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Autore: Lady Vibeke    03/07/2011    3 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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18. TRA INCUBO E REALTÀ

 

The needle tears a hole
The old familiar sting
Try to kill it all away
But I remember everything

– Hurt, Johnny Cash –

 

 

– Ma siamo di nuovo a Medilana! – esclamò Regan, appena la nausea del passaggio attraverso il Portale si fu attenuata abbastanza da permetterle di aprire gli occhi. Riconobbe subito il tetro atrio della Sede Centrale e non seppe spiegarsi cosa ci facessero lì, dal momento che ci erano stati solo il giorno precedente.

– Acuta osservazione, cerbiattina. –

Lei era rimasta con Lucius; Shin, invece, si era recato a Fortre a raccogliere qualche notizia degli altri sette cadaveri.

– Perché siamo qui? Credevo saremmo tornati a Cittanuova. –

Lucius si fermò al centro dell’atrio e si voltò a guardarla dritta negli occhi. L’espressione svagata di Regan si sciolse di fronte a quella estremamente seria di lui. Anche il fatto che là dentro fosse sempre così buio non aiutava a rilassarsi.

Ebbe una brutta sensazione.

– Lucius? – la voce le si strozzò in gola.

Lui chiuse gli occhi per un momento.

– Castalia ieri mi ha informato che ci sono quarantotto corpi che sono stati recuperati tra le macerie della corte. Quaranta sono stati identificati, e due di loro erano persone la cui scomparsa era stata denunciata da anni. Le loro salme saranno restituite ai loro congiunti. I restanti otto, invece, sono ancora senza nome. Pensiamo siano prigionieri che Desmond stava studiando, e tu ora come ora sei la sola persona viva che fosse là con loro, quella notte. –

Regan capì, e l’idea non le piacque.

– Pensi che possa riconoscere qualcuno? –

– Ti spaventa guardare in faccia la morte? –

Lei deglutì. Non sapeva nemmeno cosa la aspettasse, eppure, sì, aveva paura.

– Sì – riconobbe.

Con suo stupore, Lucius sorrise.

– Mi fa piacere sapere che c’è qualcosa che riesce a farti paura. Ma io verrò con te, non ti lascerò sola nemmeno per un momento. –

Le stava dicendo esattamente ciò che lei aveva bisogno di sentirsi dire, e che fosse una dichiarazione sincera o di circostanza, almeno servì a tranquillizzarla un poco.

– Regan – riprese Lucius, prendendole le mani tra le proprie. – Sto facendo tutto questo per te, lo sai. Ti prometto che potrai tirarti indietro in qualsiasi momento, se non dovessi farcela. –

Regan si fidò solo del calore della sua pelle sulla propria, e della limpidezza delle sue iridi, ridotte a due anelli sottili attorno alle pupille dilatate nel buio.

– D’accordo. Andiamo. –

 

 

Non avrebbe mai immaginato che ci fosse un obitorio in un castello tanto pittoresco. Come al solito, tutti riconoscevano Lucius anche da lontano ed erano pronti a salutarlo, alcuni con meno entusiasmo di altri. Perfino le due sentinelle che stavano di guardia davanti ai cancelli delle segrete gli permisero di passare come se sorvegliassero le sue stesse stanze. Non si risparmiarono qualche occhiata diffidente verso di lei, ma non fecero storie.

I sotterranei erano umidi e ancora più bui dell’atrio dell’ingresso, con pareti incrostate di muschio e infiltrazioni d’acqua in ogni dove. Il soffitto di volte a botte era basso e si rifletteva lugubremente sul grezzo pavimento bagnato. Le lanterne che pendevano dai grossi ganci infissi nelle pareti non erano abbastanza luminose da rischiarare adeguatamente il passaggio e dense ombre nere si annidavano in ogni angolo, vibranti e serpeggianti come entità vive e a sé stanti. Innumerevoli portoni di metallo massiccio si intervallavano lungo l’ampio corridoio, adorne di una quantità incalcolabile di incisioni tortuose e simboli indecifrabili: sigilli, sicuramente. Al di là di alcune di esse si potevano udire urla e lamenti straziati, versi che avevano ben poco di umano o anche solo di terreno.

