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Autore: Gloom    25/10/2011    2 recensioni
-Sai, essere figli di genitori che non si amano è una fregatura: dentro noi siamo per metà come un genitore e per metà come l‘altro. Se non sono riusciti a restare insieme loro, ancora più difficile sarà per noi. . . Perché loro si sono potuti separare; noi invece dobbiamo faticare per mettere d’accordo geni incompatibili dal principio.
 
L'Allegra Brigata non aveva altre ambizioni se non quella di passare indenne i sedici anni dei propri componenti. Ma quando mai le cose più semplici danno mostra di esserlo? Lauretta, Giak, Cicca, Margherita e Riccardo dalla loro hanno che si vogliono bene: per il resto, che si preparino pure ad una sfida dalla quale nessuno uscirà indenne... c'è una spiaggia alla fine della corsa.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Durane quel paio di settimane le cose erano andare avanti di un micron tra Giak e la ragazza dell’autobus: erano già due volte che il posto di fianco a lei era libero, e entrambe le volte Giak l’aveva occupato. Il micron era il fatto che la ragazza non era sembrata infastidita, anzi, una volta aveva pure abbozzato una specie di sorriso. Tanto era bastato per gasare Giak.
 Ma ora era sabato: il sabato non è un giorno qualunque, non per chi ha il resto dei pomeriggi soffocati da improbabili compiti per casa. E, finalmente, Giak e un altro paio di amici erano riusciti a rintracciare il vecchio vicino di banco steccato, Fressino. Si apprestava a uscire con lui, mentre Cicca e Riccardo si davano a una delle loro serate etiliche, Lauretta sconsolata si imbucava con la cugina e le amiche di quest’ultima e Margherita, saltate allegramente le lezioni, come al solito raggiungeva l’ormai famoso Marco.
 
 Adesso erano le sei della sera di un sabato di inizio ottobre: le foglie si staccavano pigre dai rami, e scricchiolavano piacevolmente quando le calpestavi. Non era scattata l’ora legale, quindi Polverano era ancora illuminato da un sole che non vedeva l’ora di raggiungere il turno accorciato. La luce bianca filtrava da dietro le nuvole, passava attraverso i rami sempre più spogli degli alberi e giungeva su una panchina di pietra. Sulla panchina c’erano due ragazzi: lei era piacevolmente pienotta (se ne rendeva perfettamente conto, quindi non faceva finta di ignorarlo costringendosi in vestiti che la facevano somigliare all’omino Michelin), aveva i capelli mossi domati da una pinzetta e gli occhi perfettamente truccati. Lui era alto abbastanza da permettere alla ragazza, talvolta, di portare i tacchi. Mascella squadrata e labbra sottili.
Margherita passò un dito tra i ricci di Marco, poi sorrise:
 -Allora, li raggiungiamo stasera Cicca e gli altri?- chiese.
 - Mmm. . . dove?-
 - All’Aquilotto, il pub dietro la piazza.-
 -A far che? Lì è pieno di gentaglia. . .-
 Margherita sbuffò, ritirò il dito e alzò gli occhi al cielo:
 -È per stare un po’ insieme! Che ti importa del posto.-
 -Infatti non me ne importa niente- Marco sorrise enigmatico. -Ma io voglio stare con te. . . senza altri. . .- le fece l’occhiolino. Margherita era ancora stizzita, ma non se le sentì di perseverare.
 -Oh, quanto sei snob. . .- si appoggiò sul suo petto. Lui le carezzò i capelli:
 -È per questo che ti piaccio- ghignò.
Margherita non rispose; in realtà era proprio il suo snobismo a non piacerle, ma lasciava correre. Dopotutto, recuperava con mille altri pregi… ce ne aveva messo prima di trovare un ragazzo che le carezzasse i capelli. Nessuno badava più a dolcezze simili, voleva tenersi stretto un ragazzo così speciale. Però quella sera non aveva proprio voglia di una pizza romantica. Voleva andare con i suoi amici e ridere a squarciagola con loro, non ridacchiare lusingata con Marco.
 -Piccola. . .- Marco le carezzò la guancia e la baciò. Fu a quel punto che Margherita si sciolse: restituì il bacio appassionata, avvinghiandosi sempre di più al suo lui. Voleva stare il più stretta possibile a Marco, e al diavolo quelle vecchiette che li guardavano con sguardo di rimprovero.
 -Che vuoi fare stasera? Pizza? Ristorante?- chiese lui.
