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Autore: Callie_Stephanides    25/09/2011    7 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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6.
Castigo

All’alba appartiene una lucidità imprevista; un guizzo di consapevolezza che sfugge all’ora media. È quasi quella luce particolare, impalpabile eppure prepotente, che annuncia il levarsi della stella, riesca a espugnare i pertugi più bui dell’animo, fugandone le ombre.
Alla notte appartiene la folle disperazione della preda braccata; al mattino, il sollievo della speranza.
Avevo pianto tanto – di paura, rabbia e rimorso – che il nuovo giorno mi sorprese asciutta. Seduta al capezzale di mio fratello, ne fissavo il profilo e cercavo Vinus.
 
Conosci il tuo nemico.
 
Era un monito antico, che mi ero concessa di accantonare. Figlia dell’arroganza della ragione, avevo dimenticato il valore del cuore, e l’incredibile potere che nasce solo dalla comprensione.
Non potevo distruggere chi non capivo.
Non potevo espugnare una fortezza di cui ignoravo bastioni e crepe.
“Non mi assenterò per molto,” dissi a Melian. “Se Rael dovesse svegliarsi, anticipagli che avrà molto di cui preoccuparsi.”
La figlia di Luthien mi sorrise, e sulla sua bocca colsi l’impronta di sentimenti che non possedevo: la fiducia, la tenerezza, la compassione.
 
Guardava me, la donna più potente di Eleutheria, con un misto di condiscendenza e di pena: sola e sconfitta, mi rifugiavo tra le pieghe del manto ormai liso del mio orgoglio, ma era una posa.
Ridicola.
 
“Lo farò,” fu la parca replica che accompagnò la mia fuga.
Il cielo era di nuovo terso. Il sole, abbagliante, mi feriva la retina.
Leonar mi aveva indicato il cammino: a me stava percorrerlo, senza paura.
 
Chi era, Vinus?
 
Quello era l’interrogativo fondamentale, poiché tutto – da un massacro annunciato a una sopravvivenza imprevista – si legava al capriccio del Drago Nero.
Se fossi stata più lucida e attenta, avrei colto nell’evidente contraddittorietà delle sue scelte la debolezza di chi chiamavo ‘nemico’.
Mi ancoravo ai fatti, tuttavia, senza indagare i motivi: forse già intuivo che per intendere questi ultimi avrei dovuto sfiorare il cuore di Vinus, e penetrare il mistero di un uomo che mi somigliava in modo intollerabile.
Un uomo che la fragilità di un momento aveva condannato a morte.

*

È una curiosa bilancia, la Vita: la speranza dell’uno è la disperazione di un altro.
A una vittoria, fa sempre da contrappeso una sconfitta. Al delitto, l’inesorabile castigo.
Trier era ormai un puntolino alle sue spalle, quando quella certezza investì Vinus: Koiros l’avrebbe fatto a pezzi.
La schiavitù aveva spazzato via presto le rade illusioni di una vita distrutta, ma se anche ne avesse conservata qualche briciola, senz’altro non l’avrebbe spesa per sé.
 
Ho disobbedito. Me la farà pagare.
 
Non fatico a immaginarlo, solo, alla testa dei cavalieri. Il capo chino, le labbra strette. Gli tremano le mani al punto che fatica a stringere le redini. Niktos, sensibile ai suoi stati d’animo, libera nel vento bramiti lugubri quanto un’agonia.
“Risparmiati per quando ne avrò bisogno,” dice – e la sua voce s’ode appena.
Sa perché l’ha fatto: è quanto lo destina a una condanna capitale.
Se fosse stato sconfitto, se avesse permesso al nemico di penetrare le sue difese, Koiros non infierirebbe: è il miglior cavaliere dell’armata, Vinus di Venusya. È il Drago Nero e gli serve.
Ma Vinus non ha perduto: Vinus si è rifiutato di combattere.
 
“Tu sei morto, lo sai?”
 
