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Autore: Philyra912    08/07/2006    17 recensioni
Alla vigilia di un Natale senza gioia, Hermione visita i sepolcri dei caduti. Lì incontra l'uomo che ha distrutto la sua speranza, ma forse anche l'unico che può ridonargliela.
One shot vincitrice di diversi premi, tra cui il "He Had It Coming" Award.
Genere: Romantico, Triste, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Charon's Gift
Disclaimer: Ho chiesto a Babbo Natale che mi portasse Draco per Natale. Dal momento che non mi è ancora stato recapitato, potete considerare lui, Hermione Granger e tutti gli altri personaggi di proprietà di JKRowling. Questa storia è scritta per mero diletto personale, nessun diritto si ritiene leso.

Nota della Traduttrice: Questa volta ho scelto di tradurre una one-shot che ho trovato semplicemente stupenda. Anche se, forse, quella estiva non è la stagione adatta per pubblicarla: l’atmosfera che la impregna è indubbiamente invernale e natalizia, ma non nel consueto significato che si dà al termine. Philyra912 ha scritto questa one-shot per il Celebrate the Season with Draco and Hermione, scambio di fanfiction indetto dalla community dmhgficexchannge a fine 2005. La storia si colloca nel periodo natalizio dello stesso anno degli eventi del Principe Mezzosangue.
Un’ultima nota, questa one-shot è ovviamente autoconclusiva. Tuttavia Philyra912 ha pianificato di scrivere una long-fic che ne sia il seguito. Al momento potete trovare l’unico capitolo di questo nuovo progetto nel suo account su fanfiction.net.
Spero che vi piaccia come è piaciuta a me. Buona lettura e… commentate!
Charon’s Gift




Guai a voi, anime prave!
Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vengo per menarvi all’altra riva
nelle tenebre etterne, in caldo e ‘n gelo

-Caronte, Inferno, canto III vv. 84-87, La Divina Commedia, Dante Alighieri

Era così freddo quell’inverno. Così freddo, e ancora non aveva nevicato. Non una volta. Né mai, fin dall’ultimo ottobre, il sole aveva svelato il suo volto attraverso le soffocanti coltri di nubi. Un grigiore penetrante aveva inviluppato le innaturalmente tranquille strade di Londra. Con l’avvicinarsi della fine di Dicembre, le tradizionali decorazioni natalizie avevano fatto la loro comparsa, ma, quell’anno, erano prive di vivacità, splendore, gioia. Anzi, sembravano bizzarramente volgari e inappropriate, come risate in una casa in lutto. Il mondo sembrava stesse soffrendo, o, forse, morendo. Forse erano vere entrambe le cose.

Hermione Granger avrebbe potuto pensare che quel tipo di inverno era il corredamento giusto per quell’atmosfera, se fosse stata nello stato d’animo per poter pensare a qualcosa del genere. Al momento, invece, era troppo esausta, troppo tesa, troppo concentrata sul soffocante compito di sopravvivere un altro giorno e vedere le persone che amava sopravvivere con lei, per poter dedicare tempo ed energie a qualsiasi altro pensiero. Supponeva che la guerra dovesse avere quell’effetto sulle persone.

Curioso, questa parola – “guerra”. Così breve e allo stesso tempo così mostruosa e terribile. Così tanti significati compressi in così poche lettere.

Non era come lei aveva pensato che sarebbe stata. Aveva creduto che la guerra sarebbe scesa su di loro nella forma di una sola, singola, epica battaglia, con l’Ordine della Fenice e i combattenti per la Luce e la Giustizia schierati in fiere e magnificenti schiere a confrontarsi sul campo contro l’oscuro esercito di Voldemort. Un grido del loro amato leader, lo scintillio dei suoi caldi occhi azzurri ricolmi di giusta vendetta e indicibile potere. La cicatrice di Harry, un faro sul campo di battaglia. Le urla dei Mangiamorte, mentre cadevano e fuggivano. Il finale strillo, agghiacciante, dello stesso Signore Oscuro, mentre le verdi fiamme scaturite dalla bacchetta del Bambino Sopravvissuto lo avviluppavano. Lei stessa e Ron, lì, a sostenere Harry, mentre collassava per il sollievo e per la spossatezza, senza aver mai lasciato il suo fianco.

Ma questa non era la guerra; ora lo sapeva, ora che infuriava intorno a lei da quasi sei mesi. Era stata una ragazza stupida e naif ad averla immaginata diversa. La guerra vedeva il loro leader sigillato in una bianca tomba di marmo, nel momento in cui loro avevano più bisogno di lui. La guerra era vivere in una paura costante, un mai abbassare la guardia, mai sentire un momento di sicurezza e pace. La guerra vedeva le persone che lei amava, rispettava, in cui credeva, riportate al quartiere generale con la medaglia dei caduti addosso.

Aveva visto i portoni di Hogwarts, l’unico posto in cui s’era sentita accettata e speciale, venir chiusi e sigillati a doppia mandata. La guerra era unirsi all’Ordine della Fenice alla giovane età di diciassette anni, era passare la sua estate in un duro corso di avanzate tecniche di difesa e di attacco. Era piangere sopra i corpi dei caduti. Era costringere i suoi genitori a nascondersi per la loro stessa sicurezza e non aver contatti con loro da oltre quattro mesi.

Soprattutto, la guerra era attesa, ed era quella la cosa peggiore. Le mura della casa al Numero 12 di Grimmauld Place – la sua casa temporanea e il quartiere generale dell’Ordine della Fenice – erano scure e cariche di dolore. I suoi amici e i suoi ex insegnanti si muovevano attraverso i suoi corridoi con occhi vuoti e braccati e con facce tirate. E per tutto il tempo, facevano una cosa sola: aspettavano. Era come se tutto il mondo fosse sull’orlo di un precipizio senza fondo, e Hermione viveva nel costante terrore che la prossima morte, la prossima missione fallita, la prossima perdita nei confronti del sempre crescente esercito dell’Oscuro Signore avrebbe potuto essere la spinta decisiva per far crollare la loro causa oltre il baratro.

Stavano perdendo. Non ne parlavano tra loro, ma tutti lo sapevano. Hermione pensava di essere stata una delle ultime a rendersene conto. Poteva individuare chiaramente il preciso momento in cui tutta la sua fiducia sulla loro vittoria l’aveva abbandonata.

Era stata una tetra notte sul finire di novembre, in cui l’intera casa aveva trattenuto il respiro nell’attesa del ritorno di Remus Lupin, Nymphadora Tonks, Charlie Weasley, Kingsley Shacklebolt e Ginny Weasley. Era stata la prima missione di Ginny da quando era diventa un membro dell’Ordine (sua madre s’era rifiutata di permettere che la ragazza ne facesse parte, ma dopo che Molly era stata uccisa in strada, mentre tornava dal mercato, nessuno era riuscito a frapporsi alla decisione della più piccola dei Weasley). Doveva essere una missione semplice, puro pattugliamento, ma erano comunque preoccupati. Hermione, ormai, era sempre preoccupata.

Erano via da tanto tempo, troppo tempo. Le due erano arrivate e passate e ancora nessuno al quartiere generale aveva preso la propria strada per andare a letto. Caffé forte e silenzio teso abbondavano quella notte.

Tornarono che erano quasi le tre, quattro sui loro piedi e l’ultimo tra le esili e deturpate braccia di Lupin. Mentre adagiava Ginny dolcemente, la testa rossa sul tavolo e i suoi occhi vitrei fissi in quelli di Hermione, Hermione aspettò che le sgorgassero le lacrime. Non arrivarono mai.

E fu lì che capì. S’era arresa, o, per lo meno, era lì che aveva capito di essersi arresa da tempo. Dopo aver mormorato delle condoglianze a uno stoico Ron ed aver dato un confortante abbraccio a Harry, la cui espressione impietrita faceva fisicamente male agli occhi di Hermione, ritornò alla stanza che divideva con Ginny e andò a dormire, senza nemmeno cercare di evitare di guardare allo sfatto, sciupato e per sempre vuoto letto di fianco al suo. Non aveva pianto, ma non aveva nemmeno riso. Non ricordava come c’era riuscita.

