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Autore: Myu_chan    06/11/2011    0 recensioni
Cosa succederebbe se una profonda amicizia si trasformasse improvviamente in amore?
Prima esperienza in questo campo, vi prego di essere clementi!
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Shattered
 

 

  And I've lost who I am,
and I can’t understand
why my heart is so broken,

rejecting your love without
love gone wrong lifeless words carry on
But I know, all I know's that the end's beginning…

 


  
 
 
Era passata un’altra settimana dalla sera in cui avevo finalmente ammesso di essere…
Anzi no. Io non ero gay. Semplicemente mi ero infatuato del mio miglior amico.
Non c’era niente di strano, no?
 
Quei maledetti sette giorni li avevo fatti trascorrere pensando ad una soluzione per rimediare ai casini che avevo combinato e ad un modo per tornare a parlare con Sean, cercando possibilmente di non far trasparire niente delle mie emozioni per lui.
 
Un compito assai difficile.
 
*Flashback*
 
“La vedo dura fratellino…” , mi aveva risposto ironica Karol, con cui ormai parlavo praticamente di tutto.
 
“Perché non glielo dici e basta?”
 
“Perché Sean non vede di buon occhio questo genere di rapporti” , le risposi mentre l’idea di dichiararmi apertamente mi trapassava la mente. In fondo non era male come ipotesi.
Cancellai immediatamente quel pensiero. Di sicuro se l’altro ragazzo lo fosse venuto a sapere mi avrebbe ammazzato di botte, come minimo.
 
“Ne sei sicuro?”, sentii chiedermi per la seconda volta dalla voce di mia sorella.
 
“Senti un po’, lo conosci meglio tu o io?!”, le strillai dietro isterico, guadagnandomi un’occhiataccia e un cuscino in piena faccia.
 
Feci per rispondere al colpo, ma lo sguardo che mi rivolse minaccioso, mi bastò a bloccarmi durante l’azione e a farmi rimanere immobile in quella posizione ridicola con il cuscino alzato sopra la testa e l’espressione del volto leggermente spaventata.
 
Ci fissammo ancora per qualche istante, poi la vidi dirigersi verso la porta e poco prima di uscire dalla mia stanza mi prese in giro.
 
“Tsk. Che fratello idiota che ho!”, sfotté apertamente, lasciandomi basito dal suo modo di comportarsi e chiudendo la porta dietro di sé.
 
*Fine flashback*
 
Ripensando a quel momento mi venne da ridere.
 
“Tu guarda che razza di sorella dovevo avere”, il sorriso che mi si aprii sulle labbra, fu il primo vero dopo molto altri finti. Quella pazza di Karol era davvero speciale.
 
Nonostante tutto ero davvero stanco: avevo una terribile voglia di uscire, di cercare Sean per parlargli, per guardarlo, per dirgli che mi dispiaceva per tutto quello che era accaduto e che presto avrei rimediato in qualche modo, per farmi perdonare.
Volevo saltargli addosso e abbracciarlo talmente forte, da spezzarlo; volevo spiegarmi e fargli comprendere quanto mi era maledettamente mancato in quei terribili giorni di solitudine. Ok che era stata una mia scelta, ma era stata una vera sofferenza stare lontano così a lungo da lui.
 
Ma la paura m’inchiodava li dov’ero; steso sul letto ad immaginarmi le varie reazioni che avrebbe potuto avere non appena gli avessi dato la notizia: la mia mente creava pensieri positivi in cui l’altro ragazzo mi comunicava che anche lui provava gli stessi sentimenti e che tutto sarebbe tornato alla normalità.
E poi… tornavo inesorabilmente al presente. Questa maledetta realtà in cui il mio miglior amico mi avrebbe sicuramente odiato per l’affetto oltre all’amicizia che provavo nei suoi confronti.
 
E mentre quei pensieri lugubri viaggiavano liberamente nella mia mente oscurandola, lasciandomi scombussolato ed esausto anche rimanendo semplicemente immobile.
 
Mi rigirai nel letto.
 
Lo feci ancora una volta. E continuai a muovermi andando a destra e a sinistra per un lasso di tempo non ben definito, stropicciando le coperte, buttando a terra qualunque oggetto ci fosse sopra di esse; poi con uno scatto presi il cuscino, me lo posi sul volto ed incominciai ad urlare.
Rischiai anche di soffocare per la geniale idea, ma non me ne preoccupai al momento.
 
