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Autore: Dira_    04/10/2011    16 recensioni
“Mi chiamo Lily Luna Potter, ho quindici anni e credo nel Fato.
Intendiamoci: niente roba tipo scrutare il cielo. Io credo piuttosto che ciascuno di noi sia nato più di una volta e che prima o poi si trovi di fronte a scelte più vecchie di lui.”
Tom Dursley, la cui anima è quella di Voldemort, è scomparso. Al Potter lo cerca ancora. All’ombra del riesumato Torneo Tremaghi si dipanano i piani della Thule, società occulta, che già una volta ha tentato di impadronirsi dei Doni della Morte.
“Se aveste una seconda possibilità… voi cosa fareste?”
[Seguito di Doppelgaenger]
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio, Rose Weasley, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga'
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Capitolo XLIII



 
La realtà dell'altra persona non è in ciò che ti rivela,
ma in ciò che non può rivelarti.
(Le parole non dette, Kahlil Gibran)


 
1 Gennaio 2023
Germania del Nord, Residenza estiva degli Hohenheim.
 
Il vento sbatteva impietoso contro le finestre rinforzate. Al Nord tutte le finestre avevano quella patina opaca, quella forte patina che impediva alle intemperie di entrare nelle stanze.
Sören guardò distratto il mare livido gonfiarsi di cavalloni. Dalla torre dove si era stabilito si godeva una vista eccellente della baia.  
Dove si era stabilito
Sorrise amaro strofinando i polpastrelli sulla carta ruvida del libro che aveva in grembo.
Dove era stato confinato era decisamente un termine più adeguato.
Tornato da Hogwarts suo zio aveva ripetuto la stessa scena della Vigilia. Lo aveva salutato con un abbraccio aspro, prima di consigliargli di riposarsi e che l’avrebbe mandato a chiamare quando avrebbe avuto bisogno di lui.
Aveva aspettato giorni prima di capire che non ci sarebbe stata nessuna chiamata. Non gli era stato espressamente vietato di abbandonare i suoi appartamenti, ma non aveva importanza; sapeva leggere tra le righe di Alberich Von Hohenheim.
Era un recluso senza sbarre.
Scese dal letto e si affacciò al bovindo, osservando il panorama di fronte a sé senza vederlo veramente.
Non aveva ancora capito che male attanagliasse suo zio. Quando aveva tentato di raggiungere la Guferia aveva infatti avuto un’amara sorpresa. Aveva l’ambiente vuoto, privo di qualsivoglia volatile. Quando aveva chiesto informazioni ad Etzel aveva scoperto che non avevano più una voliera e che lo sparviero di suo zio era l’unico animale postino portato dalla vecchia casa. Non avendo mai posseduto un Gufo o qualcosa di simile, Sören era rimasto, come avrebbe detto Lily, fregato.
Suo zio aveva tagliato ogni contatto con il mondo esterno, tranne lo stretto indispensabile; e, sembrava, li avesse tagliati anche con lui. Pur vero che suo zio lo chiamava al bisogno. Si assicurava che le sue necessità fossero sempre soddisfatte, ma non lo chiamava per una partita a scacchi serale.
Ma stavolta è diverso. Non vuole vedermi. Cosa sta cercando di fare?
Non poteva tagliarlo fuori dall’operazione perché era lui l’operazione.  
Non si fida più di me?   
Aveva sentito molti movimenti nel castello, in quei giorni.  Dalla torre vedetta in cui abitava aveva anche uno scorcio del cortile interno. Aveva visto arrivi: uomini venuti da lontano, tirapiedi a giudicare dagli abiti e dal modo in cui suo zio si rivolgeva loro. Quasi sicuramente mercemagi, maghi dell’Est prezzolati e con ben pochi scrupoli morali.
A cosa gli servono? Perché non chiama adepti della Thule?
Sentiva qualcosa di molto simile ad una sorta di tensione rabbiosa che gli scorreva sottopelle.
Suo zio pensava che un atteggiamento simile non avrebbe avuto ripercussioni sul suo stato d’animo?
Conoscendolo non doveva averci neppure pensato. Era ciò che era nel suo braccio a fare di lui ciò che era, non altro. Il resto era… ininfluente.  
Aveva smesso da tempo di sperare che Hohenheim avrebbe potuto sviluppare qualcosa di simile all’affetto per lui. Ma questo andava oltre l’anaffettività. Lo stava tagliando fuori.
Era talmente teso che sobbalzò quando bussarono alla porta.
“Avanti.” Disse voltandosi e sforzandosi di far scivolare via qualsiasi espressione dal volto. Aveva scoperto che diventa sempre più difficile. Una volta era un automatismo.
Lily non sopportava le tue espressioni ‘assenti’… Le chiamava così, no?
Serrò la mascella per impedire un fenomeno in realtà ormai inarrestabile. Infatti, quando il giovane magonò entrò gli venne lanciata un’occhiata guardinga. “Brutto momento Signore?” Chiese squadrandolo.
“No.” Scosse la testa. “Entra pure.”
Il ragazzo era molto più alto di quanto non avesse notato nella cucina in cui l’aveva visto mangiare. Era il manifesto del ragazzo tedesco: capelli biondo grano, presenza massiccia e colorito sano. Doveva essere della vicina Lubecca, a giudicare dall’inflessione.
“Sono venuto a portarvi il pranzo, dove posso metterlo?” Reggeva il vassoio che Sören aveva imparato a conoscere come parte integrante della sua routine giornaliera. L’unica novità era proprio l’avvento del ragazzo.
“Sulla scrivania.” Mormorò distratto. Una piccola novità ininfluente, ecco tutto.
“Signore.” Obbedì svelto il ragazzo.
… o forse no.
Sören gli lanciò un’occhiata incuriosita: aveva sempre pensato che i maghinò fossero immancabilmente anziani e dall’aspetto dimesso. Quel ragazzo era l’antitesi delle sue idee; solo la pettorina di chi serviva in quella casa, nei fatti, lo identificava come uno dei servitori. Neppure l’atteggiamento era quello giusto: aveva le spalle troppo dritte, e già un paio di volte l’aveva fissato dritto negli occhi.
Sören credeva nella gestualità del corpo e del viso. E quella sì che era una novità.  
“Sei nuovo.” Azzardò.  
“Sono stato assunto quando vi siete trasferiti. A settembre, Signore.” Ripeté diligentemente. Lo studiava di rimando. Doveva essersi aspettato di essere notato a malapena.
E normalmente sarebbe stato così.  
Forse era l’espressione di fondo ad averlo catturato. Aveva già visto quello sguardo vivo, intenso.
Lilian.
Erano due esempi di essere umano completamente diversi, eppure…
Oppure. Oppure sto immaginandomi cose che non ci sono.
Ma poteva essergli utile. Di certo aveva più possibilità di muoversi all’interno del palazzo di quanta non ne avesse lui. Doveva quindi stabilire un contatto.
Certo. Facile per te, vero?
Era pessimo in quello: avrebbe fatto un buco nell’acqua anche con Lilian, se non fosse stato per l’esuberanza dell’altra.
“Spero che ti trovi bene a servire questa casa.”
Gli venne restituita un’occhiata che ebbe quasi la forza di metterlo in allarme. Decisamente le parole sbagliate. “A nessuno piace servire per sopravvivere, Signore.” Pronunciò l’ultima parola con aperta strafottenza e Sören seppe che dopotutto se l’era cercata. Ma doveva mantenere il punto.