Il letto di Ginny era rimasto vuoto, ma anche sfatto. Hermione non era riuscita a costringersi a eliminare quell’ultimo, esile ricordo di lei. Era stata viva, quando aveva stropicciato le lenzuola nel sonno – tutti loro erano stati vivi.

Dopo la morte di Molly Weasley, Hermione s’era presa su di sé il compito e la responsabilità di guida materna, in quella grande, eterogenea e spezzata famiglia che viveva nel quartier generale. La maggior parte dei membri dell’Ordine non viveva a Grimmauld Place, o, nel caso lo facessero, di rado rimanevano lì abbastanza a lungo perché Hermione li potesse numerare tra le persone a cui doveva fornire il suo aiuto e appoggio. Quelli che lei considerava membri del suo gruppo reagivano alla guerra in maniera varia e diversificata, e ben presto incominciò a chiedersi come la Signora Weasley fosse riuscita a non impazzire, affossata dal groviglio di preoccupazioni per i suoi figli, reali o adottivi che fossero.

I gemelli non scherzavano più. Dalla morte di Ginny, Hermione era praticamente certa di non averli neanche mai visti sorridere.

Arthur Weasley era, come sempre, un’anima gentile, tranquilla, educata con tutti. Hermione spesso sentiva i suoi singhiozzi e pianti nella sua stanza vuota, durante la notte.

La scarna figura di Lupin era ormai diventata scheletrica, e le innumerevoli persuasioni e preghiere di Hermione non riuscivano a farlo mangiare. Parlava poco, tranne che con Tonks, i cui occhi erano grandi e vuoti sul suo volto. La ragazza era diventata terribilmente ombrosa e nervosa, e raramente la si vedeva al di fuori della sua stanza se non aggrappata disperatamente al braccio di Lupin, come se nessun altro a parte lui potesse salvarla dai suoi orrori, immaginari o reali che fossero.

Ron era rimasto un compagno leale e il fido secondo, nonostante tutte le sue perdite e privazioni. Il suo dolore e lo stress si manifestavano in una serie di piccole dipendenze che facevano sentire Hermione impotente. Durante il giorno, mai lo si vedeva senza una sigaretta tra le labbra o un tazza di caffé, così forte che Hermione si stupiva non bruciasse il suo contenitore come acido puro, tra le mani. Di notte, sembrava essersi preso come punto d’onore ridursi all’incoscienza con il bere.

Peggio, tuttavia, di tutti gli altri messi insieme, era Harry. Aveva tentato duramente di diventare il leader che tutti loro avevano bisogno, e aveva anche fatto un lavoro ammirabile, considerando che non era ancora diciassettenne quando s’era fatto carico della responsabilità. Passava le ore in riunioni strategiche, pianificava ogni missione e ogni battaglia, combatteva in prima linea, e trascorreva ogni singolo istante libero in cerca degli Horcrux.
Hermione lo sapeva, però, anche se nessun altro sembrava riconoscerlo. Neanche Harry ci credeva più. Erano, si diceva, i suoi occhi che lo tradivano. I suoi occhi – oh, i bellissimi occhi di Harry, che sempre erano stati ricolmi e scintillanti di vita e speranza. Ora le ricordavano il colore del vetro dei fondi di bottiglia, che così spesso aveva trovato sulle spiagge da bambina; piatti e fragili, e irrimediabilmente spezzati. Voleva piangere per Harry, ma non aveva più lacrime da spargere.

Nonostante la cupezza delle loro vite attuali, Hermione s’era rifiutata di rinunciare ad alcune cose. Si concedeva un lungo, bollente bagno una volta a settimana, come sempre aveva fatto da prefetto, quando lo stress accumulato diventava troppo. Insisteva che chiunque non fosse via in missione si sedesse a cena insieme, ogni singola sera. Si rifiutava di lasciar che Harry si rinchiudesse nella sua stanza, quando non era impegnato in una riunione dell’Ordine, o che mangiasse i suoi pasti come se ognuno di essi potesse essere l’ultimo (ignorando con testardaggine il mormorio sinistro nella sua testa che le diceva che in effetti quella poteva essere la verità). E infine, non aveva permesso loro di dimenticarsi del Natale, non importava quanto l’avessero voluto.

Agli inizi di Dicembre, aveva insistito per tirar fuori le decorazioni natalizie che Molly Weasley aveva portato dalla Tana, quando la sua famiglia s’era trasferita a Grimmauld Place in via quasi definitiva. Arthur Weasley aveva acconsentito alla sua richiesta, e poi s’era ritirato nella sua stanza. Hermione supponeva volesse rimanere da solo con i ricordi di sua moglie e dei suoi figli, di chi aveva già sacrificato alla guerra, ancor prima della morte di Ginny. Non poteva dire di biasimarlo, neanche quando s’era irrefutabilmente rifiutato di entrare nel salotto dove le decorazioni luccicavano e risplendevano.

Tutti avevano tollerato i suoi sforzi di portare lo spirito natalizio nella casa, ma a parte questa indulgenza collettiva, i suoi sforzi avevano incontrato solo apatia, nel migliore dei casi, e occhiate risentite e cupe, nel peggiore. Il vischio, arrangiato intorno alla porta d’ingresso, sembrava essere continuamente sul punto di avvizzire, nonostante l’incantesimo SempreVerde con cui l’aveva avvolto accuratamente. Le calze che avrebbero dovuto essere appese intorno alla cappa del camino, erano state infine tolte tutte. Hermione s’era resa conto che non avrebbe sopportato il doverle rimuovere una ad una alla caduta del loro proprietario. Le luci e i fili argentati e dorati erano sgargianti e fastidiosi, quasi crudeli. Persino l’albero di Natale (che aveva decorato da sola, mentre le note di una triste canzoncina festiva giravano sulla radio magica) sembrava esile e trascurato, quasi come se stesse morendo. Il che, supponeva, era la verità. Tutto stava morendo.

Era seduta davanti a quell’albero, ora. Lo guardava brillare tristemente alla fluttuante luce del fuoco del camino. Era la Vigilia di Natale, un momento che le famiglie avrebbero dovuto passare assieme, condividendo gioia e risate. Era un momento in cui i miracoli sarebbero dovuti accadere, e in cui tutti avrebbero dovuto essere insieme per vederli.

E invece della felicità, delle celebrazioni, e dell’eccitazione che associava alla Vigilia di Natale, Hermione si ritrovava da sola, con lo sguardo fisso sul suo patetico albero, facendo del suo meglio per alleviare le sofferenze degli altri, e ritrovandosi tra le mani il frutto del suo pessimo lavoro. Tutti i componenti di quella sua famiglia acquisita, distrutta e lacerata, s’erano scusati per l’occasione e s’erano rintanati nelle loro stanze, da soli con quali che fossero i pensieri che li tormentavano in quella desolata serata. Lei aspettava pazientemente che l’alcool nel suo bicchiere portasse il benedetto torpore, nella speranza di scemare quel dolore acuto che le era cresciuto dentro.

Sapeva che era sciocco farlo. Sapeva, persino se Ron e gli altri non l’avevano capito (perché il più giovane dei Weasley non era certamente l’unico a cercare rifugio nel fondo di un bicchiere di firewhiskey) che non c’era torpore che soffocasse il dolore. Il torpore era il dolore. Era quell’orribile vacuità che li stava uccidendo, quel sordo allontanarsi da se stessi che stava sfoltendo i loro ranghi con più velocità e efficienza di quanto un Mangiamorte avesse mai potuto sognare.

E improvvisamente, tutto quello fu troppo. Non poteva più sopportarlo per un altro istante – la solitudine, la paura, quell’orribile, vuoto posto nel suo cuore, dove una volta c’era stata la speranza. Balzò in piedi, dalla sua posizione accovacciata, difensiva, sul divano e lasciò la stanza, senza prestar attenzione allo schiaccianoci cangiante dal volto triste e dispiaciuto, che aveva schiacciato nella sua corsa.

