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Autore: SunVenice    24/10/2011    7 recensioni
Il governo mondiale ordina una strage oltre la Red Line, tre ragazzi sono costretti ad un doloroso esodo per recuperare almeno un pezzo della propria vita, e due mondi, da anni separati, si incontreranno sulla Grande Rotta, svelando un segreto che nessuno avrebbe mai voluto venisse divulgato. "Vuoi sapere chi sono?"
La storia continua dopo quasi tre anni di assenza! (psss! è anche ON HIATUS,perchè? Perchè sono masochista!)
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai | Personaggi: Barba bianca, Marco, Nuovo personaggio, Portuguese D. Ace
Note: What if? | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Le Sirene di Fuoco'
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Kaizoku no Allegretto

L’allegretto del pirata 

Atto 18 -seconda parte-

Atto 18, scena 7, Moby Dick

 

Nel fuggire dalla biblioteca Allegra non riuscì a staccarsi di dosso la sensazione di essere inseguita.

Continuava a correre, scattando in continuazione ogni qualvolta il labirinto intricato dei corridoi della nave la mettevano di fronte a un bivio, ma, per quanti metri avesse già percorso in pochi minuti, il sentore di pericolo, unito all’impressione continua di avere ancora quegli occhi stralunati puntati addosso, ancora no si dissipava.

Accelerava, saltava, si fermava, ripartiva, ma niente.

Era come avere su di sé un’ombra.

Incespicò nei suoi stessi piedi, rischiando di sbattere la faccia a terra e fu in quel momento, mettendosi a carponi, che si accorse di avere le gambe martoriate da continui tremiti e crampi.

Era stanchissima.

Aveva passato così tanto tempo a scappare dalla presenza di quel tipo che si era addirittura dimenticata di ascoltare il proprio corpo, sfruttando le proprie gambe come mai aveva fatto in vita sua.

Si mise in ginocchio, soffocando un lamento acuto tra i denti, con una mano premuta su uno dei polpacci.

Sperò che le gambe giovassero del contatto diretto con le sue fiamme, che il dolore sparisse o che, ancora, quelle piccole lucine sottopelle le lenissero la sofferenza dai muscoli proprio come avevano fatto con la sua gola o con le sue braccia settimane prima, quando ancora il suo corpo presentava le piaghe dell’insolazione che l’avevano portata vicinissima alla morte.

Niente accadde, nessun sollievo, niente di niente e questo la disorientò ulteriormente.

Il panico le si infilzò nel cuore quando, durante un secondo tentativo di imporre le proprietà guaritrici delle sue fiamme a quella specifica parte del corpo, queste cominciarono a prosciugarsi, sparendo come risucchiate all’interno delle sue stesse braccia.

Terrorizzata, si concentrò più che poté su quelle lingue di fuoco giallo. Contrasse le dita delle mani, stringendole sopra lo strato liscio del pavimento, si irrigidì, ma sulle prime non vi fu alcun miglioramento.

No. no. NO! - ripetè ossessionata, arricciandosi sul pavimento, concentrandosi su nient’altro che non fosse la sensazione del calore protettivo del suo fuoco che le stava lentamente andando a mancare.

Aveva paura. Per quanto fosse grande la distanza che la divideva dalla biblioteca e dalla sgradevole presenza di quell’individuo, il solo pensiero di perdere le proprie fiamme, che più di una volta l’avevano salvata, le faceva montare dentro una disperazione indescrivibile.

Rimanere spoglia, indifesa. NO! Non potevano abbandonarla in quel modo. Non adesso!     

A quel pensiero le lingue ardenti, come mosse dal suo risoluto e disperato richiamo, tornarono a zampillare come se su di loro fosse stata gettata della paglia.

Se ne accorse con non poco sollievo, ma non abbastanza per farla sentire al sicuro.

Di nuovo il dolore dei muscoli le invase la mente e di nuovo le fiamme parvero ritirarsi.

Sembrava quasi uno strumento di difesa, ma la paradisea era troppo spaventata per farci caso, mentre di nuovo le richiamava, riuscendoci.

Scattò la testa da una parte all’altra del corridoio e la rabbia si fuse con la disperazione.

Perché nessuno era venuto a cercarla? Perché, proprio mentre aveva più bisogno dei suoi fratelli, questi scomparivano?!

Un pensiero malevolo le si insinuò nelle orecchie, confuso, sconnesso, incomprensibile, ma abbastanza basso e sibilante da farla inorridire di se stessa.

Non poteva pensare male di loro! Come poteva permettere al suo cuore di dubitare della sua nuova famiglia? Loro l’avevano salvata, curata, accudita senza sapere assolutamente nulla di lei!

Un’altro sussurro malevolo cercò di farle ritrattare l’ultimo punto della frase.

Si prese il viso tra le mani e lo scosse con violenza.

Possibile che le avessero mentito? Che le avessero nascosto tutto? E, se sì, a quale scopo?

Di colpo ebbe l’istinto di urlare e chiamare qualcuno. Chiunque.

Oyaji.

Marco.

Ace.

Vista.

Jaws.

Satch.

Satch...- ripensò scoprendosi il viso imperlato di lacrime. Nella sua mente prese forma il sorriso dell’amico, il suo modo di fare paterno, contornato da un’atmosfera di infantile, tipica di chi ha vissuto appieno la gioventù, senza mai averla abbandonata veramente. Il suo amico Satch, quello che l’aveva rincorsa per chiederle scusa nei corridoi della nave, lo stesso a cui lei a sua volta aveva implorato perdono per una reazione eccessiva.

Lo stesso che, pur di avere la possibilità di andarla a cercare, aveva promesso a Marco ed Ace di non starle troppo appiccicato.

Nuovi rivoli di lacrime le solcarono le guance. Come aveva fatto a dubitare? Come poteva dubitare di tutti... di Ace, che si dava tanta pena per cercare di farla sorridere, di Marco, che aveva speso notti insonni pur di insegnarle la lingua per farla sentire meno inadeguata in mezzo a loro, di Satch...?

D’improvviso, unito all’autocommiserazione e alla vergogna, arrivò qualcos’altro. Una cosa che gli fece affondare ancor di più il viso tra le mani con un urlo strozzato in un mugugno.

Ombre veloci, immagini confuse, quasi sgranate, luminose. Variopinte come le chiome infuocate delle sue amiche. Verdi come le grandi foglie della sua isola. Rosse come il sangue. Blu come la notte. Pesanti ed insopportabili come il fumo nei suoi occhi. Acri come l’odore di terra e carne bruciata.

La voce di suo fratello in lontananza che le diceva di non guardare. Lo sguardo intontito di Viola. La cima della loro isola che andava lentamente in fumo...

La sua mamma, le sue zie... Agiata.

Tutte. Tutte. Sparite.

E per cosa?

Un demone nero e rosso.

Si dimenò, ribellandosi a quell’ultima immagine, certa che se l’avesse collegata a tutte le altre sarebbe impazzita.

Le sue labbra si mossero da sole, tremolanti, incerte e un nodo le soffocò la gola.  

“Satch.....!” chiamò piangendo, abbassando la voce così tanto che le parve un grugnito appena sussurrato.

Nessun suono acuto le pervase la gola, niente che le facesse dubitare di quello che stava facendo, nulla che la portasse a prevedere un imminente attacco da parte di un qualche mostro marino. 

“Satch.....! Satch.....!” continuò, pigolando come un pulcino per un tempo che le sembrò un’eternità.

Gli occhi erano talmente liquidi da offuscarle la vista e le braccia sotto di lei tremavano violentemente, minacciandola di non sorreggerla un solo minuto di più.

“Scricciolo!”

Non lo vide arrivare, ma anche se i suoi occhi non le concessero di vederlo chiaramente in viso, le bastò riconoscerne la sagoma sfocata per sentirsi finalmente al sicuro.

Il demone volò via, andandosene però con la silenziosa promessa di ritornare.

Non appena il comandante della quarta flotta si abbassò, lei allungò le braccia, avvicinandoselo quanto più poté, affondando il viso sul nel suo collo.

Singhiozzò più silenziosamente che riuscì, mentre questi, inizialmente scosso dalle azioni della più piccola, la avvolse in un abbraccio rassicurante, una mano sulla sua nuca, l’altra sulla schiena, sussurrandole poi parole di conforto incomprensibili alle orecchie della paradisea.   

 

Tornare in infermeria una seconda volta fu molto più difficile e più caotico rispetto alla prima. Non appena mise piede all’interno del reparto, tutte le infermiere si gettarono  come un’unica entità su di lui, circondandolo con una rapidità tale da sbigottirlo.

Satch fece fatica ad ascoltare e rispondere a tutte le domande che gli vennero poste dalle infermiere, troppo occupato a trattenere la piccola a sé per evitare che gli scivolasse via o, peggio, ricominciasse a piangere.

