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Autore: L_Fy    12/07/2011    1 recensioni
....Per me, le vacanze estive erano semplicemente Cresta del Gallo, con le sue terrazze ripide, con l’odore di bosco che filtrava dalle finestre la mattina, con il blu del lago a salutare in lontananza… e perché no, con la torretta di Villa Lazzari che svettava vicina, complice della mia solitudine poiché solo io potevo vederla e condividerne la solitaria bellezza.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Qui autem invenit illuminvenit thesaurum
(Siracide)

 
I primi giorni a Cresta del Gallo erano sempre impegnati in un caotico assestamento; in pieno stile Mercati, bisticciavamo tutti da mattina a sera per ritagliarci gli spazi e i privilegi necessari alla sopravvivenza. I turni per l’uso del bagno, per esempio: ce n’erano due, uno in casa al piano terra, provvisto di lavandino asmatico e doccia malconcia e zoppicante come una vecchia ottuagenaria e l’altro esterno sul retro della casa rigorosamente senza acqua calda. Contando che eravamo in sei e che Rossella passava più tempo là dentro di noi altri cinque messi insieme, era possibile che all’ultimo della fila scoppiasse la vescica prima di poter espletare le funzioni corporali. Quindi, per smaltire i tempi, facevamo una specie di corsa a ostacoli verso il dentifricio e chi arrivava per ultimo si sorbiva per il resto della vacanza il bagno esterno con doccia gelata. Quell’anno mi andò proprio male: risultai ultima in graduatoria, battuta persino da quella caccola di Sabrina e mi furono cedute, con una cerimonia solenne, le chiavi del bagno esterno da parte di un’esultante sorellina e di un commosso papà. Le presi senza un lamento: ero in furiosa trattativa con Rossella per l’uso della mitica e incomparabile bicicletta del nonno e la questione del bagno poteva anche risultare un’arma a mio favore. Per scendere al lago o in paese, gli unici mezzi di trasporto concessi a noi minorenni erano le biciclette di nonna Rosa, cioè pezzi di antiquariato più o meno d’epoca con i freni inesistenti e i pedali duri come sassi. L’unica decente era la ex bicicletta del nonno, un surrogato di mountain bike senza marce ma con un meraviglioso perone di gomma strombazzante in sostituzione del campanello, modello primo novecento. Mentre io esultavo per averla spuntata con Rossella, lei sorrideva serafica: capii il perché solo alla sera, dopo cena, quando papà annunciò l’acquisto di uno scoppiettante motorino usato. Quella faina rabbiosa di mia sorella mi aveva gabbato!  
“Visto che Sabrina è troppo giovane e Lena ha scelto la bicicletta migliore, il motorino va di diritto a Rossella!” concluse papà con la faccia felice del battitore d’aste di Sotheby.
Rossella fece un angelico sorriso a ottocento denti: io le risposi con un’occhiata che avrebbe incenerito una miniera di amianto.
“Questa me la paghi.” le sibilai all’orecchio quando fui certa che mamma non potesse sentirmi “Prenderò in ostaggio la tua cintura di coccodrillo di Fendi, le taglierò la fibbia e te la spedirò per posta.”
“Tu intanto pedala, sottiletta.” ghignò Rossella con un atteggiamento molto poco da gran dama.
Dopo cena io e Rossella decidemmo di scendere in paese a prendere un gelato. Nell’attesa che lei uscisse dal bagno dove si era rinchiusa per “darsi una sistemata”, mi dilettai nella lettura di ben cinque capitoli di un libro trovato nell’ingresso. Parlava delle tecniche di pesca a mosca: una noia mortale. Stavo per rinunciare e salire in camera mia quando Rossella uscì dal bagno, tirata a lucido come una statua di porcellana e olezzante di Hypnose come se ci avesse fatto il bagno.
“Come sto?” domandò pavoneggiandosi nella lunga gonna a balze di Moschino Jeans e scuotendo la fluente chioma odorosa di lacca. Per me aveva un look un po’ troppo stile Esmeralda, ma mi guardai bene dal dirglielo: la coda di paglia di Rossella era talmente corta che sarebbe corsa a cambiarsi anche se a dare un parere negativo fossi stata io, notoriamente insensibile ai dettami della moda come un blocco di porfido.
