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Autore: Callie_Stephanides    30/10/2011    8 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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9.
Il sangue che scegli

Di tutti gli uomini della mia vita, Rael è stato forse il solo che non mi abbia mai deluso: non l’ha fatto, perché non era un uomo, eppure il più umano di tutti.
Gli eleutheridi si concedevano d’essere meschini e crudeli e implacabili. Inventavano alibi agli egoismi di comodo e dipingevano la realtà di colori improbabili. Io per prima avevo vestito di nobili giustificazioni il fuoco nero che mi ardeva dentro; la morte di Lukas non aveva ucciso solo la mia felicità, quanto sciolto i vincoli della mia autentica natura: quella di una donna feroce, innamorata della guerra e del potere che ne aveva tratto.
È terribile a dirsi, ma la fine prematura del mio uomo si era rivelata l’occasione che aspettavo da una vita, perché, come Leonar aveva intuito, non ero femmina da lattanti e focolare. Non ero nata per vivere all’ombra dei soldati, ma per marciare al loro fianco.
Rael, che l’istinto della razza avrebbe dovuto votare alla polvere del campo di battaglia, volle seguire la via che per prima avevo dimenticato: quella della pietà.
Sangue di drago e d’eroe, mio fratello oppose un netto rifiuto alle lusinghe della leggenda.

*

La clessidra si rovesciò due volte, prima che nostro padre trovasse il coraggio di affrontarlo. La mia incredulità ferita doveva aver eroso le sue già deboli intenzioni, ma era stato un uomo un politico, Leonar: quando la Storia chiamava, sapeva che ignorarne la voce imperiosa non salvava nessuno.
Quel che il momento gli chiedeva, tuttavia, era di sacrificare un figlio che aveva amato a prezzo del proprio stesso sangue.
 
Non mi è difficile immaginarlo, il mio caro, dolcissimo vecchio; lo seguo nello studiolo polveroso che l’ha visto incanutirsi. Le mani nervose, macchiate ora dall’inchiostro della Vita, frugano alla ricerca di un tesoro antico, un segreto che è già costato il futuro di troppi.
La Nornika sa di muffa, ma non sbiadisce; sua è la perseveranza delle memorie scomode e l’eco di una storia infinita.
La leggenda vuole che l’inchiostro sia sangue di drago: quel che interessa a Leonar, è la traccia brunastra che riproduce l’Eumene. A nord, sulla destra, là dove il foglio si sbrindella, si staglia il Norn, la vetta incoronata: nel suo cuore di pietra e gemme dure riposa la Bestia.
Leonar sospira e accarezza i lembi del testamento di un mondo dimenticato. Nessuno degli ophelidi ha mai tentato di espugnare la culla del drago, perché il prezzo è la vita stessa.
Ecco: le dita inseguono la sentenza infame e ne anticipano l’eco per quando dovrà tradurla in parole.
 
Chi divora il cuore, dal cuore è divorato.
Chi desidera il sangue, dal sangue è posseduto.
 
Leonar strizza le palpebre. Macchie rosse inghiottono il buio e anticipano le lacrime.
Si copre il viso e prega: prega che non si avveri quel che teme.
 
Chi uccide il drago, da drago vive.
 
Quella fu l’ora oscura di mio padre: l’attimo in cui speranza e disperazione si fusero, rallentando i grani della clessidra, il tempo, i suoi passi. Infine, violentando l’istinto, scelse comunque di andare. In quella circostanza, tuttavia, non portò con sé la pagina di diario che mi aveva mostrato, perché non poteva concedere a una pergamena di filtrare il veleno della responsabilità che si era assunto.
Stava per condannare suo figlio: che a farlo, almeno, non fosse un codardo.

*

“Chi vedi non è tuo padre, Rael,” mormorò mentre sedeva al capezzale di mio fratello, “ma chi ha conservato la memoria di Freil.”
Svolse la Nornika e gliela porse. “Per te.”
Rael, sostenuto dai guanciali, non mosse un muscolo.
“Era tua dal primo giorno, ma te l’ho sottratta; l’ho fatto perché credevo che l’avere occupato il posto di tuo padre scusasse il mio egoismo.”
Mio fratello sfiorò i bordi usurati della pergamena. “Sembra una mappa.”
“Lo è; l’unica che conduca all’antro dell’ultimo drago di Elithia.”
L’espressione di Rael non mutò.
“Freil è morto anche per salvare questo documento; per darti la…”
Mio fratello sollevò il palmo e lo interruppe. “Non c’è bisogno che tu aggiunga altro.”
“Invece sì,” fu la replica di Leonar, “perché il potere della verità è spaventoso, se s’ignora come maneggiarlo.”
Rael sedette a fatica, cercando la mano del vecchio che aveva amato – e l’aveva amato – come poche creature al mondo. “Non ho intenzione di sfidare la bestia.” La voce di mio fratello era ferma, come limpido il suo sguardo. “Conosco già questa storia, perché me l’hai raccontata. Ora apprendo che non è mito ma verità: cosa cambia? Non voglio essere un drago.”
Leonar schiuse le labbra. Rael, tuttavia, non gli permise d’interromperlo.
“Melian appartiene a Trier. Mio figlio appartiene a Trier. Tutto quello che sono e che voglio essere non ha il mio sangue. Importa? No: e sei stato tu a insegnarmelo.”
“Rael…”
“Sono stato sconfitto, eppure sono sopravvissuto, perché mi avete protetto. Quando il nemico tornerà, io sarò in prima fila ad aspettarlo, ma come uomo. Se poi combatterò da dracomanno, sarà comunque l’ultima volta, perché esiste una legge più importante del sangue che porti: è quello che scegli.”
 