 -Oh ti prego, ristorante no. Al massimo cinese-. In realtà Margherita non si era mai sentita a suo agio nei ristoranti, se era sola con Marco. Sembrava una cosa così sofisticata, romantica nella maniera dei adulti. E Margherita non voleva sembrare adulta. Le andava benissimo avere sedici anni e le andavano benissimo le serate in pizzeria. Però non l’aveva mai detto a Marco; a lui piaceva vederla arrossire. E chi era lei per negargli quel piccolo divertimento?
 Ok, Lauretta la odiava per quello. Le diceva che se non voleva fare qualcosa semplicemente poteva non farla, invece di allietare sempre Marco. Aveva come l’impressione che a Lauretta Marco non stesse molto simpatico. Si conoscevano ovviamente: entrambi sapevano molto l’uno dell’altra tramite Margherita, per il semplice fatto che erano due delle persone più importanti nella sua vita. Ma ogni volta si scrutavano con sospetto, senza parlare molto. 
 -Andata per il cinese-.
 -Andata- Margherita sorrise: trovavano sempre un compromesso ragionevole. E lei era talmente felice con lui da sentirsi in grado di fronteggiare tutte le perplessità che sorgevano sulla loro storia.
 
 Tipo quelle che sollevarono Cicca e Riccardo all’Aquilotto: non credo sia il caso di ripeterle, basti sapere che li stavano facendo spisciare dalle risate.
Fu così che li trovò Giak: seduti con un’altra manciata di amici a un tavolino, un bicchiere di superalcolico misto a succo di frutta davanti a ciascuno e le risate che sgorgavano a fiumi.
 -Bestie, di che ridete?- fu il suo modo di salutare. Loro spiegarono. Giak arricciò il labbro verso l’alto:
 -Iniziamo le scommesse: cinque euro che si lasciano prima di Natale-.
 -Bella!- Riccardo strinse la mano di Giak, e Cicca spezzò il giramento.
 -Allora, novità? Che dice il vecchio Fressini?- chiesero quando Giak rubò una sedia dal tavolo vicino e si sedette.  
 -Niente di speciale. Cazzeggia tutto il tempo, non apre libro. . . bello eh?-
 Cicca strusciò le punte delle dita tra loro: -io almeno se mi prendo un sei so che è mio, non dei ding ding dei miei-.
-Da quando prendi sei?- ghignò Riccardo.
 -Ovviamente intendo per il secondo quadrimestre! Nah, durante il primo non ci sono problemi- sogghignò.
 -Lauretta viene?- chiese poi.
 -Non so- rispose Giak, -aveva detto che ci avrebbe fatto sapere, ma non si è fatta viva. . .-
 -Bah, peggio per lei. Ma se Margherita sta con quel pettinato, Lauretta che fa il sabato sera?- questo era Riccardo.
 -Mi pare di aver capito che sarebbe uscita con la cugina-.
 -Oh-.
 Seguirono istanti di silenzio, poi Cicca sogghignò:
 -Comunque, Giak, bella mossa stamattina in palestra. Hai rischiato di ucciderla, ma sei stato un grande- alzò le sopracciglia con fare allusivo.
 -Oh, piantala. È stato un incidente-.
 -Seee. . . allora, hai palpato?-
 -Cicca!-
 -Eddai! Vuoi dirmi che non ci hai fatto un pensierino? Ragazzo, guarda che si vede lontano un miglio che vi state studiando. Lei sembra interessata. . .-
 -Lauretta? Ma stai scherzando?-
 -Giuro!-
 Giak si voltò verso Riccardo, sperando in qualche aiuto, ma lui si limitò a stringersi nelle spalle:
 -Non gli sei indifferente, poco ma sicuro-.
 -Andiamo, ma avete presente di chi stiamo parlando? Lauretta!-
 -Io ho sempre detto che non è male- borbottò Cicca, -poi fa’ come ti pare-.
 -Ma dai Cicca, lui ha la mente rivolta all’altra-.
 -È vero. A proposito, l’avessi tante le volte incontrata oggi pomeriggio?-
 -Forse. Ho visto una che le somigliava, ma non sono sicuro che fosse lei. Comunque ho deciso, lunedì mattina se la becco le parlo. Qualcosa inventerò, insomma, o la va o la spacca-.
 -Bravo Giak! Così si che ci piaci. Adesso però bevi qualcosa, sì?-
 -Tra un po’, ma solo una birra. Oggi pomeriggio ho litigato di nuovo coi miei, se sentono anche solo uno spiffero d’odore d’alcol potrebbero mangiarmi-.
 -E perché hai litigato?-
 Giak si mise più comodo sulla sedia:
 -Niente di speciale. Le solite storie. . . niente di non soffocabile con un po’ di musica-.
