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Autore: Gloom    03/11/2011    1 recensioni
-Sai, essere figli di genitori che non si amano è una fregatura: dentro noi siamo per metà come un genitore e per metà come l‘altro. Se non sono riusciti a restare insieme loro, ancora più difficile sarà per noi. . . Perché loro si sono potuti separare; noi invece dobbiamo faticare per mettere d’accordo geni incompatibili dal principio.
 
L'Allegra Brigata non aveva altre ambizioni se non quella di passare indenne i sedici anni dei propri componenti. Ma quando mai le cose più semplici danno mostra di esserlo? Lauretta, Giak, Cicca, Margherita e Riccardo dalla loro hanno che si vogliono bene: per il resto, che si preparino pure ad una sfida dalla quale nessuno uscirà indenne... c'è una spiaggia alla fine della corsa.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando Giak uscì di casa, il lunedì mattina, era quasi elettrizzato. Non aveva un’idea precisa in mente, ma sentiva che avrebbe potuto far succedere qualcosa. C’è chi aspetta il caso per far accadere qualcosa nella propria vita, e chi no: Giak apparteneva alla seconda categoria.
 L’autobus si fermò al suo cenno. Giak salì, trascinandosi lo zaino dietro e, mentre le porte si richiudevano e l’autobus partiva, si diresse verso il fondo.
La ragazza luccicante era lì: seduta sempre allo stesso posto, e il sedile a fianco era vuoto come al solito, sebbene ci fosse gente in piedi. Giak fece un bel respiro:
 -Posso?- chiese. La ragazza alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e sorrise:
 -Certo-.
 Giak si sedette e allungò uno sguardo verso il libro.
 -Ultimo ripasso?- chiese. Questa volta la ragazza, prima di rispondere, lo guardò incuriosita.
 -Oh, sì. Geografia-.
Giak era abbastanza cauto da soppesare bene se fosse il caso di aggiungere altro, poi però riuscì a riflettere rapidamente: se la ragazza non avesse voluto essere scocciata, si sarebbe fermata a “oh, sì”. Indi per cui:
 -Bella rogna. A che punto siete arrivati?-
 La ragazza gli mostrò il libro:
 -Stati Uniti. Sono più o meno venti pagine, e io ne so la metà-.
 Giak prese il libro e lo sfogliò.
 -Bè, ti è andata bene: puoi sempre rifilare alla prof tutte le notizie che suonano bene, ma che non c’entrano niente-.
 -Boh, la mia prof è furba come un gatto-.
 -Oh. . .-
 Giak rimase in silenzio.
 -Come ti chiami?- chiese a un tratto lei.
 -Giacomo. Però puoi chiamarmi Giak. E tu?-
 -Alessandra. Però puoi chiamarmi Alex- sorrise e gli porse la mano.
 Finalmente il nostro uomo riuscì a toccare quella pelle spettacolare: era squisitamente liscia e morbida, tanto che si vergognò della sua mano sudaticcia.
 Alex gettò un’ultima occhiata al libro di geografia, poi lo infilò nello zaino.
 -Credo che ormai non serva più a niente ripassare, mi si fonde solo il cervello. E poi, l’anno prossimo si finisce-.
 -Fai il classico?-
 -Già. Tu?-
 -Idem-.
 E poi potete facilmente immaginare il seguito del viaggio: due tipi che chiacchierano cautamente, uno che cercava di nascondere il nervosismo alla meglio, l’altra che invece lasciava trasparire la curiosità palesemente. Com’era giusto che fosse. Voi ancora non potete saperlo, ma parlare con Giak faceva uno strano effetto: sembrava uno di quei ragazzi burberi dai capelli troppo lunghi (buffo, in un’epoca in cui i ragazzi preferiscono girare con bocce da biliardo al posto della testa), che rivolge la parola solo alla sua stretta cerchia di amici.
Invece Giak parlava volentieri, al di là del fatto che con quella ragazza fantasticava un dialogo da un paio di settimane. E, soprattutto, la sua cerchia di amici non era poi così stretta.