Volevo sfogarmi, liberarmi da quel macigno che mi opprimeva con forza bruta e asfissiante lentezza il petto;  sentivo il cuore battermi all’impazzata e i polmoni che protestavano per la mancanza d’aria, ma ignorai tutto quanto.
Urlai fino a che la mia voce si spense in un suono spezzato e senza che potessi fare niente per fermarle, righe di sale mi bagnarono le guance, bruciandomi gli occhi.
Non emisi nessun rumore stavolta; tutto nella mia mente e nel mio corpo taceva, mentre la stoffa leggera assorbiva consolatrice, l’acqua salata che scaturiva da quegli organi che mi donavano la vista, ormai gonfi ed arrossati.
 
Dopo svariati minuti in cui rimasi completamente immobile, con la testa vuota da pensieri ed immagini, le orecchie iniziarono a percepire i suoni melodiosi che la mia radio stava trasmettendo ad volume abbastanza alto, ma per quanto mi concentrassi non capivo quale canzone stesse mandando.
Fu tutto più chiaro quando il ritornello si fece intenso: la mia mente ormai in subbuglio e colorata di nero, s’illuminò di una luce chiara e brillante e i miei pensieri si focalizzarono su una sola e semplice parola.
 
“Shattered”
 
Questo era il nome della canzone che involontariamente le mie labbra avevano incominciato a canticchiare perché conosciuta e nascosta in profondità dentro di me; in fondo non era molto comune e rare volte le radio la trasmettevano. Anzi no, io non l’avevo mai sentita attraverso loro, ma da qualche parte dovevo averla pur ascoltata!
Una freccia immaginaria mi trapassò: era la canzone preferita di Sean.
 
Come avevo potuto scordarmelo?
 
Non avevo mai compreso il motivo di questa sua scelta e tuttora mi sfuggiva, poiché le canzoni che lui era solito ascoltare, erano parecchio diverse da questa, molto più tranquilla di tante altre.
Qualcosa in me cambiò. Non capii che cosa fino a che quando la musica terminò con la sua ultima nota, il mio cuore perse un battito; ecco cos’era: lui, l’organo che ormai apparteneva per sempre al mio miglior amico aveva ripreso a battere furiosamente nel momento stesso in cui avevo pensato a Sean.
 
Mi stai chiamando, non è vero?
 
In qualche modo sorrisi e preso da un’energia che non credevo di possedere, mi alzai dal letto, buttai il cuscino dall’altra parte della stanza, indossai i miei adorati anfibi e mi precipitai giù dalle scale, rischiando un capitombolo bello buono.
Mia madre sedeva sul divano in salottoaccanto alla stufa calda intenta a leggere e quando sentì tutto quel trambusto sussultò spaventata e seguì i miei movimenti con lo sguardo.

“Tesoro, dove vai? Fuori sta piovendo!”

“Scusa mamma, ma devo proprio uscire !”, le urlai di rimando.

La mia casa non distava troppo da quella dell’altro ragazzo e avevo il presentimento che non fosse neppure nell’abitazione, ma tentar non nuoce; perciò mi diressi il più velocemente possibile verso di essa. Arrivato davanti all’ingresso, bussai con insistenza sulla porta di legno lucido mentre gocciolavo acqua da tutto il corpo, bagnando di tante piccole gocce le assi sempre di legno scurendole di marrone intenso.                                                                                                                                                                                                      
 Lo stesso colore caldo che apparteneva agli occhi del padre di Sean.                                                                                                                
Fu lui ad aprirmi; mi guardò insospettito, socchiudendo lievemente la porta spalancata, come in un tacito invito a non entrare.

“Gabriel. Che sorpresa vederti qui.”

La pausa che rimase sospesa pesò improvvisamente, come un zaino troppo grande sulle spalle di un bambino. Non sembrava assolutamente contento della mia visita.

“C’è Sean in casa, signore?”, non lo avevo neppure salutato, ma non per questo mi tirai indietro.

All’inizio non mi rispose subito, anzi lasciò passare molto tempo, forse nella speranza che mi sarei arreso e domandando scusa me ne sarei andato con la coda fra le gambe. Per avermi visto crescere insieme a suo figlio, non mi conosceva abbastanza bene da sapere che mai avrei rinunciato.
I secondi passarono diventando minuti ed io incominciai a spazientirmi: d’accordo io avevo abbandonato il mio miglior amico senza dargli nessuna spiegazione e lasciandolo nel dubbio totale di aver fatto qualcosa che potesse avermi ferito e conoscendolo, sicuramente aveva sofferto sentendosi in colpa. Anche se ovviamente lui non aveva fatto nulla.
Aspettai ancora, sull’uscio di casa sua, con suo padre che non s’accingeva a muoversi e a darmi una qualsiasi tipo di risposta alla mia domanda, ma non dissi nulla, conscio del fatto che molto probabilmente voleva farmi morire o per lo meno soffrire il freddo gelo di cui era impregnata l’aria. Poi persi la pazienza.

