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Autore: Emily Kingston    16/10/2011    8 recensioni
Hermione Granger non ha mai ricevuto la sua lettera per Hogwarts e Ronald Weasley ha sviluppato un innato interesse per la Londra Babbana.
“Che c’è? Io sono cosa?” domandò la ragazza, gesticolando.
Ron deglutì, sbattendo le palpebre.
“In mezzo al tavolo.”
Ed era così. Hermione, la strana ragazza che appariva nel suo appartamento, si trovava in mezzo al tavolo, il suo corpo metà sotto e metà sopra.
Ci era passata attraverso.
Genere: Commedia, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Hermione Granger, Ron Weasley | Coppie: Ron/Hermione
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Can we pretend that airplanes in the night sky are like shooting stars?

Hermione aprì gli occhi, trovando difficoltà nell’alzare le palpebre, sentendole più pesanti del solito.
Si mise seduta e si massaggiò il capo con una mano, il mal di testa la stava uccidendo. Si trovava su un lettino simile a quelli che avevano all’ospedale, foderato di coperte candide che sapevano di disinfettante.
Tutt’intorno a lei si estendeva un’infinita coltre di bianco; accecante e candido bianco. Per qualche strana ragione aveva la sensazione di esserci già stata in quel posto.
“Ben svegliata.”
Hermione sobbalzò, voltandosi alla sua sinistra. Lì, in piedi vicino al lettino, sostava un uomo anziano che la guadava con ilarità.
Indossava uno strano vestito azzurro ed aveva un paio di occhiali a mezzaluna sul naso adunco che gli proteggevano i piccoli e chiari occhi azzurri. La lunga barba argentea gli ricadeva sul ventre un po’ pronunciato mentre sul capo portava un bislacco capello azzurro rifinito da ricami dorati.
“Oh, non volevo spaventarti cara, hai dormito bene?”
Il vecchio abbozzò un sorriso, continuando a guardarla con quella sua aria ilare, quasi fastidiosa.
“Sì, grazie,” rispose Hermione, scoprendo di non ricordare che la sua voce fosse tanto acuta e squillante.
Sentì la tentazione di coprirsi le labbra con le dita, imbarazzata, ma si trattenne, ragionevolmente certa che la sua voce fosse sempre stata a quel modo.
“Ne sono felice, hai dormito per un bel po’,” ridacchiò l’uomo, incrociando le mani sotto al ventre.
“Davvero?” il vecchio annuì, abbozzando mezzo sorriso nascosto dalla barba.
Hermione non ricordava di aver dormito, anzi, non le pareva proprio di essere ritornata a casa. L’ultimo suo ricordo la riportava nella sua auto, diretta verso casa dei suoi.
“Dove mi trovo?”
L’uomo sorrise, avvicinandosi di qualche passo.
“Sei nella Sala d’Attesa,” rispose.
Hermione sbatté le palpebre un paio di volte, spaesata.
“La Sala d’Attesa?”
“Oh, sì,” sorrise l’uomo. “E’ il posto nel quale le anime attendono il Giudizio.”
Hermione si sistemò meglio, appoggiando la schiena contro i cuscini che aveva alle spalle. Non aveva mai sentito parlare di posti del genere, né ricordava che al St. Patrick ce ne fossero; sicuramente doveva trovarsi da qualche altra parte, ma dove?
“Il Giudizio di cosa?”
“Il Giudizio per decidere se le anime devono recarsi all’Inferno o in Paradiso,” spiegò paziente, lisciandosi la lunga barba bianca.
Hermione deglutì, alzando gli occhi verso l’uomo che sostava alla sua sinistra. Ora, le cose erano due, o lui era pazzo o lei era morta, e tra le due sperava vivamente si trattasse della prima.
“I-io sono morta?” balbettò, decidendo che era meglio togliersi subito il dubbio.
“Oh, no, non ancora,” spiegò l’uomo.
“E allora perché sono qui?” domandò con una punta di sollievo.
L’uomo sorrise, guardandola da dietro le lenti degli occhiali. Sembrava quasi che i suoi occhi potessero esaminarla, passandole attraverso.
“Secondo te perché sei qui?”
Hermione deglutì, alzando gli occhi verso l’alto.
Già, Hermione, secondo te perché sei qui?
“Non lo so,” rispose, confusa. “Forse perché…non lo so.”
L’uomo sorrise nuovamente, guardandola con paterna pazienza.
Improvvisamente le orecchie di Hermione percepirono la presenza di altri rumori attorno a lei, rumori che prima era certa di non riuscire ad udire.
Si sentivano voci, grida e singhiozzi.
“Devi andare adesso,” la informò l’uomo con la veste azzurra.
“Andare? Andare dove?” l’immagine dell’uomo si faceva sbiadita, come se stesse scomparendo. “Chi è lei? Dove sta andando? La prego mi aiuti!”
L’uomo sorrise, un sorriso sempre più trasparente di secondo in secondo.
“Vai dove ti condurrà la voce,” le disse.
“Voce? Quale voce? Aspetti!” ma era troppo tardi, l’uomo era scomparso.
Hermione sospirò, accasciandosi contro i cuscini alle sue spalle. Socchiuse le palpebre, confusa da quell’inconsistente ammasso di suoni.
Stava quasi per addormentarsi di nuovo quando, più forte delle altre, una voce gridò: “Hermione!”.
Hermione sentì le palpebre farsi pesanti, così come gli arti e percepì il cuore battere più lentamente, stava morendo, adesso ne era sicura.

