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Autore: KH4    28/10/2011    3 recensioni
Quando Nami aveva espressamente detto di non combinare alcun guaio, intendeva cose del tipo “Non attirate troppo l’attenzione con le vostre buffonate”, “Non fatevi vedere dalla Marina” o “Evitate di scatenare l’ennesimo pandemonio”. Insomma, i classici avvertimenti che non mancavano mai di essere ripresi e ripassati. Ma tra questi e l’infinita serie di avvertimenti da lei elargiti, nessuno aveva mai parlato di ragazze isteriche trasportanti in spalla, come sacchi di patate, fratelli mezzi dissanguati e seguite a ruota da innocenti bambine con grandi occhi azzurri. Un evento decisamente più normale del solito, umano, per dirla nella giusta maniera, ma, sicuramente, non privo di sorprese, se si teneva conto del fatto che, a portarli sulla nave, era stato proprio Rufy. (estratto del capitolo quattro).
 
Il Nuovo Mondo è pronto ad accogliere Rufy e la sua ciurma, tornati insieme dopo due anni di separazione; lasciatisi alle spalle l'isola degli Uomini Pesce, i pirati approdano su di un'isola, dove incontreranno un piccola amante della pirateria, bisognosa di aiuto. Spero di aver stuzzicato la vostra curiosità, ragazzi!
Seguito di “Giglio di Picche.”
Genere: Avventura, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Monkey D. Rufy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Salve a tutti voi, spero stiate bene! Con questo capitolo, inizia finalmente la prima saga della storia, quindi vedremo i Mugiwara in azione. Mi auguro che vi piaccia, io coi combattimenti (anche se qui non ce ne saranno molti) ho sempre qualche tentennamento Buona lettura! (Spero non ci siano errori. L'ho controllato ma non si sa mai).

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Il nome Rocky Headland induceva i viaggiatori a pensare che l’isola in questione fosse un grosso promontorio, con tanto di faro appostato sulla sua parte più alta.
Un posto abitato come tanti altri. Invece, contro tutte le possibili aspettative, questo era ben differente dall’immagine mentale che una persona soleva creare con la propria fantasia: non lo si poteva neppure definire un’isola, tant’era diverso.

In pratica, si trattava di uno scoglio: uno scoglio alto più della Reverse Mountain, spigoloso, umido, spaccato in due da un fenomeno marino che, vista la natura sconosciuta, era stato classificato come una comune scossa di terremoto. Le due metà distavano una cinquantina di metri, se non di più, divise da un abbondante fiume d’acqua salata che l’oceano aveva riempito al momento della rottura. Benché una volta queste fossero state un tutt’uno solidissimo, il loro aspetto non poteva essere più che differente: la metà sinistra era coperta da un fittissimo e rigoglioso manto verde, ma la destra era nuda, grigia, tempestata da grosse buche irregolari. Su qualche sporgenza si potevano vedere degli alberi, ma erano secchi, con sopra frutti neri e raggrinziti.
Seguendo con fare lento la corrente, la Thousand Sunny si era infilata in quella mastodontica fessura, accompagnata dal cinguettare dei gabbiani, comodamente appollaiati nelle rientranze più alte. Il sole, per quanto strano che fosse, riusciva a illuminare il mezzo per più di un’ora, il che rendeva maggiormente agevole il transito della nave: Franky era al timone, che seguiva le direttive di Nami, i cui occhi nocciolati non si facevano sfuggire nessuna di quelle rocce appuntite, che spuntavano dall’acqua senza alcun preavviso. Nonostante la luminosità mattutina, di angoli nascosti e punti ciechi ce ne erano fin troppi, per i suoi gusti.

“E’ una vera fortuna che non dobbiamo fermarci a registrare il magnetismo. Questo posto è orribile”, bofonchiò lei “Franky, un po’ più a sinistra!”
“Aw! Ricevuto, sorella!”

Con gli occhiali da sole calcati sul naso, il Cyborg mosse il timone quanto bastava perché lo scafo della Sunny non incontrasse le punte degli scogli scorti dalla Gatta Ladra.

“Uffa, io volevo visitarla quest’isola”, mugugnò Rufy, con faccia delusa “Nami, sei proprio sicura che non possiamo fermarci?”
“Per la cinquantesima volta, ho detto di no”, ripeté esasperata “Il magnetismo di questo posto non è abbastanza forte da influenzare il log pose, quindi possiamo tranquillamente passare oltre, e poi guardati intorno: non ci sono spiagge o punti d’attracco e, per di più, se spostiamo la nave, rischiamo di farle fare quella fine.”

Puntando l’indice verso la parete di destra, la ragazza indicò diversi pezzi di navi, andate completamente distrutte. Erano resti di galeoni e di altre imbarcazioni più piccole, il cui unico punto in comune era stato lo schiantarsi contro le rocce; il loro legno era marcio, molle, coperto da alghe così sudice e viscide, da scivolare via da qualunque superficie.

“Yohohoho! Quei relitti mi ricordano un po’ la mia vecchia nave!” esclamò Brook.
“La tua nave era un relitto?” domandò Shion, con le braccia incrociate sulla balaustra.
“Si, e fino all’arrivo di Rufy-san, non l’ho mai lasciata. Mi è capitato che qualcuno venisse a farmi visita, ma scappavano via tutti prima ancora che potessi offrire loro una tazza di tè”, sospirò lui, nel mentre sorseggiava la calda bevanda appena menzionata.
“Chissà come mai…”, mormorò sarcasticamente Azu, a fianco della biondina.

Forse quel tipo se ne era dimenticato, ma il fatto di non avere più la pelle addosso, lo rendeva, come dire, abbastanza inquietante, specie se questo poi tentava di compiere delle piccole imboscate nel bagno riservato alle ragazze.