“Mio zio ti dà il permesso di esprimerti così?”
“No.” Replicò stringendosi nelle spalle. “Per come m’esprimo? Mi ha frustato.”

Sören inspirò; conosceva bene quel metodo di persuasione; i babbani utilizzavano lunghe corde di cuoio, ma i maghi… beh, non aveva termine di paragone, ma era un semplice movimento di bacchetta: più la crudeltà era facile, più vi si indulgeva.
“Mi dispiace.” Gli uscì spontaneo.  
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia, indeciso se considerare le sue parole una presa in giro. Alla fine dovette propendere per un’ipotesi diversa, perché sospirò. “Hilda si è raccomandata di dirvi di mangiare subito, finché la zuppa è calda. Non sappiamo riscaldare il cibo con la bacchetta, noi.” Soggiunse ironico.
“Ringraziala, è sempre tutto squisito.” Aveva scoperto che la vecchia cuoca conosceva i suoi cibi preferiti. Non le aveva mai detto quali fossero, ma in quei giorni, vedendoli apparire con costanza, aveva capito che a volte le persone potevano sorprenderlo. O forse, era qualcosa che la donna aveva sempre fatto.

Solo che tu non ci hai mai fatto caso.
Non aveva mai fatto caso ad un sacco di cose, prima di conoscere lei. 
“Ho bisogno che tu faccia qualcosa per me.” Lo disse di getto e non se ne pentì. Aveva bisogno di sapere, anche se non avrebbe dovuto. Non aveva importanza, non a quel punto.
Il ragazzo si fermò sul ciglio della porta. “Io rispondo solo ad ordine diretto di…”
“Di mio zio, lo so.” Lo interruppe. “Infatti si tratta di un favore.”

Il magonò fece una breve risata. Non sembrava allegra. “Quelli come me non fanno favori ai maghi. Come potremo mai esserne capaci?”
Sören capì dove voleva andare a parare. “Ti posso pagare.”
Questo parve accendergli qualcosa nello sguardo. Richiuse infatti la porta con delicatezza, fissandolo incuriosito. “Beh, se si tratta di un compito, la cosa si prospetta diversa.” Tese la mano, in un gesto chiaro più di mille parole.  
Stranamente la cosa non lo fece arrabbiare; avrebbe dovuto, in quanto il loro dislivello culturale, di classe e altro era tecnicamente abissale e non doveva permettersi di rivolgerglisi così. Ma non lo fece.
Sören prese dal suo piccolo forziere da viaggio una manciata di galeoni che depositò nel palmo aperto. “Questi adesso, il resto dopo.” Spiegò brevemente. 
“Abbiamo un accordo, Signore.” Il ripetersi ossessivo e canzonatorio di quel titolo invece sì che lo irritava.
Sören. Se devi pronunciarlo come se fosse un insulto, preferisco mi chiami per nome.”

La spontaneità per lui era cosa nuova, e non era certo di averla del tutto afferrata, ma dovette funzionare, perché il ragazzo ghignò. “Va bene signorino.” Fece un sorriso alla sua certa smorfia. “… Sören. Perdonami.” Non sembrava aver bisogno della sua grazia, però. “Non sono più abituato a chiamare un mago per nome.”
“Ma sei abituato a trattarlo come tuo pari.” Rimbeccò, ma non gli diede tempo di ribattere. “Devi trovarmi un Gufo e spedire questa lettera.” Gli mise in mano la missiva per il dottore di famiglia. “E quando arriva, devi portarmi la risposta. Nessuno deve sapere che l’ho mandata. Neppure il padrone.”
“Neppure il padrone.” Ripeté diligente. “Ho capito.”
E Sören ci credette; perché quel ragazzo detestava Hohenheim e probabilmente anche lui. Non lo avrebbe tradito proprio perché non aveva nessuna fedeltà o devozione verso la loro Casata, a differenza di Etzel e Hilda.

“Fallo il prima possibile.” Scoperchiò il piatto del pranzo. Aveva fame, lo sentì in quel momento. Era difficile accorgersi persino dei bisogni primari, quando il tempo scorreva sempre uguale. 
“Appena esco di qui.” Confermò riaprendo la porta. “Verrò a portarvi la cena e la vostra lettera.”
“Bene.” Non c’era molto altro da dire e quindi lo lasciò accomiatarsi.
 
****
 
Ministero della Magia, Ufficio Auror.
 
Tom era seduto sulla sedia dirimpettaia alla scrivania del padrino. Controllava con pigrizia le lancette del funzionale orologio da tavolo. Segnavano un’ora molto vicina al pranzo. Non aveva fame.
Aveva appena messo Meike sulla Passaporta per Schwerin e il suo umore era tutto fuorché improntato a considerazioni allegre.
Meike sarebbe tornata a Durmstrang il giorno dopo, e non avrebbe dovuto. Non era semplicemente tollerabile. Albus poteva prenderlo in giro quanto voleva, ma lui ricordava com’era sentirsi tagliato fuori da qualcosa. Ci aveva messo anni prima di capire che la sua famiglia era la sua famiglia, legami di sangue a parte. A Meike non era stato neppure concesso quel lusso.
Tolse un inesistente granello di polvere dal tavolo. A proposito di famiglia, quella mattina aveva avvertito i suoi genitori della trasferta in Norvegia. Un po’ tardi, ma aveva temporeggiato proprio per non rovinargli il Natale. Ovviamente non ne erano stati contenti, specialmente suo padre.
 
“Se alla ragazzina quella scuola non piace, perché devi andarci anche tu?”
“È per il Torneo Interscolastico. Il Torneo Tremaghi, ve ne ho parlato.”
“Non è quel torneo a cui ha partecipato anche tuo zio?”
Suo padre aveva un’ottima memoria e a volte ripescava ricordi decennali con precisione svizzera. Per sua sfortuna, era stato quello il caso.

 “Sì.”
“E non è quello dove c’è morto un suo amico? Cedric qualcosa?”