Regan si strinse addosso il mantello, infastidita da quel freddo pesante che le stava penetrando fin dentro alle ossa. L’odore di muffa era nausebondo, ma divenne quasi insopportabile quando Lucius le fece scendere una rampa di strette scale a chiocciola, introducendola ancora più in profondità sotto il livello del suolo. Là sotto il fetore rendeva l’aria quasi irrespirabile, ma fu ben presto chiaro che non si trattava più soltanto di semplice muffa. Tutto sommato, era un bene che fosse digiuna.

Nauseata, Regan si premette una mano sulla bocca e sul naso.

– Ti dà fastidio l’odore? – le chiese Lucius.

Anziché rispondere, lei preferì evitarsi di respirare e si limitò a scoccargli un’occhiataccia.

– Aspetta – sghignazzando, lui le fece togliere la mano dal viso e la sfiorò sopra le labbra con il pollice. Immediatamente un profumo fruttato le riempì le narici, coprendo completamente la puzza di morte che le aveva fatto contrarre lo stomaco. Qualunque cosa le avesse fatto, funzionava.

– Grazie. –

Si trovavano in un’anticamera di forma quadrata; sul lato di fronte a loro c’era una banalissima porticina di legno, sugli altri due lati erano stati ricreati due semplici altari, costituiti da un blocco di pietra che ospitava una moltitudine di candele e ceri semisciolti. Le fiamme vibravano scosse da un alito che sembrava provenire dalle due feritoie che incidevano verticalmente ciascuna delle pareti annerite dal fumo, entrambe affiancate da una inscrizione. Regan era in grado di decifrare solo quella sulla destra.

La morte non è che vita che cambia forma.

– Che cosa sono questi? –

Lucius si avvicinò con reverenza.

– Servono a guidare le anime verso il loro ritorno alla Madre, affinché non restino intrappolate qua sotto, quando vengono liberate – le spiegò a mezza voce.

Regan ne rimase profondamente intimidita.

In quella, la porticina si aprì senza il minimo rumore. Ne uscirono in due, un uomo e una donna. Lui era un alto e sottile, con qualche striatura grigia tra i folti capelli castani e un viso aguzzo che metteva soggezione. Lei era molto più bassa, femminile, le spalle strette a malapena raggiunte dai corti capelli color sabbia. Portavano entrambi lo stesso mantello nero, allacciato da elaborati alamari d’argento. Sulla sinistra del petto era appuntata una spilla, due ali che si spiegavano attorno a un cerchio d’oro in cui era inscritta una rosa dei venti – la stessa dell’anello di Castalia, emblema di Corterra – e poi, subito sotto, ricamata con fini fili argentei, la scritta Libertas. Era difficile stabilire la loro età: lui doveva avere un centinaio d’anni almeno; lei era visibilmente più giovane.

Non appena si accorsero della presenza di estranei, si fecero guardinghi, ma poi parvero riconoscere Lucius, e allora gli concessero un rigido saluto.

– Rafer, Venus – ricambiò Lucius.

Regan ebbe l’impressione che i due non gradissero particolarmente la sua presenza.

– Luciferus. –

La mascella di Lucius di contrasse impercettibilmente.

– Credevo che le anime di questi defunti fossero già state liberate. –

Erano Liberatori, dunque.

– È così – Venus sollevò il mento altezzosa. – Abbiamo appena finito di verificare l’operato dei nostri colleghi. –

– E tu? Sei qui in visita di piacere? – indagò l’uomo, con una voce bassa e stentorea e un odioso tono derisorio.

Ma Lucius sorrise affabilmente.

– Accompagno un’amica, a onor del vero. –

Regan avanzò di un passo, intimidita dall’atteggiamento dei due sconosciuti, ed entrò nell’alone di luce delle candele. Gli occhi della donna si dilatarono non appena di posarono su di lei; il volto dell’uomo, invece, si rannuvolò.