 
 La prima cosa che fece fu raccontare il suo successo a Cicca e Riccardo. I due lo ascoltarono sogghignando, senza badare a quello che succedeva intorno a loro.
Era ora di religione, dopotutto: insegnare religione al classico di Polverano è controproducente, si sa.
 Dietro di loro, Margherita e Lauretta chiacchieravano tranquillamente. In realtà Margherita avrebbe voluto anticiparsi gli esercizi di matematica (altra materia altamente facoltativa), ma c’era Lauretta vicino a lei che non ne aveva la minima intenzione. E poi si erano aggiunte anche altre compagne, per cui concentrarsi era più o meno impossibile: molto meglio rimanere a chiacchierare.
 -Lauretta, che bel taglio che hai! Ti stanno bene i capelli così- disse Monica.
 -Grazie-. Lauretta ci andava cauta a parlare con Monica: aveva un tono di voce così sofisticato da metterla in soggezione.
 -Mi sa che pure io me li vado a tagliare, ma non così corti- aggiunse un’altra.
 -Sono così belli i tuoi capelli. . .- Anna accarezzò la cascata bionda della tipa che aveva parlato.
 -Sono pieni di doppie punte! E con l’estate si sono rovinati-.
 Lauretta sbadigliò e tirò un pizzicotto a Margherita. Lei però lo incassò con un certo stoicismo e non smise di chiacchierare con le altre. Adesso stavano parlando della tirocinante che la prof di matematica si trascinava dietro da un po’ di lezioni.
 Lauretta si alzò, pensando di andare a cercare argomenti più interessanti da Giak e gli altri. Con un po’ di rossore a imporporarle le guance.
 Ok: io, che so perfettamente cosa passava per la testa di Lauretta, posso garantire che non si stava affatto innamorando. I sintomi erano molto simili; i tipi come lei si innamoravano in silenzio, senza che nessuno se ne accorgesse, e di persone che non rientravano nei canoni comuni. Ma lei era convinta di non correre rischi con Giak. L’amore era l’ultima cosa a cui avrebbe ceduto.
 Giak stava chiacchierando con Cicca e Riccardo. Lei si puntellò sul banco, sorridendo:
 -Che si dice da queste parti?- chiese.
 -Niente- si affrettò a rispondere Cicca. Lauretta si inginocchiò sul pavimento:
 -Dai, di là non si fa che parlare di doppie punte e della tirocinante-.
 -Quella? Spero che non voglia imparare davvero a insegnare matematica dalla vecchia strega- ghignò Riccardo.
 -Oh, tanto stiamo parlando di matematica. Diventerà comunque una cariatide-.
 -Perché non sei con la Ciabattina?- chiese Cicca.
 -Mi annoio-.
 -Ti annoierai pure qui-.
 -Perché, di che si parla?-
 I tre si guardarono brevemente.
 -Andiamo. . .-
 -Che c’è?- Lauretta ora era palesemente incuriosita.
 -È che Giak non ti vuole qui perché stiamo parlando della sua nuova donna- ghignò Cicca. Giak arrossì e, con fare incazzato, allontanò la sedia dal banco. Gli atri due risero e lo spintonarono, ma Lauretta aveva già interrotto alcune sinapsi.
 -Buona fortuna- disse alzando il naso e cercando di darsi contegno. Raggiunse Margherita e si incastrò di nuovo nella conversazione. Con un nuovo fondo di inquietudine, questa volta. Oddio. Non mi piace quest’inquietudine.
 -Oggi Marco mi ha chiesto di uscire- le disse Margherita.
 -Ah sì? E per far che?-
 -Così. . .-
 -La fortuna di abitare in centro- borbottò Lauretta.
 -Eddai. . . comunque, non mi va tanto-.
 -Eeeeh?!- ci volle un po’ perché Lauretta credesse a quello che aveva sentito.
 -Mi devono tornare, sono nervosa. . . E poi abbiamo tanti compiti-.
 -Bè, diglielo-.
 -Eh. . . ho paura che ci rimanga male-.