“Stai benissimo” tagliai quindi corto “Andiamo?”
Rossella lanciò un’occhiata incuriosita al mio top a fiorellini e ai jeans che avevo su dalla mattina: non commentò, ma il suo sguardo quasi compassionevole la disse lunga su quello che pensava del mio look. Molto magnanimamente, appena raggiunto un angolo non visibile da casa, mi concesse di salire sul motorino con lei, nonostante la mamma avesse promesso anatemi infernali se solo avessimo sfiorato l’idea. Dopo aver appoggiato la bici del nonno contro a un tronco (nasconderla era inutile: per quella strada passavamo solo noi e gli abitanti di Villa Lazzari, e figurarsi se gli dei in persona si interessavano a un tale ferrovecchio) mi appollaiai sul retro del sellino del motorino e le strinsi la vita, ben attenta a non guastarle la messa in piega. Col motorino giungemmo in paese in un attimo: lo parcheggiammo in un posto sicuro e camminammo fino al centro chiacchierando piacevolmente, o meglio, Rossella chiacchierando e io piazzando qualche monosillabo qua e là. La gelateria del centro era illuminata e gremita di giovani nonostante non fosse ancora stagione turistica. Li conoscevamo quasi tutti: era una vita che passavamo le vacanze a Cresta del Gallo e la mamma era originaria di lì, quindi venivamo trattate praticamente come due del posto. Oltretutto, il paese era così piccolo che nonostante i turisti ci sentivamo sempre a casa e Ustecchio e Voltino, i paesi più vicini, confronto a Cresta del Gallo sembravano New York. Alcuni ragazzi, vedendoci arrivare, si alzarono dalle panchine per venirci a salutare. Sara e Martina, le due ragazze con le quali andavo più d’accordo, mi sembrarono stranamente intimidite, ma diedi la colpa agli effluvi tramortenti di Hypnose di Rossella; Marco e Filippo invece, i due figli del macellaio, coetanei di Rossella, non la smettevano più di baciarci sulle guance e di menare amichevoli pacche sulle spalle. Per un bel pezzo parlammo tutti concitatamente, scambiandoci a raffica notizie sui mesi di lontananza.
“Siete davvero cambiate” esclamò Martina sezionando me e mia sorella atomo per atomo “Si vede che siete delle cittadine.”
“Che sciocchezze” rispose magnanima Rossella quando invece si vedeva benissimo che condivideva in pieno l’opinione di Martina, almeno per quello che la riguardava “E voi, che avete fatto di bello quest’inverno?”
Altra mezzora di chiacchiere: erano tutti stati promossi, a Martina avevano regalato lo Scooter nuovo, Marco per arrotondare dava lezioni di windsurf e Filippo aveva una fidanzata di Milano che frequentava la mia stessa scuola.
“Però è un pezzo che non la vedo.” mi disse allusivo, lasciandomi vagamente perplessa.
Erano tutti amichevoli, fin troppo amichevoli: tutta quell’attenzione mi disturbava. Rossella invece sguazzava nella celebrità nemmeno fosse Paris Hilton. Appena il decoro me lo concesse, sgattaiolai verso la gelateria pensando malignamente che per il compleanno dovevo assolutamente regalare a mia sorella un chihuahua da mettere in borsetta.
“Ciao Antonio” salutai con un sorriso “Un cono cioccolato fondente e frutti di bosco.”
“Subito, signorina” mi canzonò il gelataio dalle guance più rotonde d’Italia “Perbacco, Lena, sei diventata proprio grande! Te l’ha detto nessuno che sei un’autentica bellezza?”
“Solo i commercianti a cui devo dei soldi.” risposi sorridendo e allungandogli una banconota da cinque euro.