Fu un miracolo arrivare ad uno dei letti. Dopo un breve ma intenso interrogatorio di Biri e Ribi, interrotto prontamente da un paio di cartellate ben assestate da parte di Betty sulle loro giovani teste, il comandante poté infine sperare di poter mettere giù la paradisea.

Sperare, perché, al suo gesto di lasciarla andare, la presa della ragazza infuocata sulle sue spalle si rafforzò, impedendogli di abbandonarla.

Fu lì che Satch iniziò ad avere davvero paura.

Trovare il suo piccolo scricciolo in evidente stato confusionale tra i corridoi della Moby l’aveva già scosso di non poco, ma aggiungere alla confusione disperata della sua piccola sorellina il terrore di essere abbandonata gli insinuò dentro un timore che, nonostante tutto, si ritrovò a ricacciare all’indietro.

Era successo qualcosa. Non aveva ragione di credere il contrario. Momo non aveva mai reagito in quella maniera se non di fronte ad un Re dei Mari squartato vivo di fronte ai suoi occhi.

Per alcuni la cosa poteva non significare niente, ma per lui era diverso e qualcosa per un attimo gli ronzò in testa, bloccandolo. 

Scosse la testa ed abbassò lo sguardo, decidendo con assoluta serietà che avrebbe fatto una visita al babbo una volta tranquillizzata la piccola che, tra le sue braccia, continuava a sussurrare frasi incoerenti, soffocandole in parte sulla sua spalla e in parte tra singhiozzi.

“Tranquilla scricciolo, tranquilla.” rispondeva lui, continuando a strofinarle la schiena con una mano, sperando di confortarla in qualche modo.

Il suo gesto però parve totalmente inutile e questo non lo aiutò a ricacciare all’indietro la preoccupazione.

Fu allora che, tra un singulto e l’altro la voce di Momo lo sorprese con una frase ricca di significato:

“La mia... sigh... casa...”

“Chiamate Jaws.” fu l’immediato ordine che Satch fece scivolare dalle labbra, puntando le infermiere con uno sguardo che, Betty, Lova e Penelope sapevano bene, che non si vedeva spesso al di fuori delle battaglie.

Mindy partì come un razzo, nemmeno avesse visto passarle davanti una lucertola che, tutti lo sapevano, la terrorizzavano.

Non era preparato per una svolta simile. Che lo scricciolo potesse prima o poi ricordarsi di essere una paradisea era scontato, ma così all’improvviso...

Era stata la sua indole di comandante a farlo entrare in quella modalità, che spesso e volentieri i suoi chiamavano scherzosamente “Lato Serio”, che l’aveva condotto ad un unico e semplice comando permettendogli di recarsi velocemente dal babbo e rendere conto sia a lui che il resto della ciurma di quanto successo.

Fu con lo strazio nel cuore che il biondo, non appena avvistato Jaws, si sciolse dalla presa della piccola, ma, anche se le mani della piccola paradisea si illuminarono di bianco, provocandogli delle lievi ustioni sulle spalle, atte a farlo desistere dal suo proposito di allontanarsi, non potè far altro che cedere il proprio posto al comandante Diamante.

Camminando a ritroso il percorso che conduceva al ponte, Satch trovò l’intreccio di corridoi maledettamente lungo, nonostante lo stesse divorando a grandi e veloci falcate, ma i suoi sforzi furono premiati quando la luce mattutina del cielo gli ferì gli occhi e tutti i suoi fratelli gli comparvero attorno.

A poco a poco ogni componente della ciurma posò lo sguardo incuriosito su di lui, che di certo non doveva essere un bello spettacolo con la sua solitamente impeccabile camicia bruciata ai lati e il volto lievemente sudato.

Anche Marco ed Ace si unirono agli altri, aspettando da lui qualcosa che non tardò ad arrivare.

Una semplice frase. Tre parole. Usate spesso negli ultimi tempi per descrivere momenti come quello, ma che, pronunciate dopo una tale solenne pausa, assunse il più grande dei significati.

“Si è ricordata.”

 

Atto 18, scena 8

 

Nonostante all’inizio Garp fosse stato più che dubbioso delle parole di Clarina, alla fine, dopo estenuanti minuti passati a fissare l’espressione sicura e sorridente della donna, picchiettando regolarmente un dito sulla sua scrivania con fare combattuto, mentre con l’altra mano sosteneva la propria testa affinché non piombasse sul tavolo, aveva clamorosamente ceduto, interrompendo il contatto visivo instauratosi, come una gara, tra lui e la paradisea.

Aveva dato il meglio di sé per chiederle spiegazioni o per far vacillare le sue convinzioni con occhiate degne di un marine della propria carica, ma nulla era cambiato sul volto perfettamente ovale dell’altra.

Si passò con fare nervoso una mano sul mento barbuto, facendo finta di non aver sentito la risatina della bionda dinanzi a lui.

Evidentemente la sua confusione la divertiva.

Dannazione, ma perché capitavano sempre a lui persone di quel genere?

Prima Roger e adesso una Paradisea mamma con la fissa per la frutta e per i suoi figli!

Azzardò ancora una volta uno sguardo fisso sulla donna, ma l’espressione certa, smagliante e quasi sfrontata di quella creatura femminile era ancora là, immutata.

Riabbassò la testa, grugnendo rumorosamente con le mani tra i capelli ormai completamente grigi per via dell’età.

Era una persecuzione!

“Non crede sarebbe meglio smetterla di cercare un modo per dirmi che ho torto?” canticchiò quasi la donna, sporgendosi sopra la scrivania con le mani dietro la schiena.

Ritornò ad affrontare quelle gemme cobalto che, come sempre, lo accolsero con le iridi luccicanti e pronte all’ennesima battaglia.

Ah, no! - pensò il vice-ammiraglio, alzandosi con un suono rumoroso dalla sedia -Non sia mai che mi faccia mettere sotto da una donna. Dannatamente no! Non ho affrontato anni di addestramento per soccombere come uno sbarbatello alle prime armi!

“Perché? Non ne ha forse?” ringhiò con la fronte ormai ridotta ad un unica, profonda ragnatela di rughe.

Clarina sciolse il proprio sorriso, assumendo un’espressione lievemente contrariata, ma , proprio quando il Pugno stava già cantando alla vittoria, questa si alzò, tornando dritta ed emise un lungo e lievemente scocciato ... sospiro.

Mancò poco che la mascella tozza del marine si staccasse dal cranio per piombare con suono sordo sulla scrivania.

Conosceva quell’atteggiamento.

Come non farlo! Ogni uomo con sulle spalle un’età degna di questo nome sapeva riconoscerlo!

Era esattamente uguale a quello di qualsiasi mamma che costellava l’intero globo, la stesso che ogni donna assumeva di fronte ad un bambino troppo semplice ed immaturo per capire un concetto troppo grande e complicato.

Clarina Sassonia lo aveva appena...

Scosse la testa.

No. Rifiutava di crederci.

Strinse i pugni pulsanti, facendo appello a ogni briciolo di autocontrollo nel suo corpo e, nonostante in termini di quantità questo fosse paragonabile ad un gruzzolo di erba morta, per non cadere tanto in basso da non colpire in testa una donna, come aveva fatto tempo addietro con i suoi nipoti, riuscì a mantenersi per lo meno immobile.

Fermo. Come inchiodato alla sedia.

Il fatto di essersi trattenuto gli diede il tempo di ragionare su pochi ma essenziali aspetti della sua ospite.

Donna.

Mamma.

Paradisea.

Le prime due riguardavano una categoria a lui abbastanza sconosciuta, ma comunque sufficientemente affrontata in passato, con esperienze traumatiche a ben ricordare.

L’ultima invece riguardava qualcosa di più significativo.

Clarina era una Paradisea. Una fiamma alta. Bianca. La sua età attuale poteva benissimo differire di decenni da quella esteriore, addirittura eguagliare la sua. 

Le nocche finalmente si rilassarono, lasciando che il sangue affluisse liberamente.

“La sua reputazione.”

Quel rapido soffio gli era passato nelle orecchie come un freccia e quasi si stupì di vedere l’espressione della donna persa nel vuoto, quasi non stessero più scrutando la libreria addossata al muro della stanza, ma un punto lontano e concreto che andava oltre la polvere sugli scaffali.

“Akainu morirebbe di vergogna se i Cinque Astri scoprissero che non ha sterminato tutte noi Paradisee, dire che lei ha salvato me significherebbe mettere in ballo la mia identità...”

Gli occhi cobalto si posarono su di lui, leggeri come dei petali sull’acqua, e il marine quasi trattenne il fiato, notando un piccolo riflesso bianco luccicare al centro della pupilla.

La donna davanti a lui sorrise, quasi compiaciuta dal suo stupore che gli aveva fatto penzolare di poco la mascella.

“... e di conseguenza compromettersi in maniera irreparabile.”

Le pareti della stanza parvero scricchiolare con più convinzione, spinte da qualche onda più decisa delle altre infrantesi sulla chiglia.