 -Margherita!- esclamò Lauretta. Margherita la guardò un po’ vergognosa.
 -Sì, sì, lo so, è una cosa stupida. Ma ora ho voglia di vederlo, ora invece no. . .-
 -No, te lo spiego io: tu non hai la minima intenzione di uscire con lui, ma lo faresti solo per non scontentarlo-.
 Margherita corrugò le labbra: a volte odiava Lauretta, quando faceva la saccente in quel modo, però era la verità. Poco da obiettare, insomma.
 -Ehm. . . quindi, che faccio?-
 Lauretta alzò gli occhi al cielo, poi le diede una sonora pacca sulla coscia, cacciandole un’esclamazione di dolore.
 -Che fai? Lo molliii!!!-
 
 Giak non si aspettava di rivedere Alex sull’autobus del ritorno, e infatti non c’era. Ma si promise di cercarla su facebook: fonte insaziabile di informazioni, il social network più famoso del mondo poteva essere una potenziale arma di sterminio. Provate a inventare la prima scemata che vi viene in mente e pubblicatela su Face, poi divertitevi a vedere che succede.
 Comunque, Giak rientrò in casa e salutò svogliatamente sua madre. Lei rispose dalla cucina, presa dai fornelli, e Giak ebbe tutto il tempo di appollaiarsi davanti al computer e collegarsi a internet. Uscire da scuola due ore prima dei pidocchi garantiva vantaggi per nulla trascurabili.
 Scrisse “Alessandra” e poi “Polverano”. Ovviamente al primo colpo ne apparvero centinaia. Aggiunse il nome del liceo che frequentavano. La lista si accorciò. Poi cercò le ragazze della sua età o di un anno più giovani: le ginnasiali, insomma.
Eccola.
Alessandra Gametti, quattordici luglio. Non aveva capito da subito che era lei perché la sua foto era una squadra di pallavolo al completo, ma adesso che era entrato nel profilo la certezza aumentava sempre di più; andò dritto alle immagini del profilo, e. . . wow. Questa sì che era lei.
Ok, si faceva le foto da sola, ma almeno non in bagno. L’unico brutto effetto era quella prospettiva che ingigantiva il braccio teso davanti a lei, ma che importava di un braccio, quando la proprietaria era splendente anche in fotografia? Giak sorrise e le inviò una richiesta d’amicizia. Poi scorse attentamente le foto e ne salvò un paio sul pc. Quelle più belle e, soprattutto, meno modificate.
Le stampò, usando due fogli di stampante (e perdendo tutti i colori, dato che la loro vecchia stampante non prevedeva l’uso di cartucce colorate. . . ma non era un problema) e le cancellò dal computer. Poi si mise al lavoro.
 Quando prese l’album di fogli da disegno, si ricordò che Lauretta aveva chiesto di vedere alcuni dei suoi schizzi, ma si promise di pensarci in un secondo momento. Adesso aveva già preso il suo astuccio dallo zaino, e cominciò a seppellire le foto stampate sotto una griglia di quadratini.
Quei ritratti avrebbero richiesto tutto il suo impegno: Giak non sapeva come sarebbe continuata con Alex, ma non voleva lasciare nulla di intentato con quella ragazza. 
 -Che disegni?- Il pidocchio di circa tredici anni era rientrato.
Giak stava lavorando così appassionatamente da non essersi neanche accorto che sua madre era uscita per andare a riprendere l’ultimo fratello a scuola. Però fu rapido a far sparire le foto e il disegno sotto i gomiti.
 -Fatti i fatti tuoi- rispose. Ovviamente quello non si diede per vinto:
 -Eddai voglio vederlo! Che problema hai?-
 -Che sono cose mie e che tu non te ne devi interessare-.