Afferrò il suo mantello dall’attaccapanni vicino alla porta e uscì all’esterno così velocemente che il ritratto della Signora Black, leggermente appisolata nella sua cornice, non si rese nemmeno conto che fosse successo qualcosa. Hermione corse sui marciapiedi logori e sporchi finché le torreggianti, desolanti mura di Grimmauld Place, numero 12, non furono lontane e fuori dalla portata del suo occhio. Si permise qualche secondo per riprendere fiato, e mentre rimaneva lì, in piedi, diede un’occhiata a quanto la circondava. Le ci vollero solo pochi attimi per capire dove il suo subconscio la stava conducendo. Respirò profondamente, chiedendosi se il suo cuore poteva davvero riuscire ad andare là, o se non avrebbe retto al passare un’altra notte così disperatamente da sola. Si guardò attorno, nella strada abbandonata, poi gettò le precauzioni al vento e si Smaterializzò con un piccolo pop che riecheggiò come un colpo di pistola nella notte.

Aprì gli occhi e fissò con il cuore pesante i cancelli di ferro davanti a lei. Odiava tanto i cimiteri. Ironico e orribile, e tragico che non riusciva ad immaginare di passare quella notte da nessuna altra parte. Raccolse tra sé il proprio coraggio e iniziò il lungo percorso verso la sua meta.

La neve iniziò a cadere, mentre si avvicinava alle fresche lapidi delle tombe giacenti sotto le stanche membra di una sterile quercia. I fiocchi di neve si posavano sulle sue ciglia e si scioglievano sulle sue guance. Agli angoli dei suoi occhi, i fiocchi s’erano sciolti e lentamente scivolavano sul suo volto, in una falsa imitazione delle lacrime che non riusciva a spargere.

Le lapidi, incise con nomi dolorosamente famigliari, erano disposte le une accanto alle altre, un esercito unito in morte, così come lo erano stati in vita. L’Ordine aveva iniziato a seppellire lì i propri caduti, dopo che alcune delle tombe erano state dissacrate dai Mangiamorte. Quel piccolo angolo del cimitero era pesantemente protetto contro le maledizioni e la magia Nera di qualunque tipo. Allarmi e barriere protettive erano disposte tutto intorno per permettere ai nobili morti un riposo sereno.

Erba morta ricopriva alcune delle tombe più vecchie, mentre altre, quelle dove riposavano le perdite più recenti, erano coperte da null’altro che terra, e sembravano incredibilmente esposte e indifese sotto gli sferzanti rami della quercia. Hermione si voltò verso la lapide più recente, dove la terra rigirata era così recente che avrebbe potuto setacciarla con le mani, se lo avesse voluto, e lì si inginocchiò.

La guerra e le perdite l’avevano resa forte, ma non abbastanza da trascorrere un Natale senza la compagnia di coloro che amava con quella disperazione e malinconia riservata solamente a chi si è perso. Sedendosi sul suolo duro, gelato, Hermione aspettò la mezzanotte, guardando la neve cadere lentamente e ricoprire le tombe, fino al punto che distinguere terra ed erba fu impossibile e che solo chi li aveva dovuti lasciar andare poteva sapere da quanto gli occupanti di quei sepolcri fossero assenti dal mondo.

Mentre la profonda notte lasciava il posto alla prima ore del nuovo giorno, Hermione era arrivata più vicina a sorridere di quanto non le fosse capitato da molto, troppo, tempo. I muscoli del volto che controllavano quel movimento, erano rigidi per il disuso e quel pensiero le fece venire voglia di piangere ancora.

“Buon Natale”, sussurrò ai silenti sepolcri. Nonostante la desolazione di quello che la circondava, Hermione si sentiva stranamente in pace. Non era ancora disposta a rinunciare alla bellezza di quel giorno.
Aveva rinunciato a così tanto per la sua causa, e si rifiutò di sentirsi in colpa per non aver permesso alla guerra di portarle via anche quello. Il Natale significava miracoli e redenzione. Sicuramente, sicuramente, aveva ancora lo stesso significato dopo tutto quello che aveva visto e perso?

Un movimento improvviso ai confini della sua visione provocò l’immediata reazione, dovuta ai mesi d’allenamento e di paranoia. Da seduta, si rimise in piedi e si accovacciò dietro a una lapide torreggiante, la bacchetta in mano, pronta ad essere usata; il tutto nel tempo che una volta le sarebbe servito per rendersi conto se era successo qualcosa. Cautamente, scrutò dal di sopra della pietra tombale, i suoi occhi lesti nella ricerca dell’intruso inatteso nel cimitero innevato.

Lo individuò rapidamente, e per la prima volta in settimane, sentì qualcos’altro oltre alla disperazione. La furia che si riversò nelle sue vene portava via con sé i mesi di sofferenza e paura accumulati, trasformando il peso del dolore in cenere e fumo. Si sentiva più leggera di quanto non lo fosse stata in settimane, più viva di quanto non lo fosse stata in mesi. Il fuoco del suo odio la stava liberando, e una certa sorpresa la colse nel constatare che la neve intorno a lei non si stava sciogliendo per il calore.

A non più di trenta metri da lei, il viso girato verso una piccola, appartata lapide d’ottone, c’era Draco Malfoy. I suoi capelli erano lunghi (come quelli di suo padre, rimuginò tra sé Hermione con cattiveria) e li portava sciolti sulle spalle. Il suo abito e il suo mantello, neri come una notte senza luna, si muovevano attorno alla sua esile e flessuosa figura. Il suo volto era bello e pallido quanto i pendii alle sue spalle. Se non l’avesse conosciuto fin da quando era bambino, e avesse posseduto una natura solo un poco più superstiziosa, avrebbe potuto onestamente credere che lui fosse un angelo spedito sulla Terra per raccogliere le anime di coloro che se ne erano andati per portarle con sé nei cieli.

Ma lui non era un angelo. Piuttosto era l’esatto contrario. Non credeva sarebbe stata un’esagerazione dire che l’Ordine voleva la sua testa quasi quanto quella di Voldemort. Per una semplice ragione. Se Grimmauld Place era il loro inferno, allora lui era il loro Caronte, il barcaiolo che trasportava le anime dei dannati sul fiume Acheronte e che le portava in un inferno senza speranza. Lei incolpava lui, tutti loro incolpavano lui (con la sola eccezione, forse, di Harry) per le sofferenze che stavano sopportando.

Draco Malfoy aveva portato via loro la speranza. Non aveva ucciso Silente, forse, ma per qualche motivo quello non sembrava importare. Il sangue del loro leader imbrattava le sue mani, e ogni volta che un altro dei loro cadeva, ogni volta che la guerra sembrava ancor più disperata e il mondo diventava ancor più cupo, quel sangue sembrava versarsi di nuovo. Senza Silente, non avevano più una direzione da seguire, e senza guida, stavano cadendo. Ed era colpa di Draco Malfoy.

Hermione non aveva mai usato una maledizione letale, non l’avrebbe fatto. Sperava di non doverlo mai fare, perché dubitava che sarebbe riuscita a sopravvivere sapendo di aver preso la vita di un’altra persona tra le sue mani e di averla schiacciata via. Ma, se mai fosse venuto il momento in cui non avrebbe avuto più nulla da perdere alle spalle e più nulla di cui preoccuparsi davanti a sé, ecco allora lì, di fronte a lei, c’era l’uomo che avrebbe scelto di ammazzare.

Aveva già sollevato la sua bacchetta ed era già nel mezzo di lanciare una fattura per immobilizzarlo, quando Malfoy fece qualcosa che le fece fermare la mano. Con un’apparente incuranza per i suoi vestiti costosi e lindi, si inginocchiò nella neve e prese, dall’interno del suo mantello una singola rosa color del sangue, stupefacente nella sua perfezione. Con una gentilezza di cui non l’avrebbe creduto capace, la depose sulla tomba, e poi, piegandosi su un ginocchio, chinò rispettosamente la testa e chiuse gli occhi.