***

I singhiozzi della signora Granger sovrastavano qualsiasi altro rumore nella stanza, fatta eccezione per il beffardo e continuo bip del battito di Hermione.
Le porte dell’ascensore si aprirono, attirando l’attenzione di poche delle persone che avevano formato un capannello attorno al lettino della ragazza. Da esse, trafelato e con il naso sanguinante, uscì Jonathan. Sul suo viso si dipinse un’espressione di sadica soddisfazione notando le due guardie che tenevano Ron per le braccia.
Gli occhi di Ron e quelli del medico s’incontrarono per un attimo, attimo in cui anche Ron provò una sorta di sadica soddisfazione notando di essere almeno riuscito a rompergli il setto nasale.
Poco dopo, dall’ascensore di fianco a quello dal quale era arrivato Jonathan, apparvero Harry ed un’altra guardia della sicurezza.
Gli sguardi di Harry e Ron s’incontrarono e, come altre mille volte prima di quella, non servirono parole per spiegare ciò che era accaduto, bastava la vena cupa degli occhi di Ron per comprendere ogni cosa.
“Mi dispiacer signora Granger, io speravo che-” bip.
Gli occhi di Ron ed Harry saettarono verso lo schermo che segnalava le funzioni vitali di Hermione, insieme a quelli di più della metà dei medici e dei pazienti che si trovavano lì. Sul monitor la linea continua che si era formata pochi secondi prima aveva subito una trasformazione.
“Non è possibile,” balbettò Jonathan quando, dopo qualche altro bip il cuore di Hermione tornò a battere stabilmente.
La signora Granger si divincolò dalla presa del marito, gettandosi sul corpo della figlia.
Gli occhi di Hermione, i suoi occhi, i suoi occhi erano aperti.
“Mamma,” biascicò, sbattendo le palpebre.
La donna singhiozzò, stringendosi contro al corpo della figlia, mentre le accarezzava i capelli con le dita.
Hermione si guardò intorno, spaesata, incontrando gli occhi verdi di suo padre e quelli scuri di Showna che si era affacciata sul lettino.
Ben presto anche gli occhi neri di Christina furono a portata del suo sguardo, insieme a quelli stupiti di Jonathan.
“Come ti senti?” domandò l’uomo, dando un’occhiata al monitor.
“Bene, un po’ spossata, ma bene.”
Lui annuì, sparendo dalla sua visuale. Anche Christina e Showna si allontanarono dal lettino, lasciando la possibilità ai signori Granger di strapazzare un po’ Hermione.
Pochi metri più in là Ron si era rimesso in piedi, con le braccia strette ancora nella morsa ferrea delle guardie della sicurezza. I suoi occhi guardavano insistentemente il lettino, dal quale riusciva a scorgere soltanto la matassa arruffata dei capelli di Hermione.
La signora Granger alzò per un attimo lo sguardo da Hermione, incontrando gli occhi ansiosi ed insieme felici del ragazzo.
“Lasciatelo,” sussurrò, rivolta alle guardie.
I due uomini si scambiarono uno sguardo confuso, senza lasciare la presa su Ron.
“Vi ho detto di lasciarlo, permettetegli di avvicinarsi.”
Le due guardie allentarono la presa sugli avambracci di Ron permettendogli di liberarsi ed avvicinarsi al lettino.
“Ciao,” sussurrò il ragazzo, sporgendo il viso verso Hermione.
Gli occhi della ragazza incontrarono subito quelli di lui, che la guardava sorridente.
“Salve,” rispose, la voce ancora un po’ arrochita a causa del lungo periodo di mutismo.
Il sorriso di Ron si affievolì.
“Ci conosciamo?”
La signora Granger alzò gli occhi su di lui, confusa.
“E’ Ronald Hermione, non ti ricordi?” disse la donna sorridendo, rivolta alla figlia.
Hermione scosse il capo, facendo saettare gli occhi da sua madre a Ron.
“Ron,” ripeté il ragazzo. “L’appartamento? Diagon Alley? Il tetto? Niente?” riprovò, passandosi una mano tra i capelli. Hermione, dispiaciuta, scosse il capo.
“Non te lo ricordi proprio, tesoro?” chiese sua madre.
“No, mi dispiace io-”
“Non fa niente,” la interruppe Ron, allontanandosi di qualche passo dal lettino. “Io adesso dovrei andare, rimettiti presto.”
La signora Granger aprì bocca per parlare ma Ron volse loro le spalle, facendosi spazio tra le guardie della sicurezza e sparendo nel corridoio affollato, diretto verso l’uscita.
 