Mentre Antonio trafficava alla cassa per trovarmi il resto, chiusi gli occhi per assaporare il mio gelato. Il primo assaggio dell’anno al cioccolato fondente di Antonio andava trattato a dovere: il sapore era come un soffio di Paradiso. Quando riaprii gli occhi, sufficientemente estasiata, mi trovai davanti Tobia Lazzari che mi fissava incuriosito. Per poco non feci un salto indietro dalla sorpresa: non l’avevo sentito arrivare, e comunque non era mai successo che un divino dell’Olimpo Lazzari si avvicinasse tanto a un comune mortale. Cercando di contenere la sorpresa, mi stampai in faccia un’espressione gentile e sorrisi.
“Hei, chi si rivede.” dissi, soddisfatta del mio tono indifferente.
“Dalla foresta di Sherwood alla gelateria” rispose lui sorridendo prontamente “Che shock.”
Il più scioccato a dire il vero sembrava Antonio che era rimasto immobile a osservare la scena: quando Tobia si girò verso di lui ordinando un chilo di gelato da portar via, si mosse di scatto come se fosse stato caricato a molla.
“Non pensavo di vederti già in giro.” commentò Tobia salottiero, quasi con rimprovero.
“Non si può resistere nemmeno un giorno lontano dal cioccolato fondente di Antonio.” risposi io strizzando l’occhio al gelataio e cercando di raccapezzarmi: perché Tobia Lazzari il Divino continuava a rivolgermi la parola? Non era normale, non rientrava nell’ordine naturale delle cose: sarebbe stato molto meglio se avesse smesso subito, anche perchè con la coda dell’occhio, avevo già notato Sara e Martina fuori dalla porta che si sgomitavano, espressioni allucinate e occhi a palla puntati su Tobia e me.
“Sei venuto in scooter?” domandai tanto per darmi un contegno.
Lo scooter era un argomento neutrale: ci era già successo di scambiarci qualche opinione in merito, in sostituzione del solito bollettino meteorologico o nautico.
“No, sono in macchina con Saverio” rispose lui accennando all’esterno con il capo “Mi era venuta improvvisamente voglia di gelato.”
Fece un ampio sorriso affascinante e il mio cuore perse una decina di colpi. La faccia di Antonio dietro il bancone era completamente esterrefatta e io rimasi immobile a guardare Tobia a bocca aperta: in quel momento non avrei saputo spiaccicare un monosillabo, figurarsi proseguire il discorso.
“E tu sei venuta a piedi?” domandò ancora Tobia con amabile cortesia.
“No, col motorino” risposi subito, distratta dai suoi occhi verdi ammiccanti “E ti prego, non far sapere a mia madre che ero senza casco.”
Come se esistesse un universo parallelo dove Tobia Lazzari e mia madre potessero parlare di me che giro in motorino senza casco: il senso di ridicolo della mia stessa frase mi fece arrossire d’imbarazzo e abbassare lo sguardo.
“Bè, ciao allora.” dissi in fretta girandogli le spalle e dirigendomi verso l’uscita dopo aver raccattato il resto dei cinque euro.
L’aria fresca della sera mi sfiorò le guance e mi accorsi che scottavano. In un lampo, Sara e Martina furono al mio fianco, frementi come anguille.
“Hai parlato con Tobia Lazzari?” domandò Sara con gli occhi così spalancati da sembrare quasi ridicola.
“Ci siamo solo salutati.” minimizzai io, concentrandomi sul mio gelato infastidita da tanto interessamento.
“Mi è sembrato interessato” ribadì Martina, enfatizzando le parole chiave come era solita fare quando era emozionata.
“Non credo.” risposi con un tono il più possibile definitivo.
Nel frattempo arrivò Rossella con un sorriso guardingo da pescecane.
“Hai parlato con Tobia Lazzari?” domandò con la voce dolce che riservava ai terzi grado più cruenti “Che ti ha detto?”
“Niente di importante” mi schermii di nuovo incassando involontariamente la testa nelle spalle “Mi ha salutato. Cos’è, ci vuole la carta da bollo adesso per salutare un Lazzari?”
“No, certo che no” rispose Sara in fretta “E’ che sembrava…”
“Interessato.” concluse Martina con aria cospiratrice.