 -Dai dai dai!- Il pidocchio cercò di spostare i gomiti del fratello dal foglio, ma Giak vantava tre anni e chili di muscoli in più. Ciò non gli impedì di infuriarsi:
 -Deficiente, me lo fai macchiare! Spostati!-
Ma ora il bambino troppo cresciuto si stava divertendo, e non smetteva di spingere. Giak alzò gli occhi al cielo e quel briciolo di pazienza che gli era rimasto (che in realtà era solo preoccupazione che il disegno si rovinasse e che il moccioso notasse il soggetto appena abbozzato) fece fluf!; Giak si alzò, sovrastò il fratellino e lo prese per i polsi.
 -La smetti o no di rompere?- ruggì spingendolo all’indietro. Il pidocchio cominciò a saltellare per cercare di recuperare terreno, ma Giak non era certo un fuscello. Tre anni di nuoto lo avevano dotato del giusto quantitativo di muscoli da sfruttare quando ce n’era il bisogno.
Torse le braccia del fratellino e fece per scaraventarlo sul divano.
 -Ahia, AHIA!- Cominciò a urlare quello. Giak lo buttò tra i cuscini, facendogli scombinare tutta la fodera.
 -Idiota, fai male!- Il moccioso rifletté se continuare la lotta, ma decise che era meglio di no: la madre sarebbe tornata a momenti.
 -E ringrazia che non ti ho riempito di botte-. Giak radunò le foto, il disegno e l’astuccio, poi si rinchiuse in bagno. Magari lì avrebbe potuto disegnare senza che nessuno lo disturbasse.
 -Si può? Me la sto facendo sotto!- ecco, anche l’ultimo fratellino era appena tornato, e già rompeva. Giak alzò gli occhi al cielo, poi spalancò la porta. Il bambino sussultò.
Giak non lo insultò come avrebbe fatto con il pidocchio grande: il piccolo gli riusciva quasi simpatico. A volte era una vera scocciatura, soprattutto quando doveva andarlo a riprendere a scuola, ma era davvero figo: aveva sette anni e un caschetto di capelli che ondeggiava ad ogni movimento della testa. E, cosa più importante, lo idolatrava come solo i fratellini di molto più piccoli possono fare. Tanto bastava a fargli evitare le botte che Giak scaricava sul pidocchio grande.
 Continuò a disegnare tutto il pomeriggio, ma la soddisfazione andava via via appassendo. Sì, la figura che stava uscendo era vagamente familiare, ma non somigliava affatto a Alex; forse era perché con la matita non era possibile replicare lo splendore della sua pelle. Giak alzò il naso dal foglio e contemplò il disegno: era una ragazza qualunque, ma non Alex. Però…
 Giak cancellò i capelli che aveva disegnato -e che comunque non lo soddisfacevano abbastanza- e li sostituì con un taglio corto e arruffato. Così somigliava molto di più a Lauretta.
Mise il disegno nell’album e lo infilò nello zaino: sarebbe stato carino portarlo a lei. Non era il suo intento originario, ma avrebbe fatto contenta un’altra persona, almeno.
 Magari va meglio con la seconda foto, pensò Giak. La seconda se l’era fatta Alex da sola: se nella prima appariva a mezzo busto, in questa si vedeva solo un viso perfettamente truccato e quell’odioso braccio. Ma non aveva voglia di disegnare ancora: per quel giorno aveva dato abbastanza. Avrebbe continuato un’altra volta.

Praticamente Giak non era mai solo: ok, suo padre tornava dal lavoro la sera tardi, ma nel frattempo a riempire quella casa troppo piccola ci pensavano i fratellini. Facevano talmente tanto casino che sua madre non si notava neanche; più che altro lei si ritirava nella cucina abitabile, suo regno incontrastato, per supervisionare il pidocchio piccolo mentre faceva i compiti e contemporaneamente seguire i programmi della Rai. Il pidocchio medio trascorreva il tempo nel salotto, davanti al computer o, meno spesso, sui libri della scuola media che l’anno prossimo avrebbe rimpianto.