Hermione si sentì improvvisamente persa. Voleva colpirlo, farlo soffrire per la propria sofferenza, per la sofferenza delle persone a cui voleva bene, ma non poteva farlo quando lui si stava chinando con dolore, davanti al sepolcro di qualcuno per cui sembrava genuinamente addolorato. Così fece l’unica cosa che poteva fare. Avanzò fino alle sue spalle, furtivamente, come aveva imparato a fare in quei sei mesi di guerra.

“Non muoverti”, sibilò nella notte gelida. Stranamente, lui non rispose se non scoccando un indifferente sguardo sulle sue spalle, prima di ritornare a focalizzare la sua attenzione sulla tomba davanti a sé.

“Come sei stata melodrammatica, Granger,” disse, dopo alcuni attimi di silenzio. “Era veramente il meglio che sei riuscita a mettere insieme? Devo ammettere che sono un po’ deluso.”

“Che diavolo ci fai qui, Malfoy” sputò, chiedendosi se quell’ingrato, arrogante bastardo avesse una qualche idea di quanto fosse fortunato ad essere davanti a quel particolare membro dell’Ordine, perché se fosse stato qualsiasi altro, allora sarebbe già stato menomato e morto un centinaio di volte in quel momento.

“Avrei detto che fosse ovvio,” replicò con voce piuttosto stanca. “Che altro fa uno in un cimitero?”

Hermione non riuscì a fermarsi. Fece un passo avanti e portò la punta della bacchetta a contatto contro il suo collo pallido, tremante di pura rabbia.

“Abbiamo visto cosa fate voi nei cimiteri, e non è questo”, sibilò. Fu abbastanza sorpresa nel vederlo accipigliarsi.

“Sì, suppongo di sì. Avevo detto al nostro Signore che non ne sarebbe venuto nulla di buono nel dare all’Ordine ulteriori motivi di vendetta, ma gli piace indulgere sui capricci dei suoi fedeli, quando si sente nell’umore di farlo. E così loro si sono divertiti. È piovuto rosso con il sangue dei morti, quella notte”, Hermione si sentiva fisicamente male nel sentire il tono indifferente, ma allo stesso tempo stranamente affascinato, con cui descriveva le mutilazioni dei corpi delle persone che lei aveva amato e rispettato.

“Alzati e guardami, lurido bastardo”, ordinò con una voce che incrinata della rabbia. Malfoy fece come gli era stato chiesto senza protestare, il che la innervosì ancor più di una qualsiasi risposta che avrebbe potuto darle. Quando fu in piedi, in tutta la sua altezza, il suo primo pensiero fu che era molto più basso di quanto non ricordasse. Non poteva essere più alto di lei di un paio di pollici. Ironico che, nei suoi ricordi, il corpo del ragazzo torreggiasse sul suo, così come il suo indubitabile odio nei suoi confronti.

La seconda cosa che notò quasi le mozzò il respiro. Morto. Quella era la prima parola che le venne in mente. Una pallida, viva faccia con occhi morti come quelli di tutte le vittime dell’Avada Kedavra che aveva visto. Occhi morti nello stesso modo in cui erano morti quelli di Harry, nello stesso modo in cui erano morti quelli di Arthur Weasley, nello stesso modo (se doveva essere onesta con se stessa) in cui erano morti i suoi. Occhi derubati da tutto quello che rende la vita una cosa desiderabile. Se lei non l’avesse odiato così intensamente, avrebbe pianto per il vuoto piatto e freddo in quegli orbi argentei.

Si era aspettata di vedere odio, spirito di vendetta, freddo calcolo e furia appassionata in Draco Malfoy. Si era aspettata di vederlo fuggire o combattere o attaccare o fare qualcosa. Non era pronta a vedere sul suo volto la stessa sconfitta che vedeva nel suo, di viso, quando racimolava abbastanza coraggio per guardarsi allo specchio. Lui non stava vincendo? Non aveva già vinto?

Per un lungo momento si limitarono a fissarsi l’un l’altra, immobili, a mala pena memori di respirare. Lei vide una vaga sorpresa passare sopra i tratti del suo volto, quando i suoi occhi si fermarono sui suoi. Prima che lei riuscisse a fare un qualunque commento, prima che potesse schiantarlo come aveva programmato di fare, lui inclinò la sua testa regale su di un lato, paralizzandola con i suoi freddi occhi morti, nello stesso modo con cui ci sarebbe riuscito con un ben eseguito Pietrificus Totalus

. “Persino tu, Granger?” chiese, quietamente. Hermione doveva essersi immaginata il disappunto e la disperazione nella sua voce.

“Persino io, cosa?” rispose, cercando di suonare impaziente e disinteressata, e fallendo miseramente.

“Ha ucciso anche te.”. Lei non si scomodò nel fargli notare che lei era, ovviamente, più che viva lì davanti a lui, perché parte di lei concordava con lui: non era viva.

“Che cosa?” sussurrò.

“La Guerra.”. La sua voce era gelida come il vento dicembrino. Hermione non riusciva a pensare a nulla da dire, mentre se ne stava lì in piedi, paralizzata dalla vacuità nei suoi occhi. Aveva una stranissima sensazione. Anche se era lei quella con la bacchetta in mano, era Malfoy quello che aveva il potere. La disturbava rendersi conto che non aveva paura né di lui né di quello che avrebbe potuto farle.

Infine, lui ruppe quella situazione di stallo alzando un solo sopracciglio, perfettamente cesellato, in qualcosa che sembrava riecheggiare un sardonico divertimento.

“Che cosa pensi di fare con quella, Granger?” chiese, facendo un cenno con la sua testa verso la bacchetta ancora puntata alla sua gola. “Uccidermi?”

Per un breve momento, considerò l’eventualità di rispondergli di sì, o di dirgli che lo stava per schiantare come aveva inteso fare fin dall’inizio, ma all’improvviso si rese conto che non sarebbe stata la verità. Sentì il braccio caderle lentamente di fianco.

“Che cosa cambierebbe se ti uccidessi?” chiese infine, travolta da una spossatezza sia fisica che mentale. “Siamo già entrambi morti.” Sapeva che era un suicidio lasciar cadere le proprie difese in compagnia di un noto Mangiamorte, ma lei era così stanca, e si chiese se veramente si sentiva al sicuro in sua presenza o se era solo troppo prosciugata perché gliene potesse importare ancora.

Malfoy sembrò accettare il suo comportamento con tranquillità, e la studiò per un attimo con una sconcertante intensità.

“Desideri mai essere una di quei fortunati i cui corpi sono morti, insieme alla loro anima?” le chiese con calma.

“No”, replicò lei con voce tremula, mentre vacillava sotto l’onestà nei suoi occhi. “Quando desidero qualcosa, allora è per la vita piuttosto che la morte.”.

“Rivuoi indietro la tua vita, quindi?” chiese ancora.

“No”, mormorò. “Le loro sono quelle che rivoglio indietro.”. Fece un gesto verso le pietre tombali accostate solennemente in cima alla collinetta. “Voglio sentire le loro voci, vederli sorridere. Voglio che siano al sicuro e felici.”

Malfoy la guardò con la più bizzarra delle espressioni, come se l’idea di desiderare la vita degli altri, piuttosto che la morte per se stessi non gli fosse mai venuta in mente.

“Lei non è mai stata al sicuro, mai felice”, disse all’improvviso. “Volevo darle quelle cose. Sono arrivato tardi.” L’ambiguità della frase lasciò interdetta Hermione per un momento.

“Chi?”

In risposta, Malfoy fece un passo di lato e voltò il viso verso la tomba che era venuto a visitare. Hermione strizzò gli occhi nella fioca luce, finché non riuscì a leggere il nome inciso nell’ottone.

Narcissa Black in Malfoy

1960-1997

Madre Amata

“Quando?” sussurrò Hermione. Malfoy si girò verso di lei. Vero dolore, vera sorpresa sul suo volto.

