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Autore: Emily Kingston    08/09/2011    3 recensioni
Hermione Granger non ha mai ricevuto la sua lettera per Hogwarts e Ronald Weasley ha sviluppato un innato interesse per la Londra Babbana.
“Che c’è? Io sono cosa?” domandò la ragazza, gesticolando.
Ron deglutì, sbattendo le palpebre.
“In mezzo al tavolo.”
Ed era così. Hermione, la strana ragazza che appariva nel suo appartamento, si trovava in mezzo al tavolo, il suo corpo metà sotto e metà sopra.
Ci era passata attraverso.
Genere: Commedia, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hermione Granger, Ron Weasley | Coppie: Ron/Hermione
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Everybody needs inspiration

Hermione Granger si trovava in mezzo ad una stretta strada affollata. I piedi saldamente posati sulle pietre grigie dello stradello e gli occhi che viaggiavano tutt’intorno, smarriti.
Strane persone, con alti capelli a punta, lunghe tuniche dai colori brillanti, o vecchi abiti logori, camminavano avanti e indietro lungo quella via.
Alcuni tenevano in mano degli ampi calderoni color nero pace, altri gabbie con dentro gufi e civette, altri ancora andavano in giro facendo levitare alle loro spalle buste piene di strani oggetti – simili alle provette che usavano all’ospedale per conservare le analisi del sangue.
Si morse lievemente il labbro, muovendo qualche passo lungo la via, notando gruppetti di bambini che si ammucchiavano davanti alla vetrina di uno strano negozio che esponeva scope, e ragazzi più grandi che entravano ed uscivano da uno strano negozio, di un arancio acceso, che si trovava in fondo alla via.
Tiri Vispi Weasley, lesse.
Scosse il capo; non ricordava che a Londra ci fossero quartieri del genere, anzi era ragionevolmente sicura che non ce ne fossero.
Improvvisamente tutto iniziò a vorticare attorno a lei mentre una voce soave, che sembrava venire da molto lontano, la chiamava.
Aprì piano gli occhi, uscendo con delicatezza dal sogno, e si ritrovò faccia a faccia con Showna, una ragazza dalla carnagione scura e dai grandi occhi marroni.
Stava sorridendo.
“Quanto ho dormito?” chiese, con uno sbadiglio, raddrizzandosi sulla sedia.
Fece una piccola smorfia a causa del mal di schiena, causato dalla posizione scomoda, e tornò a guardare Showna negli occhi.
“Sei minuti.”
Hermione annuì e si alzò, dirigendosi meccanicamente verso la macchinetta del caffè, ordinandole di fare un caffè lungo doppio, con poco zucchero.
“Sono più di ventitré ore che sei qui, va a casa,” le suggerì Showna, poggiandole una mano sulla spalla. Hermione scosse la testa, afferrando la sua tazza, ora piena di caffè, e portandola alle labbra. Era una bella tazza bianca con su scritto il suo nome a lettere colorate, l’aveva portata da casa.
“A casa sarei totalmente inutile, qui invece posso servire a qualcuno,” osservò, versando il resto del caffè nel lavandino; afferrò lo stetoscopio e lo appese al collo mentre usciva dalla stanzetta e si dirigeva con Showna lungo il corridoio.
Il via, vai di infermieri, medici e pazienti, le investì, insieme al quasi fastidioso odore di disinfettante di cui era pregna la stanza.
Percorsero il lungo corridoio fino ad arrivare nei pressi della segreteria dove, da dietro al banco, Amy fece loro un cenno di saluto.
“Dovresti fare pausa e lo sai,” le sussurrò Showna all’orecchio, mentre Hermione salutava un paio di colleghi con un sorriso radioso.
“E tu sai che una pausa mi porterebbe allo sconforto,” ribatté, tra i denti, continuando a spargere sorrisi a pazienti e membri del personale. “E lo sconforto mi porterebbe sul mio divano, immersa nel pigiama di flanella che mi sono regalata lo scorso Natale, con in mano un barattolo di gelato e le lacrime agli occhi per colpa di una maledetta soap-opera americana.”
Hermione lanciò a Showna uno sguardo tagliente, farcito dal sopracciglio destro appena alzato, ed aprì una porta bianca, irrompendo nella stanza.
La sua espressione, da assassina e severa, mutò in dolce e comprensiva quando i suoi occhi incontrarono quelli del paziente steso nel letto.
“Cos’abbiamo?” chiese, afferrando la cartellina che le porgeva un infermiere.
“Ha avuto qualche problemino con il suo diabete,” spiegò spiccio, il ragazzo, soffermandosi ad osservare Hermione con un mezzo sorriso.
Lei lo ignorò, rimettendogli la cartellina tra le mani per dirigersi verso il paziente.
“Allora, come si sente, signor…”
“Anderson,” si affrettò a rispondere l’infermiere. “Micheal Anderson.”