“Mi scusi signore, Sean è in casa si o no?”, stavolta la mia voce risuonò dura.

Volevo una risposta dannazione!
Dopo un’ultima squadrata da testa a piedi, l’uomo di fronte a me si degnò di rispondermi lasciandomi stupito.

“No. Mio figlio non è in casa e prima che tu possa chiedermi dove possa essere finito, sappi che non ne ho la minima idea.”

Detto questo mi chiuse la porta in faccia, curandosi di sbatterla più forte del dovuto, invitandomi a non presentarmi più in quel luogo in cui ero praticamente cresciuto e lasciandomi con quella cavolo di risposta.
Borbottando come una caffettiera, mi diressi lentamente fuori dalla loro proprietà, sentendomi stranamente a disagio; girandomi di nuovo verso l’edificio notai una delle finestre del piano superiore che aveva la tenda scostata, da cui faceva capolino il volto della madre che mi stava trapassando con sguardo furente la mia intera anima.                                                                                                           La osservai di rimando, poi le voltai la schiena e abbandonai definitivamente quella casa.

Così mi ritrovai a pensare a dove diavolo fosse andato a cacciarsi l’unico membro di quella famiglia che volevo realmente incontrare: all’università sicuramente no,visto che il grande genio non ci andava mai di sabato; il parco era da escludere a causa del terribile tempo, forse potevo provare alla palestra, ma per qualche ragione a me sconosciuta qual luogo mi stonava e alla fine scartai pure quello.                                                                                                                                                                                               
Girovagavo per le vie abitate, sorpassando persone che si rifugiavano sotto i loro ombrelli, lanciandomi occhiate perplesse o incuriosite per il mio aspetto: completamente zuppo da testa a piedi. Ma io continuavo a camminare senza rendermi davvero conto di dove stessi andando, semplicemente troppo concentrato a pensare al posto in cui potevo cercare Sean.
Ad un certo punto andai a sbattere il volto contro qualcosa di veramente duro, bagnato e appiccicoso: mi scostai spaventato, ma tirai un sospiro di sollievo quando realizzai che ero andato addosso ad un enorme albero.                                                                                
Mi osservai attorno cercando di percepire attraverso tutti e cinque i sensi in che razza di posto mi ero cacciato, finché guardando per bene l’albero una strana sensazione mi colpì il petto; c’era qualcosa che mi ricordava vagamente quel luogo, ma la mente era confusa dalla pioggia e dalla nebbia depostasi all’improvviso e la mia testa incominciava a girare.
Spostandomi e mantenendo una mano sulla corteccia rugosa, cercai di fare il giro del grosso tronco, ma non guardando per terra non notai la radice che spuntava dal terreno vistosa ed inesorabilmente ci inciampai in pieno finendo nel fango creatosi con l’acqua. Quando alzai lo sguardo per cercare un appiglio, una scritta non ben definita in un angolino attirò la mia attenzione; mi feci più vicino cercando di capire la calligrafia incisa sul legno e non appena i miei occhi furono abbastanza coperti, riuscì a leggere: SG.

Che diavolo dovrebbe dire “SG”?

Non so se fu il tuono che scalfì il cielo in quell’istante o un pensiero talmente veloce che neanche mi accorsi di averlo creato, ma grazie ad una delle due ricordai finalmente dove avevo già visto quel luogo: Sean mi ci aveva portato una volta quando eravamo ancora bambini; lo conoscevano in pochi e poteva essere considerato un piccolo parco privato. Il nostro parco privato.
Mi tirai in piedi di scatto. Da tanto tempo non visitavo quella parte di città e chissà come il mio corpo mi aveva condotto li. Subconscio, pensai subito.                                                                                                                                                                                     
Ma nella profondità di me stesso speravo di ritrovarlo un giorno, poiché sia io che lui avevamo passato i nostri giorni migliori di quando eravamo solo poppanti e ci eravamo divertiti un mondo.

