinvolgere altre persone era impensabile. Ero stata sciocca, a me e a me soltanto spettava di farmi carico di quella responsabilità. Guardai Violet, poi le strinsi le mani.

- Quando tornerò, ti prometto che mi sdebiterò per tutto quanto.

Le dissi, cercando di dare alla mia voce un’impronta speranzosa e felice.

- Verrò con te, Aurore. Ho davvero paura che tu compia qualche azione sconsiderata… in questo periodo soprattutto, è come se tu non fossi più in te…

Mi disse, preoccupata.

In qualche modo aveva ragione, il mio mondo aveva subito una centrifuga a piena potenza e cominciavo anch’io a dubitare delle mie piene facoltà mentali. Sorrisi, non potevo proprio permettere che la mia amica stesse male per me.

- Non puoi venire, Violet. Ma apprezzo la tua buona volontà. Facciamo così, ti porto un souvenir, che ne dici?

Poi mi rivolsi a Shemar.

- Ci sono negozi di souvenir nell’Underworld?

Dalla sua espressione shockata capii che non ce n’erano.

- Ok, ti porterò qualunque cosa potrò. E in più, quando torneremo, convinceremo la mamma a mandarci alla festa. Vedrai, verrà anche Evan! Sai, in fondo lui ci teneva, mi ha detto che… mi ha detto che ci sarebbe venuto… e lui, sai… mio fratello mantiene sempre le sue… promesse…

Senza nemmeno rendermene conto, avevo cominciato a tremare. Mi strinsi forte le braccia, cercando di farmi forza. Dovevo essere forte, ma il ricordo di Evan che guardava la fontana, il suo sguardo sereno, le sue parole mi ferivano come se fossi stata frustata mille volte. Gli occhi mi si riempirono finalmente di lacrime, quelle lacrime che avevo represso disperatamente cercando in tutti i modi di farmi forza. Non so quanto piansi, ma Violet mi tenne stretta a sé fino a che non mi calmai e Shemar ci lasciò insieme, dicendomi che sarebbe tornato nel momento in cui l’avessi voluto.  

  
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