 
 In realtà ce n’era voluta molta, di musica. Durante il pomeriggio aveva discusso per l’ennesima volta con i suoi, e solo perché non volevano lasciarlo andare con il motorino quella sera. Una faccenda oltremodo stupida: se solo fossero stati più fiduciosi, più elastici e ragionevoli, si sarebbe potuta risolvere in un’armonia da far invidia ai tipi del Mulino Bianco.
Ma, ovviamente, sua madre era stata irremovibile: non è più estate. Fa freddo. È sabato sera, ci sono un mucchio di ubriachi.
 Era bastato che lui si opponesse per far scattare il finimondo; come se i genitori non ritenessero accettabile che lui avesse da ridire, erano saltati su a rinfacciargli l’estate durante la quale era tornato a casa solo per dormire e mangiare, lo studio che erano sicuri avrebbe preso sottogamba. . . ma l’apice fu quando suo padre tirò fuori la puzza di fumo che era sicuro di sentire sui suoi vestiti. A quel punto Giak era sbottato, con somma delizia del fratellino più piccolo (aveva sette anni e gli brillarono gli occhi quando vide Giak urlare contro i genitori).
 -Smettetela di arrampicarvi sugli specchi, se non vi fidate di me allora sono problemi vostri!-
 -Sono problemi tuoi invece, giovane. Sei tu che devi fare in modo di farci fidare!- ribatté il padre.
 -E come, quando tu ti immagini di sentire puzza di fumo e mi accusi senza sapere niente? Fammi il piacere!-
 Giak si era ritirato nella camera che condivideva con i fratelli -e a quel punto il più piccolo non aveva più gli occhi che brillavano: adesso era sicuro che non ci sarebbe potuto rientrare fino a quando Giak non fosse uscito- e aveva trovato l’altro fratello, quello dall’età indefinibile (più o meno tredici anni) sdraiato sul letto. 
 -Sparisci- gli aveva detto. Quello alzò lo sguardo dal suo fumetto, poi fece finta di ignorarlo. Disse solamente: -io sto qui quanto mi pare-.
Giak si limitò a recuperare la felpa che aveva indossato quel pomeriggio a casa di Cicca e ad annusarla: ok, erano passati un po’ di giorni, ma non puzzava assolutamente di fumo. Non lo accusassero più di cose che non faceva.
Si buttò sul suo letto e mise un cd nello stereo. La musica partì, facendo sbuffare il fratello. Giak alzò ancora, e ancora. Il pidocchio chiuse il fumetto e scivolò giù dal letto:
 -Tanto ti fanno abbassare- disse prima di uscire, come una vendetta dispettosa per averlo infine cacciato. Giak non lo ascoltò, ma arricciò gli angoli della bocca: finalmente solo.
 Odiava stare in quella casa, se tutti i componenti della sua famiglia erano presenti. C’erano poche stanze e tutte neanche troppo grandi, per cinque persone (delle quali un adolescente e uno che stava per diventarlo). Si soffocava, e non potevi neanche sentire un po’ di musica in pace. Infatti:
 -Giacomo, abbassa!-
 Le urla non tardarono molto. Giak le ignorò deliberatamente, concentrandosi sugli strumenti.
 -Giacomo!-
 Oh, andate al diavolo. Non fa mai male un po’ di musica.
 -Giacomo! Mi hai sentito? Ho detto di abbassare il volume!-
 -Lasciami in pace, voglio sentire la musica!- urlò a suo padre.
 Quello gli concesse la seconda traccia fino alla fine, poi cedette alla pazienza e irruppe nella cameretta:
 -Per quanto hai intenzione di fare quello che ti pare?- chiese abbassando il volume della musica.
 Giak era ancora sdraiato sul letto, senza neanche essersi levato le scarpe, e non si mosse quando suo padre entrò. Però inspirò, prese coraggio e buttò fuori quel gorgo di irritazione che gli si era incastrato in gola:
 -Non ho neanche cominciato- disse.
 -Abbassa i fari. Ti stai giocando il sabato sera-.
 -Oh, davvero?- Giak si alzò di scatto. -Sentite, io non chiedo niente di speciale, solo di potermi levare dalle scatole per più tempo possibile-.
 Suo padre sospirò: forse stava rimpiangendo il bambino pronto a tremare se avvertiva uno schiaffone vibrare nell’aria, ma che ormai era diventato un ragazzo alto parecchi centimetri più di lui. Giak ne era sicuro, e gli piaceva: lo faceva sentire estremamente potente.
 -Tanto non potrai fare sempre come ti pare. Arriverà il giorno in cui qualcuno ti rifarà faccia- minacciò suo padre.
