Piacevoli sorprese.
Delia è sempre stata più bella di me, non voglio
autocompatirmi, ma è cosi.
Delia è bella. Io sono
carina.
Lei è bionda. Io sono
mora.
Lei è alta. Io sono
bassa.
Lei ha la quarta di tette. Io ho la seconda.
Non ho uno straccio di possibilità di trovarmi un ragazzo
prima dello scadere dell’anno. Nessuno mi fila quando entrambe compariamo nella
stessa stanza. La sua bellezza è carismatica, attira anche un cieco.
Siamo due persone completamente diverse, ma una cosa ci
accomuna: il carattere. Non siamo delle schiocche che si lasciano travolgere
dagli eventi. Ci piace sfidarci… in continuazione.
Da piccole a monopoli. Da adolescenti con i ragazzi. E da
donne sul lavoro e i soldi. Piace a tutte e due sfoggiare la carta di credito
senza limiti ed acquistare l’ultimo paio delle mutande più brutte di questo
mondo è fantastico se una delle sue riesce ad acciuffarla prima dell’altra.
Amiamo la competizione e la parola perdere non risiede nel
nostro vocabolario.
Quando l’avvocato andò via, tutte e quattro iniziammo a
sistemare il soggiorno e la cucina senza dire una singola parola. Mary era
stranamente taciturna, mentre Claire non faceva altro che imprecare ogni volta
che trovava briciole di pane in mezzo ai cuscini delle sedie. Io e Delia ci
siamo evitate per le due ore successive mentre segretamente ci studiavamo a
vicenda.
Ho valutato i pro e i contro. Certo, i contro sono più dei
pro, ma posso riuscire nell’impresa.
Ho salutato tutte e tre due ore più tardi, pronta a tornare
nel mio appartamento. Gli ultimi due giorni sono stati estremamente faticosi,
dal decesso di nonna mi sono concessa poco, compreso il sonno. Ho bisogno di
dormire, di mettere in standby il cervello e lasciarmi cullare tra le braccia
di Morfeo.
Ad accogliermi dentro al mio appartamento c’è Toby, il mio
bastardino di due anni. L’ho adottato dopo aver mollato Max e le sue manie da
perfezionista. Toby è fedele, non parla, cerca solo da mangiare e vuole tante
coccole. L’uomo perfetto se non fosse un
cane.
Sbuffando tolgo i tacchi che massacrano i miei poveri piedi
e cammino fino in salotto, dove la lucetta rossa della segreteria segnala un
nuovo messaggio.
Premo il pulsante ed ascolto il messaggio vocale.
Bella,
sono Edward, sono due giorni che sei sparita…è tutto okay? Chiamami quando
torni dal funerale.
Merda. Mi ero
completamente dimenticata di lui.
Da quando si è trasferito a Houston non ci siamo più visti.
Lavora presso uno studio televisivo come cameraman in un show tv. Tornerà in
città la prossima settimana ed io non vedo l’ora di riabbracciarlo. È un buono
amico e un buon confidente.
Non ho mai pensato a lui in quel senso, come un uomo da
corteggiare e da amare. Però, una volta al liceo, lo ricordo come se fosse
ieri, ci siamo baciati.
In effetti, per lui, io sono stata il suo primo bacio, il
primo sfioramento di lingua. Poi tutto sfumò in qualcosa di umidiccio e
tremendamente bagnato. Non ricordo di chi era la saliva che colava dai nostri
menti, ma quella esperienza fu terrificante, a tratti traumatica. Non c’è stata
più occasione per replicare quel bacio. Negli anni siamo cresciuti, le nostre
esperienze si sono estese ed entrambi siamo maturati, lasciandoci alle spalle
quel disgustoso e imbarazzante aneddoto.
Nel tempo, dopo che le nostre strade si sono divise al
college, ci siamo visti si e no una quindicina di volte. È più di un anno che
non ci incontriamo. È venuto a trovarmi lo scorso Ottobre ed insieme abbiamo
passato il Ringraziamento con le mie cugine a casa di nonna. È stato il
delirio, le mie cugine gli hanno fatto mille domande, finché Mary con la solita
grazia che la contraddistingue non gli domandò se andassimo a letto insieme.
Pensavo che non mi avrebbe più voluto frequentare dopo
quell’esperienza, ma non è stato così… per fortuna.
Nonna aveva un’insana passione per Edward. Lo definiva il
ragazzo perfetto e non potevo darle torto, ma a volte esagerava con i
complimenti.
Insomma, lui è Edward, non ha nulla di speciale!