– Questa è la Sopravvissuta, non è così? – I suoi occhi metallici misurarono severamente Regan in ogni centimetro, poi si spostarono su Lucius. – Sei avventato a portare questa ragazzina quaggiù. Qualcuno degli Anziani potrebbe trovarla di pessimo auspicio per tutti noi. –

– Può darsi – disse Lucius, impassibile. – Ma il Coordinatore Generale l’ha affidata alle mie cure e lei va dove vado io, pertanto gli Anziani dovranno farsene una ragione. Suggerirò loro di dedicarsi ai debiti scongiuri, in caso. –

Rafer aveva i lineamenti contratti da una collera trattenuta a fatica.

– Il cielo solo sa che cosa possa aver mai visto Lady Leljen in un doppiogiochista come te – sibilò, velenoso, poi fece un cenno con la testa a Venus e se ne andarono senza indugiare oltre.

– Personcine deliziose, non è vero? – celiò Lucius, dopo diversi secondi che i due Liberatori erano scomparsi su per la scala a chiocciola.

– Chi sono gli Anziani? –

– I grandi ufficiali di un tempo, ormai troppo vecchi per lavorare sul campo, ma ancora utili come consiglieri. –

Regan si tenne stretta a lui quando entrarono nell’obitorio. Anche se non sentiva più il fetore rivoltante della putrefazione, avvertiva comunque una sgradevole patina di sporcizia sulla propria pelle. C’erano cinque porte, due per lato e una in fondo allo stretto corridoio. Lucius scelse l’ultima, contrassegnata da una targhetta in ottone che diceva Anonimi.

– Partiamo da qui. Qui ci sono coloro che sono stati classificati come prigionieri, quindi, se eri una di loro, è probabile che tu possa riconoscerne qualcuno. –

Il se lasciò uno strascico di incertezza sul resto della frase, quasi Lucius preferisse credere che lei fosse una prigioniera, ma non ne fosse veramente convinto e ne volesse riscontrare una prova.

La stanza era lunga e cupa, l’aria viziata faceva bruciare gli occhi. C’erano dieci tavoli simili a sepolcri disposti in due serie uno dopo l’altro lungo le pareti; otto di essi erano coperti con lenzuoli bianchi che velavano le sagome inconfondibili di cadaveri. Tre grossi lampadari pendevano dall’alto soffitto, ospitando decine di lumini che ardevano in una miriade di fiammelle azzurrine di inconcepibile staticità. Regan si strinse ancora il mantello sulle spalle, ma scoprì che il gelo che avvertiva non poteva essere sanato dall’esterno.

– Tranquilla, cerbiattina – le sussurrò Lucius gentilmente, sfregandole una mano sulla schiena. Si muoveva con sicurezza in quel luogo. – Nessuna di queste persone si risveglierà per farti del male –

Ma non era del male che avrebbe potuto subire che lei aveva timore. Un dolore sordo le si stava risvegliando nel petto, nel punto preciso dove Antares la aveva toccata, mentre la sua testa si faceva torpida, leggera.

Attraversarono tutta la stanza, finché Lucius si fermò, proprio tra gli ultimi due catafalchi, entrambi occupati.

– Ora scoprirò le loro facce, una per una, e se per qualche ragione tu vorrai che io mi fermi, non devi fare altro che dirmelo, va bene? –

Assentì con la testa. Era nervosa, ma non voleva darlo a vedere. Non aveva senso temere delle persone morte, ma il suo istinto, entrando lì dentro, aveva avvertito qualcosa e da quel momento l’inquietudine si era impossessata di lei.

Lucius scoprì il primo cadavere, un uomo dalle fattezze grossolane seminascoste da una fitta barba nera. La pelle scura era livida e tumefatta, ma non portava i segni di decomposizione che avrebbe dovuto avere un corpo morto da giorni.

– Sono stati conservati con dei sigilli per permettere la loro identificazione – le spiegò Lucius. – L’effetto si sarà consumato entro il momento della loro cremazione. –

– Non credo di aver mai conosciuto quest’uomo – gli disse lei, voltandosi inconsciamente dall’altra parte, un nodo a chiuderle lo stomaco. La turbava trovarsi al cospetto di quei gusci vuoti senza vita.