Fuori il vento tirava forte, scompigliando fastidiosamente i capelli dei passanti e penetrando nei cappotti.
“Eccoti.”
Ron non si voltò, continuando a tenere gli occhi fissi davanti a sé. Parliament Hill era uno dei posti di cui gli aveva parlato Hermione la notte precedente.
“Oh, è un posto bellissimo, devi andarci almeno una volta! A me la mamma mi ci portava sempre da piccola; tutte le volte che ero giù di morale andavo lì perché guardare Londra mi metteva sempre di buon umore. Londra aveva la bizzarra capacità di farmi sembrare tutto migliore. Era come sentirsi dire che tutto si sarebbe aggiustato, e si aggiustava tutto, sempre.”
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli, mentre Harry si sedeva al suo fianco sulla panchina.
“Come mi hai trovato?” domandò. “La Mappa del Malandrino funziona solo per Hogwarts.”
Harry ridacchiò, sistemandosi gli occhiali sul naso.
“Sono Harry Potter, non dimenticarlo.”
Ron abbozzò un sorriso, guardandolo con la coda dell’occhio.
“Già,” sussurrò. “Stai diventando peggio di Silente, tra poco oltre che onnipresente ed onnipotente diventerai anche onnisciente.”
Il moro scoppiò in una fragorosa risata, incontrando gli occhi di Ron.
“Potrei prendere lezioni extra dalla Cooman, che ne pensi?”
Anche Ron rise, annuendo.
Adorava il modo in cui Harry riuscisse a capire tutto ma a non essere invadente. Non faceva mai troppe domande, non insisteva, non diceva frasi tipo: “so come ti senti, passerà” oppure “vedrai che andrà tutto bene, cerca di vedere il bicchiere mezzo pieno”; insomma, quel genere di frasi che quando tutto fa schifo ti fanno infuriare ancora di più.
Perché quando tutto va a rotoli sentirti dire che devi essere ottimista ti fa solo sentire preso per il culo.
“Grazie,” disse Ron, riportando lo sguardo sul profilo di Londra che si srotolava per chilometri sotto ai suoi occhi.
Harry scrollò le spalle.
“Dovere.”
Ron sorrise, guardando di sbieco il profilo di Harry.
“Grazie comunque,” ripeté.
Harry non rispose, appoggiò per un attimo la mano sopra a quella di Ron e si mise a guardare il paesaggio, preservando quel silenzio interrotto ad intervalli regolari dall’ululare del vento.
Neanche Ron parlò, ritrovandosi a riflettere su ciò che aveva detto Harry ad Hermione poche ore prima: loro due si erano scelti. Lui aveva scelto Harry ed Harry aveva scelto lui, e si erano scelti per sempre.
E di questo Ron, ad Harry, gliene sarebbe stato sempre grato.     

