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Autore: HarryJo    26/10/2011    5 recensioni
Riccardo è un ragazzo come tanti altri.
Diciotto anni, discretamente bello, bravo a scuola e tremendamente appassionato di musica. A dispetto di ciò che continuano a suggerirgli i suoi genitori, lui continua a suonare la sua bellissima Fender Stratocaster e a fare dei piccoli concertini per dimostrare a se stesso la sua bravura. Un giorno accetta una proposta della scuola: suonare in occasione della giornata della memoria, ma all'ultimo minuto Giacomo, il suo batterista, è costretto a dare forfait perché è ammalato.
Riccardo, pur di non lasciarsi sfuggire l'occasione, chiederà ad Elena, una ragazza che nemmeno conosce, di sostituire Giacomo in quel concerto. I due ragazzi diventeranno subito amici.
Elena porterà Riccardo a conoscere una realtà della vita che lui non aveva mai avuto occasione di conoscere, costernata da dolore, fatica, lavoro e sacrifici, senza mai perdere il sorriso.
« Potresti suonarle oggi alla conferenza col suo gruppo? Il loro batterista si è ammalato » continuò la ragazza bionda, indicandomi. Ma insomma, non potevo fare io qualche domanda? Mi davano estremamente fastidio le persone che parlavano di me come se non fossi lì presente accanto a loro.
Elena si rivolse direttamente a me, come se mi avesse letto nel pensiero.
« Chi sarebbe il vostro batterista? »
« Giacomo Grimaldi » risposi con un fil di voce.
« Ok. E vi va bene come suona? » si informò, per non capivo quale motivo.
« Sì » risposi.
« Bene. Se ti serve una mano, io ci sto » mi disse, e vidi i suoi occhi inumidirsi per un secondo. O forse era solo una mia impressione.
Acconsentii.
Dopotutto, che altro avevo da perdere? O lei, o nessun altro.
Quel giorno la incontrai per la prima volta.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 8

 

Qualcuno come te

 

 

 

Never mind I’ll find someone like you,

I wish nothing but the best for you,

Don’t forget me, I beg…

Someone like you - Adele

 

 

« Elena! »

Non mi ricordavo come ero arrivato lì. Cioè, sapevo di voler rimediare al casino che avevo fatto, ma proprio erano spariti dalla mia mente i ricordi delle ultime ore. Come c’ero arrivato al cortile della scuola?

Era sabato, avevo appena terminato le mie ore di scuola solite, ma non mi ricordavo nemmeno di essermi alzato dal letto quella mattina. Ero giunto lì, vicino ad Elena, l’avevo chiamata e basta. Tutto il resto era scivolato via dalla mia mente, non era importante.

L’unica cosa che importava era che lei era lì, in tutto il suo splendore. Appena la chiamai si voltò a guardarmi, ed io stupidamente rimasi impalato, con la bocca aperta, immobile, senza sapere cosa dire. Imbarazzato, rivolsi il capo a terra, studiando le mie scarpe.

C’era un motivo per cui non riuscivo a guardarla negli occhi. Aveva quella luce che, insolita, non risplende in ogni universo, ma si limita ad avere un focolaio dentro poche persone. Quelle che solitamente non nota mai nessuno. E poi, d’un tratto, cominciano a risplendere come sotto ad un lampione. E il lampione, in quel momento, avrei tanto voluto essere io.

Continuando a guardare a terra, mi accorsi con terrore che due paia di scarpe avevano raggiunto le mie. Erano delle normali converse nere un po’ usate, un piede minuto, come quello di una ragazza. Sofia aveva delle converse nere? Non me lo ricordavo, però in quel momento avrei tanto voluto che fosse lei quella davanti a me, per non dover fare altre figuracce e per non affrontare la situazione.

Da quanto sei così codardo?, diceva la voce dentro di me – che fosse quella maledetta coscienza di cui tanti parlano? – facendosi sempre sentire nei momenti meno opportuni.

Alzai gli occhi con cautela, certo di beccarmi minimo uno schiaffo.

Elena era davanti a me, che mi guardava con un sopracciglio alzato. Indossava una giacca nera un po’ troppo grande per lei, che la faceva sembrare ancora più minuta di quanto non fosse. Al collo risplendeva l’argento della sua collana, come a volermi ricordare che c’era una presenza lì con noi e che non ci avrebbe lasciati mai da soli: suo fratello. Cercai di togliermi quell’orribile pensiero e cominciai a guardare Elena da più vicino di quanto avessi mai fatto fino ad allora.

Gli occhi azzurri erano circondati da un leggero cenno di matita nera e erano circondati da tracce di occhiaie. Probabilmente ce le aveva sempre avute, ma io non l’avevo mai notato. Sembrava davvero stanca, come se non dormisse da secoli, o come se ne stesse patendo più di quanto una persona fosse in grado di sopportare; o forse era solo il fatto che sapevo che era così che me lo faceva vedere?