In quel momento, Tobia uscì dalla gelateria con un pacchetto ben incartato in mano: sorrise al nostro indirizzo, senza però dire una parola o sollevare una mano e si avviò con passo elastico verso la lucida Maserati che lo aspettava in plateale divieto di sosta. Martina sospirò tipo enfisema polmonare mentre Sara squittì qualcosa che poteva essere un apprezzamento o un singulto agonizzante. Effettivamente, quel ragazzo era così bello e aggraziato che era impossibile non rimanerne affascinati. Filippo mi si avvicinò incuriosito.
“Hai parlato con Tobia Lazzari?” domandò quasi con riverenza e io mi decisi a irritarmi.
“Sì” risposi aggressiva “Abbiamo disquisito sulla dicotomia religiosa del bene e del male. Qualcosa in contrario?”
“Ah ah, che spiritosa!” sorrise Filippo, evidentemente in difficoltà sul concetto di dicotomia.
Mi azzardai a lanciare uno sguardo verso la Maserati; Tobia stava salendo in macchina, si accorse che lo guardavo e mi sorrise: alzò millimetricamente una mano e persino io riuscii a riconoscere un gesto di saluto. Mentre ricambiavo, completamente rintronata, Rossella trattenne a stento un suono soffocato, mentre Martina ridacchiava senza un solo motivo al mondo. Vidi Saverio, al posto di guida, sporgersi leggermente e per un attimo incrociai il suo sguardo corrucciato. Sembrava furioso: un brivido mi attraversò la schiena da parte a parte, come se mi avesse trafitto con una lancia. Tobia si girò a mormorargli qualcosa e Saverio, con la faccia di pietra, scandì con chiarezza la parola “No”. Senza quasi rendermene conto, arrossii violentemente proprio mentre la portiera si chiudeva seccamente e la macchina partiva con un’elegante sgommata. Noi sei ragazzi rimanemmo per un pezzo immobili, come se quella dannata Maserati ci avesse momentaneamente trasformati in pietra. Quando ci sbrinammo, mi accorsi che il mio gelato era quasi del tutto squagliato. E comunque, mi si era completamente chiuso lo stomaco: gettai il cono nel cestino, sperando che i miei amici e soprattutto Rossella non cominciassero a commentare l’accaduto. Quando mi girai verso di lei, vidi che l’emozione predominante era l’assoluta sorpresa.
“Interessato.” ripeté Martina, felice di aver trovato il termine che esprimeva al meglio i suoi pensieri solitamente confusi.
“Solo salutati, eh?” sbottò allora Rossella minacciosa: non potei far altro che stringermi nelle spalle impotente.
*    *       *
Il ritorno in motorino fu decisamente più lento dell’andata. Oltretutto Rossella si era chiusa in un ostinato mutismo e la sua schiena rigida non faceva presagire futuri ammorbidimenti fraterni. Mentre l’aria della sera, ormai decisamente freddina, mi accarezzava il viso scompigliandomi i capelli, riflettei su quanto era successo. Niente di che, agli occhi di un osservatore occasionale, ma per noi che conoscevamo la famiglia Lazzari da sempre, aveva dell’incredibile. Nessuno dei Lazzari aveva mai dimostrato anche solo un vaghissimo interesse per un abitante del posto. Nessuno. Mai. Erano sempre cortesi e distaccati, presenti in paese quel tanto che bastava per non essere tacciati di snobismo estremo, ma mai sufficientemente alla mano da essere simpatici alla gente. Erano troppo ricchi, troppo belli e troppo riservati per un centro piccolo e pettegolo come Cresta del Gallo. E io ero finita senza volere proprio in prima pagina del bollettino locale, pensai infastidita. Per un attimo detestai Tobia Lazzari per avermi trattata da essere umano. Poi ripensai ai suoi occhi verdi e amichevoli e il cuore ebbe un leggero fremito imbarazzato. Arrivate a casa, dopo aver recuperato la bicicletta esattamente dove l’avevamo lasciata, Rossella veleggiò in camera sua immersa in un oltraggiato silenzio. Ne fui sollevata: non avrei proprio saputo cosa rispondere a uno dei suoi soliti interrogatori. In fondo, Tobia e io ci eravamo davvero solo salutati: il resto, posto che esistesse un resto al di fuori della mia immaginazione, non poteva essere tradotto a parole. Gli altri erano già tutti a letto, così anche io salii in camera mia. La nonna mi aveva premurosamente preparato un catino in camera, visto che mi era toccato il famigerato bagno esterno, così mi lavai il viso lì dentro, proprio come un’eroina ottocentesca. Mi infilai il pigiama, mi pettinai a lungo i capelli e poi mi sedetti sul davanzale basso della finestra a osservare il cielo. A Cresta del Gallo la notte era bella come un sogno, forse perché le luci lontane intorno al lago sembravano un prolungamento del cielo stellato. Cercai di analizzare le sensazioni che avevano costellato la giornata e scoprii in fondo a tutte una vaga inquietudine. Arrivare a Cresta del Gallo mi aveva esaltata; rivedere nonna Rosa e la mia casa mi aveva resa felice; incontrare e parlare con Tobia Lazzari per due volte in un giorno mi aveva lusingato e infastidito insieme. Allora, perché l’inquietudine?