“Non lo sai?” chiese. Lei scosse la testa, senza proferire parola, voltando il viso verso la semplice lapide. “E’ morta al San Mungo lo scorso mese. Era lì fin da quando il Ministero ha setacciato il Maniero alla mia ricerca, quest’estate.” Hermione scandagliò nella sua memoria per trovar traccia di quei tempi agitati. Sembrava essere trascorsa una vita da allora.

“Oh, era stata ferita, giusto?” esclamò all’improvviso, un articolo della Gazzetta le era tornato in mente. Malfoy rise crudelmente.

“E’ stata torturata, Granger”, sputò con furia tagliente. Hermione sentì il sangue gelarle nelle vene e lo stomaco chiudersi pericolosamente.

“Cosa? Chi…?”

“Chi pensi?” il suo volto era una maschera di odio e vendetta.

“Loro non avrebbero…” protestò Hermione debolmente, sebbene quell’idea sembrava troppo terribilmente corretta per non essere vera. Gli occhi di Malfoy, mentre si girava di nuovo verso la lapide, erano scuri per il dolore.

“Mi stavano cercando” mormorò piano, e a Hermione parve che si fosse dimenticato che lei fosse lì. “Venti anni passati nell’ombra dei nemici di mio padre e il peggio che le era capitato era stato essere di poco mancata da uno schiantesimo. Due settimane nella mia vita da fuggitivo ed è stata torturata fino alla pazzia dai bravi ragazzi.”.

“Non lo sapevo”, sussurrò Hermione, sentendo il fantasma della perdita intorno a sé, mentre il vento invernale fischiava intorno a lei.

“No, suppongo che non lo sapessi”, disse Malfoy a voce bassa, al suo fianco. “Avevi i tuoi morti da piangere.”

Sicuramente lei li aveva avuti, ma si rese improvvisamente conto di non essere l’unica ad avere perso qualcuno e qualcosa.

“E’ una bellissima rosa. Sono sicura che l’apprezzerà” offrì Hermione, senza nessuna ragione. Il pallido eco di un sorriso veleggiò agli angoli delle sue labbra.

“Sono sicuro che le piacerà. È del suo giardino. Amava le sue rose. A volte ho pensato che le amasse più di me, o persino di mio padre. Mi ricordano sempre lei. Stanno morendo da quando lei è stata portata via, non importa quanto io tenti di tenerle in vita. Questa era l’ultima.” La sua voce era così piatta che quasi le spezzò il cuore, per una ragione che non riusciva nemmeno a sfiorare.

“Ti manca?” chiese, le sue parole portate via nella fredda notte.

“La conoscevo a mala pena” sussurrò Malfoy. Non era una vera risposta, ma in un certo senso lo era. Hermione rimase con lui ferma in quello strano silenzio confortevole, per un lungo momento.

“E’ il primo Natale che trascorriamo senza di loro. Credi che manchiamo a loro quanto a noi mancano loro?” chiese Hermione. Alzò lo sguardo verso di lui, quando non rispose, e lo trovò a fissare la lapide con una bizzarra espressione sul volto.

“Spero che, dovunque siano, non debbano più provare sentimenti come perdita e malinconia”, rispose dopo un momento. Girò quegli occhi che riflettevano la luce della luna per guardarla. “E’ davvero Natale?”

Hermione sbatté le ciglia, come se si fosse svegliata improvvisamente.

“Certo, certo che lo è” rispose, chiedendosi a che gioco stesse giocando con lei, ora. “Non lo sapevi?” Lui scrollò le spalle, con eleganza.

“Ha poco significato per me. Non andrò certamente a sprecare il mio tempo per celebrare una vacanza ridicola, con il solo scopo di stimolare l’economia Babbana e ricevere inutili beni materiali di poca qualità e ancor meno valore.”. Hermione sbatté gli occhi, più che leggermente affrontata dalla mordace descrizione di un momento dell’anno che per lei era sacro e miracoloso.

“E’ una cosa orribile da dire, Malfoy”, mormorò, più vicina ora alle lacrime di quanto non lo fosse stata da molto tempo.

“Bene, io sono un uomo orribile”, disse in maniera distaccata, ma anche vagamente disperata, tanto che le fece pensare che forse lui potesse sbagliarsi.

“Il Natale è molto più di quello”, sussurrò, scegliendo di ignorare il suo ultimo commento. Lui rise, in maniera stranamente simile all’ululato del vento che rimbomba nel tronco cavo di un albero.

“E’ solo un giorno, Granger. Solo un inutile giorno, come qualsiasi altro inutile giorno dell’anno. Accadono cose brutte, guerre vengono combattute, muore altra gente. È solo un giorno.” Rise derisoriamente, e i suoi occhi luccicarono, piatti. “Così tanta magia al mondo, tutto intorno a voi, e voi Babbani idioti la cercate nell’unico posto dove non può essere trovata.”.

“C’è magia in questo giorno, Malfoy. Tanta. È un giorno di salvazione e miracoli e redenzione. Se questa non è magia, che cos’è?” Voleva così tanto farglielo capire, sebbene non avrebbe saputo dire il perché neanche sotto minaccia di morte. Lui scosse la testa verso di lei, come s fosse stata una bambina recalcitrante, ostinata.

“Questa non è magia. È un’illusione che ti convinci a credere perché non c’è più nulla di tangibile a cui credere.”.

“Non lo credi davvero”, mormorò Hermione.

“Sì che ci credo. ‘Felice Natale!’” disse con sarcasmo. I suoi occhi brillarono all’improvviso, di rabbia. “Che diritto hai di essere felice? Che ragione hai di essere felice? Che ragione ha ciascuno di noi per esserlo?” Il suo tono era ricolmo di lacerante disperazione.

Hermione era arrabbiata, ora. Il Natale significava qualcosa per lei, significava qualcosa di speciale e di bellissimo, e lui stava tentando di portarle via anche quello, così come le aveva portato via tutto il resto.

“Non ti ascolterò per un altro secondo. Solo perché tu non riesci a vedere il potere di questo giorno non significa che non ci sia! Sono venuta qui per iniziare il Natale con le persone che amo, e non sprecherò un altro secondo -” si fermò all’improvviso, come se qualcosa di fondamentale le fosse venuto alla mente. “Aspetta un attimo. Se tu non sapevi che era Natale, che ci fai qui a visitare la tomba di tua madre nel mezzo della notte?”

Pensò che quella fosse la prima volta, in tutto il tempo che lo aveva conosciuto, in cui Draco Malfoy assunse un’espressione colpevole. I suoi occhi sfuggirono i suoi e lui continuava a spostare il peso da un piede all’altro.

“Beh, io… era solo…” Roteò gli occhi e si passò una mano agitata tra i suoi capelli serici. “Oh, maledizione! Sto scappando via, okay?” scattò. “E’ questo quello che volevi sentire? Me ne sto andando e volevo dire addio.”

“Cosa vuoi dire con ‘scappando via’”? chiese Hermione, senza respiro. “Non sarai più un Mangiamorte?”

“Non hai imparato nulla in questa guerra, Granger?” scattò con rabbia. “Uno non smette di essere un Mangiamorte. Solo la morte può liberarti da quel vincolo. No, io sto scappando via.”

“Quindi li stai lasciando? Hai smesso di credere a quello che dicono?” Sentiva le vertigini alla sola idea.

“Per smettere di credere, avrei dovuto avere fede all’inizio, no?” replicò con sarcasmo. Il fuoco della rabbia sembrava essersi spento dal suo volto, e lui sembrava star affondando su se stesso. Si appoggiò di fianco alla lapide che aveva di fianco, chinandosi come se non avesse più neanche la forza di reggersi in piedi da solo. I suoi occhi erano chiusi e il suo volto rivolto verso l’alto, come se stesse cercando di bagnarsi con le lacrime gelati che piovevano dal cielo.