Evitando di pensare all’ultima visita inaspettata del musicista, l’albina distolse lo sguardo e lo rivolse al fratello, in piedi, con la schiena appoggiata alla porta della cucina e con la sua preziosa Saphira allacciata alla schiena. La cerniera del gilè nero era alzata fino a metà, di modo tale che parte del torace rimanesse scoperto; il colletto era alzato, sfiorato da diverse ciocche argentee, dritte come dei puntaspilli. Per quanto non lo desse a vedere, Azu era sollevata nel constatare che la ferita di Lars era definitivamente guarita e che lui non dormisse più in infermeria, ma quel che più la sorprese, fu il suo sguardo: pareva non avere nulla di diverso, solo…che le sembrava ancor più fermo del solito. A intervalli regolari, spostava le sue iridi glaciali a destra e a sinistra, in alto e in basso, su qualunque sporgenza o appiglio particolarmente vistoso, socchiudendo le palpebre come a voler migliorare la propria vista.

Che cercherà con quel fare guardingo? Si domandò la sorella, storcendo la bocca.

Conosceva bene quello sguardo e non poté fare a meno di sbuffare mentalmente: le espressioni multiple di suo fratello erano così maledettamente passive, apparentemente tutte uguali fra di loro….peggio di un libro di matematica! Comprendere cosa gli passasse per la testa, era qualcosa a cui aveva rinunciato tempo addietro, ben conscia del fatto che, se anche avesse avuto la facoltà di leggere nel pensiero, Lars sarebbe comunque riuscito ad averla vinta: e questo perché lui, a differenza sua, non andava in escandescenza e non esplodeva come un vulcano affetto di irascibilità cronica.
Lui sapeva esprimersi a dosi, mantenere la calma, parlare tranquillamente anche con persone che non meriterebbero altro che due ceffoni in faccia…..si, tutte quelle robe che esigevano un elevato concentrato di ponderatezza, e che lei preferiva risolvere a suon di pedate nel sedere. Non che non fosse dotata d’intelligenza, ma l’albina prediligeva i contatti diretti, molto diretti, vista la sua impetuosità. Anche se avesse provato a essere più posata e educata, il suo istinto ne avrebbe risentito all’istante, come costretto a una terribile astinenza. Azu viveva per esprimere il proprio furore, ma in quel preciso frangente, non capiva proprio perché suo fratello avesse quella faccia, così come non capiva perché quel sensuale spadaccino – con un fisico mozzafiato, perlopiù - passasse tutto il santo giorno ad allenarsi e a dormire.

Ecco qui un altro maniaco delle spade, aveva pensato, nello scoprire che a lui, il mondo femminile, non interessava minimamente.

Zoro, al momento, non si trovava nella sua palestra privata: era seduto sulle scale che conducevano alla cucina e all’infermeria, con entrambi gli occhi chiusi e le braccia incrociate. Strano da dirsi, ma incredibilmente vero, fra lui e l’albino, in quei pochi giorni, si era creata una silenziosa affinità, scaturita principalmente dalla loro passione per le spade. L’occhio dell’ex Cacciatore di Pirati – soprannominato così per la sua vecchia professione – era caduto fin da subito sulla spada che suo fratello soleva curare dopo ogni allenamento. La lama azzurra e lucente aveva attirato l’attenzione del vicecapitano senza alcuno sforzo, mostrando la sua essenza con parole mute, lasciandosi semplicemente guardare. Era una spada, un oggetto, quindi era piuttosto strano pensare che questa avesse preso un’iniziativa umana, ma, in qualche modo, era così: Saphira era una spada particolare, con un’anima indecifrabile e contorta che soltanto Lars poteva comprendere, anch’egli piuttosto ambiguo. Al di fuori della silenziosità e della gentilezza che elargiva nei confronti di Shion, l’albino, nel guardare le sue katane, aveva posto delle domande decisamente strane. Non prive di logica, soltanto diverse da quelle che uno come lui si aspettava di sentire.
 
“Wadoichimonji, Sandai Kitetsu e Suushui. Hai tre katane di cui andare fiero”, gli aveva detto il più grande, al loro primo incontro.

Lars aveva preso ad ammirare le armi di Zoro una ad una, scrutando le lame e le impugnature con occhi attenti e scorrevoli. Aveva cominciato con la Owazamono, la spada maledetta. Secondo la storia, tutte le armi forgiate dalla scuola Kitetsu, per una ragione sconosciuta, erano dannate. Quando l’albino aveva fatto scorrere le sue iridi glaciali sulla lama trasparente, un luccichio bianco e sfuggente era comparso nei suoi occhi: l’onda violacea che solcava l’arma, era il marchio di riconoscimento di quella scuola, impossibile da confondere. Mettendola da parte, si era poi concentrato sulla Suushui, meglio conosciuta come “Acqua autunnale”, appartenuta al samurai Ryuma. La lama nera, con quel suo spessore particolare, aveva istigato il lato sadico di Lars con uno schiocco di frusta: le spade aventi  le lame dello stesso colore del buio erano rare, potenti, difficili da sottomettere e da controllare. Un’autentica sfida contro il fato e la morte.

A ogni suo commento, Zoro non aveva potuto fare altro che annuire e aggiungere particolari appresi grazie agli insegnamenti della Via della Spada: Lars aveva ammirato le sue armi come a volerne capire il carattere, se fossero socievoli o chiuse agli estranei, e nel mentre cercava di instaurarci un dialogo, lo spadaccino non aveva fatto altro che tenere l’occhio smeraldino puntato su Saphira. Covava il desiderio di poterla sfiorare, di poter saggiare quella luce che la contraddistingueva da qualunque altra spada, ma, in un modo che al momento sfuggiva alla sua ragione, pareva che quella spada fosse…..viva, che lo stesse osservando, come lui stava facendo con lei. Era da sciocchi ritenere le spade come oggetti buoni solo a tagliare: queste esprimevano la fatica di chi le aveva costruite, possedevano un’anima che non aspettava altro che l’arrivo di un padrone che si dimostrasse degno di impugnarle. Lui stesso aveva impiegato non poco per controllare Shuusui, la cui forza era radicalmente diversa dalla preziosa Yubashiri, amaramente persa a Ennies Lobby, ma nello scandagliare attentamente la spada dell’albino….beh, francamente, era stato difficile esprimerci un giudizio, salvo il fatto che era un’arma a dir poco che meravigliosa.