 -Oooh, che paura- sibilò Giak facendo una smorfia. Vide suo padre sbattersi la porta alle spalle e, dopo essere ricaduto sul letto, alzò di nuovo il volume della musica. Che scarica di adrenalina.

Grazie a Dio quel sabato era quasi finito: Lauretta non si stava divertendo proprio per niente.
 Margherita era stata sequestrata da Marco, come a solito, e lei era rimasta con una serata da buttare. Non che non avesse altre amicizie, ma non aveva voglia di imbucarsi in altri gruppi. Stava quasi per rimanere in casa, quando l’aveva chiamata sua cugina.
Sara era un anno più giovane di lei, come tutte le sue amiche oramai andava per i quindici: era di una bellezza inquietante, diafana e quasi elegante. Lauretta la conosceva da quando era nata, ma ancora si stupiva di quanto spettacolari fossero i suoi occhi: erano blu, un blu talmente assurdo da sembrare cielo, acqua, zaffiro. Chiaro e compatto, circondato da un bordo scuro che lo impreziosiva ancora di più. Tuttavia, sebbene fossero gli occhi più belli in circolazione, a Lauretta non piacevano poi così tanto. Li trovava quasi terrificanti, le dava fastidio guardarci dentro. Era come se la scandagliassero, ogni volta si sentiva perquisita. Da aggiungersi il fatto poi che Sara guardava tutti come se volesse effettivamente perquisirli. Era una di quelle ragazzette -come tutte le sue amiche. . . brrr- con immensi fiocchi di plastica tra i capelli e borsette impreziosite da strass. Guardandola, a volte Lauretta avvertiva pesanti complessi di inferiorità: lei mica sapeva truccarsi così perfettamente come Sara. Né riconosceva i ragazzi visti una sola volta, come Sara. E, soprattutto, i ragazzi non la guardavano come guardavano Sara (ovviamente, l’ultimo punto lo liquidava facilmente: il genere di ragazzi che andava dietro a Sara non le interessava minimamente).
 In ogni caso Sara l’aveva chiamata, come faceva spesso, per invitarla ad uscire con le sue amiche. Lauretta ci aveva pensato un po’, poi aveva deciso di raggiungerle.
 Era un ripiego che usava spesso, dato che Sara la considerava un interessante oggetto si studio: la cugina più grande, uno spettacolare esempio di come non diventare. Lauretta non ne era minimamente scocciata: prima di tutto stiamo parlando di sua cugina. Non avendo fratelli o sorelle, teneva molto a quel legame di sangue con una sua quasi-coetanea. In secondo luogo, stiamo parlando di Sara: capelli piastrati e occhi pesantemente truccati, Hogan ai piedi e pantaloni attillati. Per come era fatta Lauretta, non trovava molto da invidiare. Per finire, con Sara poteva parlare e, soprattutto, stare in silenzio, senza aver paura di sembrare una cretina, forte del suo status di maggiore-del-gruppo.
  Lauretta si infilò un paio di jeans e una felpa: adatta al sabato, insomma. Lo trovava quasi divertente: in mezzo a ragazzine che anelavano a un paio di tacchi per andare a ballare la sera (peccato, ancora troppo giovani!) lei distruggeva le loro illusioni e si ostinava a girare casual. In ogni caso, lei di certo non sarebbe andata a ballare: al limite, avrebbe raggiunto Giak e gli altri all’Aquilotto, ma non ne era neanche tanto sicura. Quel fine settimana avrebbe dovuto dedicarlo ad altro.
 -Lauretta!- la salutò Sara, mimando bacetti sulle sue guance. Lauretta sentì un piacevole profumo e la morbidezza del fondotinta.
 -Ciao- salutò la cugina e un paio di altre amiche. Tutte e tre avevano i capelli perfettamente lisci, il medesimo ciuffo altrettanto liscio, giacche e pantaloni simili. Lauretta rifletté che, se prese singolarmente, sarebbero sembrate carine. Ma forse era il caso di piantarla con quella misantropia: meglio fare buon viso a cattivo gioco.
 -Margherita?- chiese Sara mentre si incamminavano per il Corso.
 -Con Marco, come al solito. La settimana che viene fanno un anno-.
 -Un anno! Wooow!-
 -Accidenti, deve essere una cosa seria- disse una delle due amiche.
 -Bah, forse anche troppo-.
 -Tanto tra un po’ si scocciano. Io non ci starei con un ragazzo per così tanto tempo. L‘amore non esiste- questa era la terza amica.
  Uccidetemi! A Lauretta bastò quello per farle passare la voglia di trascorrere un pomeriggio da bimbamichia con quelle tre. Delle quali una era talmente vissuta da non credere nell’amore.