Era allarmante come tutto intorno a noi si fosse improvvisamente fermato, come se non esistesse null’altro.

« Elena » presi fiato, « io volevo… Scusarmi. Sono stato a dir poco orribile, e… » Le parole mi morirono in gola. Cercai di trovare qualcosa di sensato da dirle per farle capire che non volevo accusarla, che ero preoccupato per lei, che non facevo altro che pensare al suo volto tutto il giorno e…

Basta, Riccardo.

« Scusami » borbottai, e feci quasi per andarmene, quando la sua mano mi afferrò per un braccio.

La sua stretta era calda, ma mi fece venire i brividi.

« Non importa, stai tranquillo » mi disse. « È successo di peggio, non sono arrabbiata con te. Dopotutto hai ragione… »

« Non è vero! »

« Sì invece » ribatté sicura. « Non studio molto, per un motivo o per l’altro, e non è che me ne preoccupo. Più che altro me ne frego, sai com’è. Arrivi ad un certo punto e non puoi fare a meno di pensare che la scuola è solo un peso inutile e che non ti prepara alla vita che c’è lì fuori, quindi, a che serve sapere cosa diceva Cicerone se poi non hai una casa dove tornare? »

Rimasi paralizzato. Lo diceva con talmente tanta tranquillità da farmi a dir poco paura. Avevo quasi la voglia di prendere e scappare, andarmene lontano, non tornare più vicino a lei. Sentire quelle parole così vere e così crudeli non mi faceva affatto stare bene.

« Elena… » mormorai, chiedendomi se nel dizionario esistessero sufficienti parole per certe situazioni o se era il caso di inventarne di nuove.

« Dico sul serio, non dire che ti dispiace » mi disse, aprendo il volto in un sorriso.

« Sono preoccupato per te » dissi, mordendomi subito il labbro per non essere rimasto zitto.

« Perché? » sgranò gli occhi.

Come facevo a spiegarglielo? Come facevo a dirle che ogni volta che la vedevo avrei voluto stringerla in un abbraccio? Come facevo a dirle che stavo morendo dalla voglia di prenderle una mano, così, senza un apparente motivo?

« Non lo so » ammisi.

« Non preoccuparti mai per me » disse dura. « Odio le persone che lo fanno. Non voglio il minimo di compassione da parte tua ».

« Non è compassione! » mi affrettai a precisare. « Non mi fai pena, non… Non è così ».

« E allora com’è? »

Sei in trappola, amico, mi disse in quel momento la vocina fastidiosa.

« Hai presente quando vorresti che una persona stesse bene? Quando non puoi fare a meno di desiderare il meglio per lei, quando ti chiedi perché non possono essere così tutti quanti al mondo? » mormorai velocemente, guardandola di sfuggita. Lei corrugò la fronte.

« Sì. Ma che c’entra? »

« C’entra » cercai di spiegarle ed il cuore che improvvisamente cessò di battere, « perché ogni volta che vedo te penso questo. Vorrei che non ti fosse accaduto nulla, che tu fossi felice e mettessi da parte il tuo sguardo malinconico. Vorrei che ogni persona fosse forte come te e così spudorata da non aver paura di dire cosa prova ».

Il vento mi colpì in pieno viso, facendomi lacrimare per un secondo. Non era semplice, non mi ero mai sentito così in difficoltà a parlare con una persona, era come se le parole avessero deciso di lasciarmi da solo, abbandonandomi a me stesso. Una parte di me – quella più grande – voleva fuggire e andare a nascondersi, forse cambiare i connotati, comprare una parrucca e un paio di baffi e trasferirsi in Messico a vendere nachos. L’altra, invece, voleva solo che Elena si affrettasse a rispondere, a dire qualcosa, qualsiasi cosa.

« Ma tu non hai la ragazza? » mi chiese, e mi sentii morire.

Forse non proprio qualsiasi, eh, Riccardo?

Di tutte le risposte che pensavo di sentirmi dire, quella era la peggiore.

« Sì, Sofia » mormorai.

« Allora perché ti preoccupi di me? »

« Non è la stessa cosa, io… io con te mi sento me stesso ».

Sembrava una frase fatta ma non lo era. Forse il suo significato era stato ripetuto talmente tante volte da persone, film, libri, da esser considerata una corbelleria come tante altre, ma io non mi ero mai sentito più sincero in tutta la mia vita come allora.

« Non mi conosci nemmeno » disse lei, pacata. « Non mi piace chi mi prende in giro ».

« Non ti sto prendendo in giro » le risposi paziente. « Non lo farei mai, non ci riuscirei nemmeno volendo. Ti dico la verità, con te non ho avuto paura di essere me stesso e tu mi hai dimostrato che nel mondo c’è molto altro fuori di me. È come se mi avessi regalato degli occhiali ed ora riesco a vedere cosa prima i miei occhi mi nascondevano ».