“Perdonala. Saphira è piuttosto timida”, gli aveva detto Lars, notando il suo interesse.

A chiunque, al sentire una cosa del genere, sarebbe spuntato un grosso gocciolone dietro la testa, ma non al ragazzo dai capelli verdi, il cui ferreo sguardo non aveva smesso per un solo istante di studiare l’albino e la sua arma.

“Non fa nulla. Immagino non ami essere presa in mano dagli estranei”, constatò lui.
“Diciamo che ha una personalità piuttosto selettiva”, gli aveva risposto l’altro, guardando la sua Wadoichimonji “Ma vedo che anche tu hai un’arma che ti è particolarmente legata”, aggiunse poi, alludendo alla spada che teneva in mano” Tra tutte e tre, mi pare essere quella più vicina a te.”

L’espressione atona di Zoro, a quelle parole, era mutata quanto bastava perché un minimo di stupore si dipingesse sul suo viso. La linea curva della bocca si era alzata appena, lasciando che le labbra si socchiudessero nel mentre il volto sorridente di Kuina gli balenava in testa. La spada col fodero bianco, la Wadoichimonji……si, quella era la spada che più poteva capirlo. Apparteneva a colei che non era mai riuscito a battere e che mai avrebbe sconfitto, poiché ella, oramai, era troppo lontana per essere raggiunta.
Kuina era morta, scomparsa nel nulla, ma la sua spada era lì, insieme alla sua anima, che, silenziosamente, lo stava accompagnando verso quel sogno che aveva urlato davanti a tutti. Ne percepiva i tremiti quando era inquieta, la forza quando lui ne aveva bisogno e il sostegno quando la sorte si apprestava a buttarlo a terra. Era ridicolo, insensato, ma Zoro era conscio che Kuina, o meglio, ciò che era rimasto di lei, fosse racchiuso nella sua spada, e Lars, dal canto suo, non si sarebbe mai permesso di dubitare di quel legame indissolubile, la cui profondità andava oltre al semplice amore. Lo aveva capito, lo avrebbe sempre rispettato …… perché anche lui, con Saphira, percepiva emozioni umane, seppur non derivanti da una promessa importante come quella che il ragazzo dai capelli verdi aveva fatto alla sua più cara amica d’infanzia.


Nel rivangare velocemente in quel ricordo, Zoro rammentò di non aver mai chiesto a Lars in che modo fosse entrato in possesso della sua spada. Non che gli interessasse così tanto da arrivare a chiederglielo direttamente, ma il legame che l’albino deteneva con la sua arma, con la sua anima, esprimeva emozioni tutt’altro che effimere.
Sbadigliando vistosamente, si grattò la nuca con fare stanco, incrociando le braccia dietro la nuca e prendendo a guardare quell’incavo dentro cui stavano navigando.

Azu, che li aveva osservati per una considerevole manciata di secondi, sospirò pesantemente, appoggiando poi i gomiti alla balaustra e sostenendosi il viso con le mani: no, proprio non capiva che cosa avessero di tanto interessante le spade….

“Uhm….che cosa strana..”, borbottò il cecchino, osservando i relitti delle navi coi suoi speciali occhiali.
“Che cos’è che è strano, Usopp?” domandò Chopper.
“Quel albero maestro…”, mormorò, sporgendosi appena “Sembra che sia stato preso a pugni.”
“Eh? Dici davvero? Posso vedere?”

Come il Re dei Cecchini passò un binocolo alla bambina, Shion si mise sulle punte e utilizzò lo strumento datogli per guardare il punto che l’amico le stava indicando. Spalancò la bocca nel vedere coi suoi stessi occhi che l’albero in questione, appartenente a una delle tante navi schiantatesi ,era colmo di rientranze notevolmente grandi. Era come…si, era come se fosse stato tartassato a ripetizione da qualcosa avente una forza inaudita. Passandosi la lingua sulle labbra secche, la piccola assottigliò lo sguardo, scoprendo il segno di alcune nocche in differenti punti del tronco, piegato in più angolazioni e prossimo alla rottura.

“Usopp ha ragione”, disse poi “Quell’albero maestro sembra veramente essere stato preso a pugni. Guarda, Robin”, e passò il binocolo all’archeologa.
“Uhm….hai proprio ragione”, concordò lei, una volta osservati resti della nave “A giudicare dalle dimensioni e dal numero dei solchi, devono essere stati dei animali di grossa taglia”, constatò.
“Mostri marini, probabilmente”, buttò lì Azu, con tono annoiato “Non è mica un mistero che posti del genere ne siano infestati.”
“Eeeh?! Sul serio?! Dici che potrebbero saltare fuori da un momento all’altro?!” squittì Chopper, con le pupille fuori dalle orbite.
“Io non credo, ma quei colpi restano comunque un bel punto interrogativo…”, replicò silenziosamente Nico Robin, portandosi l’indice alle labbra con fare pensieroso.

In tutta sincerità, se mai quell’insenatura fosse stato un nido straripante di bestie abnormi, l’albina avrebbe ringraziato una qualche entità divina a lei sconosciuta, per averla salvata da quell’asperità mortale. Al di fuori del quotidiano allenamento, quei giorni erano stati relativamente tranquilli, un pò troppo per lei, incapace di stare ferma per più di dieci minuti. Chiudeva e distendeva le dita delle mani con fare frenetico, cambiando posizione in continuazione e percependo un fortissimo senso di costrizione che saltellava sul suo istinto con fare scherzoso. Si sentiva maledettamente oppressa, coi muscoli frementi e il fiato corto: ancora un po’, e avrebbe preso la rincorsa per lanciarsi sulla parete rocciosa di destra, scalarla a mani nude e buttarsi di sotto, una volta arrivata in cima. Certo, il suo umore sarebbe nettamente migliorato, se fosse riuscita semplicemente a capire cosa diamine passasse per la testa di Lars. Ma che accidenti aveva per fare quella faccia sospettosa?! L’ambiente era tranquillo, solare - certo, non dei migliori -, ma comunque con un bel silenzio che…..