No, non ne erano stati affatto contenti, e quella mattina era uscito per andare a Londra più presto del previsto proprio per sfuggire ad una sicura predica infinita.
Sono preoccupati per me. Lo capisco. Ma non aiutano.
Avrebbe voluto tranquillizzarli, ma non gli era venuto nulla di intelligente da dire. Non era riuscito a rassicurarli neppure Al, venuto per gli ultimi saluti a Meike.
Il suddetto, tra l’altro, dopo che Meike era partita, gli aveva chiesto se voleva compagnia nell’attesa dell’incontro con gli auror. Aveva declinato; aveva fatto fin troppo. E poi l’idea di vederlo agitarsi man mano che lui e Harry elaboravano congetture e vagliavano ipotesi…
No, se poteva tenerlo fuori da quella storia, per quel che poteva, l’avrebbe fatto.
Sentì lo specchio comunicante scaldarsi dentro la tasca dei jeans e lo tirò fuori. C’era un messaggio che fluttuava in volute viola. Pervinca, avrebbe contestato Albus, dato che la scelta era stata sua.
 
‘Non mi sarebbe pesato accompagnarti, lo sai. Fa’ il bravo e sii rispettoso. Sei maggiorenne solo anagraficamente.’
 
Sbuffò. Quasi fosse una risposta, arrivò un secondo messaggio.
 
‘Comunque sono fiero di come stai affrontando le cose. Ti amo.’
 
Era assolutamente non necessario, non aveva certo bisogno di essere tirato su di morale. Si impose di non sorridere neppure un po’ e si infilò lo specchietto in tasca quando sentì aprirsi la porta dietro di sé.
“Oh, sei già arrivato?”
La voce di Harry glielo fece quasi cadere dalle mani.
Tempismo perfetto…
“Le Passaporte internazionali hanno il pregio di essere puntuali. Meike è partita senza problemi.”  Mormorò forse con troppa asprezza.

“Mi occuperò anche di questo, Thomas.” Gli sorrise tranquillo, sedendosi alla scrivania. “Nessuno di noi vuole che Meike frequenti una scuola che non le piace.”
Tom fece una smorfia. “Sai bene che non è solo questo.”
“So bene che sei preoccupato.” Replicò. “Non c’è niente di male ad essere protettivi. Non è un difetto.”
“Dillo a Ron.”
Harry stavolta non trattenne una breve risata, ma tornò subito serio. “Lui e Nora arriveranno tra poco. Sei sicuro di sentirtela?”
“Cosa? Parlare? Credo di potercela fare.” Ironizzò. “Come ti ho detto via Gufo sono sicuro che le mie ipotesi abbiano fondamento.”

Harry si passò le dita trai capelli, meditabondo. “Il nucleo di una bacchetta nel braccio… sembra incredibile.”
“Di cose incredibili è pieno il mondo babbano. Figurarsi quello magico.” Ironizzò di nuovo, facendo sorridere l’uomo. “È l’unica spiegazione possibile a tutto ciò che è accaduto con Luzhin come protagonista.”
“Può essere.” Ammise cauto. “Ma questo farebbe di quel ragazzo una specie di arma in grado di pensare.” Gli passò un’ombra nello sguardo e Tom seppe che stava pensando a Lily.

“Oppure un ragazzo con un braccio capace di funzionare come una bacchetta.” Replicò quieto, sentendosi inspiegabilmente in colpa.   
Luzhin era un mezzo, esattamente come lo era stata la Bacchetta di Sambuco. Non era John Doe, non lo aveva mai avvicinato per provocarlo o per attirarlo in un gioco di specchi malato.   
Sembrava, più che altro, un pedone riluttante.
Il buonismo di Al deve avermi definitivamente contagiato. Ci sono voluti anni, ma infine…
Harry fece un lieve cenno, come a dargli buona l’ipotesi. Ma era un padre. Probabilmente l’unica possibilità che avrebbe dato al Campione tedesco sarebbe stata quella di scegliere tra Azkaban e Nurmengard. 
Tom non avrebbe mai voluto trovarsi sulla strada del Salvatore quando avrebbe avuto tutte le carte giuste nel proprio mazzo.
Non stavolta almeno.
Harry lo riscosse. “A cosa stai pensando?”
Non poteva dire la verità, quindi optò per una diversione.  “Lily deve averla presa male.”
L’uomo serrò la mascella così tanto che Tom vide il tendine scattare. “Non ha importanza.” Pessimo punto da sottolineare, gli suggerì esasperata la voce di Al, praticamente parte della sua coscienza. “La sua sicurezza è più importante di quello che al momento pensa di me.”

Posso solo immaginare cosa vi siate detti se Al ne è uscito tanto abbattuto.
Si astenne comunque dal dirlo ad alta voce, intuendo che non era argomento in cui aveva capacità di interloquire senza far danni. Sentì la porta aprirsi di nuovo e vide con la coda dell’occhio entrare Ron e l’agente americana. Non sorrideva come la fu Ainsel Prynn – anche se aveva scoperto in seguito che non era neppure il suo nome.
Ne fu contento.
“Thomas.” Lo salutò con un cenno della testa e un sorriso distratto. Pareva incredibile, ma non gli dispiaceva essere ignorato in quel caso.
“Ehi.” Interloquì Ron, lanciandogli un’occhiata sorpresa e poi una confusa a Harry. Tom sbuffò. Naturalmente era il perenne adolescente da salvare.
Non. Lo. Sono.
“Tom è qui perché ha una teoria, e vorrei che la ascoltaste.” Spiegò Harry in tono pacato, facendo cenno loro di sedersi. L’americana lo fissò con aperta curiosità, mentre Ron con la solita, prevedibile espressione esasperata.
Detesto i padri di famiglia. Non avrò figli, se il rischio è di diventare paternalistico con l’intero universo.
Non perse tempo e la illustrò in maniera concisa. Sapeva bene che perdersi in inutili spiegazioni avrebbe solo invalidato la sua teoria, peraltro supportata da pochi fatti e tante congetture.
Alla fine le espressioni non erano molto incoraggianti.
“Una bacchetta nel braccio. Questa è bella!” Esclamò Ron. “Non si può mica fare una roba del genere!”
“Forse vent’anni fa.” Osservò con il suo miglior tono controllato, anche perché Harry lo monitorava, pronto a frenarlo se avesse affilato la lingua. “È il progresso.” Non poté fare a meno di aggiungere.
“Le  bacchette hanno sempre funzionato in un solo modo.” Fu la replica cocciuta. Remotamente poteva capire i suoi paletti mentali. Ron era un purosangue, cresciuto credendo che la Magia fosse immutabile e certa come una roccia.

Dall’altra parte era irritato, enormemente.
Sono quelli come lui che non permettono il progresso. E sono quelli come lui che impediscono a quelli come me di imparare.
“In realtà non è proprio così…” Esordì l’americana e Tom provò un insolito moto di simpatia, dato che incarnava un governo che voleva usarlo come un burattino. “… sono stati fatti degli studi, sperimentali, sulla possibilità di montare il Nucleo Magico su altri tipi di supporti. Come ad esempio, supporti che migliorino la precisione di tiro.”
“Come la differenza tra una pistola e un fucile da cecchino?” Chiese sentendo la curiosità scalciare violentemente. L’America era lontana e manipolatrice, ma a volte maledettamente interessante.
La donna fece un breve cenno d’assenso.
“Una cosa simile.”
“Cosa diavolo è un fucile da ciecato?” Ron si passò una mano sulla barba. “Scusate, ma credevo si parlasse di bacchette e di Mondo Magico!”

