Capitolo XXV
Cenammo in un’atmosfera che
aveva davvero del surreale.
Da parte mia non capivo in che modo
riuscisse a emanare sensualità
anche mentre mangiava, alternando ad ogni boccone una lunga occhiata
nella mia
direzione. Aveva inoltre acceso lo stereo per stemperare un
po’ i vuoti silenziosi,
dal quale si erano sparse delle note delicate che ci accompagnarono
durante la
cena. Tutto sommato, dopo i primi minuti imbarazzati riuscii a
intavolare una
conversazione che non fosse troppo intima e pericolosa, e che Enrico
seguì
volentieri. Stranamente riuscimmo a non parlare più di
assassini, droga, mafia
o chissà cos’altro, ma sapevo benissimo che il
discorso non era stato chiuso –
attendeva in un angolo, come un leone acquattato in attesa del momento
giusto
per balzare fuori e colpire la sua preda.
Non
finisce qui,
aveva detto anche lui. Non potevo che dargli ragione…
Dopo cena lo aiutai a sparecchiare
ignorando le sue proteste – in
quanto ospite, secondo lui, sarei dovuta restare seduta senza alzare un
dito –
ma non volle sentire ragioni per quanto riguardava il caffè,
e non me lo lasciò
preparare. Con un sospiro, mi sedetti ad uno degli sgabelli della
penisola
della cucina, poggiando il mento sul palmo della mia mano e
osservandolo mentre
combatteva con la macchinetta del caffè.
Il vero problema di Enrico era che,
vita da delinquente a parte,
lui poteva essere benissimo l’uomo perfetto, il principe
azzurro, il fidanzato
che ogni ragazza sogna di avere, un giorno. No, rettifico: quello era
il mio vero problema, dato che
avevo ancora
parecchie riserve su di lui. Va bene, non negavo di esserne attratta: e
neppure
che mi piacesse, un filino. E mi sarebbe piaciuto poter credere di
riuscire a redimerlo, portarlo via
da quel genere
di vita – insomma, comportarmi come una delle eroine di quei
romanzi harmony
che adoravo leggere nel tempo libero. Ma purtroppo, a diciotto anni
suonati,
sapevo che c’era molta, forse anche troppa differenza tra la
vita immaginaria,
fittizia di quelle protagoniste innamorate e quella vera, dove io,
volente o
nolente, mi ritrovavo a vivere. Chi non sogna una vita da commedia
americana,
con lieto fine annesso?
Comunque, per il momento non volevo
pensarci. In fondo avrei anche
potuto farmi bastare l’attrazione che provavo nei suoi
confronti per cedere e
mettermi insieme a lui, no? Almeno per i primi tempi sarebbe bastato
quello.
Dopotutto le persone non si fidanzano perché sono ciecamente
innamorate, ma
perché trovano bella e interessante l’altra
persona, abbastanza per
giustificare questa scelta; non credevo particolarmente nel colpo di
fulmine,
quella era roba da film e romanzi rosa. L’affetto o
l’amore, nella realtà,
viene col tempo, se la situazione regge e sembra durare più
del previsto.
Dunque, perché io non avrei dovuto fare lo stesso?
Ve lo dico io, il perché.
Perché non era quello che volevo per me,
perché non era così che me lo immaginavo e
perché, malgrado tutte le mie belle
parole ciniche e realiste, io aspettavo davvero il vero amore, o
perlomeno
qualcosa che ci andasse vicino. E mi sarebbe piaciuto fidanzarmi con
qualcuno
di cui sarei stata davvero
innamorata, qualcuno che mi avrebbe fatto battere il cuore
semplicemente
standomi accanto e che, magari, non mi avrebbe imposto la sua presenza
ma
avrebbe aspettato pazientemente che io mi abituassi e che la
desiderassi
davvero. E invece eccomi lì, intrappolata in quella
situazione con Enrico senza
alcuna apparente via di scampo. Che cosa diavolo ci si aspettava che
facessi?
“Ecco il tuo
caffè”, disse il protagonista dei miei cupi
pensieri,
posando davanti a me una tazzina di caffè nero e bollente.