“Ehi, che è stato?”

Un insolito rumore aveva distolto alcuni membri della ciurma dal loro guardare in avanti. Alcuni sassi erano scivolati già dalla parete di destra di Rocky Headland, cozzando rumorosamente da una parte all’altra, per poi finire in acqua. Un evento del tutto privo di significato, se non fosse stato per....

“Ah!”
“Che succede, Shion-chan?” le domandò Brook, affiancandola.
“Lassù…”, e indicò una sporgenza dalla punta spigolosa “Mi è sembrato di vedere qualcosa muoversi: era grosso e nero.”

Il punto a cui la piccola si stava riferendo era vuoto, deserto, come tutto il resto. Eppure..qualcosa c’era. Il percepire una strana presenza mise sull’attenti Azu, che schiuse leggermente la bocca, per placare il caos emotivo che le aveva fatto prudere costantemente le mani: nemmeno lei era tanto sciocca da non arrivare a captare quella sottile pressione che aleggiava nell’aria. Fino a quel momento non ci aveva dato troppo preso, ma lì intorno c’era decisamente troppo silenzio per i suoi gusti. Sebbene il verso dei gabbiani e il dolce sbattere delle onde fossero udibili, quei rumori, in confronto al vuoto che circondava la Thousand Sunny, non erano che suoni abbondantemente ovattati, facilissimi da allontanare dalla propria mente.

Rufy era sempre seduto sulla polena della nave, ma aveva cominciato a guardarsi intorno, calcando sulla testa corvina il prezioso cappello di paglia. Anche aveva notato qualcosa di strano, così come se ne erano accorti Sanji, Nami e Franky, intenti ad osservare le mura di Rocky Headland, fattesi stranamente ancora più alte e sinistre: gravavano su di loro come a voler cadere, toccando il cielo e dando l’impressione che questo fosse ancor più irraggiungibile. Il sole le rendeva nere, limitando la visuale dei pirati, i quali erano costretti, ogni volta che guardavano insù, a coprirsi gli occhi con una mano.

Nessuno, fino a quel dato frangente, aveva pienamente realizzato che un incavo del genere, poteva risultare una trappola a dir poco perfetta: c’erano solo due vie d’uscita, una delle quali era l’entrata, la cui rientranza non era sufficientemente larga perché la Sunny potessi compiere un giro su sé stessa. Le pareti rocciose di destra erano incredibilmente lisce, come se fossero state cosparse d’olio, colme di relitti e punte fastidiose sul fondo: quelle di sinistra, seppur libere, non presentavano alcun punto di attracco validamente accettabile. Mancava solo un bel plotone della Marina come comitato di benvenuto e sarebbero stati fregati su tutta la linea. Erano svantaggiati, con una mobilità altamente limitata e uno spazio privo d’ogni utilità pensabile. Nel passarsi una mano sul viso, Azu comprese di essere stata alquanto stupida: c’era una ragione più che valida se Lars era rimasto fermo e con lo sguardo rivolto a ogni singolo centimetro di quell’isola spezzata in due. Una ragione che lei aveva dimenticato, perché convinta che quel brutto muso di suo fratello non fosse capace di sciogliersi al di fuori di un contesto che non implicasse la presenza di Shion. Tra le innumerevoli espressioni del più grande, c’era quella che gli aveva visto dipinta prima, e che tutt’ora teneva ben in vista: l’assottigliare le palpebre quanto bastava perché le sue pupille si dimezzassero, era il suo modo personale per osservare un determinato oggetto, che suscitava in lui un forte sospetto. Ora, l’oggetto in questione, erano proprio quelle mura apparentemente innocue, e il sospetto del fratello maggiore, al loro riguardo, era decisamente troppo forte perché potesse essere scambiato per un banale errore.

Inviperita con sé stessa, Azu si diede nuovamente della cretina: come avesse fatto a non accorgersene prima, proprio non lo concepiva!
All’ennesimo rumore sfuggente, la testa del capitano, del cuoco e dello spadaccino, si girarono nella medesima direzione.

“Sembra che qualcuno, lassù, stia correndo…”, osservò Zoro, portando la mano sull’impugnatura della Wadoichimonji.
“Non mi sembrano passi umani”, si aggiunse Sanji, accendendosi una sigaretta.

La presenza di un persona, su di un’isola del genere, era praticamente impossibile, specie poi nella parte destra di essa: era spoglia, priva di sostentamento naturale e, sicuramente, d’acqua dolce. Ma questo non significava che lì non ci fosse qualcun altro. I passi uditi da Gamba Nera erano pesanti, veloci, ma non quanto quelli di un comune essere umano. Inoltre, parevano essere più di due le gambe che correvano….se poi si trattava realmente di gambe.

Senza perdere tempo, l’albina puntò i propri occhi perlacei su diversi punti delle mura spoglie, flettendo le gambe e irrigidendo le dita delle mani. La speranza di superare quell’isola indenni, aveva ormai levato le tende, lasciando spazio a un’alternativa più dinamica e pericolosa: la tensione elettrica che stava irrigidendo tutti quanti loro, nave compresa, sgorgava dalle pareti rocciose peggio di un fiume in piena. Usopp, regolandosi gli speciali occhiali, afferrò saldamente la sua fionda Kabuto, affiancato da Brook, il quale continuò a guardarsi intorno senza cavare un solo ragno dal buco. La navigatrice e l’archeologa si fecero vicine, scambiandosi occhiate complici e annuendo fra di loro, senza aver bisogno di dar voce ai loro pensieri: viaggiavano insieme da così tanto tempo, che oramai era diventato facile interpretare certi gesti e sguardi, e questo valeva anche per gli altri: un minimo cenno di capo del capitano, e tutti erano pronti a fare quel che era giusto fare, che fosse ragionevole o insensato. Una cosetta che anche Azu e Lars avevano insegnato a Shion, corsa dal ragazzo e aggrappatasi ai suoi pantaloni.

“Si direbbe proprio che abbiamo compagnia…”, affermò sottovoce l’albino, portandosi il braccio dietro la schiena, per poi rinchiudere le dita attorno l’impugnatura di Saphira.