Giak, potente della sua condizione di primogenito, aveva colonizzato la camera da letto che condivideva con i fratelli: era lui ad avere l’esclusiva del letto singolo, scampando al letto a castello, e sempre lui aveva una scrivania tutta per sé. Tappezzava le pareti con i poster dei suoi cantanti preferiti (quello dei Sum 41, trovato a Porta Portese durante un’uggiosa domenica mattina, aveva il posto d’onore) e i fratelli se possibile evitavano di entrare quando lui metteva su uno dei cd. Spadroneggiava, ma era una sorta di ricompensa per un onere gravoso, ovvero il dover badare ai due pidocchi. Capitava che la madre si assentasse spesso, per star vicina alla nonna in paese ottuagenaria, e allora entrava in gioco lui.
 
 La situazione di Lauretta era quasi l’opposto: nella casa dove abitava lei (principalmente quella della madre, ma spesso anche quella del padre) c’era un silenzio quasi pesante. Non c’erano fratelli a fare casino, e Lauretta trascorreva molto del suo tempo da sola (anche sua madre lavorava fino al pomeriggio, ma si liberava sempre il prima possibile). Era abituata a spazi tali che, vedendo il buchino in cui era costretto Giak, rabbrividirà. Ma non so a chi dei due sia andata meglio: Lauretta aveva conosciuto talmente tanto bene il silenzio da aver paura di tutto. O almeno, era arrivata a quella conclusione; si rendeva conto di essere estremamente paurosa, e le piaceva pensare che quel suo tratto potesse essere collegato alla quiete in cui stava crescendo.
 Le sue non erano fobie: poteva rimanere ore ad osservare un insetto senza rabbrividire, riusciva a camminare nel buio senza provare altro che una leggera inquietudine, non soffriva nello stare rinchiusa in spazi angusti. Ma aveva paura di tutto il resto. Le fobie esistono perché nella mente del fobico sono un pericolo per la sopravvivenza (pericoli inspiegabili e spesso ridicoli, ma da quando tutto quello che succede nella mente ha un senso?), e invece Lauretta aveva paura di quello che avrebbe potuto compromettere il suo futuro. La atterrivano i rapporti con la gente. Le decisioni. Il non sapere la direzione della sua vita. E, essendo atterrita, preferiva non muoversi.
 A parte questi pensieri inquietanti, si considerava abbastanza normale, solo con i capelli corti (era ancora stupidamente orgogliosa del suo taglio).
 Quel pomeriggio per la testa le passarono diversi pensieri, girando come se fossero in un a rotonda: precedenza a chi sta dentro, entrare solo quando non sta passando nessuno. Doppia rotonda, quindi percorribile in entrambi i sensi. E per un pensiero che usciva, ne entravano il doppio.
 Pensava a Margherita e Marco: era arrivata al punto di sperare che si lasciassero. Margherita le aveva confidato che il sabato prima Marco l’aveva portata a cena fuori, mentre lei avrebbe preferito andare all’Aquilotto dagli altri; era bastata quella piccolezza a porre un altro tassello al mosaico che le rendeva Marco antipatico. E poi, era convinta che a lui di Margherita interessasse una cosa sola, per la quale l’amica non era affatto pronta.
 Pensava a Sara, a quel tipo con cui si stava sentendo e che le aveva indicato sabato: entrambi erano abbastanza svelti da far pensare a Lauretta che non avrebbero avuto gli stessi problemi di Marco e Margherita.
 Pensava a Giak e ai suoi disegni: le piacevano molto. In realtà le piaceva molto anche Giak. Non nel senso traslato, ma nel vero significato dell’espressione; Giak era diverso dagli altri ragazzi, in un certo senso più originale. Lauretta si chiese chi potesse essere la sua ragazza, dato che Cicca aveva menzionato una certa donna.
 Pensò anche al tipo che quell’estate ci stava provando con lei, al mare. Quel ciociaro evidentemente non pensava che lei fosse troppo magra, come tutti. In realtà non lo pensava neanche Lauretta: nell’intimo, era convita di essere spiacevolmente pesante. Si sedeva e sentiva come chili e chili di corpo che si abbandonavano sulla sedia, e ogni volta si convinceva che non sarebbe riuscita ad alzarsi di nuovo.