Implacabile come il vento, la voce di Lethor lo raggiunge da tergo. L’erede di Lephtys non muove un muscolo, poiché qualunque reazione avrebbe il sapore di una resa.
Il signore delle viverne non è ancora un avversario alla sua portata: per quanto abile sia con la spada; per quanto affinato sia il suo istinto guerriero, Lethor è un demone.
I demoni puoi temerli, ingannarli o blandirli, ma vincerli mai.
La mutilazione che gli ha inflitto è stata poco più di un colpo di fortuna. Come tutti i soldati esperti, tuttavia, Vinus conosce la prima e più antica delle leggi sul campo: la buona stella brilla una sola volta e per sempre, poi devi cavartela da solo.
“Cosa ti ha suggerito la tua…”
 
Vinus morde rabbioso le labbra. “Non ho paura di te. So come si vince una guerra e tanto basta al nostro signore.”
Sta mentendo e lo sa. Lo sa anche Lethor.
 
Io non combatto per l’assassino di mio padre.

*

Negli occhi d’oro di Rael, come nella mia implacabile sete di vendetta, il principe degli ophelidi aveva colto una luce che aveva perduto: un desiderio appassionato di vita.
Non avevamo speranze, noi due, prostrati ai suoi piedi, feriti e sconfitti, eppure non esitavamo a sfidarlo. La nostra paura ci rendeva più forti, non deboli, né arrendevoli; ci destinava a un’impresa che il principe di Lephtys era troppo vigliacco anche solo per immaginare.
Senza saperlo, dunque, l’avevamo inchiodato alla sua miseria e pietrificato, perché gli avevamo ricordato come voleva essere: un drago, non uno schiavo. Ucciderci sarebbe stata ancora un’ammissione di resa; risparmiarci, l’espressione orgogliosa del potere di un re.
Per la legge di Koiros, tuttavia, non vi era crimine peggiore della disobbedienza, poiché naturale corollario di un vizio intollerabile: la libertà.
 
Vinus non mi ha mai raccontato quel che accadde come raggiunse la piana di Mizar, ma l’ho letto comunque: sulla sua pelle.
 
“Le tue urla saranno musica per le mie orecchie e del tuo sangue nutrirò le mie sorelle,” insinuò feroce Lethor. “Perché tu hai visto di cosa è capace il nostro signore, Vinus, e l’essere suo figlio non ti risparmierà.”
 
Essere suo figlio.
Essere un cane.
 
Vinus strinse le cosce ai fianchi del liocorno e lo spronò a una cavalcata selvaggia; andava incontro alla morte come sfidava la vita: a testa alta e con gli occhi asciutti.
Come me.

*

Koiros lo stava aspettando, e sue erano la pazienza del ragno e la ferocia del lupo.
Non aveva mai fretta di uccidere, il signore dell’Icengard, perché il tempo è il maglio del sadico capace.
“Non c’è bisogno che confessi, figlio,” sibilò freddo, come il principe di Lephtys abbandonò il liocorno e gli si fece incontro. “La voce del vento mi ha raccontato della tua ingratitudine.”
Vinus ne sostenne lo sguardo, senza tremare. Era un cucciolo pericoloso, ma quell’orgogliosa disobbedienza glielo rendeva caro, poiché la vittima che offre la gola è anche quella che ti priva del piacere della conquista.
 
“O le viverne di Lethor.”
 
Koiros passò la lingua sulle lucide zanne da predatore.
Un impercettibile sussulto scosse il Drago Nero, strappandogli un sorriso perverso.
 
Trema, bambino, trema: sta per arrivare il castigo.
 
“Tu sai qual è la pena per chi tradisce, vero?”
 
Vinus serrò i denti e annuì a capo chino. Le chiome erano un abbagliante sudario che gli velava il viso.
“Tuttavia desidero darti un’opportunità; sei pur sempre mio figlio, e un padre ha il dovere d’essere sì duro, ma soprattutto magnanimo.”
 
La tortura era cominciata: in luogo della violenza sferzante del ferro, del cuoio e del fuoco, stillava il miele velenoso delle parole, ma non c’era via d’uscita. Aveva peccato d’orgoglio e sarebbe stato punito mille e mille altre volte ancora.
 
“Come desiderate, grande Koiros.”
 
Inghiottita dal bramito dei liocorni e dal vento che spazzava la piana, era un’ammissione di resa.
 