“Quanto zucchero?”
Mi riscossi rapidamente, sollevando
gli occhi su di lui e
sbattendo le palpebre per tornare alla realtà. Svegliati Giulia che la guerra è finita!
“Ah, sì, due cucchiaini”,
risposi, raddrizzandomi e schiarendomi la voce.
Le sue labbra si stesero in un
sorriso, mentre versava lo zucchero
nel mio caffè. “Oh, ti piace molto dolce, eh?
Chissà perché l’avevo
immaginato…” Aggiunse con voce suadente, sedendosi
sullo sgabello di fronte a
me. Osservai quanto zucchero ci metteva lui, e storsi appena il naso
nel vedere
che ne versava appena mezzo cucchiaino, giusto un assaggio.
“A te invece piace molto
amaro, vedo. Anch’io l’avevo immaginato”,
ribattei, decisa a non voler perdere più nessuna piccola
battaglia verbale. Se
mi provocava, avrei iniziato volentieri a comportami allo stesso modo.
Gli sfuggì una risatina,
prima che arricciasse le labbra – santo
cielo! – e mi guardasse piegando
la testa di lato, come se avesse voluto studiarmi con attenzione.
“Ma io non
sono amaro”, obiettò, con l’aria di un
bambino appena rimproverato dalla madre.
Borbottai qualcosa di incomprensibile
con un tono piuttosto
scettico, mentre giravo il cucchiaino nella tazza e osservavo il nero e
fumante
caffè come se fossi ipnotizzata dal movimento circolare che
faceva la bevanda.
Bisognava sempre vedere tutti i punti di vista, d'altronde a me piaceva
il
cioccolato fondente che era piuttosto amaro, no?, quindi non credevo
che fosse
un male che lo fosse anche lui. Questa riflessione, comunque, vidi bene
di tenerla
per me.
Sorseggiai il caffè
cercando di non incrociare lo sguardo di
Enrico, comportandomi davvero in modo infantile. Posai nuovamente la
tazzina
sul piattino e passai leggermente la lingua sulle labbra per portar via
il
sapore del caffè, osservando un punto imprecisato sul tavolo
sovrappensiero.
Avevo così tanti pensieri per la mente che non mi sembra il
caso di ripeterli
nuovamente, erano sempre gli stessi espressi con altre parole. Mi
sfuggì un
sospiro che non riuscii a soffocare.
“Vorrei baciarti.”
I miei occhi saettarono su di lui e
contemporaneamente mi sentii
le guance in fiamme. “Cosa?” Balbettai imbarazzata;
non poteva dire cose del
genere all’improvviso e con quel
tono, santo cielo!
Vidi le sue labbra arcuarsi in un
sorriso malizioso, mentre posava
il mento sul palmo della mano e mi osservava quasi bramoso.
“Ho detto che
vorrei baciarti”, ripeté senza alcun riserbo.
Perché lui sembrava sempre così
tranquillo e a suo agio, anche quando il mio cuore voleva saltare fuori
dalla
mia gabbia toracica e darsela a gambe?
Cercai di riprendermi e trovare una
risposta abbastanza pungente
da metterlo a tacere, ma non era facile con lui che mi guardava in quel
modo. “Sì,
beh, anche io vorrei una collana di diamanti ma non è detto
che la possa
avere…” Replicai poco convinta, aggrottando le
sopracciglia.
Enrico non si lasciò
intimidire e il suo sorriso si accentuò
ancora; si sollevò sullo sgabello, posando le mani sul
ripiano della penisola
per mantenersi in equilibrio e si chinò veloce verso di me,
avvicinandosi
pericolosamente alle mie labbra. “Potrei regalartela per
Natale, chi lo sa”,
mormorò suadente, prima di coprire la mia bocca con la sua.
Mi ritrovai a chiudere gli occhi e
socchiudere le labbra come se
non stessi aspettando altro, sporgendomi verso di lui e facendo aderire
meglio
le nostre bocche. Gemetti appena quando la punta della sua lingua
accarezzò
maliziosa il mio labbro inferiore prima che iniziasse a mordicchiarlo
piano, con
insolita prudenza, come se temesse di esagerare e allontanarmi di nuovo
da lui.