“Paragonare è sempre utile. I babbani non sono poi così diversi da noi su certi aspetti.” Spiegò l’americana. “In ogni caso, non sono mai state usate… cavie umane.”
“Luzhin lo è.” Ripeté “Avrebbe senso, considerando che sembrerebbe aver abbattuto la creatura magica della Prima Prova a mani nude. Oltretutto, il segno lasciato nel bagno non poteva essere stato fatto dalla punta di una bacchetta. Aveva la forma di una mano.”

Ron scosse la testa. “Luzhin è quasi sicuramente il nostro uomo… ma questa faccenda della bacchetta mi sembra assurda.”
Tom detestava la condiscendenza nel suo tono, ma perlomeno il padrino e l’americana sembravano considerare le sue idee. Probabilmente, era il massimo che poteva ottenere da quel consesso.
“Spiegherebbe però come mai non abbiamo trovato tracce di magia oscura all’interno della sua bacchetta.” Mormorò Harry e improvvisamente la teoria acquistò punti, da come cambiarono lo sguardo degli altri due.
Quindi non hanno trovato Magia Oscura nella bacchetta di Luzhin.
Questo avrebbe potuto scagionarlo, certo. Se non ci fosse stato il resto.
Stavolta fu il turno dell’americana di esibire un’aria poco convinta. “Fermi. Capisco che Luzhin sia il candidato ideale. All’interrogatorio non urlava certo alla sua innocenza. Però non vorrei che cercassimo prove schiaccianti dove c’è l’esatto contrario. Potrebbe avere la bacchetta pulita perché effettivamente non ha lanciato incantesimo oscuri.”
Tom osservò Harry e Ron assumere un’aria quasi indignata.
A quanto pare non tutti hanno le stesse idee…
“Stai dicendo che pensi sia innocente?” Chiese il padrino con calma. L’espressione era antitetica però.
L’americana indurì lo sguardo. “No. Sto dicendo che per incriminare un ragazzo dobbiamo avere  delle prove che sia colpevole.”
“E questo lo sappiamo bene. Ma se continuiamo a cercare di scagionarlo invece che…”
“Harry, capisco la tua posizione.” Lo fermò. “Voglio chiudere questa storia, tutta questa storia quanto te…” Doveva esserci ben altro che il prestigio del Ministero Americano da ripristinare per quella donna dall’aria fiera. “… ma ho fatto controllare la famiglia Luzhin e non è venuto fuori nulla.”

“Spiega il nulla.” Le intimò senza mezzi termini. Il padrino in certe situazioni aveva inevitabilmente il piglio da unico eroe della situazione che mal digeriva interferenze.
Certi traumi non si lasciano alle spalle…
La strega però non sembrò irritata, né tantomeno intimidita dal tono secco. Sotto gli occhi di Tom estrasse dalla tasca dell’uniforme qualcosa che assomigliava alla copertina di un libro. Era la copertina di un libro. Dopo un incantesimo sussurrato, divenne però un intero fascicolo.
Decompressione di documenti. Quanto prendono esattamente delle idee dei babbani?
Se Al fosse stato lì, probabilmente gli avrebbe fatto notare che stava sbavando come un mastino davanti ad un osso.
“Non è stato facile reperire informazioni sul ragazzo. I fascicoli scolastici di Durmstrang sono essenzialmente blindati.” Esordì la donna dando una copia sia ad Harry che a Ron. Poi gli sorrise e gliene allungò una terza.
Non fare in modo che ti stia simpatica. Non farlo.
Inghiottì il sorriso di rimando e si tuffò sul plico di carta pergamenata. La prima cosa che notò, era che mancava la foto identificativa. Ad Hogwarts era obbligatoria. Lo era stata, a dirla tutta, anche nella scuola babbana che aveva frequentato da bambino.  “La sua foto?” Gli uscì di getto.
La strega fece un mezzo sorriso amaro. “Non vengono scattate foto agli allievi.”
“E per quale diavolo di motivo?” Ron aveva dato voce al pensiero comune.

“Ragioni di privacy, mi è stato detto. Pare che così si limitino fughe di informazioni. Giornalisti.” Aggiunse alle loro espressioni confuse. “Durmstrang è famosa per istruire rampolli di famiglie altolocate, figli di politici, magnate e via di scorrendo. È aperta anche alle persone normali per motivi di immagine, ma…”
“… di base è una scuola classista.” Terminò per lei, ricordando lo sguardo mesto di Meike e le sue lacrime. Era disgustoso pensare che gente di talento venisse sfavorita a discapito di mocciosi il cui unico pregio era avere nobili natali.

Come ha fatto Voldemort a fondare una setta su questi ideali?
Ah, già. Attecchiscono terribilmente sugli imbecilli.

“Tom…” Mormorò Harry, ma con un’ombra di sorriso negli occhi. Ammonizione inutile: quella sua presa di posizione era ben vista dal padrino. E lo sapevano entrambi.
“Si può dire così.” Convenne la strega senza scomporsi. “I voti del ragazzo sono eccellenti, è vice-presidente del Club dei Duellanti, di quello di Pozioni e…” Fece un cenno dismissivo. “Ditene uno, e ne sarà membro.”
“Praticamente un Campione da Tremaghi perfetto.” Sbuffò Ron. “Fin qui, nulla di strano.”
“Non c’è nulla di poco chiaro nel suo curriculum, come vi ho detto. Nessuna nota di demerito, nessuna punizione. Per quanto riguarda la sua famiglia… pagina trentaquattro.” Soggiunse e ci fu un gran fruscio di fogli. “… figlio di Frederick e Olga Luzhin. Purosangue, il padre è di una rinomata famiglia di Gottinga. ”
“Parli goblinese per me.” Gli fece notare Ron e Harry soffocò una risatina. “Comunque… connessioni con la Thule?”
L’americana scosse la testa. “Non sembra. È una famiglia come se ne trovano tante nella Bassa Sassonia.”

“La madre?” Chiese Harry.
“Non è di origine nobile, i suoi erano piccoli commercianti della Renania. I matrimoni di questo genere sono molto frequenti…” Soggiunse. Tom pensò automaticamente a Malfoy; Astoria Greengrass, per quando ne sapeva, non aveva nessun blasone. Aveva senso. Era frustrante. “Ha ereditato dal padre una piccola azienda che importa polvere volante dall’India. Ora è l’azienda di famiglia.”
Tom scorse la lista di informazioni, smettendo di ascoltare. Era tutto praticamente inutilizzabile. I Luzhin sembravano maghi banalissimi, solo più agiati della media. Lo stemma della Casata coincideva con quello portato al dito da Sören. Erano semplici purosangue reinventatisi commercianti per sfuggire a debiti di generazioni.