Era stato lo sguardo di Saverio Lazzari, realizzai all’improvviso. Nessuno mi aveva mai guardato con tanta palese ostilità. Cercai di mettere a fuoco il ricordo del suo viso, ma non ci riuscii. Rivedevo solo la sua espressione seria e corrucciata e i lampi irritati nei suoi occhi verdi, così simili a quelli di Tobia e nello stesso tempo così diversi. Mi chiesi per quale motivo ce l’avesse tanto con me: forse perché Tobia sembrava vagamente interessato? Forse non voleva che il fratello minore facesse amicizia con la plebaglia?
Decisi quasi con sollievo che mi era antipatico, anche se continuava a dispiacermi che si dimostrasse così ostile senza motivo. Vagando con lo sguardo, cercai nel buio la torretta di Villa Lazzari e la trovai come l’avevo sempre trovata in tanti anni di contemplazione, vagamente illuminata e distante anni luce. Chissà chi dormiva nella torretta: forse Tobia. Forse in quel momento mentre io osservavo lui, lui osservava me, seduto sul suo davanzale ad assaporare la notte come facevo io. Quel pensiero fu in grado di smuovermi in maniera molto poco cristiana: velocemente, chiusi i vetri come per tenere lontano certe sensazioni pericolose, saltai sul letto e mi ficcai sotto le coperte, avvolgendomi come in un bozzolo nell’odore familiare di lavanda e naftalina. Dormivo prima ancora di formulare un nuovo, imbarazzante pensiero.
*    *       * 
Il giorno dopo e quelli a venire, Rossella decise di mettere da parte l’ostilità per un fraterno e accorato interessamento. A dire il vero, non aveva dormito la notte per la curiosità di sapere cosa ci fossimo detti Tobia e io, e fosse stato per lei mi sarei cucita le labbra per l’eternità. Sfortuna volle che il nostro dialogo, parola per parola e sfumatura per sfumatura, fosse stato riportato al gazzettino locale dal gelataio Antonio, così il giorno dopo l’accaduto tutti sapevano tutto, compresa Rossella che si era magnanimamente offerta di andare a prendere il latte in paese alle sette di mattina. Anzi, alla fine ne sapeva più lei di me: fortunatamente, tutti quanti dovettero ammettere controvoglia che, a parte la perplessità sulla battuta della foresta di Sherwood, il dialogo era stato piuttosto innocente.
“Proprio non riesco a capire” sbuffò Rossella mentre io facevo ancora colazione col pane caldo e il latte da lei gentilmente fornito “Che ci avrà trovato Tobia in te per rivolgerti la parola?”
