3
Veste un completo
sobrio in bianco e nero, che si accorda benissimo col suo carattere:
nessuna via di mezzo. Tutto buono, tutto cattivo. Istintivamente
incasso la testa fra le spalle. Questo dannato senso di inadeguatezza e
vergogna mi attanaglia da una vita, anche di fronte a lui, che non mi
ha mai giudicato. Mi ha rincorso come un pazzo, fin quasi a spezzarsi
le gambe, il giorno in cui sono stato portato via. Non voleva che me ne
andassi, anche se ero sbagliato. Ed è stata la sua mano a
vergare le poche righe che recitavano l’annullamento della mia
condanna.
Si avvicina, osservandomi.
«Sei davvero tu, fratellone?»
Mi alzo facendo spallucce. Fratellone a me, che gli arrivo a malapena al mento. Però ha ragione, il maggiore sono io.
«Potrei chiederti la stessa cosa» rispondo a mezza voce.
Mi sorride senza muoversi.
«Quindici anni…» mormora pensieroso, quasi non si rendesse davvero conto di quant’è immenso quel lasso di tempo.
La sua voce è roca e pesante. Ricorda quella di nostro padre.
«Eh, già» confermo laconico, abbassando il capo.
Restiamo lì a fissarci per quelle che sembrano ore. Intravedo a stento il cameriere girarci attorno, in attesa delle ordinazioni. Ad un tratto vorrei scappare, fuggire via e tornare da dove sono venuto. Mi domando cosa stia per succedere.
«Hai intenzione di restartene lì dietro al tavolo o vuoi uscire allo scoperto e abbracciarmi, brutta bestiaccia selvatica? Obbedisci!» ride, allargando le braccia e facendo un passo verso di me.
«Gli alberi e le erbe e ogni cosa che cresce o che vive in questa terra non hanno padrone» sbotto, come se quelle parole potessero difendermi o giustificarmi.
Perché poi? Lui sa ogni cosa.
«E tu quanto loro» osserva Soyi, azzerando la distanza e stringendomi.
Sorrido, semisoffocato contro il suo petto. Vorrei piangere, non so se di gioia o sollievo. Strofino il capo contro la sua mascella, come sarebbe giusto in un branco. Lui ricambia. Avverto il tremito di felicità che percorre entrambi. È una sensazione magnifica.
«Fatti guardare, dannazione» dice, allontanandomi un poco.
Mi squadra assottigliando gli occhi gialli, respirando piano, ma continuando ad artigliarmi le spalle con le mani immense. Sposta i capelli dalla mia faccia, passa una mano sulla guancia ispida. Cerco di fare altrettanto, finendo per concentrarmi sul pavimento.
«Fai davvero schifo» sentenzia, gettando indietro il capo per il troppo ridere. «Ti dovrò fare un restyling totale per renderti presentabile, sempre che non voglia pensarci mamma!»
«Abbi pietà» supplico, tentando di apparire divertito.
«Non ti concedo la pietà» ribatte, improvvisamente serio. «Non ti serve, anche se ne sei convinto. E non chiedermi come faccio a saperlo. Ho studiato. Il tuo caso e altri. Avete questa stupidissima tendenza ad autocommiserarvi e ad erigere mura tra voi e chi vi vuole stare accanto. Beh, fratellone, sappi che i tempi sono cambiati, è ora di uscire dalla tana e tornare a correre col branco. Pelliccia o no» e scuote con due dita la mia camicia.
Sono esterrefatto, confuso. Le parole mi sfuggono dal cervello come sabbia.
La frase in corsivo è la citazione n° 24 per la "Ipse Dixit Challenge" di Fabi_Fabi, tratta da "Il Signore degli Anelli".
Si avvicina, osservandomi.
«Sei davvero tu, fratellone?»
Mi alzo facendo spallucce. Fratellone a me, che gli arrivo a malapena al mento. Però ha ragione, il maggiore sono io.
«Potrei chiederti la stessa cosa» rispondo a mezza voce.
Mi sorride senza muoversi.
«Quindici anni…» mormora pensieroso, quasi non si rendesse davvero conto di quant’è immenso quel lasso di tempo.
La sua voce è roca e pesante. Ricorda quella di nostro padre.
«Eh, già» confermo laconico, abbassando il capo.
Restiamo lì a fissarci per quelle che sembrano ore. Intravedo a stento il cameriere girarci attorno, in attesa delle ordinazioni. Ad un tratto vorrei scappare, fuggire via e tornare da dove sono venuto. Mi domando cosa stia per succedere.
«Hai intenzione di restartene lì dietro al tavolo o vuoi uscire allo scoperto e abbracciarmi, brutta bestiaccia selvatica? Obbedisci!» ride, allargando le braccia e facendo un passo verso di me.
«Gli alberi e le erbe e ogni cosa che cresce o che vive in questa terra non hanno padrone» sbotto, come se quelle parole potessero difendermi o giustificarmi.
Perché poi? Lui sa ogni cosa.
«E tu quanto loro» osserva Soyi, azzerando la distanza e stringendomi.
Sorrido, semisoffocato contro il suo petto. Vorrei piangere, non so se di gioia o sollievo. Strofino il capo contro la sua mascella, come sarebbe giusto in un branco. Lui ricambia. Avverto il tremito di felicità che percorre entrambi. È una sensazione magnifica.
«Fatti guardare, dannazione» dice, allontanandomi un poco.
Mi squadra assottigliando gli occhi gialli, respirando piano, ma continuando ad artigliarmi le spalle con le mani immense. Sposta i capelli dalla mia faccia, passa una mano sulla guancia ispida. Cerco di fare altrettanto, finendo per concentrarmi sul pavimento.
«Fai davvero schifo» sentenzia, gettando indietro il capo per il troppo ridere. «Ti dovrò fare un restyling totale per renderti presentabile, sempre che non voglia pensarci mamma!»
«Abbi pietà» supplico, tentando di apparire divertito.
«Non ti concedo la pietà» ribatte, improvvisamente serio. «Non ti serve, anche se ne sei convinto. E non chiedermi come faccio a saperlo. Ho studiato. Il tuo caso e altri. Avete questa stupidissima tendenza ad autocommiserarvi e ad erigere mura tra voi e chi vi vuole stare accanto. Beh, fratellone, sappi che i tempi sono cambiati, è ora di uscire dalla tana e tornare a correre col branco. Pelliccia o no» e scuote con due dita la mia camicia.
Sono esterrefatto, confuso. Le parole mi sfuggono dal cervello come sabbia.
La frase in corsivo è la citazione n° 24 per la "Ipse Dixit Challenge" di Fabi_Fabi, tratta da "Il Signore degli Anelli".