***
Il lunedì è il giorno che amo di più della settimana. Adoro
tornare a lavoro, soprattutto dopo aver trascorso quasi quarantottore insieme
alle mie cugine. Delia questa notte mi ha inviato un messaggio sul cellulare.
C’era scritto: Vincerò
io, stanne certa.
Mentre Mary mi ha chiamato di prima mattina, chiedendomi se
potevo passare da lei nel pomeriggio. Non mi ha detto il perché, ma sospetto
che c’entri qualcuno dei suoi pargoli.
Claire, invece, ancora non si è fatta sentire, ma di solito
lei chiama all’ora di pranzo, cercando di spillarmi più informazioni possibili
sul mio capo. Un gran pezzo d’uomo, a detta sua.
Trovo Alice, la mia collega d’ufficio, in postazione: cuffie
all’orecchio, dita che digitano freneticamente sulla tastiera del computer e
solito sorriso allegro a dipingere il suo piccolo viso.
Alice Brandon è la miglior persona che ho conosciuto qui
dentro. È affabile, simpatica, non s’impiccia degli affari tuoi e qualche volta
si improvvisa mia consulente personale su uomini e sesso.
«Signore, quale delle mie parole non ha capito? Un’
aspirapolvere non è un aspira chiodi, non dovrebbe chiamare per queste
sciocchezze!», risponde ad un tizio al telefono.
Ahimè, il mio lavoro è abbastanza particolare. Diciamo che
lavoro in una grande azienda di elettrodomestici, nel reparto che molti evitano
come la peste: il reclamo clienti.
Avete presente quando comprate un prodotto e nel manuale
d’istruzione c’è la frase: per qualsiasi esposto chiamate il numero verde?
Io sono una delle dodici persone che dalla mattina alla sera
in questa stanza si occupa di anonimi inferociti che se la prendono con me e i
miei colleghi, per problemi che non stanno né in cielo né in terra.
La
pentola a vapore non manda vapore. Il forno a microonde che non gira. La scopa
elettrica che non spazza.
Tutte sciocchezze che sentite per dodici ore di fila
rischiano di farti uscire fuori di testa.
Lavorare a servizio dei clienti è un completo schifo. Sei
costretta ad umiliarti ed a soccombere a ogni genere d’insulto pur di tenerti
stretto il posto di lavoro. Lo faccio perché mi servono i soldi per mantenermi
e finire l’università, ma se nonna non fosse stata così stronza da non
lasciarmi neanche un centesimo a quest’ora avrei mollato tutto e continuato gli
studi con più tranquillità.
Il mio sogno da bambina era di diventare una professoressa
di storia. Amo la storia, mi piace perdermi per ore nella pagine che raccontano
la rivoluzione francese o le cause che scatenarono la prima guerra mondiale.
Adoro anche i costumi d’epoca e ogni tanto mi diverto a riprodurne qualcuno con
le mie stesse mani. Le occasioni per indossarli sono sempre poche, ma quando si
presenta Halloween o Carnevale sono la prima ad entrare nei panni di Maria Antonietta.
Un giorno, spero il più vicino possibile, riuscirò a realizzare
questo mio piccolo grande sogno.
Alice sbuffa e con un colpo secco toglie le cuffie
dall’orecchio. Il cliente le ha chiuso la chiamata in faccia, si capisce dal
suo sguardo furibondo.
«Accidenti, mi sono rotta di questa merda. Prima o poi mando
a fare in culo tutto!», impreca.
Mi sono dimenticata di aggiungere che Alice, a livello di
cafonaggine, si avvicina molto a Mary. Il suo linguaggio è abbastanza colorito,
farebbe impallidire anche un ragazzino di diciassette anni che, in teoria, a
parolacce dovrebbe essere più fornito.
«Che bello quest’aria dall’allegria ogni volta che entro»,
dico sarcastica.
Mi siedo nella scrivania accanto a quella di Alice ed inizio
ad accendere il computer. Metto anche le cuffie, strumento indispensabile per
comunicare con il cliente inappagato dal prodotto che ha acquistato.
«Mi dispiace per tua nonna. Sono imperdonabile, non sono
venuta al funerale. Scusami, ma Jeremy ha avuto la febbre», mormora
dispiaciuta.
«Tranquilla, sei una ragazza madre…non è colpa tua», faccio
spallucce e sospiro sconfortata all’idea che da un momento all’altro il primo
stronzo insoddisfatto della giornata m’inonderà di lamentale inutili e
insensate.
«Ehi, è un offesa?», mi domanda.
Ridacchio sotto i baffi. «Ovviamente no, Alice…».
Parte uno squillo che mi annuncia la prima chiamata.
«Servizio clienti buongiorno, sono Isabella».