Forse era stato frutto di un’illusione creata da quel attrito crescente, ma le orecchie di alcuni dei pirati avevano distintamente sentito una sorta di ringhio sommesso fuoriuscire dalle pareti.

Le macchie nere menzionate dalla bambina non si erano ancora viste, ma ella era certa che si stessero nascondendo dietro le rocce, e quel rumore appena sentito ne era la prova. La tensione sviluppatasi non faceva altro che premerle sui polmoni, accorciandole il fiato e facendole battere il cuore quanto quello di un topolino impaurito. Gli irregolari buchi che rovinavano lo scoglio su cui tutti aveva concentrato la propria attenzione, stava esercitando su di lei un forte ascendente, impedendole di guardare il ponte di coperta o di lasciarsi cullare dal flebile battere delle onde. Avrebbe tanto voluto sottrarsi da quel tremendo silenzio, scandito da strani rumori che, via via, stavano divenendo più incalzanti, ma le sue gambe si rifiutavano di muoversi, così come le braccia e la testa, invasa da pensieri e immagini indecifrabili. Finì per serrare le palpebre e serrare con più forza le dita, affondandole nei larghi jeans di Lars, la cui voce la stava aiutando a non lasciarsi prendere totalmente dal panico.

“Sta tranquilla, Shion. Ci sono io”, le disse lui, accarezzandole la testolina “Rimani vicino a me e andrà tutto bene.”

Come avvertì il caldo braccio dell’albino circondarle le spalle, la piccina strabuzzò gli occhi, percependo i propri muscoli disfarsi della tensione. Fu una reazione che sfuggì al suo controllo emotivo, completamente libera dal suo volere, ma che venne ugualmente apprezzata, considerato l’enorme sospiro che ella emise. Le vie respiratorie tornarono a riempirsi d’ossigeno, privandola di quel minuscolo fastidio che le aveva punzecchiato incessantemente il torace e aiutandola a riconquistare quel minimo di mobilità che le occorreva per poter guardare l’amico. Non si aspettò di vedere nulla di nuovo dal solito, poiché conosceva Lars molto meglio delle sue cosiddette “Ammiratrici”, ma, come a voler giocare con lei, il fato la spinse a rimanere imbambolata davanti a quelle piccole sfere di ghiaccio, che altri poi non erano che gli occhi del ragazzo: erano ferme, prive di quella dolcezza con cui le aveva parlato pochi secondi prima e di ogni singola forma di esitazione o incertezza. Con i ciuffi che ricoprivano parzialmente la cicatrice - ferita che gli sfregiava il viso -, e la linea della bocca leggermente piegata all’ingiù, Lars appariva come un essere incapace di provare sentimenti umani, freddo più del ghiaccio dei suoi stessi occhi e di qualsiasi isola invernale presente al mondo.

Lui…era il tipico ragazzo a cui bastava poco per fare colpo, che veniva osservato, ammirato, ma mai avvicinato. Amava immergersi nei suoi pensieri, estraniando chi non voleva e alzando le sue difese schive contro chi non gli aggradava, mostrando la sua gentilezza a chi invece sapeva come prendergli il cuore. La barriera che occultava alcuni sprazzi della sua esistenza era inespugnabile, solida, impossibile da dissipare o attraversare. Shion non sapeva che dietro ad essa ci fossero delle cose riguardanti la vita di Lars; cose che, perlopiù, lui non le aveva mai detto, poiché non poteva comprenderne la reale importanza. L’effettivo peso di queste gravava ancora sull’animo del ragazzo quanto un omicidio commesso a sangue freddo e il ricordarne l’origine, non lo aveva mai aiutato a deporre il tutto in un angolo. Era qualcosa che non riguardava la piccina, che si affacciava su un periodo di vita dove lei non era ancora presente, e, quindi, teoricamente, inaccessibile alle sue domande. Conosceva poco, quasi niente, ma non era mai stata colpita dall’impellente desiderio di conoscere nei minimi dettagli la vita di Lars, il che, era veramente strano, vista la sua innata curiosità per tutto ciò che non riusciva a comprendere: la verità era che, ogni volta che guardava l’amico, ogni volta che scorgeva in lui quello sguardo inespressivo, freddo e schivo, la sua coscienza prendeva vita e le imponeva categoricamente di non immischiarsi. Non era al corrente di tutta la verità che lo circondava, ma la paura che lui decidesse di lasciarla, superava qualsiasi sua curiosità al riguardo: Lars non era un ragazzo scontroso, amava semplicemente prendersi  i suoi spazi personali quando ne aveva bisogno, ma era indubbio che per lei avrebbe sorriso con la più grande delle sincerità. Era buono, gentile e premuroso, e a Shion bastava.

In quel momento, avrebbe  tanto voluto dirgli che non aveva paura – non così tanta come pensava –, ma come scorse qualcosa cascare dal cielo, il respiro le si spezzò in gola e, rimpicciolendo le pupille, alzò il braccio in alto, urlando la presenza di quella cosa che, con fare rapidissimo, si stava facendo pericolosamente più grande.

“Attenti! Ci viene addosso!” urlò Nami.

L’oggetto nero - che poi si rivelò essere un grosso albero – sfrecciò verso di loro, con le radici rivolte verso il basso. Ancor prima che Zoro potesse scattare, e dunque tagliarlo, Rufy balzò in aria e lo distrusse con un solo pugno, riatterrando sul ponte di coperta, nel mentre grossi pezzi di legno cadevano in acqua. Non ci fu tempo di gioire, perché come l’albero venne disintegrato, il ringhio sommesso udito in precedenza si fece più intenso, moltiplicandosi ed espandendosi in tutto l’incavo che divideva Rocky Headland.

“Whaaaah! Ma che cos’è?!” domandò Chopper, sobbalzando per lo spavento.
“Non ne ho idea, ma sicuramente non è qualcosa di bello”, rispose Sanji.
“E’ strano. Il rumore è provenuto soltanto dalla parete di destra”, osservò Nico Robin.