Mi squadrò a lungo, perplessa: delle due ero sempre stata la sorella “intelligente” mentre lei era quella “carina”. Eravamo alte uguali, entrambe slanciate e con capelli lunghi e mossi, di un deprimente color topo. Ma le somiglianze finivano lì: Rossella era più imbottita nelle parti giuste, i suoi capelli erano illuminati da méches dorate e le sue sopracciglia curate valorizzavano due begli occhi color muschio. Io ero molto più magra, i miei capelli avevano sempre un che di selvatico e le mie sopracciglia fin troppo folte erano spesso aggrottate su due comunissimi occhi marroni. Anche senza contare la cura del look, esteticamente ero decisamente meno interessante di Rossella, agli occhi di un maschio. Insomma, per farla breve la domanda di Rossella era la stessa che mi ponevo io. A pranzo Rossella tentò di coinvolgere mamma, papà e nonna Rosa con i suoi pettegolezzi, ma con mio enorme sollievo nessuno la filò.
“In fondo Tobia Lazzari ha solo salutato Lena” replicò mamma con voce neutra “Non mi sembra il caso di farci sopra dei film.”
“Ma mamma, non capisci?” squittì Rossella frustrata “Non è stato solo il saluto: è stato l’atteggiamento generale. Scommetto che è sceso apposta a prendere il gelato perché ha visto Lena in gelateria.”
“Che stupidaggini.” sbuffai io con convinzione, ma Rossella non aveva ancora finito.
“Sì, deve essere così” continuò infervorata “Infatti, Saverio non mi è sembrato affatto contento.”
Io appoggiai le posate nel piatto con un rumore secco.
“Adesso, basta, Ross” dissi con un tono di voce molto determinato “Hai decisamente sniffato troppa lacca. Piantala di ricamarci sopra. Mi ha. Solo. Salutato. Chiaro?”
Rossella serrò le labbra, ubbidendo di malumore e fortunatamente mi tenne il broncio per tutto il giorno. Quella sera scesi di nuovo in paese con mia sorella, pentendomi subito amaramente: fui bersagliata di domande e finii al centro dell’attenzione con mio enorme disappunto. Ovviamente, non potei dire niente di nuovo, così mi sorbii ore e ore di elucubrazioni sulla divina famiglia Lazzari da parte dei miei amici. La cosa mi disgustò così tanto che per i due giorni successivi snobbai il gelato serale e le insistenti richieste di Rossella perché andassi con lei in paese. Non le piaceva scendere in  paese da sola (non era fine, secondo il suo snobissimo parere); poi, mi assicurò che nessuno mi avrebbe prestato più attenzione per il Mirabolante Episodio del Saluto di un Lazzari al Pianeta Terra. Così, la terza sera tornai in gelateria e effettivamente notai con sollievo che le cose erano tornate normali. A dire il vero, un po’ c’ero rimasta male che si fosse tutto concluso in una bolla d’aria. Chissà perché, mi ero convinta che Tobia avrebbe trovato un motivo per incontrarmi di nuovo e invece passarono due giorni senza che da Villa Lazzari uscisse un solo divino capello degli abitanti. Il terzo giorno, Sabrina e io incrociammo Ruggero che scendeva verso il lago con l’attrezzatura da windsurf. Fu cortese e freddo come merluzzo surgelato: il suo commento sul cielo sereno fu brevissimo e i suoi saluti rapidi e indolori. Non capivo bene se fossi delusa o sollevata: forse entrambe le cose, cogitai quella sera seduta sul davanzale. Decisi che non era poi così importante: in fondo, Tobia era solo un ragazzo e io dovevo smetterla di sentirmi così…. interessata, per usare l’eufemismo di Martina. Anzi, magari quello era un segno: finalmente i miei ormoni si erano mossi e presto mi sarei presa una cotta. Una normalissima cotta estiva per un bravo ragazzo, magari un turista, magari uno studente spiantato come me, che non aveva Maserati lucenti ad aspettarlo né fratelli ostili alle calcagna.
Fui lì lì per sperarlo davvero.