 -Andiamo al Bahamas!- propose Sara. Le amiche furono d’accordo, e si trascinarono dietro Lauretta. Lei stava già rimpiangendo di aver accettato l’uscita, e cercava tra la folla qualche eventuale conoscente a cui potersi accollare.
 Il Bahamas era un bar, incastrato in un angolo tra due vicoletti, stracolmo di gente. Erano le sei di un sabato pomeriggio, quindi gran parte della gente erano ragazzini della stessa età di Sara, se non più piccoli. Lauretta ebbe voglia di piangere, e cominciò ad escogitare una via di fuga.
 -Prendi qualcosa?- chiese Sara mentre si appollaiavano su un tavolo lasciato libero da una coppietta. Lauretta scosse la testa.
 Le sei diventarono le sette, e loro erano ancora al bar, scambiandosi pettegolezzi e chiacchierando del più e del meno. Lauretta non partecipava alla conversazione, si limitava ad ascoltare e a cercare con lo sguardo qualsiasi cosa che le desse la possibilità di defilarsi: un’amica, un amico, un appuntamento inventato di sana pianta. . .
 Alle sette e mezza, come da copione, le ragazze uscirono. Lauretta ebbe paura che potessero chiederle di rimanere a cena fuori, quindi fu rapida a perdere la faccia, pur di non dover cedere:
 -Sara, io devo tornare a casa: oggi devo stare con papà. . .- disse.
 -Oh, non rimani a prendere una pizza con noi? Tra un po’ arrivano pure i ragazzi- rispose lei.
 -Davvero, mi spiace, ma devo proprio andare. . .- Lauretta fece di tutto per sembrare desolata sul serio. E che Sara non pensasse di spingerla a rimanere con il fatto che presto sarebbero arrivati i ragazzi, perché li conosceva: truzzetti con i pantaloni calati e le facce ancora rotonde, i capelli pieni di cera e i sorrisi smaglianti.
 -Oh, ok allora. . . vuoi che ti accompagniamo alla fermata dell’autobus?-
 -Tranquille, non fa niente, non voglio farvi perdere tempo. Ci sentiamo, ok?-
 -Ok. . . ciao Lauretta!- le tre amiche la baciarono sulle guance. Lauretta sorrise, salutò e si girò. Tirò un sospiro di sollievo e, prima che le tre potessero recuperarla, si lanciò a passo di marcia verso la fermata del suo autobus.
 Ora che si stava facendo buio, la gente era aumentata. Lauretta salutò un po’ di persone, molto più tranquilla a parlare con quei conoscenti che con sua cugina. A chi le chiedeva cosa ci facesse sola, diceva che tornava a casa perché la mattina dopo si sarebbe dovuta alzare presto, quindi non era il caso di far tardi la sera, eh già, un vero peccato. . .
 Saltò sull’autobus dopo aver liquidato un paio di amici con cui si era intrattenuta alla fermata. Si arrotolò a uno dei pali di sostegno e riuscì finalmente a rilassarsi. Pensò che era una cosa buona, dato che in realtà l’autobus su cui era salita stava filando nella direzione opposta a quella di casa sua.
 Quando bussò alla porta del padre, questo l’accolse con un sorriso accogliente:
 -Lauretta, vieni. Sabato sera a casa?- chiese. Lei fece finta di ignorare quel fondo di malinconia.
 -Non c’è niente di interessante da fare in giro. . .-
 -Che hai fatto nel pomeriggio?-
 -Sono uscita con Sara-.
 -Ti sei divertita?-
 -Bah, abbastanza. . .-
Lauretta si abbandonò su un divano.
Questi erano i patti: dal lunedì al venerdì con la madre, sabato e domenica col padre. Solo che, se con sua madre abitava ancora nella casa in cui era cresciuta, suo padre era tornato a vivere nell’appartamento che aveva affittato a una coppia di studenti universitari. Gli studenti avevano fatto le valigie e lui era tornato dove aveva abitato prima di sposarsi.
La casa era graziosa, ma era passato meno di un anno da quando suo padre era tornato ad abitarci: ancora non era personalizzata con l’odore di fumo e le ditate sul muro che invece avevano subito abbandonato la casa di sua madre. E quando si trovava lì, Lauretta veniva presa da una sorta di malinconia che, abbinata a un sabato sera deludente, minacciava di farla deprimere più di quanto già non fosse.



Io volevo solo ringraziare chi è arrivato fin qui. Dopotutto un po' ci tengo a questa storia, ma ancora di più tengo a sapere cosa ne pensa il mondo... su, non siate timidi, fate felice questa povera illusa :)
  
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