Nel puntare le sue iridi acquose sul lato menzionato, la Bambina Diabolica corrucciò il proprio sguardo, piegando le braccia nella sua consueta posizione d’attacco. Vide le macchie nere menzionate da Shion muoversi, sfumate per la loro stessa rapidità, ma non fece neppure in tempo a capire che cosa fossero, che subito un altro pericolo proveniente dal cielo minacciò di affondarli: caddero altri oggetti, ma forse era più corretto affermare, che questi fossero stati scagliati da qualcuno, vista l’incredibile velocità con cui sfrecciavano. In men che non si dica, la ciurma di Cappello di Paglia si ritrovò a respingere una raffica di massi e alberi di differenti missioni, tutti ben decisi a ridurre la loro bella nave a un colabrodo.

“Arrivano!” avvisò Usopp, prendendo la mira con la propria fionda.
“Non so chi ci sia dietro, ma col cavolo che lascerò che questa nave venga rovinata!” affermò Franky, per poi esclamare: “Strong Hammer!”

Il violento pugno scagliato dal carpentiere squarciò l’aria circostante, creando un’onda d’urto così potente da respingere alcuni tronchi in procinto di strappare le vele.

“Eeeeeek! Se ci colpiscono, è la fine!” strillò Brook, con le mani scheletriche appiccicate a quella che un tempo era stata la sua faccia.
“Invece di perderti in ciance inutili, dacci una mano! Parage Shoot!” rimproverando il Canterino, Sanji colpì alcuni dei massi con una serie di calci veloci e precisissimi.

Quell’assurda pioggia continuava a minacciare la Thousand Sunny, pericolosamente traballante fra le onde createsi. Nami aveva afferrato il timone per cercare di mantenerla il più stabile possibile, sperando che quell’attacco finisse al più presto. Con un disequilibrio così vistoso e uno spazio assai ristretto, governare una nave di quelle dimensioni richiedeva uno sforzo e un’abilità superiori alla norma, requisiti che alla Gatta Ladra non mancavano, ma che, se spinti oltre al loro limite, sarebbero crollati come un castello di carte mal costruito. Serrando la mascella, la ragazza dai lunghi capelli arancioni fu costretta a puntare i piedi a terra più volte per non scivolare: di movimento ce ne era a sufficienza da far finire tutti quanti con le gambe all’aria, ma fintanto che la situazione era a loro vantaggio, la navigatrice mantenne il sangue freddo e la mente lucida, senza mai allentare la presa sul timone.

Alle sue spalle, lo schianto in acqua dei massi, lo spezzarsi del legno e gli echi dei colpi dei sui compagni, si susseguivano ritmicamente, senza cambiare ordine: riconobbe la raffica di pugni di Rufy, le stelle di piombo di Usopp, le lame taglienti di Zoro, per non parlare delle grida di battaglia di Azu, che rompeva a mani nude le rocce come se fossero fatte di cartone. Udì anche il sibilo della spada azzurra di Lars e quando tutto sembrò finalmente cessare, ebbe un altro motivo per impallidire e montare in fretta e furia il suo bastone Clima Sansetsukon.

Rufy, di qualche passo più avanti a lei, spalancò gli occhi e la bocca in tutta la loro lunghezza, ammirando quello strano essere che era atterrato sul ponte di coperta, dopo aver evitato i loro attacchi: era un gorilla, un enorme gorilla nero, dal muso arcigno e con le braccia cariche di muscoli. Nessuno di loro lo aveva visto scendere, poiché erano stati troppo occupati a impedire che la nave subisse danni, e questo aveva permesso all’animale di giungere sul ponte di coperta al momento più opportuno. Armati e con la guardia ben alzata, i pirati di Cappello di Paglia squadrarono il nuovo arrivato con pupille assottigliate, ben restie dal considerare la creatura come qualcosa di pacifico, seppur questa, teoricamente, avrebbe dovuto esserlo. Vi era qualcosa in essa che non ispirava nulla che si avvicinasse alla pace: le nocche scure erano consumate, piene di tagli che si dilungavamo sulle dita e sui avambracci, aprendosi in solchi dalle sfumature rossastre. Il pelo era scuro, sporco e spettinato in più punti, ma non vi era dubbio che, l’aspetto fisico più evidente fossero gli occhi: piccoli, tondi e pericolosamente scontrosi. Come mosse quest’ultimi sulla gente che gli stava attorno, il gorilla sbuffò indispettito, prendendo a battere violentemente i pugni sul ponte di coperta.

“Ehi, ehi, EHI!” urlò Franky coi denti aguzzi “Vedi di piantarla, ammasso di pelo!”

Quello, per tutta risposta, continuò imperterrito, ringhiando ed emettendo sonori sbuffi dalle narici.

“Chopper, riesci a capire cosa sta dicendo?” domandò Nico Robin.
“A grandi linee….”, mormorò “E’ molto arrabbiato, sembra che stia chiamando qualcuno”, disse infine la renna, sforzandosi di comprendere il linguaggio della bestia.

Una delle abilità di Chopper era il saper comunicare con qualsiasi animale, essendo anch’egli tale. Poteva tradurre ogni tipo di linguaggio, perfino quelle delle formiche, ma in quel momento, il suo tenero musino era contratto per l’impegno a cui quel gorilla lo stava sottoponendo: era furente, un fatto fin troppo chiaro, ma in una maniera così indicibile da rendere il suo muso schiacciato ancor più brutto di quanto già non fosse. Il dolce pelucchiotto tentò di avvicinarsi con cautela, cercando di instaurare una qualche forma di dialogo, ma quando riuscì a far luce su alcune parole dette da questo, puntò subito gli occhi in alto, indirizzandoli verso le sporgenze più vicine alla loro nave e mancò poco che la mascella gli si staccasse dal resto della faccia.

“Kyaaaa! Ma quanti sono?!” si domandò Usopp, coi occhi fuori dalle orbite.
“Wow! Che forza!” esclamò Rufy, stringendo i pugni “Sono tantissimi!”