E che ti sceglie.
 
Leonar si coprì il viso con la mano e cominciò a piangere di sollievo e d’incredulità, perché nel piccolo ophelide che aveva raccolto trovava l’umanità che il nostro tempo aveva divorato. Scopriva, forse, l’amore che non ero stata abbastanza coraggiosa da salvare in me.
Rael gli accarezzò il capo, con la stessa timida dolcezza con cui era stato mille volte rassicurato. “Non moriremo, padre,” sussurrò. “Perché noi abbiamo una buona ragione per vivere.”
Era la verità ed era una promessa.

*

L’estate raggiunse il suo culmine, quando il vento dell’Ostro portò con sé la polvere dei nostri promessi esecutori.
Sapeva di ferro e della paura di Vinus.
Sapeva di un domani da difendere e da sperare.

*

Koiros richiamò alle armi il Drago Nero che le ferite del principe di Lephtys erano ancora aperte. A valutare quella scelta sotto il profilo tattico l’avresti detta follia, poiché Vinus non era nelle condizioni di combattere. Quella del tiranno, tuttavia, era una volontà che tradiva ben altro segno e la sua vittima designata ne era consapevole.
“È una condanna a morte,” sospirò Haga d’Avenio, mentre gli rinnovava le medicazioni.
“Lo so. Era solo questione di tempo.”
Era una vita a scadenza, la sua, e lo sapeva; dopo anni di buio e di attesa, il tempo della falce era giunto.
“Mio signore…”
Vinus si rivestì a fatica e abbandonò la tenda, sotto lo sguardo attonito della lupa bianca.
La luce del sole gli parve accecante e, per un poco, la terra ondeggiò sotto i suoi passi. Era inerme e Koiros ne avrebbe goduto, perché quella era l’ennesima conferma di un terribile potere.
Disponeva della sua vita da due decadi: ora decideva della sua morte.
 
“Non hai un bell’aspetto,” sibilò Lethor, mentre lo accoglieva nella tenda del tiranno. “Sembra che il riposo non ti abbia giovato.”
Vinus lo ignorò, poiché sapeva che tanto l’avrebbe umiliato più di una risposta tagliente. Accoglierne la provocazione, d’altra parte, avrebbe anticipato un’agonia annunciata, ma non l’avrebbe salvato dalla crudeltà di Koiros.
Il Signore dell’Icengard lo attendeva con la placida pazienza del ragno: seduto su di un trono d’ossa, come al centro di un’invisibile tela, lo squadrava dalle mille cellette dei suoi occhi da insetto.
“Benvenuto, figlio: inginocchiati davanti a tuo padre.”
Vinus obbedì con evidente difficoltà, ma non si concesse un lamento.
“Hai meditato sui tuoi errori?”
“L’ho fatto.”
“Sei pronto a riscattarli?”
 
No, non sono ancora pronto a morire.
Non poteva dirlo, ovviamente.
 
“Obbedirò a ogni vostro ordine.”
Koiros si umettò le labbra. “Allora comincia a prepararti; non avrai una nuova occasione.”
 
Non dovrò preoccuparmene, perché morirò per certo, fu quanto pensò Vinus, ma non permise al terrore di raggiungere la superficie. Agli occhi di Koiros, come degli uomini che l’avrebbero seguito, avrebbe offerto la maschera ormai usurata del demone senza colori.
 