Maledissi per un istante il mio corpo che contraddiceva le mie
convinzioni
ragionate e inattaccabili, ma fu una protesta troppo effimera che
evaporò del
tutto quando la sua lingua si insinuò tra le mie labbra,
andando alla ricerca
della mia.
Le mie mani cercarono alla cieca le
sue, per poi giocherellare con
le sue dita fino a intrecciarle alle mie, cercando di trattenermi
dall’immergergliele tra i capelli. Sollevai il viso per
andargli incontro e
approfondire meglio il bacio, chiudendo gli occhi – forse per
fingere che non
fosse lui a baciarmi, ma malgrado tutto mi resi conto di non aver
nessun altro
in mente con cui avrei voluto sostituirlo. Cercai di ignorare i feroci
battiti
del mio cuore – speravo che lui non potesse sentirli
– e mi rilassai solo quando
la sua bocca mi diede un po’ di tregua, allontanandosi da me
quel tanto che
bastava per lasciarmi respirare.
“Sai di
caffè”, disse piano, con una strana vena
intenerita nel
tono. Lo vidi leccarsi impercettibilmente le labbra, ma eravamo troppo
vicini
perché io non notassi quel gesto; così, arrossii
per l’ennesima volta. Stava
iniziando a diventare un’abitudine.
“Parlami di tua
madre.”
Dopo il famoso caffè ci
eravamo spostati sul divano, pur senza
metterci eccessivamente comodi; eravamo seduti ai lati opposti del
sofà che
comunque era piccolo, ma non mi sembrava il caso di abbracciarlo o
sdraiarmi
contro di lui o altre posizioni simili. Insomma, eravamo abbastanza
vicini da
giustificare quanto appena successo ma abbastanza lontani da non
implicare eccessivi
risvolti amorosi. Ormai non sapevo
più come comportarmi – mi sentivo pericolosamente
vicina allo scacco matto, e
il re in pericolo non era di certo il suo – ma rimanevo
comunque dell’idea che
avrei dovuto andarci con i piedi di piombo, in qualsiasi modo si
sarebbe
evoluta l’intera situazione. Avevo pensato che chiedergli
qualcosa di lui,
qualcosa che non riguardasse la sua attività,
sarebbe potuto essere un buon modo per fare conversazione e conoscerlo
un po’
di più, e visto che quella domanda mi perseguitava dal
momento stesso in cui me
ne aveva parlato, mi sembrò normale affrontare il discorso.
Probabilmente fu il tono quasi dolce
con cui glielo avevo chiesto
a farlo sorridere in quel modo, ma fu un sorriso debole che non aveva
la carica
maliziosa di quelli che ero abituata a vedere e che svanì
fin troppo
rapidamente. Compresi che forse avevo esagerato con quella domanda, non volevo metterlo in difficoltà e
quello
doveva essere un tasto dolente, per cui malgrado
l’imbarazzo cercai di
porvi rimedio.
“Scusa, Enrico, forse non
è il caso… Lasciamo perdere,” aggiunsi
esitante, indecisa se allungare una mano verso di lui o meno.
Lui scosse la testa e decise al posto
mio, sporgendosi verso di me
e prendendo la mia mano per stringerla, massaggiandone il dorso con il
pollice
e accennando l’ennesimo sorriso. “No, puoi
chiedermi tutto quello che vuoi”,
ribatté con un tono di voce pacato, senza guardarmi.
“È che non parlo molto
spesso di lei; con mio padre è fuori questione affrontare
certi discorsi, e con
Betta non oso neanche perché non voglio che fraintenda le
mie parole. E per
quanto riguarda i ragazzi, beh, non posso di certo farmi vedere
debole.”
Stavo già per ribattere a
quell’ultima affermazione, quando la sua
espressione mi fece chiaramente capire che stava scherzando;
così scossi appena
la testa e cercai di ricambiare il suo sorriso, avvicinandomi di
più a lui fin
quando le nostre gambe non si toccarono – a quel punto non
potei che
ringraziare silenziosamente il cielo per avermi fatto indossare i
pantaloni.