Un piccolo e leggero tonfo alle mie spalle, mi riportò alla realtà che avevo scambiato con una mia piccola illusione mentale; preso in contro piede reagii come poco prima e non potei fare a meno di sobbalzare per lo spavento, ma nonostante tutto non mi girai. Il mio sesto senso mi spronava a farlo, ma la ragione non mi permetteva di muovermi; fu quando la persona che era dietro di me sibilò, che ebbi un tuffo al cuore. Quella voce la conoscevo benissimo. Apparteneva a colui che stavo cercando da almeno un’ora e passa, ma non riuscivo a trovare il coraggio e la forza d’animo che mi avevano accompagnato per tutto il tempo della ricerca a vuoto.
Mi voltai lentamente, con la più viva speranza di non innescare una violenta reazione da parte dell’altro; dopo che ebbi finalmente ruotato su 360 gradi, cercai di mettere a fuoco la figura che mi si stagliava davanti, anche se già riconosciuta dalla voce o meglio del sibilo riprodotto dalle sue labbra. Nonostante fossi pronto, mi paralizzai lo stesso: Sean, il mio miglior amico, il ragazzo che avevo scoperto da poco di amare, mi stava di fronte fermo ed immobile come una statua e mi stava fissando con un’espressione a dir poco scioccata e la bocca semi spalancata fu la piena conferma del suo stato d’animo.

In quel momento di silenzio notai un particolare davvero inutile, che non mi sarebbe servito, ma che memorizzai lo stesso per distrarre la mia povera mente già scombussolata dalla situazione: a terra, accanto ai suoi piedi, giaceva un minuscolo sacchetto di plastica che a quanto pareva doveva contenere del cibo appena pronto, ma ormai impossibile da mangiare, poiché era caduto rovinandosi sul terreno sporco di fango.
Quell’unico elemento a mia disposizione per distrarmi fu inutile, non mi aiutò per niente e mi accorsi di non essere nelle mie condizioni migliori per affrontare un argomento importante e pesante come quello per cui avevo cercato senza sosta l’altro ragazzo: sentivo le gambe tremare per lo sforzo di reggersi ancora in posizione verticale, presto o tardi sarebbero cedute anche loro;  il respiro si era fatto irregolare per la pressione costante e dolorosa che sentivo dentro il petto e quest’ultimo non la smetteva di battere violentemente, producendo alle mie orecchie un frastuono troppo forte da non poter essere udito anche dall’altre parte della zona.

Vi prego uccidetemi, fu il mio unico e poco coerente pensiero del momento, prima di notare che l’espressione di lui stava cambiando: da sorpresa e frastornata stava passando ad una decisamente poco raccomandabile.

Adesso si che ero nei guai seri.

Prima che potessi anche solo reagire per difendermi o alzare le mani in segno di resa, Sean mi fu addosso: in pochi istanti mi raggiunse e con uno scatto sorprendente allungò il braccio verso di me e mi agguantò per il colletto della felpa, dandomi un forte strattone, ma io impreparato a quel violento movimento, non seppi mantenere l’equilibrio e scivolai all’indietro con l’aiuto del terreno scivoloso.                                                                                                                                                                                                              
Con mia grande fortuna il mio amico aveva degli ottimi riflessi perché accortosi in tempo della mia mancanza, si premurò di tirarmi in avanti, sempre in malo modo e, mi sostenne con il suo peso.
Pensando di essere in salvo mi girai verso il suo volto e per l’ennesima volta il mio cervello si scollegò, andando in completo tilt; questo a causa della troppa vicinanza tra i nostri corpi che se non fosse stato per la sua mano che ci separava di qualche centimetro, avrebbero di sicuro combaciato. Sentì un brivido scendermi lungo la schiena, ma seppi all’istante che non era per il freddo o per la pioggia scrosciante che si abbatteva ormai furiosamente su entrambi: le nostre facce potevano quasi sfiorarsi ed io riuscivo a percepire sulle mie labbra il suo respiro spezzato e ansante per la corsa e lo sforzo che aveva compiuto poco prima.                                                 
Un basso ringhio riecheggiò nel silenzio del temporale.

La paura per la reazione del mio corpo a causa di quella vicinanza, si fece insistente dentro di me e disperato cercai di sciogliermi dalla sua presa; fu tutto inutile, mi teneva fermamente e non sembrava per nulla intenzionato a mollare la presa. Visto che la fuga era risultata nulla, provai almeno a non fissarlo dritto negli occhi, ma questo comportamento non sembrò gradirlo molto.