Lucius andò allora a scoprire il secondo cadavere, subito accanto, esponendo alla sua vista un altro uomo, meno rozzo dell’altro, ma nemmeno questo provocò reazioni di alcun tipo, in lei, se non una repulsione irrazionale. Il terzo corpo era una donna che doveva essere stata bella, prima di restare sfigurata in quel modo orribile, ma nemmeno lei le era familiare, e non lo furono nemmeno il quarto e il quinto uomo. Quando Lucius scostò il sesto lenzuolo, invece, Regan si fermò, e con lei il suo cuore.

– A giudicare dalla quantità di tagli sulle sue braccia, direi che è stato a lungo ospite alla Corte. Ne sono stati recuperati una decina che, come lui, portano segni di sevizie, ma tutti gli altri hanno un aspetto malato, mentre lui, a parte quelle ferite, è… era perfettamente sano. È molto strano –

Era un angelo giovane, poco più maturo di Lucius, di carnagione pallida e lineamenti leggeri ed equilibrati, e anche se gli occhi erano chiusi, le sembrava quasi di intravederli, specchi di ambra scura, furbi e amichevoli. Vide che le sue braccia erano deturpate da una lunga fila di spesse cicatrici orizzontali lungo il tracciato che normalmente avrebbero segnato le vene, alcune completamente guarite, altre ancora incrostate di sangue. Era come se per mesi – o forse addirittura anni – fosse stato seviziato più e più volte da mani di precisione chirurgica. Una sola ferita era diversa: uno squarcio netto e ancora rosso nell’addome, profondo e spesso. Non aveva nemmeno avuto il tempo di rimarginarsi, segno che gli era stato inflitto appena prima che morisse. Probabilmente, anzi, era stato proprio quello a ucciderlo.

Fu quella riflessione a scuoterle la memoria. Cortine di oscurità si scostarono nella sua mente, denudando sprazzi di ricordi che le permisero di costruire qualcosa di tangibile.

Era lui. Era lo sconosciuto dai lunghi capelli ramati che così spesso le appariva in sogno.

Una fitta di cordoglio le attraversò il cuore, smorzandole il respiro e, prima che potesse rendersene conto, una lacrima le scivolò lungo la guancia.

Un’improvvisa scheggia di inafferrabile consapevolezza le sferzò la memoria, lasciandosi dietro una ferita pulsante.

La testa le rimbombava di voci e immagini confuse. Per un attimo soltanto, i tagli vecchi e nuovi sulla pelle dell’angelo si aprirono e presero a lacrimare lenti rivoli di sangue, e vide i suoi occhi, colmi di sofferenza ma sereni, stoici, come se quel corpo martoriato non gli appartenesse davvero, o non gli importasse di quel che aveva subìto. Le sorrideva.

“Non ti preoccupare.”

Un’eco debole e tanto dolce da essere violenta.

Regan non riusciva a respirare.

La voce placida finì inghiottita da un insorgere di altre voci, altri volti, grida e lamenti che graffiavano le pareti della sua memoria come belve recluse, implorando una via d’uscita inesistente.

Urlò, torturata da un dolore improvviso. Si dovette appoggiare al bordo di pietra del catafalco per tenersi in piedi.

Lucius le fu accanto in un lampo, grondante di ansia.

– Che succede? Regan? –

“Non ti preoccupare per me.”

– Lo conoscevi? –

“Sto bene, davvero.”

– Regan, rispondimi! –

Gli si aggrappò addosso disperata, stringendo gli occhi nella speranza che le immagini svanissero, reggendosi la testa per placare quelle voci, quelle grida devastanti che sembravano volerla lacerare da dentro. Non si rendeva nemmeno conto di stare singhiozzando.

– Portami via, ti prego. –

 

 

– Non sono in grado di dirti granché, purtroppo. Nessuno era mai sopravvissuto ai nostri dardi, prima d’ora, e non abbiamo alcuna ipotesi veramente plausibile. –

Shin annuì.

Il Maestro Dorlas, la più autorevole voce della Lega in campo di erbe, pozioni e veleni, era profondamente costernato, quasi imbarazzato davanti all’ammissione della propria perplessità.