Hermione annuì, riportando lo sguardo sull’uomo anziano steso nel lettino.
Showna nascose un sorrisetto quando, con un movimento impercettibile, Hermione fulminò il giovane infermiere che le stava guardando il sedere.
“Tenete d’occhio la sua pressione per un paio di giorni, se va tutto bene rimandatelo a casa,” sussurrò Hermione all’infermiere che, un lampo d’imbarazzo negli occhi, annuì ed uscì dalla stanza.
“Posso fare qualcosa per farla stare meglio, signor Anderson?” chiese dolcemente, rivolgendosi di nuovo all’uomo nel lettino.
Quello annuì, biascicando a vuoto un paio di volte prima di mettersi a sedere e sussurrare, con una scintilla eccitata nella voce: “Vuole sposarmi?”
Showna dovette ficcarsi un pugno in bocca per non scoppiare a ridergli in faccia mentre Hermione, continuando a sorridere, annuiva, accondiscendente.
“Certo signor Anderson,” rispose, dando una gomitata alla collega prima di uscire con lei dalla stanza.

Hermione Granger aveva venticinque anni, una carriera piuttosto avviata all’ospedale St. Patrick di Londra ed un piccolo appartamento nel West End, in cima ad un alto palazzo in Regent Street che, nonostante la scomodità delle scale, possedeva la miglior vista di tutta la città. Era uscita dalle scuole superiori con ottimi voti e, dopo anni di incertezze e tentennamenti, aveva deciso: voleva fare il medico. Da lì, fino al suo ingresso all’ospedale, era stata tutta discesa. La sua buona preparazione di base le aveva permesso l’ingresso all’università di Londra senza problemi, ed anche la sua laurea era arrivata con facilità e successo, procurandole le adeguate referenze per un posto al St. Patrick come praticanda a soli due mesi dalla fine dei suoi studi.
Da quando aveva iniziato a lavorare all’ospedale la sua vita era stata assorbita quasi totalmente dai suoi compiti di medico, passava la maggior parte del tempo a lavoro, ritornando a casa la sera tardi ed uscendone la mattina presto.
Si concedeva una pausa dall’ospedale solo quando incappava in qualche evento particolare, come il compleanno di uno dei suoi genitori o un’improvvisa influenza dalla quale, il suo essere medico, non la rendeva certo immune.
La sua famiglia ed i suoi colleghi erano per lei una cosa intrinseca, viveva l’ospedale e con lui tutti coloro che lo abitavano; interagendo con loro tutti i giorni si era fatta degli amici, come Showna ed Amy della segreteria, ed aveva fatto di alcuni suoi superiori i suoi mentori, come ad esempio Christina Yard, la donna alla quale doveva praticamente tutto ciò che conosceva della medicina da praticare sul campo.
Era una ragazza felice; una soddisfatta e felicissima donna in carriera che amava il suo lavoro ed era in attesa di una promozione, per la quale aveva fatto non pochi turni extra negli ultimi mesi.
Showna le diceva spesso che avrebbe dovuto farsi una vita sociale e sua madre non faceva che chiederle quando si sarebbe trovata un uomo decente con il quale condividere l’esistenza.
E lei ogni volta annuiva e diceva che ci avrebbe pensato presto, ma la verità è che le andava bene così, non sentiva né il bisogno di andare in giro per i pub il sabato sera, né di trovarsi un ragazzo. Era apposto così, con la sola compagnia di se stessa e dell’ospedale.
Sorrise soddisfatta in direzione del tabellone dei turni e, con un sospiro, riprese a camminare per il corridoio, assalita saltuariamente da infermieri e colleghi che le chiedevano una consulenza.
“Incidente stradale nella City, ambulanza in arrivo.” Una giovane infermiera dal camice rosato si era fermata davanti al signor Tight, il direttore dell’ospedale.
Lui le sorrise e si voltò verso l’imboccatura del corridoio dove, con un sorriso speranzoso, Hermione aspettava a fianco di un giovane ragazzo alto dall’aria composta.
“Da quanto tempo sei qui?” domandò l’uomo al ragazzo.
“Diciassette ore, signore,” rispose quello, sorridendo.
“E tu?”
Hermione arrossì, abbassando il capo.
“Un po’ di più,” confessò, rifiutandosi di ammettere che erano ben ventisette ore che non metteva piede fuori dall’ospedale.
“Vai tu Miles, tu, signorina, sei qui da troppo tempo,” annunciò, guardando Hermione con occhi severamente divertiti.
Miles annuì e, combattendo contro un sorrisetto di vittoria, sparì nel corridoio, diretto al parcheggio dell’ospedale.
Hermione abbassò le spalle e si voltò, pronta per andare a prendere un caffè.
“Hermione?” la ragazza si voltò, il signor Tight, di fronte a lei, le sorrideva. “Vai a casa, sei qui da ventisette ore.”