Debiti…
“La situazione finanziaria.” Disse e probabilmente interruppe qualcuno perché fu guardato con rimprovero. Non gli interessò. “C’è modo di conoscere la situazione finanziaria della famiglia?”
“Immagino di sì.” Convenne la strega un po’ stupita. “Ma per quale motivo?”
Tom ringraziò le maratone di telefilm polizieschi che Vernon si ingurgitava bulimicamente ogni estate, piazzandosi nel salotto buono. “La Thule corruppe Parva Duil. Potrebbe essere successa la stessa cosa anche stavolta. Dovrà risultare da qualche parte. Soldi. Sono commercianti… i commercianti hanno alti e bassi. E rischiano più dei salariati.”

Stavolta fu guardato con molta meno perplessità rispetto alla sua articolata spiegazione sul Nucleo Magico. “Giusto Tom!” Esclamò Harry sorridendo. “La Gringott tiene un registro di tutti i versamenti e prelievi di ciascun mago. Sarà così anche per le banche straniere!”
“È ovunque così. Il mercato bancario non ha tanta inventiva… e poi, è interamente monopolizzato dai folletti.” Confermò l’agente. Sembravano tutti caduti dalle nuvole, il che era piuttosto bizzarro. Tom intuì che nel mondo babbano certe cose erano scontate, ma non in quello magico.

Globalizzazione. Flussi di capitali fruibili e prelevabili in tutto il mondo. Conoscendo i folletti… non credo.
Sembrano praticamente allergici all’aprirsi a qualsivoglia tipo di accordo.
“Spedisco un paio di Gufi.” Disse l’americana. “Ottima idea, Thomas.”
“Potremo anche contattare i genitori. Voglio dire, magari un interrogatorio via camino non dovrebbe essere impossibile da organizzare…” Propose Ron. “Metterli sotto torchio, no?”
“Infattibile.” Sospirò la strega. “Pare che siano partiti per un viaggio di lavoro a Bangkok.”
Harry inarcò le sopracciglia. “Tempismo insolito.”
Ron fece una smorfia. “Più indaghiamo su questo ragazzino, più diventa colpevole.”
Nessuno commentò la frase. Non ce ne fu bisogno.
 
****
 
Germania del Nord. Residenza estiva degli Hohenheim.
Pomeriggio inoltrato.
 
Sören si accorse che qualcosa non andava perché non stava arrivando la cena
Certo, c’era stato l’episodio della Vigilia, ma era stato un caso isolato, dovuto alla mancanza di ordini. E dato che non aveva fatto alcun torto a suo zio, e che, ancor meno, vedeva suo zio a cambiare le disposizioni, era chiaro che ai piani sottostanti era accaduto qualcosa.
Dunque, scese. I lunghi corridoi erano completamente silenziosi. Quella casa… sì, era esattamente come nel palazzo della sua infanzia. Un palazzo morto, dove l’unico rumore che sentivi era quello del tuo respiro. Sören era cresciuto nel silenzio, ma non lo apprezzava più come una volta.
O forse non l’aveva mai apprezzato; semplicemente, era tutto quello che conosceva. Persino gli anni dell’Istituto erano stati silenzio, almeno per lui. Hogwarts invece era chiacchiere, risate, rumore, allegria adolescenziale. Lilian era una figlia di Hogwarts.
E lui si era abituato.
Arrivò fino alla cucine ma trovò solo le braci che baluginavano fioche. Nessuna presenza umana.
Per un folle momento pensò di essere stato lasciato solo.  
Poi sentì delle voci. Attutite e distanti parecchi metri in linea d’aria, udibili solo perché non c’era nessun altro rumore a coprirle.
Si concentrò e ne capì la provenienza. Non avrebbe voluto farlo, dacché provenivano dallo studio di suo zio. Poi sentì la pelle del braccio, di quel braccio, formicolare spiacevole. Conosceva quella sensazione. Un incantesimo oscuro era stato appena lanciato.
Senza pensarci percorse a ritroso il corridoio, correndo per tutta la rampa di scale che divideva gli ambienti della servitù dal piano nobile dove c’erano gli alloggi e l’ufficio di Hohenheim.
Le voci provenivano da lì. Al momento non ne sentiva, ma non poteva sbagliarsi. Si accostò, posando la guancia contro il legno freddo e pesante della porta, i nervi tesi, pronti a scattare nel caso qualcuno l’aprisse di colpo.
Poi quel qualcuno urlò. Un urlo di dolore, straziante. Un urlo che Sören percepì come pieno di rabbia e paura. Era la voce del nuovo servitore, di Milo.
L’ha scoperto.
“Mi pare di aver detto a te e agli altri di non uscire dal palazzo. Non amo ripetermi.” E la voce di suo zio.
Sören aveva ben chiaro cosa stesse succedendo al di là della porta, anche senza vederlo. Conosceva bene la punizione per chi trasgrediva un ordine. Suo zio non si arrabbiava, non alzava la voce né chiedeva spiegazioni.
Azione e reazione. Azione e Reazione Sören. Non credermi che mi piaccia farlo. Ad ogni azione corrisponde un principio uguale e contrario. E contrario.  
Posò la mano sul pomello, sentendolo gelato. Meno gelato della punta delle dita o di come si sentiva interamente.
Un altro urlo.
Ricordava l’incantesimo. Lo ricordava impresso sulla sua pelle, sulle lunghe cicatrici ormai bianche e impercettibili che portava sulla schiena. Lo ricordava quando dopo il bagno la pelle nuova si era tesa per tanto tempo facendogli inghiottire il dolore come manciate d’aria viziata.
Non era stato annunciato e non poteva entrare. Nessuno poteva entrare nell’ufficio di suo zio, se non gli era stato dato il permesso.
Aprì la porta come se fosse stato qualcun altro a farglielo fare. Ma la aprì, e notò a malapena i due uomini ai lati degli stipiti che si voltarono minacciosi. Vedeva solo il giovane magonò biondo, rannicchiato nell’unico angolo della stanza privo di tappeti, la casacca in cui si allargava una grande e disgustosa macchia rossa.
Non riuscì a sostenere lo sguardo che suo zio certamente gli stava rivolgendo, ma parlò. “Non è colpa sua. Sono stato io. Io gli ho detto di uscire. Gliel’ho ordinato io.”
Ci fu un lungo attimo di silenzio in cui Sören sentì il cuore rombargli furioso addosso.
“Sei stato tu?” Suo zio sembrava sorpreso. Genuinamente tale. Dall’espressione non sembrava essersi aspettato quella sua presa di posizione.
E non ha tutti i torti.
“Sì.” Confermò. “Gli ho chiesto di uscire per una commissione.” Se fosse stato bravo ad improvvisare, sarebbe stato una persona diversa. “Avevo bisogno che comprasse un libro. La Seconda Prova sarà tra poco ed ho bisogno di materiale.”
Suo zio lo stava guardando e a quel punto dovette sostenere lo sguardo. L'Occlumanzia era qualcosa che era stato chiaro avrebbe dovuto imparare sin dalla più tenera età. Vi si aggrappò con la forza di un naufrago alla propria scialuppa. Perché stava mentendo.