Era un uomo anziano ma ancora nel pieno delle sue forze, una tunica di pesante broccato rosso ricamata d’oro a rivestirgli il busto panciuto, una spessa cintura di cuoio a tenerla ferma. Era un caro amico di suo padre, ed era per questo che Lucius aveva mandato lui: Dorlas lo conosceva da quando era nato, non gli avrebbe mai negato la soddisfazione di qualche curiosità discreta.

Si tolse gli occhialetti rotondi e si massaggiò pensosamente la barba bianca, camminando avanti e indietro per il loggiato che dava sulle praterie antistanti la Sede del Nucleo di Mauercast.

– Radislav è furioso, comprensibilmente. Ha perso uno dei suoi uomini, dopotutto – borbottò, arcigno.

Shin evitò di esprimere il proprio parere su quell’ultimo punto. Era più che sicuro che la furia di del Coordinatore Blackthorne fosse collegata a motivi ben meno nobili del cordoglio per la perdita di un uomo. Qualcosa che aveva più che altro a che fare con il suo stesso prestigio di Coordinatore.

– Se Desmond ha scoperto un modo per neutralizzare gli effetti dei veleni, siamo in guai seri. –

– Mi auguro non sia così – gli disse Shin. Non si era aspettato di ricevere più informazioni di quante ne avesse avute. – Non dovete farvene una colpa, in ogni caso. –

– L’unico motivo per cui quel mostro è sempre un passo avanti a noi è che opera tutti quegli abomini alle spese di creature innocenti! Sarei stato più che felice di partecipare alla sua autopsia, se solo fosse finito sui nostri tavoli assieme ai suoi scagnozzi! – ringhiò il Maestro, pieno di rancore. La sua voce rimbombò per il loggiato deserto e qualcuno che passava in quello sulla facciata opposta si voltò a guardare, incuriosito.

Shin fece per replicare, ma un dolore improvviso lo ghermì direttamente all’anima e lo privò dell’aria. Si attaccò a una delle colonnine scure per non perdere l’equilibrio. Il dolore era tale che tutto diventò di un bianco accecante e un suono che non esisteva lo assordò fino a stordirlo.

Dorlas fu subito al suo fianco .

– Figliolo! Che cosa ti succede? –

Shin annaspò, crollò sulle ginocchia. Soffriva come se qualcosa stesse cercando di distruggerlo dall’interno, recidendo tutto ciò che di vitale possedesse, e la sua testa stava per scoppiare. C’erano delle urla, sangue e lacrime che si mescolavano. La terra tremava. L’aria mancava. Mancava troppo…

Poi, quando credette di essere arrivato al limite della sopportazione, tutto cessò.

Shin tossì, i suoi polmoni che finalmente si riempivano di nuovo, rigenerandolo. Il suo cuore stava battendo così forte da fargli male.

Dorlas lo aiutò a risollevarsi.

– Stai bene, ragazzo mio? –

Ancora ansimante, lui assentì.

– Sto bene – boccheggiò, mentre i suoi muscoli lentamente riacquisivano la capacità di sorreggerlo.

Invece non stava bene. Era preoccupato. Preoccupato e spaventato, perché ormai sapeva esattamente cosa significava quanto appena avvenuto. Quello che odiava non sapere era cosa l’avesse causato.

 

 

Ricordava.

Non tutto, ma molto. Si ricordava di lui. Di Derian.

Non seppe quanto tempo rimase accoccolata tra le braccia di Lucius. Forse fu questione di pochi minuti, forse di ore intere. Non ne aveva idea. Il caos nella sua testa la aveva trascinata giù, in un abisso nero, tormentandola fino a gettarla sull’orlo della pazzia, in un vortice di volti e sussurri senza nome. E poi c’era il sorriso di Derian, ricorrente, più vivo e concreto di qualsiasi altro ricordo. Quello che faceva più male.

Lucius era stato paziente: l’aveva cullata senza pretendere spiegazioni, tenendosi la sua testa protettivamente appoggiata petto. Era difficile credere che delle braccia tanto solide e muscolose potessero dimostrarsi così delicate e piene di tenerezza, all’occorrenza. Lei forse aveva pianto, forse aveva tremato, forse era solamente rimasta inerte ad aspettare che tutto cessasse. Non ne era sicura. Sapeva soltanto che ad un certo punto, proprio come aveva pregato con tutta sé stessa, la tortura finì, e lei poté finalmente riprendere a respirare. Rimase lì, ad ascoltare il battito regolare del cuore di Lucius, lasciando che la lenisse a poco a poco.