***

Hermione sospirò, picchettando le dita contro il volante della macchina.
Era in coda da più di venti minuti e non c’era speranza di muoversi più di qualche centimetro. Lanciò uno sguardo fugace ai libri che sostavano sul sedile del passeggero, appoggiati lì alla rinfusa.
Qualcuno accodato dietro di lei suonò insistentemente il clacson mentre qualcun altro, probabilmente l’uomo che guidava il camion a due macchine dalla sua, lanciò una colorita imprecazione.
Hermione sbuffò, sporgendo il collo per vedere se riusciva a scorgere il semaforo che l’avrebbe portata lontano dal traffico.
Erano passate ormai due settimane da quando si era risvegliata e la sua vita aveva ripreso il suo consueto corso. La mattina e il pomeriggio aveva i turni all’ospedale e la sera andava a mangiare dai suoi oppure se ne stava in casa a guardare la TV o a leggere un libro.
La solita vecchia routine insomma.
Un po’ le era dispiaciuto per l’inquilino precedente, che era stato costretto ad abbandonare l’appartamento pochi giorni prima che la dimettessero dall’ospedale; sua madre le aveva detto che si trattava del ragazzo dai capelli rossi che aveva visto in ospedale il giorno del suo risveglio.
Però sentiva talmente suo quell’appartamento che non aveva avuto il coraggio di lasciarglielo ed andare altrove.
Anche se, appena tornata, aveva avuto l’impressione che ci fosse qualcosa di diverso, qualcosa che mancava.
Aveva anche chiesto a sua madre, ma lei le aveva detto che era tutto al suo posto, che l’altro inquilino non aveva né portato via oggetti né ne aveva aggiunti di altri.
Si era così convinta che la sua sensazione fosse dovuta soltanto al fatto che era da troppo tempo che non metteva più piede in casa sua, così tanto da non ricordarsi com’era fatta nei minimi particolari.
Finalmente le auto ripresero a scorrere, permettendole di girare verso Regent Street.
Parcheggiò proprio sotto al suo palazzo ed entrò tenendo tra le braccia i volumi che aveva comprato uscendo.
Quando le porte dell’ascensore si aprirono incrociò una ragazza bionda, alta e slanciata che le riservò un’occhiata scettica. Doveva trattarsi della ragazza che abitava due piani sotto di lei, una certa May o qualcosa del genere, probabilmente si erano viste durante una delle riunioni di condominio.
Non la conosceva, né poteva dire di averci parlato abbastanza spesso per poter dire qualcosa su di lei, però così, di primo impatto, aveva la bizzarra sensazione che fosse una persona decisamente spiacevole da frequentare; la classica ragazza tutta curve e niente cervello, ecco.
Peccato che gli uomini preferissero quel genere di ragazze.
“Non trovi che quella sia priva di classe e con istinti predatori?”
“Sono due qualità per cui gli uomini vanno matti!”
Le porte dell’ascensore si chiusero davanti ai suoi occhi, producendo un sinistro cigolio metallico.
Rimase per un attimo interdetta e confusa a fissare il grigio della cabina dell’ascensore, incapace di spiegarsi come mai la sua mente avesse riprodotto un dialogo che, a meno che lei non soffrisse di una forma precoce di alzheimer, non era mai avvenuto.
Eppure sembrava reale, terribilmente reale.
Le porte si aprirono davanti alla porta del suo appartamento producendo il tipico suono cantilenante che accompagnava l’apertura.
Hermione scosse il capo, stringendosi più forte i libri contro il petto, e si avviò a passo deciso verso la porta infilando la chiave nella toppa.
Le ci vollero tre tentativi per riuscire ad aprirla e, una volta entrata sentì degli strani rumori provenire dal tetto.