Garp non osò dire niente per un po’.

Aveva capito dove gli sembrava di aver già visto l’espressione decisa ed assorta di quella donna, o meglio, se ne era ricordato. Oh, se si era ricordato. Uno sguardo simile non si scorda facilmente, ma forse era stato proprio a causa dell’individuo associato a quel particolare atteggiamento che aveva faticato a mettere insieme i pezzi.

Congiunse le mani sotto il mento, cercando di non lasciar trapelare nulla dei propri pensieri, e si abbandonò ad un unica ed ultima domanda sull’argomento:

“Sta dicendo che, anche volendo, gli sarebbe impossibile accusare in qualunque modo i miei allievi?”

“Esatto.”  

Si lasciò scappare un sospiro di sollievo da sotto i baffi.

Stavolta aveva davvero temuto il peggio per i suoi ragazzi.

Si decise ad alzare lo sguardo sulla bionda, oscurando il proprio viso con un’espressione ugualmente grave a quella precedente, nonostante la questione Akainu fosse ormai risolta. 

“Mi tolga una curiosità Clarina.”

“Uh?” sbattè innocentemente le palpebre la donna, non capendo che motivo ci potesse essere per continuare con quell’atmosfera pesante.

“Ha mai sentito parlare di un certo Gol D. Roger?”

La paradisea bianca si lasciò quasi scappare una risata.

Aah... ecco il motivo.

“Da mio marito.”

“L’ha mai incontrato?”

“Non direttamente, che io sappia.” sorrise enigmatica, lasciando che l’occhiataccia insoddisfatta di Garp le scivolasse addosso come acqua.

Un ringhio appena trattenuto in gola le fece capire quanto la sua risposta lo avesse irritato. Oh, bhe... poco male, in fondo non era poi così importante vista la domanda che sarebbe certamente arrivata dopo.

“Clarina...” 

Il suo nome le apparve pronunciato a mo’ di avvertimento, ma non si lasciò condizionare e, gongolando mentalmente come una bambina, incrociò le braccia al petto, mantenendo il proprio sorriso raggiante come non mai, attendendo pazientemente.

“Sììì?”

“Qual’è la vostra Essenza?”

Tombola.

Sciolse le braccia lasciandole penzolare ai propri fianchi, mentre le sue labbra assunsero una piega quasi nostalgica.

Non era mai successo che un essere umano le chiedesse una cosa simile in modo tanto diretto, ma sapeva bene che, prima o poi, sarebbe successo e il momento era infine giunto. 

Non era preoccupata, nè tantomeno combattuta: Garp era una bravissima persona, un uomo di parola, coraggioso e premuroso verso chiunque fosse stato sotto la propria responsabilità. Non c’era paragone per un uomo come lui, a parte il capitano di suo marito, quel rosso che le aveva giurato di riportarglielo sano e salvo dalla polena draconica della sua nave.

Prese un respiro profondo e si preparò, evocando su un piccolo punto della propria mano alcune delle sue fiamme candide, facendole zampillare sul dorso davanti agli occhi attenti del marine.

Le osservò anche lei, rivivendo con una lieve malinconia i momenti indimenticabili che avevano preceduto la presa consapevolezza di quale, effettivamente, fosse la fonte di energia che le percorreva anima e corpo fin dalla nascita.

“La Verità.”

La mascella di Garp cadde, per la prima volta dacchè si erano incontrati, sul tavolo, accompagnando con un tonfo l’espressione sbarellata del marine: gli occhi fuori dalle orbite ed il naso mezzo colante fece dubitare Clarina di aver fatto bene ad essere stata così diretta.

....

Oh. Bhe. Era la sua natura dopotutto.

 

Atto 18, scena 9, Moby Dick

 

“Va’ meglio?” chiese un po’ rudemente Jaws, passandole una tazza d’infuso che Carol le aveva imposto di bere poco alla volta. Da quando aveva riacquisito un po’ di lucidità mentale le infermiere le erano ronzate attorno come tante api operaie, costringendola a non muoversi da letto per nessuna ragione, almeno finché non avessero completato tutte le sue analisi.

L’arrivo di Jaws era stato tutto fuorchè previsto.

Allegra lo capì subito poiché, non appena la figura mastodontica del comandante apparve sulla soglia, Betty gli si parò davanti con le mani sui fianchi e con gli occhiali che, se avessero potuto, avrebbero mandato scintille.

Non c’era stato uno scambio di battute. Del resto con una persona come Jaws, le parole sarebbero servite a poco, ma, per una cosa o per l’altra, il capo reparto finì con l’abbassare il capo e scansarsi.

“E sia. Fatele compagnia. Ma azzardatevi a farla innervosire e vi stampo i miei tacchi sul fondoschiena, comandante.”

Così era finita e Jaws si era sistemato su uno sgabellino accanto a lei, puntandole gli occhi addosso quasi si aspettasse una qualche reazione.

Non fu molto contenta di essere osservata così ostinatamente, tanto che la macchinetta che simulava la frequenza del suo battito cardiaco suonò un paio di volte di troppo, provocando un’occhiataccia generale delle infermiere nei confronti del comandante diamante, ma fu solo un rapido istante e, comunque, fu grata all’altro di poter finalmente godere di un po’ di compagnia.

Certo, c’erano le infermiere, ma tra loro e Jaws c’era la differenza di stazza che la faceva sentire protetta a tutto tondo, quasi si aspettasse da un momento all’altro di essere attaccata fisicamente.

Scrollò le spalle, portando un’altra volta la tazza alle labbra e prendendone un grosso sorso.

Andava tutto bene.

Non doveva pensarci.

L’importante era non pensarci.

Abbassò le palpebre e tirò un respiro profondo, tornando infine a guardare Jaws, i cui lineamenti duri erano stati raddolciti da quella che, ad un’occhiata più attenta, poteva essere definita come una nota di preoccupazione.

Scusa Jaws... - pensò, sperando che con uno sguardo potesse trasmettere al comandante un minimo del rammarico che provava nei suoi confronti, costretto a rimanere accanto a lei pur sapendo di non poter ricevere alcuna risposta a parole.

Le sopracciglia di Jaws si distesero, quasi avesse intuito quello che voleva dirgli e... un sorriso fece capolino per un istante sulle sue labbra.

Tutte quante, persino lei, che era seduta a pochi centimetri dall’omone, si bloccarono di colpo.

Jaws aveva appena sorriso... sorriso!

“Kyaaa!!” partì un’urlo spaventato dalla gola di Ribibi, che saltò addosso la sorella quasi le fosse passato accanto un topo. Dal canto suo Biribi rimase immobile, esterrefatta tanto quanto le sue colleghe e quindi troppo scossa per esprimere il proprio sgomento.

Quante volte avevano visto il comandante Diamante sorridere?!

Certo, c’erano i rari momenti in cui, tra un boccale e l’altro di rhum il mastodontico comandante abbandonava la propria espressione da burbero per sciogliersi in qualche risata conciata e glutturale, ma mai così!

“Betty..?” osò chiedere Penelope accostandosi alla capo reparto con una mano a coprirle la bocca, quasi avesse paura che, sentendola, tutte le altre sarebbero andate nel panico.

“Avverto il capitano di una tempesta imminente?”

Allegra da lontano non capì nulla di ciò che l’infermiera bionda aveva sussurrato all’altra, ma, da come il volto angelico della donna si era ombrato ed appesantito, doveva aver detto una cosa tremendamente  seria.

Le fu comunque possibile sentire la risposta di Betty, ancora immobile con gli occhiali scuri a coprirle buona parte del viso.

“Fallo con discrezione.”

Un’attimo dopo Penelope era sparita e Betty aveva ordinato alle altre di tornare al lavoro.

Non appena tutto tornò alla normalità l’infermiera dagli occhiali si girò, osservando assorta Momo e Jaws godere l’uno della presenza dell’altra come se fossero stati fratello e sorella.

Dietro le sue lenti scure le sopracciglia le si aggrottarono.

Come faceva Momo a farsi amare in quel modo da chiunque? 

Non c’era nessuno sulla Moby, Ace e Marco in particolare, che non adorasse quella piccola e all’apparenza indifesa creatura.

Mettendo da parte il caso limite dell’ex-schiavista Roid Brinata, per tutta la ciurma accettare e proteggere la paradisea era stato naturale come bere un bicchiere d’acqua.

Sembrava quasi che la sola presenza della ragazza avesse riempito un vuoto fino ad allora incolmabile e che nulla sarebbe stato come prima se le fosse successo qualcosa.

Stava giusto per andare verso Momo e Jaws, quando dalla porta dell’infermeria fece capolino un ciuffo a tutte loro ben noto.

Marco sondò l’interno della stanza quel tanto che gli bastò per individuare prima la Paradisea, troppo occupata a sorseggiare la propria tisana per accorgersi della sua apparizione, poi Betty, accanto ad uno dei loro tanti complicati macchinari posto a qualche metro dall’entrata.