“Non se ne dovrebbe occupare il figlio dei Poliakoff?”
“Non è quello che chiamerei un mago dalle intuizioni brillanti. Ho preferito lavorarci da solo.” Replicò. Sentiva i respiri secchi e dolorosi del ragazzo a pochi metri da sé e questo paradossalmente lo rendeva lucido. Stava perdendo sangue, aveva bisogno di cure immediate. Non poteva permettersi di esitare.   

Hohenheim fece un breve sorriso di apprezzamento; l’aveva convinto. Fece infatti cenno ai due uomini di avvicinarsi al magonò. “Portatelo dai suoi.” Ordinò semplicemente. Non sarebbe bastato. I maghinò potevano distillare pozioni come i maghi, ma lì c’era bisogno di un incantesimo curativo. Quelle ferite potevano infettarsi facilmente a contatto con il sudore. Sören lo ricordava. Anche suo zio doveva. Ma non gli importava, evidentemente.
Incrociò lo sguardo del ragazzo, ma gliene venne restituito uno vitreo.  
Sta per svenire. Per fortuna.
La porta si richiuse loro alle spalle; suo zio si voltò verso di lui, con un lieve inarcarsi delle sopracciglia. “Mi sembrava ti fosse stato insegnato ad annunciarti.”
“Sono spiacente, zio.” Chinò immediatamente la testa, ma sentiva una rabbia sorda ribollirgli nel petto. Senso di colpa, continuo. Forse era quello ad alimentarla.  Forse era il senso di colpa a farlo sentire così arrabbiato.

“Hai qualcos’altro da dirmi?”
Sören decise di mettere da parte i suoi sentimenti e avere risposte. “Tra pochi giorni tornerò a Durmstrang come Luzhin. Ma non sono Luzhin.” Chiedere era l’unico modo per sapere qualcosa. Almeno qualcosa. “Gli studenti lo sanno. Sanno chi è il vero…”
“Di questo non devi preoccuparti, pensi forse che siamo dei babbani?” Il tono era irritato. Era chiaro che dare spiegazioni non era tra le priorità di suo zio.

“Come?” Non poteva più tirarsi indietro. Era successo qualcosa di inarrestabile dalla serata del Ballo del Ceppo. O forse era iniziato tutto quando aveva preso il nome di quell’ignoto studente il cui unico merito era essere un ponte di collegamento tra loro e i Potter. Era iniziato tutto quando Lily l’aveva salutato.
“Spille.” Disse l’altro mago. “Le spille della scuola. Ad eccezione della delegazione dovranno indossarle tutti gli studenti dell’Istituto. Conterranno un incantesimo di disillusione. Ti vedranno come Luzhin, sarai Luzhin.” Concluse, prima di avvicinarsi alla scrivania per caricare la propria pipa.
Sì. Ha senso.
L’idea avrebbe funzionato. Avrebbe dunque dovuto essere sollevato. Focalizzato, sicuro di sé.
Non sentiva nessuna di quelle cose. C’era troppo che sfuggiva al suo controllo. Un tempo non si sarebbe neppure posto un pensiero con dentro una parola simile. Quando arrivavano gli ordini, arrivavano.

Adesso è diverso.
“Capisco.” Disse però. Suo zio sembrava stare bene. Non aveva più lo sguardo o la postura della Vigilia. Ma non poteva essere stato un abbaglio, Alberich Von Hohenheim aveva davvero qualcosa che non andava.
A partire dal fatto che ha assunto, a pagamento, mercemagi invece di affidarsi ai pedoni dell’Organizzazione. Non che abbiamo problemi finanziari, ma…
“Perché i mercemagi?” Suo zio si fermò dall’accendere la pipa. “La Thule…”
“Fai troppe domande.” Fu la replica sferzante. “Da quando sei così curioso?”
Aveva teso troppo la corda. Esagerando, avrebbe ottenuto l’effetto opposto. Avrebbe ottenuto una punizione. Chinò di nuovo la testa. Quante innumerevoli volte aveva osservato i tappeti di quell’ufficio? Se l’era scordato.

“Se non hai altre richiesta da soddisfare, sei congedato.” Si limitò ad annuire e lasciare l’ufficio. Suo zio gli aveva dato poca attenzione, ma doveva comunque stare attento, se non voleva insospettirlo.
Insospettirlo riguardo a cosa? Di cosa dovrebbe sospettarti?
Inspirò lentamente, sentendo l’aria più fredda del corridoio filtrargli nel respiro. Aveva altre priorità che rispondere a domande che gli fioccavano in mente, prive di senso.

Si diresse verso i quartieri della servitù; in quel palazzo si trovavano ai piani inferiori, vicino alle cantine, poco sotto le cucine. Non era mai stato là, anche se ne conosceva naturalmente l’ubicazione.
Scese alcune rampe di scale sconnesse e scivolose per l’umidità salina che filtrava dalle possenti mura di pietra e si ritrovò in un ambiente dimesso, poco diverso da quello delle taverne economiche  in cui a volte aveva soggiornato con Johannes durante le loro missioni.
Dovevano aver sentito i suoi passi, perché fu la vecchia cuoca ad andargli incontro, reggendo un candelabro. “Signorino!” Attestò confusa. “Cosa possiamo fare…”
“Nulla, Hilda. Sono qui per… Milo.” Lo pronunciò con una lieve esitazione, ma mai quanta ne vide dipinta nel volto della maganò. In effetti non sapeva se era stata una buona idea. L’istinto non era qualcosa che gli era stato insegnato a seguire.