“Mi è passato tutto davanti così in fretta” sussurrò, e Hermione si chiese ancora se fosse consapevole della sua presenza o se pensasse di star parlando con qualcun altro. “Pensavo di sapere quello che stavo facendo. Stavo tentando di fare quello che ci si aspettava da me, quello che mi era stato insegnato per tutta la mia vita. Pensavo che se avessi fatto quello che mi avevano chiesto, mi avrebbero lasciato in pace, e io e lei saremmo stati al sicuro.”. Hermione cercò di raccogliere tutta la rabbia che possedeva nell’ascoltare le sue ragioni per le azioni che avevano condotto alla morte di Silente, ma tutta quella rabbia sembrava essersi volatilizzata via. Non lo interruppe, e lui continuò.

“Un minuto ero un bambino viziato che seguiva le orme di mio padre, e quello successivo era un soldato che combatteva nella guerra di qualcun altro. Prima che me ne rendessi conto, avevo più sangue sulle mia mani, di quanto potrò mai lavarne via.”. I suoi occhi si spalancarono e si fissarono su quelli della ragazza, a pregarla per qualcosa che lei non capì.

“Io voglio solo fermarmi. Non ho sentito nessuna altra sensazione che non fosse la vacuità per così tanto tempo, e non riesco più a sopportarlo. Me ne sto andando via, dove non dovrò più uccidere, o combattere, o fare il mio dovere.”. Sputò l’ultima parola come se fosse un veleno mortale sulla sua lingua. “E quando il mio Signore mi troverà, darò il benvenuto alla mia morte. Mi merito di peggio per quello che ho fatto.”

“Se ti senti così, perché non cerchi di riparare gli errori?” chiese Hermione, pacata. La sua risata fu aspra, un suono vuoto nella notte.

“Riparare gli errori?” ripeté con sarcasmo. “Hai dimenticato quello che ho fatto, Granger? Il tuo prezioso Silente è morto a causa mia! Ho ucciso e torturato e distrutto, senza pietà né rimorso. Sono stato uno schiavo al servizio del mago più malvagio al mondo.”. Fece un passo in avanti, invadendo lo spazio personale della ragazza, come a volerla far rimpicciolire sotto il suo sguardo ferreo. “Ho fatto cose che ti farebbero arricciare il sangue se le sapessi. Come potrei riparare i miei errori?”

“Unisciti a noi”, mormorò con urgenza. Malfoy sbatté le palpebre, puro shock sul suo volto. “Dicci quello che sai. Se odi Voldemort così tanto, torna da lui e aiutaci a distruggerlo. Redimiti con la tua lealtà.”.

“Sei pazza quanto lo era il vecchio”, sogghignò. “Non è rimasto nulla da redimere in me, Granger.”

“Non ci credo”, sussurrò. “T’ho visto con tua madre. Non sei ancora perso.”. I suoi occhi luccicarono con… qualcosa per un brevissimo attimo, ma immediatamente quel qualcosa se ne era andato e la vacuità era tornata. Le sembrava di star guardando delle lamiere d’acciaio.

“Servirebbe un miracolo per portarmi indietro”, mormorò lui con un pizzico di disperazione.

“E’ una buona osa, allora, che oggi sia un giorno di miracoli, no?” replicò. Le sembrò di vedere il fantasma di un sorriso aleggiare sulle sue labbra, ma se ne era andato troppo in fretta, per poterlo dire con sicurezza. Lui scosse la sua testa e iniziò ad allontanarsi da lei.

“Te l’ho già detto, Granger. Non credo a quelle vaccate”, disse con disprezzo, in un tono che suggeriva come stesse cercando di convincere se stesso, ancor prima che lei. Hermione si sentì inesplicabilmente arrabbiata per il suo rifiuto alla propria offerta.

“Va bene, allora”, scattò, senza curarsi del volume della sua voce, che stava crescendo abbastanza da rischiare di attirare attenzione se qualcuno fosse passato, per caso, vicino al cimitero. “Scappa e sii un codardo, se è quello che vuoi. Vivi il resto della tua vita come un fuggiasco, marchiato come traditore da entrambe le parti. Muori sapendo di non aver fatto nulla di degno con il tempo prezioso che ti è stato donato, persino avendo avuto la possibilità di cambiare il destino del tuo mondo. Suppongo che tu abbia ragione. Non ti meriti nulla di meglio.”

Il volto di Malfoy arrossì e i suoi tratti si irrigidirono in una maschera di rabbia. Aprì la bocca, come a voler replicare. Prima di lanciarsi a briglie sciolte in qualunque fosse la tirata che stava crescendo dentro di lui, sbatté le palpebre per lo stupore e la fissò senza parole per un momento.

“Questo mi ha fatto arrabbiare”, disse lentamente, quasi che fosse una cosa a cui non potesse credere.

“Bene, bene”, scattò Hermione. Lei voleva che lui fosse arrabbiato. Lei lo era di certo.

“Era da tanto tempo che non mi arrabbiavo. Era tanto che non sentivo nulla”, spiegò lentamente. “Nulla se non paura e spossatezza.”.

“Anch’io”, ammise Hermione, con pacatezza.

“Tutto il mondo mi sembra assopito”, commentò lui, e lei tremò all’accuratezza della sua descrizione. “E’ come se la Guerra avesse messo un muro di vetro tra me e tutto il resto. Non mi ferisco più, ma a volte vorrei farlo. Sarebbe meglio.”.

“Se ci feriamo, significa che siamo ancora vivi”, continuò per lui Hermione. “Se ci feriamo, significa che ricordiamo come è non essere feriti, e significa che c’è ancora speranza.” Chiuse gli occhi, desiderando che le lacrime sgorgassero.

“E’ passato così tanto tempo da quando ne abbiamo avuta un po’, che sto iniziando a dimenticarmi cosa vuol dire averla”, mormorò, Quando riaprì gli occhi, lui la stava fissando, e lei pensò che lì c’era l’unica persona che l’aveva ascoltata da fin troppo tempo.

Inclinò la testa, nella sua maniera tipica, e iniziò a camminare verso di lei, con un passo misurato, deliberato. Infine, lei fu costretta a fare un passo indietro, e si ritrovò contro il tronco di una quercia innevata.

“Che stai facendo?” chiese, sentendosi come se tutta l’aria nel suo petto se ne fosse andata per il calore del suo scuro sguardo argenteo.

“Sono così stanco di essere intorpidito,” mormorò. “Voglio sentire qualcosa ancora una volta, ancora una volta prima di morire…”

Il respiro di lui aleggiava sulle labbra di Hermione, più bollente di migliaia di falò nella notte gelata di Dicembre. Lei tremò per la sua stretta, ma non trovò la forza di allontanarlo.

“Non penso…”, iniziò, ma lui scosse la testa, appoggiandola, poi, contro quella della ragazza e facendole dimenticare quello che stava per dire.

“Esattamente. Non pensare.” Non avrebbe potuto controbattere neanche se l’avesse voluto… e, che Merlino l’aiutasse, non lo voleva. Era stanca anche lei, stanca di sopravvivere senza vivere, stanca di esistere senza sensazioni. Quando Malfoy abbassò le sue labbra sulle sue, non oppose resistenza.

Non era quello che si sarebbe aspettata da un bacio con Draco Malfoy. Non era né seducente, né elegante, e nemmeno null’altro di quello che aveva sempre sentito associare a lui. Le loro labbra screpolate sfregavano le une sulle altre quasi dolorosamente, e quel bacio non aveva nulla di tenero, ma tutto di disperazione e bisogno. Non era il miglior bacio che lei avesse ricevuto; era molto lontano dall’esserlo, in effetti. Ma lei lo stava sentendo, lo sentiva fin nelle punte dei piedi, e nella stretta delle dita del ragazzo intrecciate nelle sue (quando si erano intrecciate?). Non aveva mai sentito nulla di simile in così tanto tempo, forse da sempre.