*    *       *
Tutti i giorni andavo a prendere l’acqua alla fonte col mio bottiglione e nonna Rosa, sorpresa da tanto zelo, mi aveva regalato un cappello di paglia tutto mio. Era così grande e rotondo che sembrava un disco volante e io, appena girato l’angolo, me lo toglievo subito perchè speravo di abbronzarmi un po’. Avevo già assunto una leggera tonalità beige e speravo di arrivare a un ragionevole color teak entro settembre. Anche i capelli si erano schiariti leggermente. Guardandomi allo specchio mi trovavo quasi carina… la faccenda degli ormoni diventava ogni giorno più plausibile. Merito anche delle allusioni di Filippo, in gelateria: diventavano ogni sera più specifiche e imbarazzanti. I primi giorni, quando andavo alla fonte, avevo il cuore in gola per il pensiero di poter incontrare di nuovo Tobia. Man mano che il tempo passava, l’emozione scemava e la speranza di rivederlo si riduceva a zero. Ma non desistevo, più che altro perché avevo la nebulosa impressione che il mio viavai al limitare del loro territorio avrebbe infastidito i Lazzari, e la cosa solleticava la mia vena sadica. Anche quel giorno, mi incamminai lungo il sentiero fischiettando. Era una mattina frizzante e limpida, con un cielo azzurro terso che sembrava dipinto con l’acquerello. Avevo indossato un paio di calzoncini corti e un top senza maniche per concedermi un po’ di abbronzatura e avevo legato i capelli in due buffe trecce che dondolavano dietro la schiena. Mi sentivo molto bene, in pace col mondo e con me stessa e l’ultimo pensiero che avevo al mondo era Tobia Lazzari e la sua impareggiabile famiglia. Fu con autentica sorpresa che lo trovai alla fonte, seduto con circospezione sul bordo della vasca.
“Buongiorno.” mi salutò scattando educatamente in piedi e regalandomi un gioviale sorriso.  
“Ciao.” risposi arrossendo leggermente: la sorpresa mi aveva fatto partire in quarta il cuore e ci misi qualche secondo a raccapezzarmi.
Lui rimase in pedi a debita distanza: quel giorno indossava un paio di pantaloni di lino bianchi, un’ampia camicia di tela grezza e i capelli scuri e scompigliati catturavano alcuni raggi di sole rimandando riflessi mogano. Era bello come un Dio, pensai affascinata e vagamente vergognosa del mio aspetto da campagnola con le trecce e il cappello di paglia.
“Vedo che sei ancora di corvée ai lavori pesanti.” sorrise Tobia indicando il mio bottiglione.
“L’idratazione della famiglia dipende tutta da me.” commentai drammaticamente mentre mettevo il bottiglione sotto il getto di acqua fresca.
Ero felice e lusingata di rivedere Tobia. Era ovvio che non avesse nessun motivo al mondo per trovarsi lì tranne rivedere me. Ovvio? Meglio accertarsene.
“Sei venuto anche tu a prendere l’acqua?” domandai salottiera.
Tobia mi sembrò leggermente in imbarazzo: si mise le mani in tasca e fece un sorriso coraggioso.
“Bè, in effetti no” rispose con voce musicale “Speravo di rivedere te.”
Ops, che botta, pensai arrossendo immediatamente come un San Marzano da sugo. Se ci fosse stata Rossella probabilmente a quel punto sarebbe svenuta. In effetti, anche io ero lì lì per schiantare a terra dalla sorpresa.
“Ehm… bè, grazie, io… ehm…” balbettai, alla deriva.
Tobia sorrise sollevato: però nei suoi occhi non c’era malizia, solo un’espressione ansiosa e guardinga insieme, come lo sguardo di un cucciolo che non sa bene se scodinzolare o no.
“Mi sei sembrata simpatica e… rilassata” continuò Tobia tentennando sui termini “La maggior parte della gente qui ci tratta come se fossimo delle statue di cristallo. E si agita quando ci parla.”
Cosa che stava succedendo anche a me, per l’esattezza: cercai di mascherare l’emozione e mi sedetti sul bordo della vasca di mattoni.
“Devi ammettere che la tua famiglia mette soggezione” spiegai cercando di risultare il più possibile naturale “E poi non è che diate molta confidenza alla gente del posto.”
Tobia sembrò innervosito dal discorso e si affrettò a cambiarlo velocemente.