“Al levarsi della prima stella, ti presenterai al mio cospetto. Mi affronterai davanti ai tuoi uomini, perché sappiano che non c’è altra autorità se non la mia. Se riuscirai a colpirmi almeno una volta, avrai salva la vita e il mio perdono.”
 
Vinus ringraziò.
Ai suoi occhi, il cielo era vuoto e la terra morta: non c’era preghiera che potesse salvarlo.

*

Mentre il principe di Lephtys si apprestava a vivere l’ora più buia di una vita già disperata, Trier riscopriva la speranza, ed io con lei.
 
Mi diressi agli alloggi dei militari e chiesi del Generale: non c’eravamo mai intesi, né piaciuti, ma avevamo una guerra da combattere insieme – una guerra da vincere. Ora sapevo di aver frainteso molto, a partire dalle ragioni di un uomo che mi guardava con un misto di scetticismo e di simpatia: Nephyl non mi odiava, ma in me leggeva il segno di una sconfitta che era anche la sua.
Che mondo era quello in cui le donne comandavano gli eserciti e decidevano della vita e della morte?
Una civiltà infelice e sconfitta.
“Magistra,” mi salutò con un cenno del capo. Sostenni il suo sguardo, poi fissai lo sparuto drappello di soldati che s’intratteneva nel salone comune: erano giovani e terrorizzati, ma si erano lasciati condurre dal mio egoismo con la docilità delle ostie sacrificali.
Se respiravo ancora, era anche merito loro.
M’inginocchiai a terra, i palmi ben aderenti alla nuda pietra.
“Sono qui per implorare il vostro perdono: non sono stata una valida guida, né la Magistra che meritavate. Ho anteposto i miei interessi alla vostra sicurezza, dunque mi rimetto al vostro giudizio.”
Un brusio sordo si diffuse tra le fila dei presenti. L’umiliazione bruciava sotto le ciglia, ma sapevo che quello – e solo quello – mi avrebbe concesso di posare di nuovo lo sguardo sull’esercito di Trier e chiamarlo ‘mio’.
Non ero una donna modesta, ma una calcolatrice spietata: era quanto mi rendeva degna di vestire le insegne del comando.
Nephyl congedò i suoi uomini, poi mi s’inginocchiò davanti.
“La polvere non vi si addice, Magistra,” disse e mi porse la mano, “né la mortificazione. Voi siete come la terra d’inverno.”
Sollevai lo sguardo.
Gli occhi del Generale mi leggevano dentro.
“Durissima e pregna.”
Sorrisi.
“Sono una Ygeia. Il mio ventre è vuoto.”
“E il vostro cuore?”
“È un lago d’odio.”
Nephyl socchiuse le palpebre. “Che cosa cercate davvero?”
Mi sollevai con un deciso colpo di reni. Mi dolevano tutti i muscoli, provati dalle sollecitazioni del campo di battaglia, ma a bruciare era soprattutto la cicatrice che sfregiava il mio orgoglio.
“Vinus di Venusya.”
Il Generale mi rivolse un’occhiata interdetta.
“Sinora mi sono nutrita di pergamene e leggende, ora voglio misurarmi con la verità: non so nulla dei dracomanni, né posso distruggere chi non conosco.”
Nephyl annuì. “Vostro padre non vi ha detto niente?”
“Leonar non è un soldato. Io, sì. Io sono la Makemagistra di Trier.”

*

Il cielo aveva una tinta rugginosa, quando Vinus si presentò alla tenda di Koiros.
Non indossava la lugubre livrea del Drago Nero, ma la semplice camicia di tela dei soldati. Si era raccolto i capelli sul capo, per ridurre la propria vulnerabilità al momento dello scontro, ma era una precauzione inutile e lo sapeva: nessuno avrebbe mai sconfitto il signore dell’Icengard, se non un drago vero.
 
Ed io, no. Non sono un drago.
 