 
 Cicca invece mangiava come un maiale. Si stravaccava sul divano, lui, Futurama e un pacco di biscotti, e raggiungeva il nirvana.
 Lui non si faceva troppi problemi: se aveva voglia di cazzeggiare, cazzeggiava. Se voleva mangiare, mangiava (complice il suo sistema di metabolismo funzionante alla perfezione, che non lo faceva ingrassare di un grammo). Se voleva uscire, usciva: lui che abitava in centro non aveva problemi. Magari raggiungeva Riccardo, ma più spesso succedeva il contrario.
Questo perché Cicca aveva una fortuna quasi assurda: la vecchia casa in cui abitavano era vecchia e spesso fredda (d’estate rigenerava, d’inverno assiderava) e, cosa alquanto scomoda, le stanze erano tutte collegate tra loro: Cicca non si fidava a trattare i suoi loschi affari in camera sua, dato che si affacciava su quella dei genitori. Però quella casa era particolarmente comoda per un altro aspetto; era costituita da due ali, una vecchia e una nuova, ma in pratica veniva abitata solo nella parte nuova. E quella vecchia… bè, regno incontrastato di Cicca. Quale luogo migliore per invitare gli amici? Un ampio locale adibito a salotto e una scaletta in ferro battuto verso una mansarda che avrebbe conquistato Margherita e Lauretta.
 Era un ottimo posto per andare a fumare; aveva tutto il tempo per far sparire le sigarette prima che i genitori arrivassero per chiamarlo a tavola. Ciò vuol dire che il tempo in cui non vegetava sul divano, si sparava musica e nicotina lì sopra.      
 
 Per Riccardo quella era un’ottima cosa: poteva rifugiarsi nella mansarda di quel borghesone di Cicca ogni volta che dalle sue parti le cose rischiavano di esplodere.
 Non che alla fine ci andasse sempre: durante le vacanze era quasi ospite fisso, ma ora era cominciata la scuola, avrebbe dovuto studiare. In qualche modo avrebbe dovuto imparare le cose da suggerire agli amici.
 Eppure a volte sentiva un bisogno di staccare la spina a cui la sua camera singola non riusciva a rimediare. Tutta colpa di suo fratello.
Mauro Moraschini era una leggenda per tutti: per i suoi compagni di classe (soprattutto per le ragazze), per i ragazzi di Polverano, per i parenti, per i genitori. Era all’ultimo anno di scuola e, prendendola saggiamente alla leggera, dedicava gran parte della giornata alla sua chitarra e al suo gruppo.
 Non era particolarmente simpatico a Riccardo. Se erano da soli a volte riuscivano a parlare come due normali fratelli, ma bastava che intervenisse uno qualunque dei genitori per far saltare i nervi al secondogenito. Loro stravedevano per Mauro. Pensavano fosse talmente perfetto da esserne orgogliosi all’ennesima potenza, e poco importava di quell’altro tipo che si aggirava per casa senza una funzione precisa. Magari nella vita avrebbe sfondato, magari no. Tanto c’era Mauro a compensare il suo anonimato.
 Per un po’ Riccardo aveva tentato di mettersi in una luce altrettanto buona, e guardate che risultati: media dell’otto punto quattro agli scorsi quadri. Ma non era servito poi così tanto. Il ginnasio è facilissimo. Bugia. Ma che ne sapevano loro? Non immaginavano neanche che Riccardo si stava letteralmente corrodendo di gelosia.
 
 Gelosia, gelosia. Era la gelosia che rendeva Marco quello che era? Margherita era confusa. Stava bene con lui, eppure…
Quel pomeriggio aveva trascorso giusto un paio d’ore con lui. Passeggiando vedeva gli amici che scherzavano, mentre lei si era inzuccherata come si deve per vederlo sorridere e abbracciarla. E lui aveva effettivamente sorriso, l’aveva abbracciata e l’aveva anche baciata. A quel punto aveva dimenticato tutto, ma solo per quei brevi minuti.
 E poi era tornata a casa. Si era messa a studiare e dopo aveva chiamato Lauretta.
  
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