Capitolo 8
Qualcuno come te
Never mind I’ll find someone like you,
I wish nothing but the best for you,
Don’t forget me, I beg…
Someone
like you - Adele
« Elena! »
Non mi ricordavo come ero arrivato
lì. Cioè, sapevo di voler rimediare al casino che avevo fatto, ma proprio erano
spariti dalla mia mente i ricordi delle ultime ore. Come c’ero arrivato al
cortile della scuola?
Era sabato, avevo appena terminato le
mie ore di scuola solite, ma non mi ricordavo nemmeno di essermi alzato dal
letto quella mattina. Ero giunto lì, vicino ad Elena, l’avevo chiamata e basta.
Tutto il resto era scivolato via dalla mia mente, non era importante.
L’unica cosa che importava era che lei
era lì, in tutto il suo splendore. Appena la chiamai si voltò a guardarmi, ed
io stupidamente rimasi impalato, con la bocca aperta, immobile, senza sapere
cosa dire. Imbarazzato, rivolsi il capo a terra, studiando le mie scarpe.
C’era un motivo per cui non riuscivo
a guardarla negli occhi. Aveva quella luce che, insolita, non risplende in ogni
universo, ma si limita ad avere un focolaio dentro poche persone. Quelle che
solitamente non nota mai nessuno. E poi, d’un tratto, cominciano a risplendere
come sotto ad un lampione. E il lampione, in quel momento, avrei tanto voluto
essere io.
Continuando a guardare a terra, mi
accorsi con terrore che due paia di scarpe avevano raggiunto le mie. Erano
delle normali converse nere un po’ usate, un piede minuto, come quello di una
ragazza. Sofia aveva delle converse nere? Non me lo ricordavo, però in quel
momento avrei tanto voluto che fosse lei quella davanti a me, per non dover
fare altre figuracce e per non affrontare la situazione.
Da
quanto sei così codardo?, diceva la voce dentro di me – che fosse quella
maledetta coscienza di cui tanti parlano? – facendosi sempre sentire nei
momenti meno opportuni.
Alzai gli occhi con cautela, certo di
beccarmi minimo uno schiaffo.
Elena era davanti a me, che mi
guardava con un sopracciglio alzato. Indossava una giacca nera un po’ troppo
grande per lei, che la faceva sembrare ancora più minuta di quanto non fosse.
Al collo risplendeva l’argento della sua collana, come a volermi ricordare che
c’era una presenza lì con noi e che non ci avrebbe lasciati mai da soli: suo
fratello. Cercai di togliermi quell’orribile pensiero e cominciai a guardare
Elena da più vicino di quanto avessi mai fatto fino ad allora.
Gli occhi azzurri erano circondati da
un leggero cenno di matita nera e erano circondati da tracce di occhiaie.
Probabilmente ce le aveva sempre avute, ma io non l’avevo mai notato. Sembrava
davvero stanca, come se non dormisse da secoli, o come se ne stesse patendo più
di quanto una persona fosse in grado di sopportare; o forse era solo il fatto
che sapevo che era così che me lo faceva vedere?
Era allarmante come tutto intorno a
noi si fosse improvvisamente fermato, come se non esistesse null’altro.
« Elena » presi fiato, « io volevo…
Scusarmi. Sono stato a dir poco orribile, e… » Le parole mi morirono in gola.
Cercai di trovare qualcosa di sensato da dirle per farle capire che non volevo
accusarla, che ero preoccupato per lei, che non facevo altro che pensare al suo
volto tutto il giorno e…
Basta,
Riccardo.
« Scusami » borbottai, e feci quasi
per andarmene, quando la sua mano mi afferrò per un braccio.
La sua stretta era calda, ma mi fece
venire i brividi.
« Non importa, stai tranquillo » mi
disse. « È successo di peggio, non sono arrabbiata con te. Dopotutto hai
ragione… »
« Non è vero! »
« Sì invece » ribatté sicura. « Non
studio molto, per un motivo o per l’altro, e non è che me ne preoccupo. Più che
altro me ne frego, sai com’è. Arrivi ad un certo punto e non puoi fare a meno
di pensare che la scuola è solo un peso inutile e che non ti prepara alla vita
che c’è lì fuori, quindi, a che serve sapere cosa diceva Cicerone se poi non
hai una casa dove tornare? »
Rimasi paralizzato. Lo diceva con
talmente tanta tranquillità da farmi a dir poco paura. Avevo quasi la voglia di
prendere e scappare, andarmene lontano, non tornare più vicino a lei. Sentire
quelle parole così vere e così crudeli non mi faceva affatto stare bene.