Ad accompagnarlo, silenziosi, gli ultimi ophelidi rimasti: troppo pochi per un corteo funebre degno dell’erede di Venusya.
“Sei puntuale. Me ne compiaccio.”
Koiros si levò dallo scranno e avanzò di un paio di passi. La coda velenosa spazzava il suolo, sollevando nugoli di polvere fine e rossastra. Le cellette degli occhi feroci scrutavano il figlio di Zauror, come avevano fatto quel giorno.
Tra le rovine della città morta, il cucciolo era una candida macchia. Rispetto alla sua mole, era un insetto da nulla, ma l’odio rabbioso di quello sguardo gli era rimasto dentro.
“Brucia ancora,” disse, mentre la pupilla del dracomanno quasi svaniva, inghiottita dall’iride vinosa. “I tuoi occhi, principe… Non sono quelli di un figlio devoto.”
Vinus scartò di lato, portando la mano alla spada di Zauror, appena prima che la coda di Koiros lo colpisse al viso: un pugno d’istanti, e la cuspide che l’armava gli avrebbe lacerato l’orbita.
“Straordinario. Sei più rapido di quanto immaginassi.”
Non c’era autentica sorpresa, né astio in quell’apprezzamento: a differenza di Lethor, che temeva l’ophelide, dunque poteva concedersi di odiarlo, Koiros aveva dalla sua l’impunità dell’eccellenza.
Se l’avesse abbattuto al primo colpo, non avrebbe provato soddisfazione ma tedio.
“Tuttavia non abbastanza… Per me.”
La seconda carica fu terribile: complici quei suoi occhi composti, Koiros aveva dello spazio una percezione polidimensionale, del tutto priva di angoli ciechi; un semplice spasmo muscolare gli bastava a intuire la traiettoria dell’avversario e ad anticiparne il colpo.
A quelle condizioni, sorprenderlo era impensabile e raggiungerlo, impossibile.
“Ora cominciamo.”
 
Furono le ultime parole che spese, poi non divenne altro che una massa d’ossa e muscoli lanciata contro una preda terrorizzata.

Vinus riuscì a evitare ancora una volta la cuspide velenosa, ma non la sferzata implacabile della coda di Koiros. La terra gli mancò da sotto i piedi all’improvviso, mentre le costole, fracassate dal violentissimo impatto, gli straziavano il polmone destro: la rena gli arrivò addosso dura come pietra, e bevve, ingorda, la bile che vomitò come tentò di riprendere fiato.
Tossì con violenza, trattenendo a fatica un uggiolio penoso.
Negli anni era diventato tanto forte da perdere l’abitudine al dolore: il tiranno glielo ricordava nel modo peggiore.
 
Devo colpirlo. Una sola volta e avrò salva la vita.
 
Davanti a Koiros, il guerriero più potente dell’Eumene era una nullità umiliata.
 
“Coraggio, Drago Nero. Dov’è il tuo fuoco?”
La voce di Lethor lo provocava sprezzante ma Vinus non sentiva più nulla, se non il battito inquieto di un cuore terrorizzato.
Poteva aspettare l’ennesimo assalto, oppure volare incontro alla morte con la dignità dei suoi pari: la spada di nuovo salda nel pugno, il principe di Lephtys scelse di attaccare.
Koiros si trattenne lungo la traiettoria sino all’ultimo istante, poi, con agilità sorprendente, scartò di lato, sorprese alle spalle il dracomanno e lo colpì alla schiena.
Vinus cadde in ginocchio, boccheggiando: fu allora che il signore del Nord lo strinse alla gola con una sola mano, sollevandolo di peso.
“Figlio… Maledetto, amatissimo figlio…” sospirò Koiros, affondando il pugno nelle viscere del Drago Nero.
Un fiotto di sangue rugginoso e dolciastro eruttò dalle labbra del principe, lordando anche il carnefice. Il tiranno accostò il viso a quello dell’ophelide, e sulle labbra ne leccò l’agonia.
“Questo è il sapore della vittoria,” esultò, prima che la coda del dracomanno gli sferzasse il viso.
 
Era già morto troppe volte, Vinus, perché gli importasse, eppure non voleva cedere: non quel giorno.
 
La presa di Koiros si sciolse.
L’erede di Lephtys cadde nella polvere e lì rimase, straccio sanguinolento sotto un cielo vuoto.
Oltre le palpebre sempre più pesanti, non c’erano che due toni: il rosso del sangue, il bianco della morte.
I miei colori.

   
 
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