– Va meglio? –

La sua mano premurosa le accarezzava i capelli.

Lei avrebbe voluto poter rimanere lì per sempre, così, sprofondata nel calore di un abbraccio sicuro. Annuì debolmente, il respiro ancora spezzato da un’angoscia che non riusciva a passare.

– Come mai hai reagito così quando hai visto quell’angelo, prima? – provò allora a domandarle lui. – Lo conoscevi? –

Regan si tirò su, ma non si sottrasse al conforto del suo abbraccio. Cercò di farsi coraggio e raccogliere abbastanza forza da raccontargli tutto.

Da affrontare tutto.

Deglutì attraverso il nodo che le serrava la gola e inspirò più a fondo che poté.

– Sì. –

Gli raccontò ogni cosa che ancora non era riuscita a confessargli. Partì dai sogni, insensati e fumosi, delle grida e delle visioni nella sua testa, di quello che aveva provato guardando il volto esangue di qualcuno che un tempo era stato parte di lei.

No. Che era stato tutto.

– Si chiamava Derian – balbettò, preda della resurrezione di una sofferenza che ricordava di aver lasciato sulla soglia di quella che era stata la sua vita, prima di risvegliarsi in quella stanza nella dimora di Angina. – Era… era un mio amico. –

 

 

– Desmond mi teneva chiusa in quella stanza da sempre, o così mi sembra. Diceva che ero speciale e dovevo essere trattata con riguardo, ma non ho mai saputo perché. Non ha mai cercato  niente, da me. Che io ricordi, sono sempre stata sola: non avevo niente con cui passare il tempo, solo una finestra che guardava sul cortile interno del castello. Una ragazza di nome Isabel mi portava vestiti puliti, ogni tanto, e mi aiutava a farmi il bagno, mi portava da mangiare. A volte, invece, molto di rado, veniva un ragazzo. Aveva occhi spietati, di un verde gelido che mi ha sempre fatto venire i brividi. Una volta ho sentito che Desmond lo chiamava Samael. –

Lucius ebbe un impercettibile sussulto, ma non la interruppe.

– Non ho mai visto nessun altro, prima che portassero Derian. Nessuno ci spiegò niente. Un giorno Desmond lo spinse nella mia stanza e disse che avremmo dovuto condividere gli spazi, da allora in poi. Derian era ridotto piuttosto male, quando arrivò, ma era stato curato. Fu subito gentile con me. Penso avesse più o meno la tua età, quando è arrivato, ma non so quanto tempo fa sia stato. Qualche anno, forse. Derian veniva da una famiglia di mercanti di Velathri. Lo aveva venduto suo padre per pagare i suoi debiti. Sapeva leggere, fare di conto… mi ha insegnato lui tutto quello che so. La sera, quando restavamo al buio, ci sedevamo vicino alla stufa e lui mi appoggiava una mano sulla fronte, mi mostrava il mondo come lo aveva visto lui. Spesso Samael lo veniva a prendere e lo portava via, e quando tornava, aveva sempre qualche nuovo taglio sulle braccia. –

Lucius era pallidissimo. I suoi occhi avevano perso tutta la loro luce e ora la scrutavano opachi, colmi di qualcosa che poteva essere pietà, compassione, o anche soltanto dispiacere.

– Tu sai cosa gli facevano, vero? – sussurrò la sua voce, appena più forte dell’aria stessa.

– Era suo – Regan si premette le mani sul viso, esalando un singhiozzo affranto. – Il sangue immune ai veleni era di Derian. Era quello che volevano da lui, il motivo per cui lo avevano comprato. Desmond lo fece torturare per farsi svelare come ci si potesse impossessare di quella dote, ma non ricavò mai nulla. Alla fine cedettero e smisero con le torture, per timore di ucciderlo, limitandosi a usarlo come fonte inesauribile di prelievi. Derian una volta mi confidò che era un Segreto di famiglia, un dono che si tramandava da generazioni di padre in figlio: l’unico modo per ottenerlo era raccogliere l’ultimo battito del cuore che possedeva il dono. –

– Questo significa che… –

A Regan si smorzò il respiro. Le labbra le tremavano, incapaci di sopportare il peso di quelle parole che erano troppo dolorose per essere articolate.