« Elena… » mormorai, chiedendomi se
nel dizionario esistessero sufficienti parole per certe situazioni o se era il
caso di inventarne di nuove.
« Dico sul serio, non dire che ti
dispiace » mi disse, aprendo il volto in un sorriso.
« Sono preoccupato per te » dissi, mordendomi
subito il labbro per non essere rimasto zitto.
« Perché? » sgranò gli occhi.
Come facevo a spiegarglielo? Come
facevo a dirle che ogni volta che la vedevo avrei voluto stringerla in un
abbraccio? Come facevo a dirle che stavo morendo dalla voglia di prenderle una
mano, così, senza un apparente motivo?
« Non lo so » ammisi.
« Non preoccuparti mai per me » disse
dura. « Odio le persone che lo fanno. Non voglio il minimo di compassione da
parte tua ».
« Non è compassione! » mi affrettai a
precisare. « Non mi fai pena, non… Non è così ».
« E allora com’è? »
Sei
in trappola, amico,
mi disse in quel momento la vocina fastidiosa.
« Hai presente quando vorresti che
una persona stesse bene? Quando non puoi fare a meno di desiderare il meglio per
lei, quando ti chiedi perché non possono essere così tutti quanti al mondo? »
mormorai velocemente, guardandola di sfuggita. Lei corrugò la fronte.
« Sì. Ma che c’entra? »
« C’entra » cercai di spiegarle ed il
cuore che improvvisamente cessò di battere, « perché ogni volta che vedo te
penso questo. Vorrei che non ti fosse accaduto nulla, che tu fossi felice e
mettessi da parte il tuo sguardo malinconico. Vorrei che ogni persona fosse
forte come te e così spudorata da non aver paura di dire cosa prova ».
Il vento mi colpì in pieno viso,
facendomi lacrimare per un secondo. Non era semplice, non mi ero mai sentito
così in difficoltà a parlare con una persona, era come se le parole avessero
deciso di lasciarmi da solo, abbandonandomi a me stesso. Una parte di me –
quella più grande – voleva fuggire e andare a nascondersi, forse cambiare i
connotati, comprare una parrucca e un paio di baffi e trasferirsi in Messico a
vendere nachos. L’altra, invece, voleva solo che Elena si affrettasse a
rispondere, a dire qualcosa, qualsiasi
cosa.
« Ma tu non hai la ragazza? » mi
chiese, e mi sentii morire.
Forse
non proprio qualsiasi, eh, Riccardo?
Di tutte le risposte che pensavo di
sentirmi dire, quella era la peggiore.
« Sì, Sofia » mormorai.
« Allora perché ti preoccupi di me? »
« Non è la stessa cosa, io… io con te
mi sento me stesso ».
Sembrava una frase fatta ma non lo
era. Forse il suo significato era stato ripetuto talmente tante volte da
persone, film, libri, da esser considerata una corbelleria come tante altre, ma
io non mi ero mai sentito più sincero in tutta la mia vita come allora.
« Non mi conosci nemmeno » disse lei,
pacata. « Non mi piace chi mi prende in giro ».
« Non ti sto prendendo in giro » le
risposi paziente. « Non lo farei mai, non ci riuscirei nemmeno volendo. Ti dico
la verità, con te non ho avuto paura di essere me stesso e tu mi hai dimostrato
che nel mondo c’è molto altro fuori di me. È come se mi avessi regalato degli
occhiali ed ora riesco a vedere cosa prima i miei occhi mi nascondevano ».
« Non ti seguo ».
« Non mi seguo nemmeno io, non
importa » mi affrettai ad aggiungere. « Lascia perdere ciò che ho detto finora,
voglio solo che tu sappia che non volevo farti star male con quello che ti ho
detto l’altro giorno ».
Elena rise. « Tu ti preoccupi troppo,
non sono arrabbiata con te! »
« Davvero? » Non avevo mai sentito il
mio tono così speranzoso prima d’allora.
« Davvero! » continuò a ridere. « Non
sarai né il primo né l’ultimo a dirmi quelle cose. Amici? » mi chiese,
tendendomi la mano.