La ragazza spalancò gli occhi ed annuì.
“Sì, signore.” assicurò, dandogli nuovamente le spalle.
“Quasi dimenticavo,” aggiunse l’uomo, portandola a voltarsi ancora una volta nella sua direzione. “Il posto di caporeparto è tuo.”
Hermione trattenne un gemito emozionato e, incapace di contenersi, si lasciò andare ad un enorme e brillante sorriso, balbettando incoerentemente che non l’avrebbe deluso e che avrebbe dedicato anima e corpo al suo nuovo incarico.
“Oh, so che sarai perfetta. Ma ora, a casa.”
“Sì. Grazie signore, grazie infinite,” aggiunse, prima di incamminarsi con passo svelto verso la stanzetta dove facevano la pausa.
Aprì la porticina bianca ed andò a sedersi su una delle sedie intorno al tavolo, lo sguardo vacuo che vagava sulla parete grigia di fronte a lei.
“Lo sapevo che lavorare troppo ti avrebbe reso idiota,” sbuffò Showna, entrando nella stanzetta con l’aria di una che aveva passato una giornata piuttosto pesante.
Hermione le sorrise ampiamente.
“Ho avuto il posto,” pigolò, l’emozione era così forte che le risultava difficile parlare.
Showna spalancò gli occhi e la guardò.
“Lo sapevo,” sussurrò, più a se stessa. “Lo sapevo!”
Corse ad abbracciarla ed Hermione si lasciò andare ad un’allegra risata argentina, mentre con Showna saltellava per la stanza.
“Devo andare a dirlo ai miei,” esclamò all’improvviso, lanciando uno sguardo all’orologio. “Le otto, faccio ancora in tempo se mi sbrigo.”
Showna ridacchiò, vedendola saettare da una parte all’altra della stanza nel tentativo di raccattare tutte le sue cose.
Hermione si sfilò velocemente il camice e lo appallottolò, infilandolo nel suo armadietto da quale tirò fuori il cappotto e la borsa. Prese la sua tazza dal lavandino e, lanciato un sorriso emozionato a Showna, si precipitò verso l’ascensore.
Il parcheggio era poco illuminato quella sera, un paio di lampioni si erano fulminati e la visibilità era ridotta. L’asfalto era scivoloso a causa della pioggia che era caduta incessantemente per tutto il pomeriggio ed il cielo era ancora nuvolo, nonostante avesse smesso di piovere da diverse ore.
Hermione, comunque, individuò la sua auto grigia parcheggiata tra una decappottabile bordò ed una mini nera.
Nella fretta infilò un piede in una pozza ma, nonostante l’acqua le avesse riempito le scarpe, non ci fece caso e saltò a bordo, mettendo in moto ed immettendosi in strada.
Frugò nella borsa, appoggiata al sedile del passeggero, e ne tirò fuori il suo cellulare; tenendo un occhio sul display ed uno sulla strada, digitò il numero di casa dei suoi e si portò l’apparecchio all’orecchio, attendendo che dall’altra parte rispondessero.
“Pronto?” la voce di suo padre suonava assonnata, forse si era appisolato sul divano guardando la televisione.
“Papà? Sono io, Hermione”
“Oh, ciao tesoro. Che c’è? È successo qualcosa?” anche se cercava di mantenere un tono di voce neutro, Hermione avvertì comunque una punta di preoccupazione tra le sue parole.
“No, tranquillo papà, va tutto bene. Sono appena uscita da lavoro e mi chiedevo se potevo passare da voi per una visita, avrei una cosa importante da dirvi” incrociò le dita, gli occhi puntati sull’asfalto di fronte a lei ed il telefono intrappolato tra la gota e la spalla.
“Ma certo, vieni pure quando vuoi,”la rassicurò il padre. “Dico a tua madre di mettere su il tè”
Hermione sorrise, anche se lui non poteva vederla, e concluse la telefonata dicendo che sarebbe stata lì in pochi minuti, il tempo di arrivare.
Con un sospiro eccitato lanciò il telefonino sul seggiolino del guidatore e tornò a concentrarsi pienamente sulla guida.
Accese la radio a basso volume; anche se di solito non le piaceva ascoltare musica in auto quella sera si sentiva così euforica che non si curò di dove fosse.
Iniziò a canticchiare tra sé la canzone, battendo appena il rimo con i palmi delle mani contro il volante, quando una potente luce bianca la abbagliò, ostruendole la vista.
Incapace di vedere la strada sterzò, sperando di finire addosso a qualcosa, magari un cassonetto o una pompa dell’acqua, che l’avrebbe fermata.
Nulla, però, arrestò il percorso della sua auto, sentì solo il suono prolungato di un clacson che veniva suonato e lo stridio di un freno premuto all’ultimo minuto, seguiti dalla strana sensazione di fluttuare nell’aria.

   
 
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