Un gesto della mano da parte del biondo le fece capire che il comandante voleva parlarle e lei, passando accanto alle due gemelle pettegole, già perse nelle loro fantasie romantiche riguardo all’improvvisa apparizione della Fenice in infermeria, uscì dalla stanza con quanta più discrezione poté.

Non appena fu dinanzi al comandante questi non perse tempo a cincischiare:

“Come sta?”

“è ancora un po’ scossa.” rispose prontamente la mora, tornando ad osservare la ragazza, ancora persa nei propri pensieri con occhi vacui e la tazza tra le mani, stranamente ancora percorse dalle proprie fiamme.

“Ha detto qualcosa?”

“è giorno, comandante.” sbuffò Betty mettendo le mani sui fianchi.

Marco semplicemente guardò da un’altra parte, esprimendo il proprio imbarazzo per quella domanda fuori luogo grattandosi la testa con una mano.

“Certo...” rispose.

“Sembra aver subito un grosso shock, qualcosa deve averle scatenato il recupero di qualche ricordo traumatico, ma finché non cala il sole...”

“Capito.” la interruppe, annuendo, e, se proprio doveva essere sincera, la cosa la irritò di non poco, ma, pensandoci bene, ed osservando il modo in cui gli occhi azzurri del comandante si erano fermati sognanti sulla ragazza, non era poi così grave.

Sorridendo appena, la capo reparto si allontanò dal ragazzo e non si stupì, quando constatò che questi non se ne accorse neanche.

Eh. Che bella cosa l’amore...

Oh ... no Betty cara! - pensò scrollando le spalle come colta da un brivido di freddo - Niente pensieri mielosi! Più lavoro. Meno smancerie.

E così fu, almeno finchè il suono elettronico degli impulsi cardiaci di Momo non si fece più veloce, costringendola a voltarsi meccanicamente verso di lei e notare che, non sapeva come o quando, gli occhi della Paradisea si erano incontrati con quelli della Fenice.

Di nuovo la stanza cadde nell’immobilità assoluta, quasi in attesa che il biondo annullasse le distanze tra lui e l’altra, dando luogo ad una scena struggente e bellissima.

Fu con un poco di delusione che, dopo momenti interminabili, la Fenice si mosse sì, ma solo per togliersi dalla soglia e scomparire dietro di essa, andandosene.

“Awww.” fu il lamento generale di tutte, per nulla preoccupate della presenza di Jaws, unico uomo della sala.

Betty ed il comandante Diamante furono gli unici a notare un lampo di puro dolore attraversare gli occhi di Momo, prima che questa afferrasse la coperta e se la tirasse fin sopra la testa, forse sperando di poter celare in quel modo il turbinio turbato delle proprie fiamme e il rossore delle proprie guance.

La manona di Jaws si allungò proprio sopra la testa della ragazza, accarezzandogliela da sopra le coperte, al tatto lievemente calde e per nulla danneggiate dalle lingue infuocate sotto di esse.

“Non era arrabbiato.” disse con il solito tono diretto ed un poco rude.

Allegra restò ferma per un istante, annuendo poi lievemente e rannicchiandosi un po’ di più.

Si maledì per la piacevole fitta al cuore che provò e ringraziò le coperte per il solo fatto di esistere. 

 

Atto 18, scena 10

Due linee verticali ad ornargli le guance brune, congiungendosi con il pizzetto che gli marcava il mento, e una bandana rossa a celargli totalmente la fronte e buona parte dei capelli, Doma guardava la nave dei sogni, la nave avversaria, solcargli davanti con qualche nodo di vantaggio.

I suoi occhi, fissi come di consueto, non mollavano quella meravigliosa preda nemmeno per un istante, scrutandola con la stessa feroce reverenza di un leone perso nella concentrazione immediatamente precedente al grande scatto.

Sulla nave la sua ciurma si era fermata insieme a lui, nel più sacro ed inviolabile dei silenzi, come era loro consuetudine prima di ogni battaglia.

La nave di Barbabianca, la Grande Balena, solcava decisa ed immensa davanti a loro, ghermita fin nelle sue più profonde viscere dai più feroci e capaci bucanieri che si potessero trovare al mondo.

Doma sfiorò con le dita l’elsa di una delle proprie spade, spinto dal solito ed inconsapevole istinto meccanico, e al suo gesto Josephine prese a raschiare la gola con i suoi coliti versi striduli, interrompendo quel sacro silenzio irrompendo a gran voce nelle sue orecchie.

Il Cavaliere Boemo placò i versi eccitati della sua fedele scimpanzé con una mano, accarezzandole delicatamente la testa, mentre continuava ad osservare con ossessione quella nave.

Il suo più grande ostacolo. La sua più grande vittoria. Ciò che ancora lo divideva dal Nuovo Mondo era quell’immensa imbarcazione con la polena a forma di balena.

Doma non era molto diverso da altri pirati che, come lui, solcavano le insidiose acque della Grande Rotta alla ricerca del mitico tesoro di Gol D. Roger, ma, se c’era una cosa che lo distingueva dagli altri, era la sua determinazione.

Non c’era mai stato bucaniere o corsaro più cocciuto di Doma il Cavaliere Boemo e di questo la sua ciurma ne era ben consapevole.

Doma non accettava mai una sconfitta, né una ritirata, tantomeno la sottomissione nei confronti di un’altra nave pirata. Era un uomo libero e coltivava questa convinzione di sè nel modo più rigoroso possibile: se veniva sconfitto ritornava alla carica più deciso di prima, se doveva ritirarsi lo faceva solo quando ormai nave ed ossa erano a pezzi, e se un’altro pirata gli ordinava di mettersi al suo servizio, reagiva dando le proprie ragioni con un deciso fendente all’altezza del cuore.

Orgoglioso, Cocciuto e Determinato.

Questo era Doma.

Un corsaro che avrebbe dato la vita piuttosto che piegarsi.

Un pirata pronto ad affrontare lo stesso insormontabile ostacolo centinaia di volte, piuttosto che arrendersi.

Un uomo che aveva votato la propria esistenza ad un unico grande obbiettivo: il Nuovo Mondo.

“Attacchiamo!!”

 

L’umore di Satch non era un granchè, visti gli accadimenti delle ultime ore, e meno che mai l’avvistare una nave avversaria gli avrebbe fatto piacere, se non che, adocchiandone quasi casualmente la bandiera nera, ne avesse identificato il proprietario.

“Ehi Ace, guarda un po’ chi c’è.” fece, soffocando una risatina parecchio fuori luogo se si contava l’arsenale della nave in avvicinamento, ben visibile dalle bocche di cannone che spuntavano dai fianchi, ma c’era da tenere conto che loro erano a bordo su una nave grande almeno il triplo di quella avvistata e che la banda di spostati che la stava trascinando verso di loro era fin troppo nota.

Specialmente ad Ace.

Alle parole dell’amico Pugno di fuoco si era girato, lanciando un’occhiata incuriosita oltre la propria spalla, seguendo poi con lo sguardo la direzione indicata dal dito di Satch, rivolto esattamente oltre il parapetto della nave e puntato sulla sagoma di una nave in avvicinamento.

La Jolly Roger lo colpì, inconfondibile.

Alzò gli occhi al cielo e cacciò uno sbuffo sofferente.

“Di nuovo? E che cavolo!” disse, provocando un’ondata di risate tra la ciurma, anche se lui non era affatto contento di quella visita da parte di Doma e la sua banda.

Era già amareggiato per quello che era successo a Momo e per essere stato costretto da Marco, dopo una veloce e sfortunata sfida a Jankenpou, a rimanere sul ponte insieme a Satch, piuttosto che recarsi come un dannato in infermeria.

Non era affatto in vena di uno scontro, tantomeno con quella testa dura del Boemo.

La notizia dell’arrivo del pirata nemico si sparse con la velocità di un fulmine e in pochi minuti tutta la ciurma si sporse sul fianco della Moby, gratificando i nuovi giunti con qualche risata e sporadici saluti amichevoli.

Doma il Cavaliere Boemo era ormai una faccia conosciuta tra la ciurma di Barbabianca, una presenza talmente frequente che era arrivata ad essere addirittura benvoluta.

Il pirata dalla fascia arrivava, combatteva con Ace e poi tornava sui suoi passi con una nave in meno, ma con più decisione si ripresentava il mese successivo, pronto a ripetere il copione.

Erano mesi che la cosa continuava e tutti quanti cominciavano a chiedersi seriamente cosa aspettasse Doma a posare le armi ed unirsi al Babbo il quale, assistendo anche lui dall’alto alle gesta ripetitive di quel giovinastro cocciuto, non aspettava altro che un suo cenno per poterlo prendere ufficialmente sotto la sua ala protettrice.