***

Per fortuna, o forse per disgrazia, il proprietario del suo vecchio appartamento non aveva trovato un altro abbastanza idiota da affittarglielo così, circa una settimana prima, aveva liberato l’appartamento in Regent Street da tutte le sue cose, tornando in quel buco dal divano che cigolava.
Perché infondo lo sapeva lui, che era tutta una questione di divano, lo era stata fin dall’inizio.
Sospirò, passandosi una mano sul volto.
Il fatto era ché il divano non c’entrava proprio niente, non c’era mai entrato niente.
Il fatto era che il divano era sempre stato solo una scusa per evitare di ammettere che quella casa aveva un che di magico che l’aveva attirato; il fatto era che era Hermione a mancargli e non il suo divano.
Un timido raggio di sole gli colpì il volto, dandogli fastidio agli occhi.
Se non fosse stato per l’azione costante del vento, nonostante fosse ormai autunno inoltrato, il sole avrebbe ancora scottato come nei torridi pomeriggi d’agosto che si succedevano placidi durante l’estate.
Ron sbuffò, alzandosi dal divano e dirigendosi verso la finestrella che dava sulla strada. Diagon Alley era affollata come sempre, costantemente resa viva dal via vai di maghi e streghe che gironzolavano alla ricerca delle cose più strane.
Incapace di rimanere chiuso in casa a rimuginare afferrò il cappotto e, ignaro della sua meta, si Smaterializzò.
Si ritrovò sul tetto di un alto palazzo che doveva trovarsi nella Londra babbana, a giudicare dalle auto che correvano frettolose sulla strada ai piedi dello stabile.
Con un velo di malinconia negli occhi si sedette a terra - non gli era voluto molto per riconoscere quel tetto – e portò le gambe al petto ed alzando lo sguardo verso il cielo.
Era una giornata serena e le nuvole bianche si stagliavano nel cielo, a contrasto con il suo azzurro limpido.
Ne individuò una che somigliava ad un taxi e sul volto gli si dipinse un sorriso amaro.
“Hai mai fatto il gioco delle nuvole?”
“No. Cos’è?”
“Non sai cos’è il gioco delle nuvole? Vieni qui. Guarda quella nuvola, cos’è secondo te?”
“Secondo me è un Boccino.”
Sospirò, passandosi una mano tra i capelli, a giudicare dal traffico che si poteva notare da tetto del palazzo, Hermione non sarebbe rientrata prima di un’ora, aveva tutto il tempo di crogiolarsi nei ricordi.