Nuovamente, l’attenzione dei presenti cadde su uno dei due pezzi dell’isola, quello più malmesso. Le diverse sporgenze della parte destra di Rocky Headland non erano più vuote e grigie, ma piene di gorilla, tutti identici a quello che era salito per primo sulla Thousand Sunny, salvo per la grandezza. Come quest’ultimo si colpì l’addome, mostrando i lunghi canini, anche gli altri lo imitarono, strepitando con diversi ringhi acuti e scrollando le ampie spalle.

“La cosa si fa interessante”, sogghignò Zoro, certo del fatto che quelle bestie si stavano preparando ad assaltarli.
“Finalmente! Era ora che succedesse qualcosa di interessante!” sospirò sollevata Azu, battendo i pugni “Credevo mi sarei riempita di ragnatele a forza di fare la bella statuina!”
“Ma vi sembra il caso di entusiasmarvi?!” strillò Nami “Quelli vogliono affondarci!”

Benché la situazione non fosse da sottovalutare, la mentalità di alcuni membri dell’equipaggio aveva imboccato una strada totalmente differente da quella imboccata dalla navigatrice, ma ciò non significava certo che si sarebbero fatti mettere i piedi in testa dai loro avversari. Difatti, come quelli balzarono addosso alla nave, apparendo come tanti puntini neri sotto la luce del sole, la battaglia vera e propria si scatenò senza che ci fosse un arbitro a dare il via. Alzando un muro di fumo con i suoi proiettili speciali, il Re dei Cecchini conquistò la prima mossa per i suoi compagni, che sfruttarono la confusione per attaccare i molteplici animali. Seguirono fendenti a mezzaluna di vari colori, uniti da pugni e nuvole cariche di elettricità, che, nel loro insieme, gettarono al di là della balaustra un piccolo, ma consistente, gruppetto di gorilla. Questi, da parte loro, si dimostrarono incredibilmente coriacei e testardi, con una forza tale da riuscire a parare perfino il micidiale destro di Chopper.

Accucciata a terra in un angolo, Shion cercò di farsi più piccola di quanto già non fosse, per evitare di farsi vedere.

“Resta nascosta fino a quando non ti chiamo io”, le aveva detto Lars, prima di respingere con Saphira l’assalto di uno di quei bestioni.

C’era troppa confusione per vedere in che modo il combattimento si stesse svolgendo. Gli occhi azzurri della bambina scorgevano ombre oblique e frammentate, che si mischiavano fra di loro, uscendone completamente trasformate. Con le mani strette attorno alla sua borsa a tracolla e il cuoricino frenetico, provò a sporgere la testa di qualche centimetro appena, ma un forte boato la fece nuovamente rannicchiare su di sé come fosse un riccio. Si tappò la bocca per non tossire e deglutì quanto le bruciava in gola senza emettere fiato, per paura di venire scoperta: data le mancate abilità combattive, era l’unica che non poteva contribuire alla difesa della Sunny e anche se la cosa le dispiaceva, non poteva far altro che incitare mentalmente i propri amici e augurare loro la vittoria.
Come si stropicciò gli occhi per la visuale offuscata, Shion li batté più volte nel vedere una di quelle ombre fuggiasche avanzare verso di lei. Il pensiero che potesse essere Azu o Lars non la sfiorò neppure, tant’era ovvio che quell’immagine scura fosse fin troppo grossa per essere ricollegata ai suoi due amici. Battendo il sedere all’indietro, strinse ancor di più la borsa al proprio petto, con la bocca tremante e le ginocchia afflosciatesi misteriosamente: la paura di essere stati vista, l’aveva bloccata e, per qualche secondo, la sua mente si rifiutò di ricevere qualsiasi impulso da trasformare in un utile pensiero. Serrando ermeticamente le labbra, la piccina pregò che, qualunque cosa ci fosse davanti a lei, non l’avesse vista, che venisse distratta da qualcosa’altro, ma come comprese che questa non avrebbe cambiato direzione, scattò in piedi e abbandonò fulmineamente il suo nascondiglio.

Si arrampicò sulle scale senza guardarsi indietro, rischiando di inciampare sui suoi stessi passi nel mentre tentava di raggiungere la cucina, il locale più vicino, ma, come afferrò il pomello e aprì la porta, si fermò di colpo, impietrendosi.
Le sarebbe bastato un singolo passo per entrare, un piccolo movimento, ma il suo corpicino si era inevitabilmente bloccato, annullando ogni genere di azione che, in situazioni normali, avrebbe compiuto senza troppi problemi. Immobile e coi muscoli congelati, la piccola emise un gemito strozzato nel percepire un alito caldo e denso solleticarle il collo.
Come avvertì il ringhiare della bestia, il cui muso era affiancato al suo orecchio, la piccola iniziò a tremare, con un fortissimo bruciore ai occhi.

“Shion!”

La voce allarmata di uno dei membri della ciurma la raggiunse, ma lei, spaventata com’era, non seppe distinguerla. L’ombra che la ricopriva interamente stava alle sue spalle e come girò parzialmente il viso, si ritrovò faccia a faccia con due occhi scurissimi, così neri da non avere la pupilla.

“Shion, spostati da lì!!”

Gli sbuffi del gorilla che le stava alle spalle erano così profondi da arrivare a smuoverle alcune ciocche dorate. Le iridi azzurrine di lei caddero sulle profonde cicatrici che avevano tagliato più volte il viso della creatura, ora di fronte a lei, col pelo ritto. Si ritrovò ipnotizzata, contro la sua volontà, incapace di distogliere lo sguardo da quelle orripilanti ferite rimarginate più e più volte a causa delle infezioni. L’animale era mostruosamente grande, la sua sola ombra bastava ad oscurarla, e più i suoi tondi occhietti la guardavano, più la bambina sentiva le spigolose pareti della paura stringersi intorno a lei. Vista la semplicità con cui quest’ultimo la stava tenendo in pugno, era facile pensare che la piccina sarebbe rimasta sua succube fino a quando questo non fosse scomparso, ma non fu così: per una qualche strana ragione, forse data da quel minuscolo briciolo di lucidità non ancora spento, Shion si ridestò improvvisamente dalla trance dentro cui era caduta. Spinta dall’istinto, riagguantò il pomello della porta abbandonato in precedenza per tentare di chiudersi dentro, ma l’animale fu più svelto di lei, e con un solo pugno, sfondò l’entrata della cucina, per poi afferrarla e sollevarla, prima ancora che riuscisse ad allontanarsi.