L’unico ad avere seri dubbi riguardo Doma era proprio Ace che, stando in piedi sul parapetto aveva, già iniziato a far suonare le nocche. Il pirata che gli stava davanti non avrebbe mai accettato così facilmente di entrare nella famiglia di chi l’aveva ripetutamente sconfitto. 

Era ostinato e coriaceo come pochi pirati sulla piazza.

Persino lui, che all’inizio aveva rifiutato categoricamente l’idea di diventare membro della Moby, arrivando addirittura a cercare di eliminare il babbo nel sonno, era stato come Doma e quindi capiva abbastanza bene cosa ne pensasse a proposito di una possibile alleanza con il Bianco.

Tuttavia, ne era certo, quell’insistenza non era nemmeno lontanamente paragonabile alla sua.

Vabbè, certo, lui si era ritrovato giorno e notte sulla stessa nave del Bianco per ben 3 settimane consecutive, ed aveva messo mano a 100 e più tipi di armi bianche, via via sempre più grandi ogni volta che falliva, ma non era mai arrivato a...!

Uno scoppio lontano e il fischio delle palle di cannone che fendevano l’aria ammutolirono tutti.

Tutti giù!!

L’ordine di Satch ebbe effetto immediato e una scarica di proiettili tondeggianti investì la nave poco sopra le loro teste, sorvolando miracolosamente sia alberi che ponte.

Ace fece scoppiare con il proprio fuoco la seconda ondata di palle di cannone, per nulla contento mentre guardava quegli aggeggi venire ricaricati con velocità militare.

Ne era certo: lui non aveva mai cercato di uccidere il babbo a cannonate.

Strinse i denti e scattò rabbiosamente dove il suo Striker era ben fissato al fianco della nave.

Stavolta non se la sarebbe cavata con un paio di ustioni di secondo grado.

Bombardare la Moby da lontano era la scelta più vigliacca che Doma potesse fare. Sconfiggere il babbo affondando la Moby?! Tsè! Solo i pirati di bassa lega e la marina potevano anche solo sperare fosse sufficiente un’azione tanto codarda per tirare giù dal suo trono Edward Newgate!

Vediamo di inculcare in quella testaccia un po’ di orgoglio pirata! -pensò mentre si gettava insieme allo Striker fuori bordo.

“Ace non fare colpi di testa!!!”  gli giunse alle orecchie la voce di Satch, ma lui fece volutamente orecchie da mercante.

La turbina che azionava il motore dello Striker sibilò, quando, ancora a mezz’aria, le suole delle sue scarpe toccarono il vano resinato della piccola imbarcazione, esplodendo in una serie di lingue roventi che gli circondarono le caviglie.

Una nuova ondata di sfere metalliche caricò su di lui.

Rise malandrino e, con un colpo di anche, la fece oscillare da una parte, evitando per un pelo di ritrovarsi con lo stomaco perforato da parte a parte.

Il contatto secco dello scafo con la superficie dell’acqua non fu tanto traumatico, vista la sua accortezza nel molleggiare le ginocchia al momento dell’impatto, rannicchiandosi, ma il buonumore dovuto al pensiero di una battaglia imminente ed alla sensazione del vento salino sul viso fu sostituito dal quasi immediato frastuono di legno che si spezzava.

Rialzandosi, Ace si maledì per essere stato tanto idiota da non accorgersi della traiettoria di quella palla di cannone. 

Ora la Moby presentava una ferita circolare e scheggiata poco sopra la linea dell’acqua.

Non era così bassa da permettere l’entrata d’acqua, ma...

Sbarrò gli occhi.

Da quelle parti stava l’infermeria.

La confusione fu la prima cosa che provò.

La sensazione di impotenza, il non sapere da che parte girarsi, la forte tentazione di ritornare sui propri passi e fiondarsi di nuovo sulla nave. 

Poi fu la volta della rabbia.

Si voltò verso la nave di Doma con i denti che digrignavano e ai suoi piedi le fiamme divamparono più forti , come alimentate dalla sua stessa ira.

“Ace!!!” urlò Satch guardando lo Striker sfrecciare via verso la nave di Doma.

Si schiaffò una mano sul viso, prevedendo grossi guai.

Dietro di lui la figura mastodontica di Oyaji torreggiava guardando serenamente tutto quello che accadeva e lui non riuscì a trattenersi dal sospirare sconvolto:

“Ma perchè certe giornate sembrano non avere mai fine?” 

 

 

Dopo un’interminabile slalom tra la pioggia di cannonate che la ciurma di Doma gli lanciò addosso, Ace sferrò il suo primo attacco con freddezza sorprendente, nonostante le circostanze.

Non appena fu abbastanza vicino e le bocche dei cannoni furono di pochi metri sopra di lui, aprì di scatto il palmo della mano destra e vi formò una densa palla di fiamme luminosa.

Da questa ne apparvero altre sette, incolonnate l’una sopra l’altra come se a tenerle unite fosse il filo di una collana, che lanciò letteralmente verso la nave con un gesto orizzontale del braccio.

Ognuna delle sfere fiammeggianti colpì in pieno la serie di cannoni che sporgevano dalla nave, facendoli esplodere in un turbinio di schegge metalliche e legnose al tempo stesso.

Pugno di fuoco attese, con sguardo fisso e quasi gelido l’accorrere sul posto di Doma, prima di sussurrare il nome della tecnica da lui utilizzata.

Lo vide arrivare attorniato dal fumo dell’incendio che il suo colpo aveva scatenato, lo sguardo fisso su di lui, dall’alto della sua nave, l’espressione indecifrabile e la sua solita scimmia attaccata alle sue spalle con la sua coda attorcigliata al braccio.

Shinka: Jikko.” sussurrò, compiacendosi segretamente della smorfia appena accennata di rabbia che si formò sul volto del pirata.

“Salute a voi. Ace Pugno di Fuoco.” lo onorò Doma, senza però riuscire a trattenere un cenno di acidità nella propria voce.

“Risparmiati i convenevoli Doma.” lo interruppe bruscamente non essendo dell’umore adatto per sostenere una simile sceneggiata “So cosa sei venuto a fare e francamente sono stufo di vederti ripiombare nei momenti meno adatti.”

Il silenzio fu l’unica cosa che ottenne dall’altro.

Ace strinse i pugni, non riuscendo a sopportare la calma che quell’imbecille si era stampato sulla faccia.

“Ammetto che non mi sei mai dispiaciuto, Doma. Sei sempre stato un degno avversario, un pirata che, nonostante l’insistenza, si è sempre dimostrato un uomo di onore.”

Prese fiato, cercando di mantenere la voce ferma, anche se gli risultava difficile vista la rabbia che gli vorticava dentro.

“Ma oggi mi hai veramente deluso, Doma.” concluse, non trovando necessario fornire ulteriori spiegazioni. Aveva commesso un grosso errore e il capirlo da solo era l’unico modo che aveva per riscattarsi.

Vide il suo avversario estrarre lentamente de due spade sottili dalla propria fodera, sguainandole completamente davanti a lui. 

“Questa sarà l’ultima volta che mi batterò con te.”

E fu così che cominciò.

 

Atto 18, scena 11, Hell Glory

 

Sognare non era mai stata una gran fonte di gioia per Arch, almeno da quando aveva visto Nido Leia ricoprirsi di cadaveri davanti ai suoi occhi. L’unica cosa che quel tragico evento della sua vita era riuscito a regalargli era stata solo un’inesorabile susseguirsi di incubi indicibili che il più delle volte ritraevano sua madre ed Allegra mentre perivano dinanzi ai suoi occhi.

La cosa più insopportabile era che, ogni volta, alla fine del sogno, l’unico a sopravvivere era sempre e solo lui: vivo e colpevole.

Il svegliarsi di botto, colando sudore freddo da tutti i pori era una cosa a cui si era lentamente abituato, non essendo osservato da nessuno in particolare in quei momenti, se non dall’oscurità della solita stanza d’albergo singola che lo proteggeva dalle occhiate accusatorie di Viola.

Sentire la pelle tirata, sporca di polvere e di umidità, aveva cominciato ad essere una sensazione sempre più conosciuta ed esplorata.

Ciononostante, mentre si rannicchiava di più sul morbido calore che sentiva avvolgersi attorno alle sue spalle, sentiva chiaramente che c’era qualcosa di diverso in quel nuovo risveglio. Si sentiva stranamente leggero, il corpo insensibile a qualsiasi cosa che non fosse il proprio respiro e la mente sgombra da qualunque pensiero che non appartenesse alla sfera del vuoto.

La consapevolezza di essere sdraiato di schiena su qualcosa di morbido gli sfiorò il petto con un soffio gelido, facendolo rotolare di fianco con un mugolio di protesta, offrendo a quello spiffero d’aria niente più che la spalla.

Era come riaffiorare poco a poco da un mare tiepido e vaporoso come una nuvola di cotone: più sentiva di stare per svegliarsi, più il suo corpo veniva incitato a proteggersi, prolungando il più possibile quel dolce torpore.