“Per quanto ancora hai intenzione di ignorarmi?” , la sua voce era fredda e tagliente più di una lama e in un certo qual modo mi sentì ferito. Lui non mi aveva mai parlato in quella maniera, ma di sicuro me lo meritavo, visto come lo avevo allontanato senza dargli nessuna spiegazione in proposito.
La voce però era bloccata e dalle mia bocca non uscì alcun suono.

“Rispondimi Gabriel.”

Tentai per l’ultima volta di sfuggirgli via, ma ancora non ebbi successo. Spostavo gli occhi da una direzione all’altra, ma mai avevo sollevato il capo per osservarlo; avevo troppa paura.                                                                                                                                        
Presi allora profondi respiri per calmarmi, ma sentivo presente il suo sguardo fisso e questo non mi aiutava a tranquillizzarmi, anzi semmai peggioravano la situazione. Io non sapevo cosa dire o fare, le belle parole che mi ero tutte immaginate erano svanite, scomparse nel buco nero che ogni persona ha nella mente, solo che il mio si era esteso un po’ troppo nel mio cervello e adesso sembrava predominare metà delle sue funzioni.
Una delle quali era l’uso della parola.

Rimanemmo in quella posizione a lungo, persi nei nostri pensieri, diventando freddi e distanti l’uno dall’altro anche se non nella realtà che ancora era legata dalla sua mano artigliata saldamente sui miei vestiti; ogni tanto riprovavo a muovermi nella speranza che la sua presa si fosse allentata, ma sapevo benissimo che non sarebbe mai successo, lui non mi avrebbe lasciato andare finché non avesse ricevuto le risposte che cercava.
Poi accadde l’imprevisto: dopo un secondo ringhio più debole del primo, sentì lasciare lentamente il mio indumento e tirarsi indietro; sorpreso alzai finalmente lo sguardo e feci in tempo a vedere l’altro suo braccio tendersi all’indietro pronto per essere caricato. Non capì cosa stesse succedendo finché un violento pugno non mi venne sferrato in piena faccia; caddi scomposto a terra, sporcandomi completamente.

Con estrema lentezza, quasi innaturale direi, accostai la mano alla parte lesa e un lamento di dolore sfuggì al mio controllo; lo guardai stranito: non ci potevo assolutamente credere; lui non mi aveva mai colpito in vita sua, mai sfiorato e adesso quell’idiota patentato mi aveva tirato un cazzotto. Ance se ero in torto non potei fare a meno di arrabbiarmi.

“Brutto deficiente! Ma che cazzo ti è saltato in mente?!”, urlai paonazzo, alzandomi nel frattempo.

“Oh, adesso mi parli di nuovo? Dovrei per caso ritenermi fortunato?”, la sua ironia mi ferì nel profondo, facendomi sentire ancora più in colpa di quanto già non lo fossi.

Volevo chiedergli scusa, ma la mia razionalità era andata a farsi benedire. Cazzo mi aveva tirato un pugno!

“Vai a quel paese Sean”, sputai velenoso. Poi caricai e con tutta la forza che avevo mi buttai su di lui cercando di farlo cadere: mirai con il pugno destro il suo fianco, ma il colpo venne parato prontamente e di nuovo venni spedito sul terreno da un gancio dritto nello stomaco. Forse andare in palestra non sarebbe stata una cattiva idea.
Sentì chiaramente la sua risatina di scherno che era solito rivolgere agli stupidi che osavano sfidarlo; ero stufo di questo suo comportamento, avevo il bisogno urgente di farmi una doccia e schiarirmi le idee, ma al momento mi era impossibile fare tutto ciò perché troppo impegnato a prenderle dal mio miglior amico.                                                                                                                       Che situazione di merda.

Questa volta non mi rialzai, non avevo la forza e la determinazione ad affrontarlo, l’impeto di prima stava scemando velocemente ed io non riuscivo a trovare nessun altra ragione per avercela con lui, anche se dovrebbe essere l’opposto, visto che ero stato io il primo ad abbandonare lui e a ferirlo.

“Alzati”, mi ordinò poi. Non gli diedi retta e continuai imperterrito a fissare l’oscurità davanti a me.

“Ti ho detto di alzare quel culo da terra, idiota!”, esclamò improvvisamente con veemenza. Alla fine senza tante cerimonie mi raggiunse di nuovo, mi afferrò il braccio e come se fossi stato una piuma mi sollevò di peso, facendo scontrare inesorabilmente i nostri corpi l’uno contro l’altro.                                                                                                                                                                                    Il mio cuore in quell’istante perse un battito e le guance mi si tinsero di un rosso accecante e sperai con tutto me stesso che Sean non se ne accorgesse. Era terribilmente imbarazzante.