– È morto tra le mie braccia – disse in un fil di voce spezzata. – Non so come, né perché… è l’ultima cosa che ricordo, prima che il buio si riaprisse sui tuoi occhi: la vita che scivolava via dal suo corpo. –

La voce la abbandonò. Era troppo.

Non era abbastanza forte da reggere tutto quel peso in una volta sola. Quello che le era tornato alla memoria era solo uno stralcio dell’intero, qualcosa che le aveva rivelato ciò che ne era stato di lei per gran parte della sua esistenza, ma chi lei fosse veramente continuava a non saperlo. Forse era come Derian: una figlia diversa, smerciata in cambio soldi, o favori, o chissà che altro, e questo avrebbe spiegato anche perché nessuno la avesse mai cercata.

Tutto ciò che la legava al suo passato era Derian, e lui era morto.

– Ora che ne sarà di lui? –

Lucius fece un lungo sospiro.

– Verrò esaminato assieme agli altri dagli esperti per capire che tipo di esperimenti possa aver condotto Desmond su di loro, o per quali li abbia sfruttati. Poi saranno tutti cremati e sepolti nel Campo dei Dimenticati, fuori città. –

Il Campo dei Dimenticati non era un nome promettente.

– E che posto è? –

Lui esitò.

– È il cimitero dove vengono sepolti tutti coloro che non vengono identificati o le cui spoglie non vengono reclamate da nessuno. Delinquenti giustiziati o finiti uccisi in qualche scontro, per lo più –

Regan inorridì a quel pensiero.

– Non voglio che lui finisca là! –

Cercò disperata gli occhi di Lucius, pregando che lui capisse quella sua richiesta accorata.

– Questo implicherebbe raccontare a Castalia quello che tu hai appena raccontato a me, e non è mia intenzione farlo – dichiarò lui, dolente. – Le dirò semplicemente che ho avuto una soffiata sull’origine della miracolosa immunità ai veleni di quegli uomini. Il resto sarebbe del tutto superfluo. –

– Ti prego – gli strinse supplichevolmente il braccio. – Ci deve essere qualcosa che puoi fare! –

– Oh, cerbiattina, è sleale da parte tua puntarmi contro quegli occhioni lacrimevoli – disse Lucius, portandosi una mano alla fronte.

– Per favore. È importante, per me – insisté lei, forte del cedimento che lui stava mostrando.

– E va bene – si arrese infatti Lucius. – Vedrò cosa posso fare. –

Grata, Regan gli saltò al collo.

– Grazie! –

Lucius si alzò dai gradini e le prese in mento tra le dita. Le corone di grigio-azzurro attorno al nero delle sue pupille sembravano anelli di ghiaccio nella fievole luce delle torce. Sorrideva, ricordandole che non era sola.

– Mi sto proprio rammollendo – commentò, allungandole un pizzicotto sul naso.

La porta si spalancò all’improvviso. Il legno massiccio sbatté con violenza contro il muro di pietra, e il frastuono che ne derivò si perse echeggiando su perle scale. Le fiamme delle candele sui due altari vibrarono sgraziatamente.

C’era Shin sull’ultimo scalino, smorto e con l’aria di uno che aveva appena passato il momento peggiore della sua vita. Guardò lei e Lucius, ancora vicini, e il suo volto riacquisì un po’ di colore.

– State bene? – domandò, ma i suoi occhi si erano fermati su Regan, sulle sue guance ancora rigate di lacrime, sugli occhi arrossati.

Lei si accigliò.

– Cosa ci fai qui? Credevo fossi a… –

Lucius si alzò in piedi con un sorriso comprensivo.

– Va tutto bene, Shin – la interruppe, e Regan ebbe l’impressione che qualcosa le sfuggisse, poi fece alzare anche lei. – Non so tu, amico mio, ma noi abbiamo grosse novità. –

 

 

   
 
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