Strano, comunque, che la sua pelle non avesse ancora protestato in alcuna maniera.

Dov’era la sensazione di umido e lercio su tutto il corpo?

Mosse appena le dita di una mano, sospirando alla piacevole sensazione di pulito e ruvido sotto i polpastrelli. 

Era su un letto.

Azzardò a spostare una gamba e non sentì alcun tipo di dolore attraversargli nè muscoli nè nervi. Assolutamente perfetto, contando il fatto che...

Sbarrò gli occhi.

Realizzare di essersi addormentato la sera prima al tavolo di una mandria di tagliagole ed il loro capo gli iniettò in corpo una scossa fredda di puro terrore, facendogli svegliare tutti i sensi in una sola volta.

Si rizzò di colpo, mettendosi seduto, guardandosi febbrilmente attorno, quasi aspettandosi che qualcosa lo attaccasse da un momento all’altro o di ritrovare collo, polsi e caviglie fissate ad una parete con delle catene.

Non trovare niente di tutto ciò lo stordì per un istante. 

Attorno a lui solo una normalissima stanza, o meglio un’anonima cabina con i mobili coperti di un sottile strato di polvere e chiaramente rimasta inutilizzata da tempi immemori.

Archetto si alzò, poggiando i piedi nudi sul pavimento polveroso e scoprendo che, sotto le coperte miracolosamente pulite della branda, indossava solo i pantaloni.

Ci volle poco per ritrovare il resto dei suoi vestiti su una sedia poco distante dal letto, ma la domanda sorse spontanea:

Chi mi ha spogliato? - rabbrividì alla prospettiva che a trasportarlo lì e a privarlo dei suoi abiti fosse stato proprio quella iena dai capelli rossi.

Davvero, cosa diamine gli era saltato in mente?

Piombare come un sasso alla mercé di quell’assassino ...

Si passò nervosamente una mano prima sugli occhi, poi sui capelli, scompigliandoseli nervoso.

“Dannazione.” mormorò mezzo inviperito con se stesso, afferrando al volo la camicia e cominciando a rivestirsi.

Fu proprio in quel momento, mentre era ancora intento ad allacciarsi i bottoni rimanenti che la porta della stanza, alle sue spalle, si spalancò di botto, spinta da qualcosa di molto simile ad un calcio ben assestato e rumoroso.

Eustass Kidd gli apparve sulla soglia, glorioso come non mai. I capelli fiammanti ed appuntiti che svettavano verso il cielo, sfidando la forza di gravità, un sorriso di pura soddisfazione stampatosi in faccia non appena lo aveva visto in piedi e ...

Il biondo ebbe paura di identificare l’oggetto che il rosso teneva in una mano, ma, a dispetto delle sue più catastrofiche previsioni, si trattava solo di un boccale di rhum mezzo vuoto.

E il sole non si era ancora alzato del tutto...

Ma che ore erano??

Il rosso allargò le braccia, onorandolo con uno strano saluto reverenziale che nulla aveva di rispettoso se non la forma.

“Ben svegliato, principessino...” lo derise apertamente.

Soffocò l’urgenza di lanciargli addosso uno dei suoi coltelli, ben sapendo che comunque, essendo stato privato dei propri vestiti, quel bastardo doveva anche essersi premurato di allontanarlo dai suoi fedeli arnesi.

“Quanto tempo ho dormito?” domandò, continuando a guardarlo con circospezione, concedendosi nel frattempo di raccogliere il proprio gilet, che notò chiaramente alleggerito dal peso delle armi nascoste al suo interno.

“Due giorni.” sentenziò il pirata,sorseggiando poi un’altro paio di sorsi dal bicchiere, quasi la cosa non avesse gran peso per lui.

Per Arch invece fu un vero e proprio colpo allo stomaco.

“Due giorni?!” ripeté, mettendosi di riflesso una mano sulla pancia, sentendola risvegliarsi di colpo, gorgogliando e stringendogli le viscere in dolorosa e rumorosa protesta.

“Uhg..!” si lamentò, piegandosi in avanti, avvertendo il peso del digiuno colpirlo come un macigno.

La risata gracchiante di Kidd accompagnò la voce brontolante del suo stomaco.

Rialzando gli occhi il biondo vide il pirata osservarlo rapace, inclinando la testa da una parte quasi si stesse godendo la vista di una bestia rara.

E la cosa non lo rese affatto tranquillo.

“Che hai da ridere?” soffiò in mezzo ai denti, abituandosi poco a poco a quella sgradevole sensazione di interiora che si contorcevano su loro stesse.

Un’altra risata gli disturbò le orecchie, ma nessuna risposta la seguì. Semplicemente quel rosso continuò ad osservarlo, godendosi appieno quella piccola vittoria.

Poi lo vide avanzare di un passo, poggiando -  o meglio gettando - il boccale su uno dei ripiani polverosi della stanza, inducendolo ad indietreggiare di riflesso.

Sentì un filo di sudore inumidirgli appena le tempie e capì che la situazione gli stava sfuggendo di mano. Non gli piaceva affatto come lo stava guardando, nè il modo in cui si stava facendo più vicino a lui. Era come se si stesse divertendo a braccarlo.

Toccò una parete della camera con le spalle e lì non poté più rimanere zitto.

Non sapeva cosa avesse in mente quel pazzo, ma non era di certo ansioso di scoprirlo. 

“Dov’è Viola?” 

A neanche un metro di distanza da lui Kidd si bloccò, facendo sparire per un attimo quel suo odioso e largo sorriso da iena. Arch esultò mentalmente, ringraziando di aver guadagnato un piccolo lasso di tempo per rimettere insieme i pezzi ed elaborare velocemente un piano.

Dal poco che era riuscito ad osservare della camera non c’erano altre vie di uscita a parte la porta e il pirata lo ostacolava ergendosi davanti a lui come un’immensa statua, stroncando sul nascere qualsiasi suo proposito di fuga. 

L’unica era affrontarlo, ma non aveva con sè i suoi coltelli.

Strinse i pugni.

Avrebbe dovuto agire d’astuzia dunque, come aveva sempre fatto.

Perfetto.

La mano smaltata di Eustass Kidd si inchiodò con suono sordo accanto al suo viso, cogliendolo di sorpresa. Il sorriso era tornato sul suo volto spigoloso, deformandolo nuovamente nella solita espressione vittoriosa.Di certo Arch non poteva dirsi contento di avere l’alito tutt’altro che salubre del pirata a meno di un dieci centimetri di distanza, ma almeno avere una via di fuga in meno gli aveva in un certo senso chiarito quali fossero le mosse a sua disposizione.

“Preoccupato per la tua adorata, fatina?” sussurrò insinuante il rosso.

Arch.” lo corresse per l’ennesima volta a vuoto, visto che il capitano parve non dargli nemmeno ascolto.

Un punto in meno per lui.

“Sai non ti do tutti i torti...” continuò intanto quello, senza però, per sua somma gratitudine, avvicinarsi più di tanto “Tutta quella mercanzia lasciata incustodita...”

A quelle parole il ragazzo si accigliò, dando infine i primi segni di preoccupazione.

Era vero: Viola lasciata sola per ben due giorni in mezzo a simili individui era un azzardo gigantesco se si contava che l’argentata non era in grado di difendersi da sola senza rischiare di riaprirsi le ferite, ma da quel che ne sapeva Morgan era con lei, quindi il rischio che qualcuno di quegli schifosi avesse anche solo osato mettere piede nella cabina della cugina era molto basso.

Si era talmente concentrato sui propri pensieri che non aveva notato di quanto avanti fosse andato il discorso del rosso.

“Deve essere una vera tortura stare al fianco di una simile bellezza e tenere le mani a posto...” concluse l’uomo con fare allusivo, abbassando di poco la testa per far sì che il contatto coi loro occhi si facesse più intenso.

“Non so di cosa tu stia parlando.”

Le labbra di Eustass Kidd caddero nuovamente verso il basso per la delusione provocatagli da quella risposta asciutta e laconica, ma ci mise poco a riprendersi.

“Oh.. davvero?” insistette, avvicinandosi ancora un po’ al volto dell’altro, fremendo di soddisfazione nel vederlo cercare inconsciamente di appiattirsi ancor di più alla parete. Era completamente alla sua mercé. Non era un caso che l’avesse disarmato due sere prima: aveva progettato di poter fae quattro chiacchere in privato con il biondino senza spiacevoli inconvenienti, non prima però di rendere omaggio alla stangona una  visitina.

Purtroppo i suoi piani erano falliti quando aveva trovato avvolto al corpo inerme della ragazza il mocciosetto, trasformato in lucertola con tanto di denti affilati.

Ora, Eustass Kidd poteva pure essere un fottuto bastardo, un sanguinario ed un inguaribile attaccabrighe, ma aveva un personalissimo metro di valutazione riguardo le cose che era disposto a fare o meno.