Per un momento esitai, incerto su
cosa fare. Quella parola, amici, in
quel momento per chissà quale motivo mi sembrava orribile.
« Certo » mormorai mite,
afferrandogliela, ma subito mi rallegrai vedendo che stava sorridendo come non
mai.
« Bene » disse. « A presto, Riccardo
» mi salutò, avvicinandosi e dandomi un bacino sulla guancia. Arrossii
immediatamente, non preparato a quel gesto, e quando si staccò cominciarono a
tornarmi i brividi di freddo, improvvisamente più intensi.
« Ciao » salutai debolmente,
stordito.
La guardai mentre si allontanava da
me e si avviava verso la fermata dell’autobus. Mi accorsi solo allora che
portava la gonna: la gonna con le converse. Non riuscii a fare a meno di sorridere
come un’ebete al vento, al pensiero che esistesse Elena.
Elena, così diversa eppure così
semplice.
« Ahia » una voce familiare mi arrivò
da dietro alle orecchie. « Ahia, sento odore di guai ».
« Jack » sbuffai voltandomi. « Cosa c’è
adesso? »
« Ragazza a ore tre » si limitò a
dirmi alzando le spalle, e poi mi superò.
Vidi Sofia venire verso di me con un’espressione
indecifrabile nel volto, ma non potei fare a meno che sorriderle. Ero talmente
euforico per via di Elena che non riuscivo ad essere triste o preoccupato. Non
c’era nessuno come lei, nessuno in grado di rendermi così spensierato tutt’ad
un tratto.
« Riccardo, ti aspettavo dal cancello
posteriore, avevi detto che ci saremmo visti lì » mi disse Sofia appena mi
venne incontro. Sembrava confusa.
« Sì, Sofia, scusami, ma avevo da
fare e mi sono dimenticato di avvertirti » biascicai, sperando di non
arrossire. « Se vuoi ora possiamo andare ».
« Okay » mormorò lei, ma non sembrava
troppo convinta. « Se ci fosse qualcosa che non va me lo diresti, vero? » mi
chiese poi.
« Certo » la rassicurai, dandole un lieve
bacio sulle labbra. Quel leggero tocco parve farla rinascere.
« Va bene, allora possiamo andare »
mi sorrise, prendendomi una mano, ed io la seguii fuori da scuola, pronto a
passare il pomeriggio al suo fianco.
Al
suo fianco? Io direi piuttosto che fisicamente eri lì, ma con la mente da tutt’altra
parte, o meglio, da tutt’altra ragazza.
Zitta, fastidiosa coscienza. Taci, tieniti
le tue verità per te.
{
Spazio HarryJo.
Ma
buonasera a tutti! Lo so, mi detestate e mi odiate, lo capisco. Faccio schifo,
ci ho messo più di un mese ad aggiornare. Sono pronta al linciaggio, certo, ma
prima lasciatemi dire alcune parole.
Innanzitutto
il ritardo è dovuto ad alcuni problemi personali, la maggior parte dei quali
non mi ha del tutto lasciata. So che non ve ne può fregar di meno, ma non ho
mai pensato – né penserò mai – di lasciare questa storia: state pur certi che
la continuerò, anche se con ritardi madornali, continuate ad aver fede! *passa palla di fieno*
Poi.
Volevo ringraziare due persone: innanzitutto Alessandro (Ciao, Ale!) che mi odia a morte per non aver pubblicato prima e
che mi ha praticamente costretto a “sbloccare la mia tastiera”. Grazie mille di
cuore, spero che non ti abbia fatto troppo schifo il capitolo D:
In
secondo luogo – ma non meno importante – voglio pubblicamente ringraziare
quella maledetta donna che qui porta il nome di MedusaNoir.
Sì, Med, proprio tu. Perché Medusa mi ha spedito un
pacco dove ha scritto sopra “Nient’altro importa” e dentro c’era una collana
con la lettera D. Collana che peraltro ora indosso sempre. Grazie, Med, perché sei meravigliosa. E, a voialtri do un
consiglio, se siete fan dei fandom in cui scrive,
andate a leggerla e non ve ne pentirete.
Concludo
qui. Non ho null’altro da dire, ma se c’è ancora qualche anima pia che segue
questa storia che faccia un fischio in una recensione, è sempre apprezzato…
Buona
notte a tutti,
Erica :3