Era come svegliarsi dopo un sonno di giorni e giorni di fila. La brezza sembrava più sferzante; il tronco contro la sua schiena, più ruvido; la sofferenza e l’afflizione, che giacevano pesanti nel suo petto, sembravano aver acquisito angoli più taglienti e aver causato ferite più profonde. Ma anche quello era perfetto. Voleva che Draco Malfoy continuasse a baciarla finché il mondo intorno a loro non fosse ridotto in cenere, fino a quando continuasse a tenere lontano il torpore.

Quando lui iniziò ad allontanarsi, sembrò troppo, troppo presto. Lei trattenne il respiro, mentre lui si ritirava da lei di un altro passo, aspettando che quell’orribile vuoto tornasse… ma non accadde. Il suo volto era ancora freddo, il suo cuore ancora perseguitato con il dispiacere e una vaga paura. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che l’aveva avvertita, tanto che quasi non riusciva a ricordarsi com’era, ma era quasi certa che l’emozione che le stava nascendo nel petto fosse gioia.

Malfoy la stava fissando come se non fosse interamente sicuro che i suoi occhi non lo stessero ingannando. C’era un colore sulle sue guance che lei non credeva avesse nulla a che fare con il freddo, e il suo respiro stava fuoriuscendo dalle sue labbra in rapidi sbuffi bollenti nella notte. Osservando lui, il suo volto troppo tirato, dai tratti taglienti, i suoi occhi color del fumo (se lo stava immaginando, o c’era una scintilla di vita, in quegli occhi, che non c’era stata prima?), le venne improvvisamente voglia di baciarlo ancora. Voleva che lui la baciasse, e quel desiderio non aveva più nulla a che fare con lo scacciar via la malinconia, la solitudine o il doloroso vuoto nel suo petto, e questo la spaventava più che ogni altra cosa.

“Devo andare”, disse lui d’un tratto, una nota di panico nella sua voce. Fece per voltarsi, poi la guardò stringendo gli occhi. “Mi fermerai?”

“No”, rispose prima di poterci pensare troppo.

“Perché no?”

“Non lo so”, replicò. Lui assentì leggermente, e si giro per andarsene.

“Malfoy?” riprese, all’improvviso. Lui si fermò e tornò a guardarla. Per un momento, guardando quegli scuri occhi grigi (come aveva potuto pensare che erano glaciali, quando vorticavano con tale profondità, con tale calore?), si dimenticò cosa voleva dire. “Che cosa farai?”

“Non lo so”, le fece eco, piano. L’espressione che aveva addosso in quell’istante avrebbe dovuto essere troppo dolce per i suoi tratti, ma in qualche modo non stonava. Chinò il capo, nell’accenno di un delicato inchino. Poi, con uno svolazzo di nero e fiocchi di neve, se ne andò.

Hermione strizzò le palpebre, guardando il punto che lui aveva occupato solo istanti prima. Si girò ad osservare la solenne fila di lapidi che si stagliavano sulla collinetta, ma si rese conto che non sentiva più il bisogno di ritornare lì. Per la prima volta da tanto tempo non si sentiva sola. Si aprì in un sorriso in mezzo alla neve cadente.

“Buon Natale, Malfoy”, mormorò nella notte. Poi, con un piccolo pop, anche lei sparì.


La mattina successiva, Hermione si svegliò con la luce del sole che colpiva il suo volto. Rimase sdraiata sul letto per un momento, cercando di capire se gli strani eventi della notte precedente fossero davvero successi o tutto fosse stato solo un sogno regalatole in quella sequenza di orrori che infestavano i suoi riposi. Solo quando s’accorse che il vuoto nel suo petto s’era alleggerito, che per la prima volta da troppi mesi non temeva di alzarsi dal letto, capì che era successo davvero.

Qualche minuto dopo, Hermione stava scendendo dalle scale, avvolta nelle sue vesti e in pantofole, per essere accolta dalla, probabilmente, più solenne mattina natalizia della storia del mondo. Arthur Weasley era seduto sul divano con Fred e George, tutti e tre stavano fissando l’albero decorato, ma il loro sguardo era perso nel vuoto. Tonks e Lupin erano seduti vicini su due poltrone, vicini. Tonks stringeva la mano di Lupin talmente forte che le sue nocche erano bianche. Ron era appoggiato contro la parete, stava guardando fuori dalla finestra con una tazza di caffé in mano, circondato da una nuvola di fumo. Qualche altro membro dell’Ordine era sparso per la stanza, a sorseggiare del tè o del caffé e con lo sguardo perso. Nessuno stava parlando.

“Buon giorno”, disse Hermione, piano. Un paio di occhi disinteressati si voltarono verso di lei, e Arthur Weasley le offrì un debole sorriso.

“Buon Natale”, continuò, esitante.

“Buon Natale, Hermione”, le rispose Harry, alle sue spalle. Si girò per vederlo entrare dalla porta d’ingresso, il suo naso arrossato dal freddo e qualche fiocco di neve tra i suoi capelli scuri. Tra le sue braccia aveva qualche pacchetto, tutti, ad eccezione del più grande, erano impacchettati con carta natalizia. Gli tolse alcune dalle scatole dalle mani e, insieme, le portarono tutte sotto l’albero, dove un modesto numero di regali era già presente.

“Arrivi dell’ultima ora”, disse Harry con falsa felicità. “E’ stata una bella camminata faticosa andare fino alla guferia con questa neve, ma pensavo ne valesse la pena.”

“Sono sicura che tutti apprezzano il tuo gesto, Harry”, gli replicò Hermione, cercando di schermarsi dalla piattezza degli occhi del suo amico. Sistemò meglio i regali, poi si girò verso gli altri occupanti della stanza, con un sorriso fragile sul volto, fragile come lei si sentiva.

“Chi vuole aprire il primo regalo?” chiese vivacemente. Nessuno rispose, così Hermione si voltò a prendere il primo pacchetto che le capitò sotto mano. “Ron, è per te”, annunciò. Rispettosamente, Ron avanzò e aprì il suo regalo, un paio di guanti di cuoio di drago da parte di suo padre. Elargì i ringraziamenti di rito, e un ciclo simile si ripeté per i pacchi successivi.

Hermione stava pensando che ci sarebbe stata più pietà, forse, se ognuno si fosse ritirato nelle proprie stanze con i propri scarni regali, così da non dover essere costretti a sopportare quella odiosamente sconfortevole situazione, quando la sua mano sfiorò un tessuto particolare. Si girò a guardare e vide che aveva toccato la scatola grande che era arrivata giusto quella mattina. La prese in mano, per leggere il biglietto, solo per scoprire che non c’era nessun biglietto ad accompagnarla. La scatola era avvolta in carta marrone, con una busta ben assicurata al coperchio.

“Harry, sai chi ha mandato questa?” chiese, sentendo la paura sprigionarsi nel suo petto, come un serpente. Sentendo un bizzarro timbro nella sua voce, Harry aggrottò le sopracciglia, girandosi a guardarla.

“No, era appoggiata insieme alle altre. Ho pensato che il gufo che l’aveva portata si fosse stancato di aspettare e se ne fosse ritornato a casa. Perché? Cosa c’è che non va?”

“Non c’è nessun nome, nessun biglietto”, sussurrò Hermione. L’ansia eruppe immediatamente negli occupanti della stanza, e quella piccola riunione fu subito immersa in quello spirito di cautela che caratterizzava veramente troppi dei momenti che passavano insieme. Harry si avvicinò a lei, e gentilmente le tolse la scatola dalle mani. Anche Lupin s’alzò e venne verso di loro. Lanciò un paio di incantesimi di prova sulla scatola, prima di slegare la busta sul coperchio.

“Non sembra essere pericolosa”, concluse con voce tesa, mentre apriva la lettera. “Sta attento, Harry.”. Harry assentì, rigido, prima di svolgere la scatola dalla carta che la ricopriva e aprirla con la massima cura. Mentre il resto della stanza tratteneva il respiro, estrasse dalla scatola… un fascicolo di documenti.