L’anziana lo guardò come se gli avesse appena visto spuntare una seconda testa. Sarebbe stato divertente, se non fosse stato per la situazione.
“Hilda, portami da Milo.” Ripeté gentilmente, ma formulandolo stavolta come un ordine. Questo parve riscuotere la donna che annuì facendogli cenno di seguirla.
Aprì una porta non molta diversa dalle altre. Si apriva su una stanzetta, persino più piccola della sua cuccetta sulla Roskilde. Era pulita e ben tenuta, ma misera e spoglia. Sören registro la presenza di libri, un vecchio mantello consunto che doveva a malapena assolvere alla sua funzione e un violino. Fu la cosa che lo colpì di più.
Curioso che i maghinò abbiano dei nobili svaghi, eh Sören?
Si vergognò di quel pensieri.
Poi vide il ragazzo. Fu come un pugno nello stomaco, un deja-vu non voluto: era disteso sul letto, completamente fasciato sulla schiena; ma nonostante la fasciatura bene fatta, si intravedevano macchie rosse sulle garze.
Non ha ancora smesso di sanguinare.
“Vi posso portare una tazza di brodo, Signorino? Fa molto freddo quaggiù … con l’umidità che c’è il camino non tira bene, di questo periodo.”
Sören sentiva una strana morsa allo stomaco. Non era solo per la scena familiare. Lui veniva curato diversamente… venivano date lui pozioni che lo rimettevano in piedi in poche ore. Lì invece…

Non aveva mai conosciuto la miseria, data la sua posizione. Eppure l’aveva a pochi passi.
Quante cose non ho visto?
“Sto bene così Hilda. Lasciaci soli.” Gli ordini e non la gentilezza. Era naturale che la servitù nata e cresciuta in casa di suo zio li accettasse più serenamente. Era nella loro forma mentis, non poteva stupirsi. La donna infatti chinò la testa, obbedendo senza far rimostranze.
A porte chiuse, Sören si avvicinò al letto senza la minima idea di cosa fare. Supponeva avrebbe dovuto scusarsi: era colpa sua se quel ragazzo aveva finito per essere punito.
Le scuse sono inutili in questa situazione, temo.
Il respiro pesante del ragazzo non gli faceva capire se stesse dormendo o meno. Prese quindi l’unica sedia presente e si sedette accanto alla sponda del letto. Poi stese la mano. Ricordava piuttosto bene gli incantesimi di guarigione per quel genere di ferite.
Non ricordava però che non funzionassero.
“… ehi.” La voce del magonò era roca, ma straordinariamente calma. “…gli incantesimi di guarigione non funzionano con noi maghinò.”
Sören batté le palpebre. “Come?”
“Il sangue…” Sussurrò, aprendo gli occhi e piantandoli nei suoi. Era incredibile come persino in quella situazione fosse sfacciato. Doveva avere una forza d’animo non indifferente. “… è il sangue.” Ripeté.

Sören capì.
Naturalmente. È il sangue che fa reazione agli incantesimi curativi stimolando la riparazione dei tessuti. Il sangue dei maghinò non è magico. Nessun effetto, quindi.
Tolse la mano, sentendo la strana sensazione alla bocca dello stomaco intensificarsi.
“Mi dispiace… non volevo che…”
“La tasca interna del mantello.” Doveva essere un vizio, quello di interrompere. “Guardateci dentro.”

Sören obbedì, perché in quei casi non si poteva stare a pensare cosa doveva permettersi o meno un magonò. Tirò fuori, con sua grande sorpresa, una lettera. Ma non la sua, la risposta.
“Il medico sta a Lubecca. Non si fidava a dirmi tutto a voce, così vi ha scritto.” Fece un sogghigno storto. “Sono andato coi mezzi babbani. Peccato però che c’ho messo troppo e se ne sono accorti…”
Sören la intascò senza sapere cosa dire.
Dopotutto l’hai pagato. Poteva non accettare.
Avrebbe dovuto lasciare quella misera stanzetta, dato che era inutile rimanesse. Anche sconveniente, gli suggeriva la sua educazione. Invece si sedette di nuovo. Non poteva fare niente, ma poteva restare.
Il ragazzo non diede segno di essersi accorto del suo gesto. Le ferite sembravano aver definitivamente avuto ragione della sua tempra. Poi, quando Sören già lo pensava addormentato, parlò.
“Tu sei diverso.” Aveva usato un tono colloquiale e non doveva essere un caso.
“Diverso da chi?” Gli uscì spontaneo.
Stavolta l’altro rise, anche se dovette smettere subito con una smorfia di dolore. “Dal padrone. Da tutti i maghi che ho conosciuto.” Fece una pausa. Era incredibile riuscisse a parlare nonostante la pozione antidolorifica che doveva aver preso. “Perché diavolo rimani?” Soggiunse.

“Non lo so.” Ammise. La verità era che non aveva un posto in cui tornare. Aveva una camera sfarzosa, un intero sistema di stanze per ogni necessità, certo. Ma non era lì che voleva stare.  “Suoni il violino?”
Doveva sembrare un idiota con quelle domande prive di contesto, ma gli uscivano spontanee. Era colpa di Lilian, naturalmente. Prima di lei, non aveva mai dovuto trovare argomenti di conversazione. Ora gli veniva spontaneo cercarne.
Spontaneo… all’incirca.
“Già.” Essere fissato da un magonò come se fosse una creatura improbabile mancava al suo bagaglio di scarse esperienze interpersonali. “… Sul serio, perché sei qui?”  
“Perché non voglio stare lassù.” Era una confessione che avrebbe potuto fare a chiunque. Meno che a se stesso.
Milo – non era difficile da ricordare come nome. Solo due sillabe. Come Lily – aggrottò le sopracciglia. “Preferisci qui?” Scosse appena la testa. “L’ho detto, sei strano mago.”
Sören non risposte, ma una parola gli venne alla mente, slegata dal contesto ma veloce come un incantesimo. Era buffo, perché apparteneva al gergo marinaio della Roskilde e veniva spesso pronunciata con ironia e sussurri dai suoi compagni.
Ammutinamento.
Forse non era poi così slegata dal contesto.
 
****
 
Inghilterra, Surrey, Little Whinging.
Privet Drive.

 
Non c’era modo di rendere quel commiato semplice.
Se ci fosse stato, di certo Tom avrebbe trovato una scusa per far abbandonare a sua madre il compito non necessario di ricontrollargli la leggera sacca da viaggio con cui tornava ogni anno per le vacanze di Natale.
Da Sette anni. Ormai dovrei aver imparato a farla da solo.
“In Norvegia c’è un freddo incredibile, Thomas… non puoi semplicemente andarci con quel tuo cappotto da spaventapasseri!”
“Se intendi farmi indossare quegli orribili giacconi sportivi di Vernon… scordatelo.”
“Li vorrai quando la temperatura scenderà sotto zero!”
“Scende sottozero anche in Scozia.”
“Non così tanto!”
Tom sospirò, lasciando che sua madre infilasse cocciutamente l’ingombrante e colorato giaccone di suo fratello in mezzo alla sua roba. Avrebbe dovuto fare in modo che Al non lo vedesse o sarebbe morto soffocato dalle proprie risate.