E sporcare di sangue i pavimenti della sua amatissima nave per cercare di graziare il suo corpo di una semplice e sana scopata non rientrava tra le prime.

Ma se l’alternativa alla prima opzione era pronta dietro l’angolo...

I suoi occhi percorsero voraci il corpo dell’altro e le mani prusero violentemente, fremendo per chiudersi ancora una volta attorno quel grazioso e quasi femmineo collo.

Dio che tentazione avercelo a quella distanza.

Se non fosse stato che Killer gli aveva, accortamente,  fatto promettere di limitarsi a poche parole con il ragazzo, senza tentare nulla di sconveniente, di certo non si sarebbe nemmeno posto il problema di tutte quelle stronzate riguardo la consensualità.

Oh. Certo. Non che fare certe cose con entrambe le parti daccordo non fosse piacevole...Ma perchè diavolo aveva dato retta a Killer?! 

Tsè. A quanto pare doveva averlo preso un po’ in simpatia.

Si ritrovò a grugnire inconsciamente, arrabbiato con se stesso per essersi fatto incastrare dalle parole del proprio vice, tornando poi al viso di Angelo Infido che, con i suoi occhi taglienti come cobalti affilati, lo stava trafiggendo con ostilità.

“Allora che ne dici di riprendere il discorso sul Nuovo Mondo?” ridacchiò, senza nemmeno accennare ad allontanarsi dal biondino.

“Voglio vedere Viola.” fu la risposta di quello, anche lui per nulla intenzionato a staccarsi da quel muro.

Per lui non c’erano problemi, anzi, la loro differenza di altezza era talmente tanta che Eustass torreggiava letteralmente sul più giovane, rendendo l’intera situazione, almeno per lui che era in netto vantaggio, molto piacevole.

Ridacchiò dal fondo della propria gola.

“Qualche parolina sul Nuovo Mondo prima.”

Vide Arch scivolare appena da una parte, evidentemente cercando di capire quanto sarebbe stata veloce una sua reazione ad uno scatto laterale.

Quasi gli venne da ridere. Ma per chi l’aveva preso quel moccioso? Per un novellino?

Sbarrò anche la seconda via d’uscita con l’altro arto, inchiodandolo tra le sue braccia, senza alcuna scelta se non quella di affrontarlo rimanendo dov’era.

“Perchè tanta fretta?” lo schernì, vedendosi rispondere con un’occhiataccia più aggressiva delle altre.

Quel biondino aveva davvero del fegato, su quello non c’erano dubbi. Era da quando era entrato che non gli aveva tolto gli occhi di dosso per un istante, studiando e controllando attentamente ogni sua mossa e, come se non bastasse, da quando si era avvicinato tanto da far quasi sfiorare i loro nasi, aveva sempre mantenuto un ferreo e diretto contatto visivo con i suoi occhi, dando vita ad una vera  propria battaglia di sguardi.

Era assurdamente fantastico quanto quella situazione lo esaltasse. 

“Mi era parso di capire che la stangona ti avrebbe sventrato non appena si sarebbe svegliata ...” giustificò in qualche modo la sua falsa perplessità.

Non che gli interessassero granchè dei motivi del biondino, chiaramente indirizzati ad allontanarlo il più possibile da lui, ma metterlo in difficoltà gli sembrava la cosa più divertente che potesse fare al momento.

Arch non si mosse per un po’, restio a concedergli una risposta subito, stretto com’era in una morsa senza uscita, ma, nonostante la sua posizione, che lo costringeva a stringersi nelle spalle a causa dello spazio a dir poco ristretto che la mani del pirata gli concedevano, la sua espressione rimase pressoché immutata.

“Affari miei...” sibilò ostile il biondo, facendo una cosa di cui certamente più tardi, molto più tardi, si sarebbe pentito.

Ma, francamente, non gliene fregava assolutamente nulla.

Portò una gamba all’altezza del petto e, con uno slancio ben calcolato, assestò un calcio dritto in mezzo alle gambe del pirata.

La reazione fu immediata: le mani che lo tenevano imprigionato al muro si ritirarono di scatto e la figura dell’uomo di arricciò su se stessa con un rantolo sorpreso e frustrato.

Lui non rimase certamente ad assistere all’intero spettacolo e, buttandosi verso la porta, afferrando al volo i propri stivali durante il rapido tragitto, fece appena in tempo a sentire l’inizio di una lunga serie di insulti a suo carico, prima di ritrovarsi in uno dei lunghi corridoi interni della nave.

Come aveva previsto un piccolo manipolo scoordinato di pirati gli si presentò davanti, sorpresi di vederlo uscire così improvvisamente dalla sua cabina e troppo confusi per capire che la sua fuga centrava qualcosa con le imprecazioni famigliari provenienti dalla stanza da cui era riemerso dopo una lunga assenza.

Il biondo non si perse certo in chiacchiere e fece la cosa che da sempre gli riusciva meglio: concentrò i propri occhi su ogni singolo movimento che rientrava nel suo raggio visivo ed indirizzò la sua mente ad un unico semplice scopo: scansare tutti quei pirati impomatati e borchiati ed  arrivare al ponte della nave sano e salvo.

Il suo corpo partì istintivamente facendo un vero e proprio slalom tra i corpi sparsi per il corridoio.

Nessuno dei pirati di Kidd capì bene cosa fosse successo quando la testa bionda del ragazzo era ormai passata loro accanto ad una velocità incredibile, allontanandosi a gran velocità, ma, vedendo il loro capitano riaffiorare dalla porta ancora spalancata mentre si teneva rabbiosamente l’inguine digrignando i denti, la situazione si chiarì in un lampo.

La parte più difficile per loro fu non ridere, cosa che non avrebbe giovato né a loro né a quel ragazzo che stava per incontrare la cosa più terribile che ci potesse essere al mondo...

La furia di Eustass Kidd.

Il rosso si era infatti lanciato all’inseguimento del ragazzo, divorando a grandi passi il corridoio della nave, raccogliendo al proprio passaggio qualunque tipo di oggetto metallico che reagisse al suo potere di Frutto del Diavolo.

Voleva giocare? 

Bene! 

L’avrebbe accontentato!

Al diavolo quello che sapeva sul Nuovo Mondo! Non poteva esserci nulla di così importante che venisse prima di una piccola vendetta per quel vero e proprio attentato ai suoi gioielli di famiglia!

E vaffanculo a Killer e alla sua stupida promessa!

Avrebbe preso quella fatina da strapazzo e l’avrebbe sbattuto fino allo sfinimento!

Arrivò in coperta con vero e proprio arsenale in ferro a ricoprirgli il braccio, pronto a chiudersi impietoso sulla figura minuta del ragazzo che, con sua somma gioia, non faticò ad individuare.

Fortuna che il ponte a quell’ora era poco frequentato.

Slanciò l’enorme braccio artificiale in avanti, tendendolo per afferrare al volo Arch, in quel momento rivolto di spalle mentre correva a più non posso verso la cabina di Viola.

Imprecò tutt’altro che velatamente,vedendo il biondino scansare come acqua il suo attacco.

Ritirò la mano e ripetè la stessa mossa, ma il risultato fu sempre lo stesso e questo non fece che aumentare la sua rabbia.

“Torna qui!!” sbraitò prima di sciogliere i legami magnetici che teneva unito il simulacro metallico del suo braccio e passare ad un altro metodo: ogni lama od oggetto tagliente si librò in aria per poi scagliarsi verso il giovane sotto la spinta dell’onda magnetica della sua mano tesa.

Fu un miracolo per Arch, nonostante i suoi riflessi, riuscire a scansarli tutti senza un graffio, anche se i sui vestiti subirono la maggior parte dei danni, presentando di qua e di là squarci che testimoniarono di quanto vicino l’attacco di Eustass fosse andato a centrarlo.

Il biondo boccheggiò esausto, poggiandosi a quella che, si accorse immediatamente con sua immensa gratitudine, era la parete della stanza di Viola.

Non avrebbe mai creduto di potersi sentire felice per la ritrovata vicinanza della cugina.

Davanti a lui Kidd camminava con in faccia un’espressione che tutto diceva tranne pietà.

Si fiondò dritto sulla maniglia della stanza e vi entrò appena in tempo per vedere un paio di lame affilate trafiggere l’uscio poco sopra la sua spalla.

Cavolo, peggio di così non poteva andare...

Indietreggio piano piano, conscio del fatto che Morgan, ancora sotto forma di lucertola, lo stava guardando terrorizzato.

Viola stava ancora dormendo, ma, se conosceva bene i ritmi di guarigione della cugina, ormai le ferite dovevano essersi come minimo cicatrizzate.

Ok, iena rossa dei miei stivali ...- pensò, preparando la gola a una cosa che poche volte nella sua vita aveva fatto - ...è ora di farti conoscere qualcosina su noi del Nuovo Mondo.