« Non ti seguo ».

« Non mi seguo nemmeno io, non importa » mi affrettai ad aggiungere. « Lascia perdere ciò che ho detto finora, voglio solo che tu sappia che non volevo farti star male con quello che ti ho detto l’altro giorno ».

Elena rise. « Tu ti preoccupi troppo, non sono arrabbiata con te! »

« Davvero? » Non avevo mai sentito il mio tono così speranzoso prima d’allora.

« Davvero! » continuò a ridere. « Non sarai né il primo né l’ultimo a dirmi quelle cose. Amici? » mi chiese, tendendomi la mano.

Per un momento esitai, incerto su cosa fare. Quella parola, amici, in quel momento per chissà quale motivo mi sembrava orribile.

« Certo » mormorai mite, afferrandogliela, ma subito mi rallegrai vedendo che stava sorridendo come non mai.

« Bene » disse. « A presto, Riccardo » mi salutò, avvicinandosi e dandomi un bacino sulla guancia. Arrossii immediatamente, non preparato a quel gesto, e quando si staccò cominciarono a tornarmi i brividi di freddo, improvvisamente più intensi.

« Ciao » salutai debolmente, stordito.

La guardai mentre si allontanava da me e si avviava verso la fermata dell’autobus. Mi accorsi solo allora che portava la gonna: la gonna con le converse. Non riuscii a fare a meno di sorridere come un’ebete al vento, al pensiero che esistesse Elena.

Elena, così diversa eppure così semplice.

« Ahia » una voce familiare mi arrivò da dietro alle orecchie. « Ahia, sento odore di guai ».

« Jack » sbuffai voltandomi. « Cosa c’è adesso? »

« Ragazza a ore tre » si limitò a dirmi alzando le spalle, e poi mi superò.

Vidi Sofia venire verso di me con un’espressione indecifrabile nel volto, ma non potei fare a meno che sorriderle. Ero talmente euforico per via di Elena che non riuscivo ad essere triste o preoccupato. Non c’era nessuno come lei, nessuno in grado di rendermi così spensierato tutt’ad un tratto.

« Riccardo, ti aspettavo dal cancello posteriore, avevi detto che ci saremmo visti lì » mi disse Sofia appena mi venne incontro. Sembrava confusa.

« Sì, Sofia, scusami, ma avevo da fare e mi sono dimenticato di avvertirti » biascicai, sperando di non arrossire. « Se vuoi ora possiamo andare ».

« Okay » mormorò lei, ma non sembrava troppo convinta. « Se ci fosse qualcosa che non va me lo diresti, vero? » mi chiese poi.

« Certo » la rassicurai, dandole un lieve bacio sulle labbra. Quel leggero tocco parve farla rinascere.

« Va bene, allora possiamo andare » mi sorrise, prendendomi una mano, ed io la seguii fuori da scuola, pronto a passare il pomeriggio al suo fianco.

 

Al suo fianco? Io direi piuttosto che fisicamente eri lì, ma con la mente da tutt’altra parte, o meglio, da tutt’altra ragazza.

Zitta, fastidiosa coscienza. Taci, tieniti le tue verità per te.

 

 

 

 

 

 

 

 

{ Spazio HarryJo.

Ma buonasera a tutti! Lo so, mi detestate e mi odiate, lo capisco. Faccio schifo, ci ho messo più di un mese ad aggiornare. Sono pronta al linciaggio, certo, ma prima lasciatemi dire alcune parole.

Innanzitutto il ritardo è dovuto ad alcuni problemi personali, la maggior parte dei quali non mi ha del tutto lasciata. So che non ve ne può fregar di meno, ma non ho mai pensato – né penserò mai – di lasciare questa storia: state pur certi che la continuerò, anche se con ritardi madornali, continuate ad aver fede! *passa palla di fieno*

Poi. Volevo ringraziare due persone: innanzitutto Alessandro (Ciao, Ale!) che mi odia a morte per non aver pubblicato prima e che mi ha praticamente costretto a “sbloccare la mia tastiera”. Grazie mille di cuore, spero che non ti abbia fatto troppo schifo il capitolo D:

In secondo luogo – ma non meno importante – voglio pubblicamente ringraziare quella maledetta donna che qui porta il nome di MedusaNoir. Sì, Med, proprio tu. Perché Medusa mi ha spedito un pacco dove ha scritto sopra “Nient’altro importa” e dentro c’era una collana con la lettera D. Collana che peraltro ora indosso sempre. Grazie, Med, perché sei meravigliosa. E, a voialtri do un consiglio, se siete fan dei fandom in cui scrive, andate a leggerla e non ve ne pentirete.

Concludo qui. Non ho null’altro da dire, ma se c’è ancora qualche anima pia che segue questa storia che faccia un fischio in una recensione, è sempre apprezzato…

Buona notte a tutti,
Erica :3

   
 
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