O da me.
Capiva l’angoscia di sua madre. La Norvegia era lontana e Durmstrang non era sicura. I suoi genitori non sapevano tutto, ma non erano stupidi, specialmente quel mostro di intuito che era sua madre. Non capiva quelle premure, non del tutto, ma dovevano tranquillizzarla. Quindi supponeva di non poter interferire. Sopportò dunque passivamente anche un paio di guanti da sci. Ai para-orecchie sentì che doveva mettere un freno a quella follia.
“Mamma…” Tentò allora. La donna lo ignorò platealmente. “… mamma, non mi ammalerò. Non mi ammalo mai.”
“C’è sempre una prima volta.” Tom evitò di dirle che probabilmente il suo corpo non reagiva allo stesso modo di quello di un comune babbano, o forse, direttamente di un essere umano.
Non era il caso.
Le posò invece una mano sulla spalla, voltandola con gentilezza. “Starò attento. Non mi succederà niente, e farò in modo di tenermi in contatto con voi.” Snocciolò tutte le frasi di rito che conosceva e fu ricompensato da un abbraccio stritolante. Lo sostenne e lo ricambiò. Era così che andava fatto. “Starò attento…” Ripeté.
“Lo so che sei un ragazzo attento, Tom, ma a volte…” Sua madre non finì, preferendo nascondere la voce fioca e schiarirsi la gola. “Ho preso un secondo paio di guanti anche per Al. Magari i maghi non hanno il teflon.”
“Ne dubito, ma hanno altri modi…” Sospirò, e lasciò perdere. “… Sì, gli piaceranno di sicuro.” Le sorrise. Si sedette poi definitivamente sul materasso, lasciandole infilare tutto ciò che desiderava nella sua già provata borsa.

“Robbie, che stai facendo?” Suo padre aveva il raro potere di apparire quando più era opportuno. Fu quello il momento. “Non ha bisogno di tutta questa roba!”
“Va in Norvegia!”
Forse non avrei dovuto dire a due babbani dov’è presumibilmente ubicata una scuola intracciabile.

Ops.
“La Norvegia non è l’Antartide, e scommetto che saranno pieni di modi strani per tenersi al caldo.” Obbiettò ragionevolmente suo padre. “E poi è ora di cena! Ho fame!”
“Ah, ecco. Ovvio.” Sbuffò sua madre alzando gli occhi al cielo. “Hai due mani ed un cervello, Dudley, sei capacissimo di mettere qualcosa nel microonde.”
“Ma sei hai detto tu che dovremo mangiare più sano.” Ritorse l’uomo con una certa, calcolata perfidia. Tom inghiottì il sorrisetto che gli era spuntato perché sapeva che rendersi impermeabile a quei bisticci era il modo migliore per non venirne coinvolto.

La donna li fissò entrambi risentita, per l’ovvio assioma che tutti i maschi erano ugualmente colpevoli. “Perfetto, vado a cucinare qualcosa allora! Del resto il posto di una donna, come ama ripetermi tua madre, è in cucina!”
“L’hai detto tu, non io.”

Sua madre lasciò la stanza con un verso stizzito per evitare il degenerare della lite. Suo padre la sapeva lunga, perché fece un sorrisetto che non sarebbe sfigurato sul volto di un ragazzino viziato.
“Grazie.” Disse, perché supponeva suo padre non fosse venuto per la cena. Non solo, almeno.
“Le madri a volte esagerano. Sono madri, lo devono fare.” Replicò scrollando le spalle. Lanciò un’occhiata al letto ingombro di vestiti e il borsone strapieno. “Vedo che sei pronto ad ogni evenienza.”
“Dalla tempesta di neve all’ondata anomala di caldo.” Convenne.

“Fosse questo il problema.” L’espressione di suo padre si spense. “Tom, non mentirmi. Quanto è pericoloso?”
Tom a volte dimenticava, perché Dudley Dursley era l’essenza stessa del babbano, ma suo padre aveva sfiorato la Guerra del Mondo Magico. Non vi era mai entrato, ma era dovuto scappare a causa di essa. Aveva incontrato dei Dissennatori e aveva quasi perso la propria anima.
Non era facile dargliela a bere.
“È pericoloso.” Ammise. “Ma non sono solo.”
L’uomo, a sorpresa, fece un mezzo sorriso. “Una volta non l’avresti detto…”
“Cosa?”
“Avresti detto… so badare a me stesso.” Prese un paio di guanti dal mucchio ordinato di vestiti e gli lanciò un’occhiata pensierosa. “Pensare di poter fare tutto da soli… beh, ragazzo. È da idioti.”

“Ho avuto modo di notarlo.” Non sapeva cosa fosse giusto dire, o rispondere; lui e Dudley non avevano mai fatto le conversazioni padre-figlio che invece abbondavano nel rapporto tra Harry e Al.
Non siamo quel genere di persone.
Però doveva essere una di quelle conversazioni, se suo padre non era lì per ricoprirlo di raccomandazioni come sua madre. Supponeva.
“Pensi che vedrai quell’uomo?” Alla sua espressione confusa, aggiunse. “So che c’entra quel bastardo che ti ha abbandonato, Thomas. Harry mi ha spiegato un po’ di cose.”
Ah, Harry… Lo Statuto di Segretezza e le eccezioni di Harry Potter.

“Non lo so.” Non lo sapeva davvero. E preferiva non congetturare troppo su quell’eventualità. “Potrebbe.”
Suo padre sembrava interessatissimo alla fitta fantasia oltremare del suo copriletto. “Digli che sei un Dursley, ragazzo.” Borbottò di colpo. “Fagli capire quanto vali.”
Tom sentì la terrificante sensazione del dopo-processo, quando aveva finalmente avuto modo di rilassarsi con Al. Quella sensazione che gli aveva fatto pizzicare gli occhi e venire un insopprimibile voglia di …

“Naturalmente.” Ottimo, il controllo della sua voce non veniva mai meno. “Io sono un Dursley.”
Suo padre sembrava avere il suo stesso problema a controllare le espressioni facciali. “Eccellente.” Masticò. “Bene. Sei un bravo ragazzo, Tom.” Assunse quell’aria concentrata che aveva sempre quando faticava a spiegare qualcosa. Ovvero le proprie emozioni. “Un bravo ragazzo.” Ripeté.

“… ci provo.” Fece un passo indietro, perché farne uno avanti avrebbe significato forse abbracciarsi, e non erano pronti. Nessuno dei due, non ancora. Non era stato più lo stesso da quando lui era entrato nel Mondo Magico, ma stavano migliorando. Ed era pur qualcosa, no? “Ci provo papà.”
“Lo so.” Si schiarì la voce. “Bene…” Ci fu una pausa imbarazzante per entrambi. “Vado a vedere cosa combina tua madre.” Soggiunse frettoloso.

Tom, lasciato solo, ebbe la frastornante sensazione di sentirsi felice anche se non era il momento adatto.
Ci provo.
Prese a svuotare il borsone.
E ne vale maledettamente la pena.
 
****
 
 
Note:

Capitolo dedicato ai due cuginetti tetri. xD Sì, ricordiamoci che Sören e Thomas sono, a tutti gli effetti, cugini di primo grado.

Anche se Tom è uno stronzetto viziato, come ben si evince, per colpa di Dudley.
La canzone che mi ha ispirato il capitolo è questa . Godetevela, perché come tutte  le loro, è favolosa.
  
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