“Hai un modo di parlare molto strano per una ragazza della tua età” mi disse con voce vellutata “Parli lentamente e usi dei termini ricercati… si vede che sei una che legge molto.”
Quell’apprezzamento mi fece particolarmente piacere e mi irritò allo stesso tempo: in genere, per i maschi, una ragazza che legge troppo è sinonimo di noia mortale. Non volevo che Tobia pensasse questo di me.
“Pensare bene a quello che si dice e cercare le parole più corrette per esprimere un concetto non è sinonimo né di noia mortale né di reddito alto” risposi guardinga “Voi ragazzi fate sempre di tutta l’erba un fascio: conosco un sacco di ragazze intelligenti che sanno esprimersi con un italiano corretto e sono anche brillanti e simpatiche.”
Tobia sorrise di nuovo e di nuovo non potei fare a meno di pensare che era davvero bellissimo con quella pelle liscia e perfetta e quegli occhi di foresta.
“Guarda che il mio era un complimento” specificò con leggerezza “Anche a me piace molto leggere.”
“Davvero?” risposi rinfrancata “E cosa stai leggendo ultimamente?”
Tobia mi rispose in maniera dettagliata, citando qualche titolo che non avevo mai sentito e qualcun’altro che invece avevo letto anche io. Sembrava cauto e anche sottilmente imbarazzato; questo mi fece capire che parlare con una persona estranea era una cosa che non faceva spesso. Il bottiglione era abbondantemente pieno e dopo un po’ un campanello di allarme dentro la testa mi avvisò che era molto meglio non esagerare: avevo già incamerato abbastanza cose su cui pensare, sufficienti per tutto il mese. Mi caricai il bottiglione in braccio e prima ancora che Tobia potesse di nuovo offrire il suo aiuto feci un bel sorriso di circostanza.
“E’ stato un piacere rivederti” dissi in fretta avviandomi lungo il sentiero “Buona giornata.”
Tobia sembrò intristito, nonché vagamente scandalizzato: probabilmente non era abituato a essere congedato per primo e si stava chiedendo come mai non schiattassi ai suoi piedi come facevano tutte. Francamente me lo stavo chiedendo anche io.
“Magari ci si vede domani” disse titubante “Se non ti dispiace.”
Di nuovo il mio cuore fece un paio di avvitamenti fuori programma.
“Certo che non mi dispiace” risposi il più cordialmente possibile “A domani, allora.”
Lui mi sorrise e si allontanò nel bosco dalla parte opposta, con il suo passo elastico e elegante. Io rimasi ancora qualche secondo a metabolizzare l’accaduto prima di incamminarmi di buon passo verso casa.
*    *       *
Quella sera decisi di non andare in gelateria: tremavo al pensiero che Tobia ripetesse la performance del primo giorno e francamente non avevo nessuna voglia di subire di nuovo tutti quegli interrogatori imbarazzanti. Accampai un leggero mal di testa, cosa che mi risultò utile per spiegare anche lo scarso appetito, e mi chiusi in camera per sedermi sul mio fido davanzale. Non era ancora buio e il profilo della torretta di Villa Lazzari si stagliava contro il cielo indaco, ancora più lontana e misteriosa del solito. Stavo cercando di capire come prendere l’interessamento di Tobia. Da una parte ero lusingata, è ovvio, ma d’altro canto mi innervosiva pensare che, prima o poi, sarei stata al centro dell’attenzione. Ne valeva la pena? In definitiva, Tobia mi piaceva? Ecco la domanda chiave.
Ancora non lo sapevo. Certo, lui era bellissimo e affascinante e cercava persino di essere simpatico… Decisi di non volerlo sapere subito. Magari saremmo diventati amici o magari l’indomani Tobia non si sarebbe nemmeno presentato. In ogni caso, non era il caso di ricamarci troppo sopra: non volevo farmi contagiare dalle fantasie snobistiche di Rossella.
“E’ solo un ragazzo.” mi convinsi tra me e me.
Guardai fuori: la torretta si era illuminata, come se avesse voluto smentire le mie parole.
  
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