“Che cos’è tutto questo?” chiese, suonando più arrabbiato e spaventato di quello che Hermione si sarebbe aspettata. I suoi occhi smeraldo scorsero velocemente il documento in cima. Il suo volto si gelò in un’espressione di shockata incredulità, mentre procedeva a rileggere con più calma il foglio che aveva in mano. Improvvisamente, iniziò a sfogliare rapidamente il plico, i suoi occhi che si allargavano alla vista di ogni documento.
“Tattiche, piani di battaglia, rapporti statistici, lettere confidenziali…” alzò lo sguardo verso le facce tirate dei suoi compagni, la sorpresa nei suoi occhi scintillanti. “Da parte di qualcuno dall’altra parte. Chi può averlo fatto?”

“Un Mangiamorte”, sussurrò Lupin, fissando la lettera, non letta, che aveva tolto dalla cima del pacco.

“Qualcuno che ha tradito?” chiese una voce dal fondo della stanza. Hermione, ormai, non li stava quasi più ascoltando. Non sentiva quasi più nulla, a parte il violento battito del suo cuore. Non poteva essere, di sicuro, non poteva essere…”

“Draco Malfoy”, annunciò Lupin, la sua voce quasi minuta per lo shock. Tutti si guardarono gli un gli altri, l’incredulità sui loro volti. Hermione si sentì svenire forse per la prima volta nella sua vita, e si lasciò cadere sulle ginocchia sul tappeto, di fianco ad Harry.

“Non ci credo”, sibilò il ragazzo. “E’ un trucco.”.

“Potter”, iniziò a leggere Lupin, con la sua voce calma, che non giudicava. “Ho abbandonato il sentiero che era stato tracciato per me. Non chiedermi perché, non te lo dirò, e tu non mi crederesti se io lo facessi. Piuttosto che morire da fuggiasco con una vita buttata al vento, ho deciso di fare qualcosa di degno prima di essere ucciso per il mio tradimento. In questo pacco ho racchiuso tutto quello che so dei piani del Signore Oscuro. Dove si trovano i nostri punti di forza, e un’incompleta, ma piuttosto accurata lista di tutti i miei compagni Mangiamorte. I tuoi Auror, lo so, hanno la possibilità di verificare la validità di questi documenti. Forse allora mi crederai. Ti spedirò ulteriori informazioni quando le riceverò e il più spesso possibile, senza mettere in pericolo il mio status nel circolo del Signore Oscuro. Che tu possa aver successo dove io ho fallito, e che tu possa fare quello per cui sei stato destinato. Firmato, Draco Lucius Malfoy.”

Nessuno parlò per un lungo momento. Poi, Tonks si alzò e prese tutti i documenti raccolti nella scatola, appoggiandoli su un tavolo lì vicino, e la lettera che li accompagnava. Mormorò qualche incantesimo, facendo diventare i fogli rosa e le parole scritte sulla loro superficie di un iridescente blu. Infine tracciò degli strani simboli, che si materializzarono, verdi, sopra il tavolo, a mezz’aria.

“Sta dicendo la verità”, disse, non senza soggezione.

“Lo sapevo”, Hermione sentì Harry sussurrare al suo fianco, mentre lui si alzava per aggiungere i documenti che ancora aveva in mano a quelli sul tavolo. Li fece cadere in mezzo agli altri, sulla superficie lignea, con un thump che sapeva di soddisfazione.

Come se quello fosse una specie di segnale, la stanza eruppe in ferventi chiacchiericci, ordini urlati, rumori pazzi e scoppi di incredule, bellissime, impossibili, risate. Solo Hermione era rimasta immobile. Prese la scatola svuotata e ne estrasse un piccolo pacchetto, discreto, non notato dagli altri. Non era segnato, ma Hermione seppe istintivamente per chi era.

Con mani tremanti, tolse la carta che lo avvolgeva con una lentezza agonizzante. Dentro, vi trovò un foglio spiegazzato e una esile collanina d’argento con un pendente formato da una sola, perfetta, rosa, che luccicava nella luce del mattino.

Strinse la collana in una mano, così forte da far sbiancare le nocche, senza accorgersene. Spiegò il foglio e lo lesse, mentre la stanza gioiva, intorno a lei.

Una donna saggia mi ha ricordato, un giorno, che il Natale è un giorno di salvezza e miracoli e redenzione. Io voglio credere che abbia ragione, e poiché è più di tutto quello che mi è stato offerto in tanto tempo, voglio proporle di darle tre cose. Primo, le offro la mia conoscenza del nemico, così che possa esserle d’aiuto nella sua lotta. Secondo, le offro la mia eterna lealtà, così che lei possa trionfare e che io possa ritrovare la strada per abbandonare l’oscurità. Infine, le offro una rosa… un’altra delle rose di mia madre, in realtà, perché possa sempre ricordarsi della notte in cui è stata la mia salvezza, il mio miracolo, la mia redenzione. Buon Natale.

Una goccia d’acqua colpì la superficie del foglio, e ci volle un momento perché Hermione si rendesse conto che era una lacrima, una sua lacrima, che stava piangendo, e ridendo, e sentendo, e che non era l’unica a farlo. Alzò lo sguardo verso gli altri occupanti della stanza, ascoltando gli eccitati bisbigli, guardando Ron stringere Tonks in un leggero abbraccio, vedendo Lupin sorridere dolcemente, mentre guardava Fred e George danzare con esuberanza al centro della sala. Incrociò gli occhi di Harry, e lui le sorrise, le sorrise davvero, per la prima volta da mesi. Se le lacrime non le stessero già sgorgando, avrebbe iniziato a piangere allora.

Guardò ancora la lettera striata che aveva tra le mani, e sillabò un silenzioso grazie al suo scrittore, sebbene lui non potesse sentirla e avrebbe probabilmente deriso quella gratitudine, se avesse potuto farlo. Non era per la bellissima collana che lo stava ringraziando, nemmeno per le informazioni che avevano appena cambiato le loro vite e il corso della guerra. Quello per cui offriva i suoi ringraziamenti era lo scintillio negli occhi dei suoi compagni, l’improvvisa esuberanza che aveva avvolto la stanza, e, soprattutto, il piccolo, timido, miracoloso sorriso sulle labbra di Harry.

Il suo regalo non erano stati gioielli o segreti. Il suo Caronte li aveva raccolti dalle lande del Limbo e li aveva traghettati indietro, sul fiume Acheronte. E, nel farlo, aveva dato loro il bene più prezioso di tutti: la speranza.

Tolse gli occhi dal foglio inzuppato di lacrime tra le mani, per portarlo alle persone che parlavano, di fronte a lei, che risplendevano di una luce che aveva creduto persa per sempre. Ripiegò la lettera e si allacciò la collana intorno al collo, poi si unì a loro.

All’esterno, il vento sibilò tra le fronde luccicanti degli alberi, facendo risuonare per tutto il mondo una distante risata cristallina. Lontano, all’ombra di un antico maniero, in un giardino, tra cespugli morti e aiuole abbandonate, un singolo bocciolo di rosa fiorì, là dove qualcuno aveva pensato che nulla avrebbe mai più potuto crescere ancora. La luce del sole mattutino abbagliava, riflessa dalla fresca neve, intorno ad esso e il bocciolo, in mezzo a quell’evidenza di guerra e distruzione, continuò a prosperare.


The End

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Citazioni e idee, rubate senza vergogna: 1. “Non lo credi davvero.”/”Lo credo. ‘Felice Natale!’ Che diritto hai di essere felice? Che ragione hai di essere felice?”
Libera citazione da “A Christmas Carol” (Canto di Natale) di Charles Dickens

2. “Cosa cambierebbe se ti uccidessi? Siamo entrambi già morti” Libera citazione da Lost, telefilm

3. L’idea di lasciare i letti sfatti, tratta dalla fanfiction Room Serviced, che potete leggere qui

4. Tutte le informazioni riguardante la mitologia su Caronte e sui gironi dell’Inferno (per come sono riportati in questa fic) possono essere trovate nell’Inferno di Dante.
  
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