“Lasciami stare!”, la mia doveva suonare come una minaccia, ma la frase si sentì appena.
Credevo che mi avrebbe risposto a tono ed invece rimase in silenzio, perforando con lo sguardo la mia testa che ancora una volta era bassa troppo imbarazzato e sconcertato per la vicinanza. Il silenziò calò come in quel momento la pioggia; anzi finì addirittura il temporale e subito si potevano sentire il cinguettio degli uccellini che uscivano dai loro nidi, felici di poter volare di nuovo.
All’improvviso la presa sul mio braccio sparì e al suo posto due forti braccia mi circondarono il torace in un abbraccio fraterno e disperato al tempo stesso, ed infine appoggiò pesantemente la testa sulla mia spalla, nascondendo il volto nell’incavo del mio collo e respirandoci contro pesantemente. Il battito del mio cuore aumentò all’istante e batteva così furiosamente che sapevo l’avrebbe sentito anche lui, ma nonostante tutto non riuscì a cacciarlo via, mi era mancato terribilmente e se questo era il suo perdono non avevo nessuna intenzione di perderlo.

 Nel frattempo il cielo azzurro aveva incominciato a rivelarsi mentre sottili raggi di sole squarciavano senza pietà le nubi grigie e una leggera brezza spazzava via le poche foglie che prima stavano sugli alberi circostanti e mentre eravamo ancora in quella posizione, il suo telefono squillò facendo partire la sua suoneria: la canzone era la stessa che mi aveva spinto ad andarlo a cercare in lungo e in largo per la cittadina.

“Stupido”

“Come?”, la parola era stata pronunciata flebilmente e anche se gli ero più che vicino, non era riuscito a comprendere lo stesso quello che aveva mugugnato.

“Ho detto che sei uno stupido”, ripeté.

Poi senza preavviso alzò il volto verso di me e mi ritrovai a fissare i suoi bellissimi occhi: nel loro profondo riuscivo a leggervi una felicità immensa, forse nell’avermi ritrovato, ma anche frustrazione.                                                                                                                                                    
Perché mai dovrebbe essere frustato?

“Questo… non è… assolutamente vero…”, boccheggiai in cerca d’aria.

Un sorriso scettico apparve sul suo volto. Eravamo davvero troppo vicini.

“Tua sorella mi ha chiamato qualche giorno fa sai?”, non riuscivo a starlo ad ascoltare, attirato dal movimento delle sue labbra.

“E mi ha detto tutto…”

COME?!

Aprii la bocca per dar voce ai miei pensieri, ma come lo feci lui mi baciò.
Il mio cuore all’inizio smise di battere, per poi riprendersi ed incominciare a correre all’impazzat. Oddio Sean mi stava davvero baciando.
Quando si staccò, la mia espressione era un misto tra lo scandalizzato e l’euforico e doveva essere alquanto buffa, perché dopo che mi osservò per qualche istante l’altro ragazzo scoppiò a ridere. Cercai di fare l’offeso, ma non riuscivo a muovere nessun muscolo facciale, paralizzato ancora nell’istante dell’unione delle nostre labbra.

“Ti amo”. Due semplici parole che mi fecero venire le lacrime agli occhi.

“Ricorda di ringraziare tua sorella più tardi”, sussurrò divertito, tornando poi a baciarmi con passione e stringendomi ancora più forte. Non potei far altro che mugugnare un assenso e poi perdermi completamente in noi due.
 

Non so dirvi se l’amore può tornare ad essere della semplice amicizia.
Non so dirvi neanche quello che succederà andando avanti,                                                        
per ora io mi sono fermato al mio momento di felicità.

 

N.d.A
Finalmente l’ho finita!! Posso dirmi abbastanza soddisfatta anche se il finale l’avrò cambiato un milione di volte e ancora non sono sicura del tutto, ma ormai è fatta perciò ringrazio tutti quelli che sono arrivati alla fine di questa storia e che semmai vorranno lasciarmi anche solo un piccolo commentino, gliene sarei davvero grata : )                                                                             
(almeno per sapere se ho fatto schifo o meno XD)

Bene gente vi saluto. Auguro una buona serata a tutti e buon inizio di settimana!

CIAUSS

Myu_chan
  
 

  
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