«Salve, il mio ferro da stiro non manda i due strati di
vapore per il quale lo comprato, eppure nella confezione c’era scritto: doppio
vapore».
Sul mio viso si dipinge un sorriso spontaneo. Non è una
casalinga disperata quella dall’altra parte della cornetta.
«Uaoh…non m’intendo di ferro da stiro, ma potrei passarle la
mia collega», sto al gioco.
«Uhm…lei è più carina».
«Ah si? Da cosa lo deduce?».
«Dalla voce».
«Perspicace, magari ha anche ragione».
«Certo. Io ho sempre ragione».
È meglio mettere fine a questa pagliacciata, prima che
qualcuno si accorga che invece di lavorare sto facendo la scema con il mio
migliore amico.
«Edward! Piantala, quante volte ti ho detto di non chiamarmi
quando sono a lavoro?». È impossibile ragionare con lui.
Se il capo mi becca a chiacchierare dei fatti miei sul
telefono dell’azienda mi licenzia su due piedi.
«Ma tu hai già spento il cellulare, ed io ti dovevo parlare
subito», si giustifica.
È vero, quando entro in azienda il telefono lo spengo per
ovvie ragioni.
«Potevi aspettare, che ne so, dopo le cinque?».
«No, perché quello che sto per dirti ti renderà la donna più
felice dell’intero universo».
Inarco un sopracciglio. «Addirittura?».
«Okay, spara», faccio con fare annoiato.
«Hai presente William
Turner, il tuo attore preferito?».
Certo che ho presente William
Turner. È stato per anni il mio idolo adolescenziale. Ho visto tutti i suoi
film, non ne ho perso neanche uno per strada. Davanti a “L’amore profondo” ho perso la mia verginità, anche se quella sera
di profondo c’era soltanto il mio dolore e non il piacere.
«Quindi?».
«Mercoledì è in trasmissione e, visto che sei la mia
migliore amica e si dà il caso che io faccia parte dello staff, sei invitata.
Ovviamente hai il pass per il dietro le quinte», sussurra allegro.
Il cuore fa una capriola nel petto…spero per lui che non mi
stia prendendo in giro.
«Edward, non stai scherzando, vero?». La mia voce si è già
alzata di una nota, manca solo che mi metta a saltellare sul posto.
«Ovviamente no, piccola». Dio, se mi chiama anche piccola…mi
sciolgo.
«A, sì, cioè…okay! Chiederò un permesso e verrò a Houston!»
esclamo contenta, facendo voltare incuriosita mezza stanza verso di me.
Abbasso la voce e mi schiarisco la gola. Vorrei sprofondare
per la vergogna, ma mi riprendo all’istante.
«Ehm, Edward, ci sentiamo dopo okay? Adesso devo andare.
Grazie, sei il migliore, ti voglio bene». Senza aspettare che risponda termino
la chiamata, premendo il pulsante che ho sulla tastiera.
«Mi chiedo quando ti deciderai a sposartelo» è il primo
commento di Alice, che per poco non mi fa andare di traverso la mia stessa
saliva.
«Alice, cazzo è il mio migliore amico…lo conosco da una
vita». Non riesco neanche ad immaginarmi nuda dentro ad una letto a fare sesso
con Edward, figuriamoci sposarlo.
«Hai mai visto Dawson’s
Creek? Anche lì sono tutti migliori amici, e poi si chiavano a vicenda».
***
Eccomi
qui ^^ Prima di tutto i miei ringraziamenti vanno a voi e all’entusiasmo che
avete mostrato per questo inizio di storia :D
In
questo capitolo è entrato in scena Edward, molte di voi si aspettavano che
fosse lo sconosciuto di turno del quale Bella si innamora? Su, dite la verità
;)
In
questa storia, il ruolo di Edward sarà abbastanza importante se non decisivo in
alcune fasi della vita della nostra eroina.
Ho
aggiornato prima del previsto, sono soddisfatta di me stessa xD Spero che questo capitolo sia gradito come il
precedente.
Perdonate
i vari errori, non ho riletto e molto probabilmente gli darò un’occhiata questa
sera.
William
Turner non è un attore, ma un pittore e incisore inglese dell’ottocento, ma
siccome in questo nome ci sono racchiusi due dei mie personaggi ammiro di più,
ho deciso di usarlo. William è il nome di uno dei miei attori preferiti,
appunto William Hurt, mentre il cognome “Turner” viene da un’altra persona che
stimo…Tina Turner, cantante sublime :D
Dawson
Creek lo conoscete tutti suppongo, non c’è bisogno che vi spiego cosa sia u.u
Con
questo vi saluto ed io me ne vado a nanna :P
Un
bacione e alla prossima!