*** 

Hermione mosse cauta i piedi lungo le scale che portavano al tetto del palazzo. Solo lei e l’altro inquilino dell’ultimo piano avevano l’accesso al tetto e questa era una delle ragioni per cui adorava quell’appartamento, insieme alla finestra semicircolare in salotto ed al grande letto in ferro battuto che aveva in camera.
Aprì piano la porta antincendio, sbirciando fuori; subito il vento le colpì il volto, facendole salire un brivido lungo la schiena.
Combattendo contro la voglia di richiudere la porta e tornarsene al calduccio di casa sua, Hermione uscì sul tetto, lasciando che l’imponente e pesante porta si chiudesse alle sue spalle.
Si guardò intorno, alla ricerca del qualcosa che l’aveva portata lassù ma, apparentemente, sul tetto non c’era nulla di strano.
Nulla che non dovesse esserci.
Forse se l’era immaginato. Sì, sicuramente.
Si era quasi convinta che le cosse stessero così quando, strizzando gli occhi, notò che, vicino al cornicione, con le gambe strette al petto, qualcuno stava seduto ad osservare il cielo.
Non riusciva a distinguere altro che i capelli rossi e la corporatura robusta, in più il vento le rendeva più difficile la visuale, mandandole i capelli sul volto.
Avanzò di qualche passo, attenta a non fare troppo rumore.
Avrebbe potuto alzare la voce e chiedergli come mai si trovasse lì, magari anche minacciarlo di chiamare la polizia; infondo, sarebbe stato un suo diritto.
Eppure aveva la strana sensazione che, parlando, avrebbe interrotto qualcosa di molto più grande che una stupida discussione sul perché e il percome quello sconosciuto fosse riuscito ad accedere al tetto.
Avvicinandosi riuscì a scorgere anche il suo profilo ed i suoi occhi blu, puntati insistentemente verso il cielo.
Improvvisamente, prima che lei potesse fare alcunché, il ragazzo si voltò, svelando la sua presenza sul tetto.
“Ciao,” disse, portando i propri occhi il più lontano possibile da quelli di lei.
“Salve,” rispose Hermione, avvicinandosi un altro po’.
Il ragazzo scrollò le spalle, nascondendo un brivido di freddo.
“Tu sei Ronald, giusto?” Ron annuì, pensando che, forse per ironia della sorte, era riuscita a ricordare il suo nome di battesimo dopo averlo sentito soltanto una volta mentre, invece, aveva dimenticato tutte le altre cose avevano fatto insieme, un milione di volte.
“Ron,” disse dopo un po’, “lo preferisco.”
Hermione annuì, sedendosi al suo fianco con titubanza.
“Cosa ci fai quassù?”
Ron scrollò le spalle, continuando a fissare il cielo. Non lo sapeva cosa ci faceva lassù, c’era finito e basta.
“Non lo so, e tu?”
Anche Hermione si strinse semplicemente nelle spalle, avvolgendosi le gambe con le braccia e sospirando.
“Neanche io lo so, però mi piace qui, ci vengo spesso quando ho voglia di riflettere,” disse, cercando con lo sguardo ciò che nel cielo attirava tanto l’attenzione del ragazzo.
Non vide altro che un gruppo di nuvole che, ammassate l’una sull’altra, ricordavano un cavallo.
“Come hai fatto a salire?” domandò infine, spostando lo sguardo sul profilo di Ron.
“Mi sono Materializzato,” rispose, semplicemente, ignorando il fatto che lei non ricordasse nulla di chi lui fosse in realtà.
Hermione non rispose, pensò solamente che quel ragazzo volesse semplicemente evitare di confessare in che modo avesse avuto accesso al tetto.
Inoltre, una parte di lei sentiva che non era il caso di porre alcuna domanda poiché qualsiasi fosse stata la risposta, lei, l’avrebbe saputa comunque.
Era una convinzione sciocca e presuntuosa, ma non riusciva a sradicarla dalla sua testa.
Ripensò alla parola Materializzazione quando, improvvisamente, accadde di nuovo ciò che era successo pochi minuti prima nell’ascensore.
“Non mi abituerò mai a questa cosa.”
Sbatté le palpebre, indubbiamente, la voce che nella sua mente aveva formulato quella frase era proprio la sua.
“Quindi ‘voi’ sareste…cosa?”
“Siamo maghi. Sai, tipo Merlino.”
“Tutto bene?” la voce di Ron la riportò al presente, sul tetto con lui.
Hermione si voltò verso il ragazzo ed annuì, sbattendo le palpebre ripetutamente.
“Non hai una bella cera, sicura di star bene?” domandò, avvicinando il volto a quello di lei per osservarla meglio.
Hermione si ritrasse, annuendo.
“Noi due ci siamo mai conosciuti prima?”
Ron rimase interdetto per un secondo, soppesando quella domanda.
C’era forse un doppio senso nelle sue parole? O magari un qualche trabocchetto?
“Sì,” disse infine. “Ma tu non te lo ricordi.”
“Visto che ormai siamo amici potresti dirmi-”
“Non siamo amici!”
“Okay, anche se non siamo amici, potresti dirmi il tuo nome?”
“Hermione. Mi chiamo Hermione.”
“Pe-perché non me lo ricordo?” balbettò.
“Non lo so,” rispose Ron. “Non te lo ricordi e basta.”
Hermione sbatté le palpebre, spossata. Lentamente dialoghi che non ricordava di aver mai avuto riaffioravano nella sua mente, sempre più reali man a mano che Ron parlava.
“Come ci siamo conosciuti?”
“Tu eri in coma ed il tuo spirito abitava l’appartamento, ci siamo conosciuti così.”
“Ch-chi è lei?”
“Chi sei tu, e cosa ci fai qui, piuttosto.”
“Io qui ci abito.”
“Devi aver sbagliato porta, forse l’ho lasciata mezz’aperta, qui ci abito io.”
“E poi?”
“E poi…” Ron s’interruppe, cercando i suoi occhi con lo sguardo. Era certo che se le avesse raccontato il seguito l’avrebbe preso per pazzo.
“E poi?” insisté Hermione.
“Cosa vuoi da me?”
“Che tu mi aiuti a scoprire chi sono.”
“E tu non ti ricordavi chi eri ed insieme abbiamo scoperto che eri un dottore e che lavoravi al St. Patrick,” spiegò, deglutendo.
Hermione socchiuse le palpebre ed improvvisamente tutto le fu di nuovo chiaro.
“Posso provare a fare una cosa?”
“Ti sento.”
 