Il drappello degli ophelidi lo aspettava ai margini del campo.
“Vado a bardare Niktos,” fu tutto quel che disse, perché i dracomanni non sapevano mentire nemmeno per concedersi il lusso della speranza.
Il liocorno lo accolse con quel bramito caratteristico che avevo imparato a temere: un suono lugubre, che ricordava l’agonia di un cervo. Alle orecchie di Vinus, tuttavia, quella manifestazione di riconoscimento era una carezza.
“Non ti ho dimenticato,” sussurrò con la dolcezza che non riservava a nessuno, offrendogli un boccone di carne secca.
Il liocorno esitò, quasi avesse fiutato nella mestizia di ogni suo gesto il segno di una minaccia imminente.
Vinus gli strofinò il muso. “Hai buon fiuto, ma non è per te che si è rovesciata la clessidra.”
Nel quieto silenzio dell’ora meridiana, il battito accelerato del suo cuore suonava deflagrante.
“Lo sai? Sono sopravvissuto a mio padre solo perché ero troppo giovane per capire che sarei morto.”
Il liocorno gli leccò il viso. Sapeva di sale, forse, ma non l’avrebbe scoperto nessuno.
La tristezza del Drago Nero non cercava testimoni.
“Ora è certo, invece: sarà la nostra ultima battaglia.”
 
“No.”
 
Fu appena un sussurro ma Vinus lo colse: immobile all’ingresso delle scuderie, Haga era pura luce.
Il liocorno scoprì minaccioso la chiostra delle lucide zanne da predatore; la lupa bianca, tuttavia, non tremò.
“Tu non morirai, mio signore.”
Vinus accarezzò il muso di Niktos per rabbonirlo. “Questo non è il tuo posto, salvo che tu non voglia assicurare carne fresca alla mia cavalcatura.”
Haga sorrise e lo raggiunse. “Non solo vostra: potrebbe essere la mia.”
Il principe di Lephtys schiuse le labbra, ma l’altra non gli concesse di parlare. “Ho diviso con te i miei colori, Vinus – era la prima volta che lo chiamava per nome – ora vorrei dividere la guerra che ti aspetta.”
Il principe di Lephtys la scrutò incuriosito. “Che vuoi fare?”
Haga tese il braccio e gli sfiorò i capelli. “Sarò il Drago Nero e ti proteggerò.”
“Perché?”
“Perché ti amo.”
“È una ragione debole.”
La lupa bianca rise: aveva la leggerezza della bambina che non era mai stata. “È abbastanza forte da scommettere una vita.”
Vinus abbassò lo sguardo, senza aggiungere nulla.
“Morire per te è tutto quello che voglio, Vinus, perché sei la mia casa.”
 
Haga non poteva saperlo, né forse avrebbe accolto quella consapevolezza con sollievo, ma le sue ragioni somigliavano a quelle di mio fratello.
C’era un sentimento, nel suo cuore, più forte del sangue che portava, della lealtà a una bandiera o a un’ideologia.
Era figlia di Eleutheria, ma era sbocciata tra le braccia di un drago: il sangue li aveva uniti.
 
“Non ho motivi per negartelo.”
 
La mandava a morire – era una certezza – ma esistevano lussi che un uomo non poteva concedersi: scommettere la vita per salvarne un’altra era tra questi.
 
“Grazie,” mormorò Haga, congedandosi con un inchino.
Vinus chiuse gli occhi e morse le labbra sino ad avvertire il sapore del sangue: era amaro come il veleno della disfatta.
 
Stai chiedendo a una femmina d’immolarsi al tuo posto, quando sai che creperai comunque. Sei il disonore della tua razza.
 
Zauror ruggiva lugubre nella sua mente, riacquistando la solidità che gli anni avevano eroso.
Era certo di ricordare a stento la voce di chi l’aveva generato, quando invece era ancora là, da qualche parte, a indicargli come vivere e come morire.
Zauror non avrebbe mai permesso…
 
“Tu sei morto!” sospirò. “Non puoi chiedere a me come combattere, perché tu non sai…”
L’eco rauca della sua voce lo schiaffeggiò nel silenzio desolato delle scuderie. Ad ascoltarlo, una fiera vorace, tra nugoli di mosche carnarie e sterco secco: per la prima volta da che era sopravvissuto all’olocausto di Venusya, rimpianse d’essere vivo e pianse. Pianse di rabbia e pianse d’umiliazione e pianse di paura e pianse di disperazione.
Pianse i morti che non aveva sepolto e le rovine di una città devastata. Pianse Gordon senza un braccio e i compagni persi in battaglia.
Pianse due decadi d’incubi e violenze e marce forzate.
Pianse Vinus e quello che non era: un eroe, un re, un drago.
Quando la polvere bevve l’ultima lacrima, l’erede di Lephtys si rialzò e scoprì che il sole stava tramontando; sanguinolenti e vivi, barbagli di luce esausta coprivano d’ombra il recinto di Niktos.
Se tutto deve finire, che sia la fine degna di un re: quel pensiero gli diede il coraggio di reagire, perché, come me, poteva forse concepire la sconfitta, ma non che qualcuno lo sapesse vinto.
Sul limitare del campo, Haga era inconsistente come nebbia; un pallido fantasma senza futuro che gli ricordava quanto profonde fossero le sorgenti della sua collera.
Non sarebbe morto prima di esaurirle: e quello sarebbe stato il suo testamento.

   
 
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