Gonfiò i polmoni, sentendoli riempirsi d’aria molto più di quanto avessero fatto in tutta la loro vita, e, spalancando la bocca, fece l’ultima cosa che il pirata rosso, arrivato di poco accanto alla porta, si sarebbe mai aspettato di sentire.

VIOLA!! SVEGLIATI STUPIDA IMBECILLE!!

Un urlo in una lingua che non aveva mai sentito.

 

 

Atto 18, scena 12, Moby Dick

 

Allegra tossicchiò, spuntando quelle poche schegge che erano riuscite ad entrarle in bocca durante l’esplosione che l’aveva letteralmente fatta saltare giù dal letto dell’infermeria, scaraventadola per terra con ancora le coperte attorcigliate alle gambe.

Puntò le braccia sul pavimento in legno come meglio potè, tentando di rialzarsi, ma il mondo sembrò vorticarle attorno non appena provò a raddrizzare il collo per vedere cosa avesse provocato tutto quel disastro.

Le voci confuse delle infermiere e le urla di Betty, che con fermezza invidiabile intimava la calma alle compagne, le sovrastavano le orecchie, intralciando i suoi tentativi di rimettere insieme le idee.

“Ugh..” si lamentò, avvertendo qualcosa di liquido salirle pericolosamente in gola, risalendo l’esofago direttamente dallo stomaco.

Evitò il peggio con un paio di respiri profondi, riuscendo infine a rialzare lo sguardo.

Attorno a lei un polverone che odorava di legno rotto le oscurò dapprima la vista, impedendole di guardare oltre una distanza superiore al metro e mezzo, poi si fece man mano sempre più rado, rivelando, laddove prima c’era stato il suo letto, i resti spaccati di metà del giaciglio che, a dir poco miracolosamente, si era semplicemente capovolto, provocandole la rovinosa caduta che l’aveva portata sul pavimento.  

Individuò Jaws in un battito di ciglia, anche lui capitombolato a terra su un fianco, anche se, dal modo in cui si muoveva, la sua non doveva essere stata una semplice caduta e ne ebbe conferma quando, dopo aver scrollato la testa, il Comandante della terza flotta tornò in piedi, rivelandole il proprio viso girandosi verso di lei.

Avrebbe lanciato un gemito strozzato dalla paura se avesse potuto.

Metà del corpo di Jaws si era letteralmente cristallizzato, dividendo la sua enorme figura in due parti: quella normale e quella che luccicava alla luce del sole filtrante attraverso le finestre.

Anche lui? - pensò incredula non riuscendo a staccare gli occhi di dosso dall’amico, mentre questo gli si avvicinava - Ma le sue non sono fiamme!

Il comandante si accovacciò su di lei, evidentemente intenzionato ad aiutarla a rimettersi in piedi, ma il primo istinto della ragazza, alla vista dell’amico tramutatosi in qualcosa di incomprensibile ai suoi occhi, fu quello di incavare la testa nelle spalle, impaurita e leggermente tremante. 

Gli occhi dell’altro si incupirono al suo gesto, evidentemente ferito e forse fu quello che le permise di notare qualcosa di strano sul suo fianco: nonostante la parte intagliata e quasi trasparente del comandante fosse un incastonarsi perfetto di figure geometriche splendenti, Momo trovò il lato destro del petto orribilmente incrinato, appiattito e percorso appena di piccole crepe, quasi fosse stato schiacciato.

Ritrovare a pochi metri dai piedi dell’altro una strana sfera nera e chiaramente metallica le fece capire al volo la situazione. 

Non solo Jaws era stato colpito in pieno da una palla di cannone, ma aveva anche seriamente rischiato un fianco, riuscendo - ancora non sapeva spiegarsi come - a solidificare all’ultimo momento il proprio corpo giusto per non riportare grossi danni.

Realizzando il tutto, la paradisea strinse i denti, ricacciando all’indietro le parole che gli erano salite spontaneamente, dettate dalla preoccupazione dei confronti dell’amico.

Al posto di ciò che voleva dire emise invece un suono sofferente, che, comunque, fu ben compreso dall’altro, a giudicare dal modo in cui aprì il volto ad un breve sorriso rassicurante.

“Momo!!!!”

La paradisea seppe immediatamente a chi apparteneva quella voce e fu per questo che il suo cuore mancò di un battito, ma, dirigendo istintivamente lo sguardo nella direzione da dove era provenuta, vederlo lì in carne ed ossa minacciò di farglielo esplodere dall’emozione.

Marco stava davanti alla porta spalancata della stanza con le mani puntate sugli stipiti e il volto contratto di sgomento e preoccupazione.

Doveva essere tornato sui suoi passi non appena sentito il frastuono della bomba metallica, accorrendo come un matto solo per assicurarsi che stesse bene.

Quando finalmente gli occhi azzurri della Fenice la individuarono, quest’ultimo le si fiondò subito addosso, fermandosi a malapena in tempo per non inciampare su Jaws, di cui sembrava aver calcolato la presenza solo in un secondo momento.

“Stai bene?!”

A quella domanda quasi urlata la ragazza si limitò ad annuire, indicando però immediatamente con fare preoccupato il fianco di Jaws. Alla vista della vistosa incrinatura sul corpo adamantino del compagno, la fronte della Fenice si aggrottò ancor di più.

“Per la miseria...!” esclamò a mezza voce, incredulo.

Era la prima volta che vedeva il corpo mastodontico del comandante in terza venire scalfito da una semplice palla di cannone. L’attacco doveva averlo colto alla sprovvista.

“Sto bene.” grugnì semplicemente l’altro indurendo gli zigomi con ferocia malcelata.

“Chi sta attaccando?”

“Doma.” rispose la voce di Carol al posto del biondo, intromettendosi nella conversazione, mentre con un cannocchiale in mano osservava la situazione da uno degli oblò.

“Ha pensato bene di passare alle armi ad ampio raggio.” concluse con tono quasi sdegnato. 

Nemmeno le infermiere vedevano di buon occhio l’utilizzo di simili aggeggi per uno scontro tra pirati.

Accovacciato accanto a Momo, il comandante Fenice udì chiaramente un vero e proprio ringhio provenire dalla gola del compagno, e non era un bene.

Conosceva Jaws e in momenti simili la migliore cosa da fare era una sola: permettergli di sfogarsi.

“Io penso a Momo, tu vai pure in coperta.”

Il comandante della terza flotta non se lo fece ripetere.

Una volta rimasto solo con la Paradisea, Marco ritornò su quest’ultima, trovandola tutta presa ad osservarlo piena di confusione e con le fiamme gialle che oscillavano docilmente attorno a lei, incerte, come spaventate.

La prese in braccio, passandole una mano dietro la schiena e l’altra sotto le ginocchia, sollevandola ed infine stringendosela addosso.

Il fuoco della ragazza divampò più forte nel momento stesso in cui le sue piccole mani incontrarono casualmente il petto scoperto del comandante, tradendola nel tentativo di nascondere quanto la vicinanza del biondo la mettesse in soggezione.

“Andiamo.” le sussurrò, mentre lei tentava di tenere lo sguardo il più basso possibile, stringendosi le labbra tra i denti per non emettere alcun suono. Le sue dita affusolate indugiarono per un istante sulle spalle dell’altro per poi chiudersi con decisione attorno la stoffa della camicia.

Marco si concesse un piccolo sorriso prima di alzare la testa e, tornando serio all’istante, emettere a gran voce il proprio ordine a tutte le infermiere.

“Lasciate qui le attrezzature!! Vi spostate nell’altro lato della nave!!”

 

Fine seconda parte Atto Diciottesimo

 

Note di Libretto: jap - ita 

Shinka: Jikko = Fiamma Sacra: Esecuzione (mossa inventata da me XD)

Jankenpou = Sasso, Carta, Forbice

 

Ma Buongiorno! Sono tornata ad aggiornare! Contente? Ovvio che sì. Dovete. Mi sono fatta un mazzo per questo capitolo!

Più vado avanti più mi sembra che le cose stiano diventando un po’ troppo complicate. Che ne pensate?

Naaah, forse mi sbaglio... (Bastard Inside... NdLettori)

Comunque. Incredibile ma vero sono tornate le Note di Libretto! Bhe... se ci metto le parole in giapponese è naturale che ci siano.

Spero di non avervi deluso con queste 16 pagine ricche di descrizioni!

Al prossimo capitolo a voi che siete rimaste (perchè non so perchè ma sembra che appena questa storia ha cominciato a presentare accenni pesanti Yaoi, qualcuno abbia pensato bene di squagliarsela pesantemente [la storia sembra essere preferita da 5 persone in meno]...coincidenza? Mah, fatti loro. Io scrivo.)

 

Alla prossima belle bimbe e non mancate di suggerimenti sempre ben accetti!!!

Kisskiss

TS


   
 
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