“Ron!”
“Hermione? Sei tornata.”
 
“Allora, come hai fatto a liberarti di May, ieri sera?”
“Le ho detto che non potevo rimanere lì con lei perché avevo qualcuno di più importante da cui andare.”
 
“Sai, credo di aver capito qual è la mia questione in sospeso.”
“Mh?”
“Sei tu, la mia questione in sospeso.”
 
“Resti con me, vero?”
“Fino alla fine del mondo.”
 
“Io…Ron io credo di essere pronta.”
“Io no.”
“Lasciami andare Ron, ti prego.”
“No. Non posso. Non voglio.”
“Devi.”
“Addio Ron.”
“Hermione!”
“Io sono Hermione,” balbettò la ragazza, sbattendo le palpebre.
Ron la guardò inarcando le sopracciglia, confuso.
“Sì che lo sei.”
“No!” esclamò la ragazza, sorridendogli. “Tu non capisci, io sono Hermione!”
“Lo so che lo sei,” ribatté lui, voltandosi verso Hermione.
“Non che non lo sai, io…io mi ricordo di te.”
Ron sbatté le palpebre un paio di volte, stordito. Doveva trattarsi di un sogno, per forza. Però, sicuramente era un bel sogno.
“Ti…ti ricordi?” balbettò e lei annuì, sorridendo come l’aveva vista sorridere solo poche volte in quei mesi. Sorridendo di un sorriso così felice da illuminare il mondo. “Davvero?”
“Sì,” disse Hermione. “Certo che mi ricordo.”
“Be’…ehm…cosa si fa in questi casi?” balbettò Ron, passandosi una mano tra i capelli.
Gli sembrava di essere tornato un adolescente alle prese con la sua prima ragazza e sentì le orecchie arrossare insieme al collo, facendolo somigliare ad una lucina di quelle che si mettono sull’albero di natale, o, nel peggiore dei casi, ad un mandarino.
“Non lo so, tu cosa vorresti fare?”
Ma che domanda era quella? Era ovvio che avrebbe voluto sporgersi quel tanto che bastava per baciarla ma era solo troppo codardo per farlo.
Perché Ron Weasley non si smentisce mai, neanche quando il destino gli concede una seconda chance.
“Io…ecco…io…”
Hermione sbuffò, nascondendo un sorriso, e, ricacciando nel profondo della sua anima la parte razionale e codarda di lei che le diceva di non farlo, afferrò il collo di Ron, baciandolo sulla bocca.
Lì per lì il ragazzo spalancò gli occhi, rimanendo passivo contro le labbra di Hermione, troppo emozionato ed incredulo per fare qualsiasi cosa. Poi, come se un immaginario angelo custode gli avesse dato una botta in testa, chiuse le palpebre, avvolgendo la vita di Hermione con le braccia e sorridendo contro la sua bocca.
Era bello, baciare Hermione. Se fosse dipeso da lui dopo quella l’avrebbe baciata un'altra volta, e poi un’altra e poi un’altra ancora, resistendo fino alla fine del mondo senza ossigeno, vivendo solo dei suoi baci e della sua bocca.
Anche se tecnicamente era stata lei a baciarlo e per pura disperazione, andava comunque bene così. Forse era destino che accadesse a quel modo, com’era stato destino che succedesse tutta quella cosa dello spirito e della memoria perduta.
Forse era semplicemente scritto da qualche parte, un libro sulla storia dell’umanità o semplicemente un manoscritto sulla loro vita, che si sarebbero incontrati e che l’avrebbero fatto nel modo più insolito e bizzarro possibile.
“Ci hai mai pensato che, forse, era destino che ci incontrassimo?” domandò, allontanandosi dalle labbra della ragazza.
Hermione appoggiò la fronte contro quella di Ron, aprendo gli occhi per incontrare quelli di lui.
“Ho pensato che ci siamo incontrati, mi basta questo.”
Ron sorrise, andava bene così.