“Aaaah!!!! Lasciami andare!!! Mettimi giù!!!” urlò lei, cercando di smuovere le dita che le tenevano imprigionata la vita.

Senza darle retta, il gorilla ruggì ancora, per poi prendere la rincorsa e lanciarsi verso la sporgenza più vicina della parte destra di Rocky Headland.

“Dannata bestiaccia, dove pensi di portarla?!”

Col sangue che pompava a mille, Azu si lanciò verso la balaustra con tutta l’intenzione di seguire l’animale e di scuoiarlo vivo. Aveva approfittato della loro distrazione per attaccarli di soppiatto, una mossa del tutto inaspettata. Lars non era stato tanto stupido da tenere Shion in bella vista, figuriamoci se commetteva un errore del genere: vista la rapidità con cui i fatti erano successi, l’aveva nascosta nel primo posto reputato abbastanza sicuro e lontano dal loro combattimento, ma quell’ammasso di peli ambulante aveva sfruttato la confusione per agire indisturbato e, adesso, si stava accingendo a portare Shion chissà dove. Il sol pensiero che quella bestiaccia le facesse del male, la irradiò di una rabbia tale da rendere ogni suo movimento più veloce e letale. Come due di quei animali le si pararono davanti, caricò entrambi i pugni con tutta la grinta necessaria, ma prima ancora che potesse stenderli, intervenne Lars, che le spianò la strada con un solo fendente.

“Pensaci tu”, le disse velocemente, per poi respingere l’ennesima ondata, decisa a buttarlo per terra.
“Ovvio! Geppou!

Dando sfoggio della sua impeccabile passeggiata lunare, Azu cominciò a calcare l’aria e a saltare a destra e a sinistra con grande velocità. Aveva fatto in tempo a vedere su quale sporgenza il gorilla si fosse fermato e se ne meravigliò, poiché questa era una delle più alte, dove, probabilmente, i gabbiani facevano il nido.

Quei cosi sono agili! Esclamò mentalmente.

Dandosi una spinta più potente delle altre, l’albina compì un grande salto, che la fece sfrecciare in alto come fosse un proiettile umano: l’aria prese a pungerle la pelle, ma ella non si preoccupò ne di quell’inconveniente, ne di qualunque altra cosa potesse nuocerle al momento. Era quasi arrivata, quando, tutto ad un tratto, si vide passare di fianco un braccio di carne smisuratamente allungato.

“Ma che acc….Rufy?!”

Cappello di Paglia la superò di netto, incapace di interrompere lo slancio preso per arrivare a quella determinata altezza. Guardando davanti a sé, Azu notò che una delle braccia del ragazzo era attorcigliata attorno alla sporgenza che lei stava mirando di raggiungere: giungendovi, il capitano lo srotolò senza alcuna fatica, facendolo schioccare rumorosamente e poggiandolo al fianco.

“Nami e gli altri cercheranno un’altra strada per raggiungerci”, le disse una volta che anche lei fu arrivata “Andiamo a cercare Shion.”
“D’accordo, ma non separiamoci: ho il presentimento che se lo facessimo, finiremmo per non uscire più”, affermò l’albina, entrando nella cavità insieme al ragazzo.




“Lasciami! Lasciami andare!! Si può sapere dove mi vuoi portare?!”

All’interno di quei cunicoli tutti attorcigliati fra di loro, la vocina di Shion rimbalzava sulle pareti rocciose come se queste fossero elasticizzate. Il gorilla che la stringeva per la vita non faceva che correre freneticamente da una parte all’altra, saltando e compiendo balzi in ogni direzione, sballottandola peggio di una bambola di pezza. Ignorava le sue grida e correva con a presso altri suoi simili, che, pian piano, si dividevano e procedevano in differenti percorsi. Per quanto si sforzasse di guardarsi in giro, tutto quello che la piccina vedeva, era solo il grigio delle pietre e il nero del loro fondo apparentemente invisibile: l’essere tenuta a quel modo e fatta roteare con maniere alquanto brusche, le stava provocando un bel mal di testa, impedendole di mettere a fuoco i dettagli del posto. La cosa strana, era la discreta visibilità presente nelle gallerie, sufficiente a impedire agli abitanti del posto di sbattere la capoccia contro qualche spigolo, ma questo era l’ultimo dei problemi di Shion, inconsapevole sul suo destino.

Dimenarsi era inutile, come il gridare o lo strepitare: più scendevano in profondità, più la sua voce andava a frammentarsi in minuscole parti, finendo miseramente per essere cancellata dal silenzio. Quando il gorilla finalmente si fermò, lei aprì gli occhi, scuotendo leggermente la testina bionda: erano arrivati a destinazione, almeno così sembrava, ma tutto quello che Shion riuscì a vedere, fu una grande buca circolare, le cui dimensioni occupavano buona parte di quella sorta di stanzetta, scavata dalla forza della natura. Non capì perché l’animale si fosse fermato proprio in quel punto, ma come questo sollevò il braccio che la teneva, per poi piegarlo leggermente all’indietro, un minuscolo sospetto le balenò in testa.

“Ehi, no…asp…aaaaahh!!!”

Fu inutile tentare di parlare, perché come l’animale prese ad abbassare l’arto, le sue dita nere sciolsero la presa che esercitava sulla sua esile vita, lanciandola in avanti con una debole spinta. L’oppressione a cui era stata soggetta scomparve all’istante, ma come il galleggiare in aria si trasformò in un pericoloso precipitare verso l’ignoto, la bambina cominciò a gridare con tutta la forza che aveva, per poi tacere nell’istante in cui il suo corpo venne inghiottito dal buio di quella buca.
  
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