Author's Corner
Innanzi tutto vorrei ringraziare tutti coloro che hanno recensito, messo la storia tra seguiti/preferirti/ricordati e anche chi ha semplicemente letto. Veramente mille, mille grazie.
Come alcuni di voi hanno notato questa fan fiction non è tutta farina del mio sacco, ma è ispirata ad un film che a sua volta è stato tratto dal romanzo “Se solo fosse vero” di Marc Levy (Just Like Heaven nel titolo originale).
Nonostante tutto, però, spero di averci messo del mio.
Questa storia non è nata per caso, è stata il frutto di alcune curiose coincidenze che mi hanno portata al punto di scriverla a poi pubblicarla. Se siete arrivati fin qui, allora non è stato del tutto stupido seguire il coso di quelle coincidenze :)
All’interno della storia ci sono alcune citazioni, tratte da film e serie televisive, che ci tengo a sottolineare:
“Non trovi che quella sia priva di classe e con istinti predatori?”, “Sono due qualità per cui gli uomini vanno matti!”, “Esci con un pitbull allora” è una citazione del film “Se solo fosse vero”.
“Al diavolo la scienza, al diavolo le probabilità” e “La persona che ha inventato la frase ‘per sempre felici e contenti’ dovrebbe essere presa a calci nel culo molto forte” sono entrambe citazioni di Grey’s Anatomy.
“Io…Ron io credo di essere pronta”, “Io no.” […] “Lasciami andare Ron, ti prego”, “No. Non posso. Non voglio.” sono ispirate ad alcuni dialoghi tra Dastan e Tamina in Prince of Persia; precisamente: lo scambio di battute nel momento in cui Tamina sta per sacrificarsi in modo da rimettere il pugnale al  sicuro e lo scambio di battute un attimo prima che Tamina cada nel burrone.
In ultimo – ho finito! Rinfoderate i forconi – vorrei spiegare il perché dei titoli. Essi, infatti, non hanno nulla a che fare con i capitoli che introducono, sono soltanto strofe delle canzoni che li hanno ispirati.
Cap. 1 – When I Look at You; Miley Cyrus
Cap. 2  - Last Friday Night; Katy Perry
Cap. 3– Coming Home; Diddy ft Skylar Grey
Cap. 4 – Firework; Katy Perry
Cap. 5 – Fireflies; Owl City
Cap. 6 – Morning Sun; Robbie Williams
Cap. 7 – Wonderwall; Oasis
Cap. 8 – Heartbeat; Enrique Iglesias ft. Nicole Scherzinger
Cap. 9 – Airplanes; Hayley Williams ft. B.O.B
Grazie di nuovo a tutti, spero tanto di non avervi deluso con questo ultimo capitolo.
Emily.


  

   
 
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