Erano se non altro una garanzia.
“Se ne vuoi parlare, io ti
ascolto”, gli proposi gentilmente,
scambiando i ruoli delle nostre mani e ritrovandomi ad essere io ad
accarezzare
la sua. Lui la strinse e io mi misi comoda, permettendogli di
aggrapparsi alle
mie dita come avrebbe fatto un naufrago perso in mezzo alla tempesta;
probabilmente anche lui era perso, in balia di quei ricordi che
l’avevo
costretto a rispolverare. Il minimo che potessi fare era offrirgli
metaforicamente la mia spalla, nello stesso modo in cui mi aveva
consolato lui
quando era morto mio nonno. Solo, mi chiedevo se sarei stata
così disponibile e
comprensiva nei suoi confronti anche se non ci fossimo mai baciati; chi
poteva
saperlo?
Enrico annuì appena, come
se stesse raccogliendo i pensieri.
“Mia madre è
morta a causa di un tumore; un cancro al fegato”,
esordì di punto in bianco, con un cambio di tono
così repentino da farmi
sobbalzare sul divano. Dopodiché iniziò a
raccontare senza quasi riprendere più
fiato, come un fiume in piena – come se avesse atteso anni e
anni prima di
parlare di questa cosa e adesso non gli sembrava vero di potersi
confidare con
qualcun altro. Come aveva fatto a tenersi dentro quel dolore per tutto
quel
tempo?
“Aveva un cancro al fegato
impossibile da operare, così l’unica
soluzione proposta dai medici era stata la chemioterapia; le aveva dato
tutti
gli effetti collaterali possibili, ma tutto sommato era sembrato
funzionare.
Neanche cinque mesi dopo, però, gli ultimi esami del sangue
che mia madre
faceva periodicamente risultarono essere di nuovo compromessi; eravamo
sotto
Natale, per cui mamma preferì rimandare l’inizio
della nuova terapia a dopo le
feste. In quel periodo si indebolì parecchio,
così al primo ciclo di chemio si
sentì molto male e rimase ricoverata in ospedale per oltre
due settimane. Andai
a farle visita poche volte, ero piccolo e mio padre non voleva che la
vedessi
in quelle condizioni; non so cosa pensare di questo, so solo che adesso
rimpiango di non aver potuto trascorrere anche quei giorni al suo
fianco. Andò
avanti così per oltre un anno; mia madre faceva in
continuazione la spola da
casa all’ospedale, era sempre più debole, e a
volte i dottori erano costretti a
posticipare la terapia per permetterle di riprendersi tra un ciclo e
l’altro,
anche se poi a quello successivo i problemi si ripresentavano.
“Sai, il brutto delle
malattie che colpiscono il fegato è che
influiscono anche sull’umore; puoi immaginare quindi che cosa
potesse fare un
cancro simile. Era sempre arrabbiata, scattava per un nonnulla, si
offendeva e
non riusciva ad essere dolce neanche con me; purtroppo non ho
conservato molti
bei ricordi di mia madre, proprio a causa di questo periodo –
credevo che
avesse smesso addirittura di volermi bene”, aggiunse
abbassando ancora di più la
voce, con una punta di rammarico. La sua mano strinse la mia con forza
ma non
mi lamentai, ormai del tutto immersa nel suo racconto e nel suo dolore;
non
riuscivo neppure a concepire una cosa simile, immaginare mia madre in
quella
situazione… Mi faceva male solo il pensiero.
“È morta senza
che io riuscissi a dirle una volta sola quanto…
Quanto fosse importante, per me”, continuò in un
mormorio che mi straziò il
cuore. Sollevò la mano libera a massaggiarsi e stringersi le
tempie, con un
gemito misto ad un sospiro che mi spinse ad avvicinarmi di
più a lui.
Non sapevo che cosa dire;
d’altronde, che parole potevano esserci
per cercare di consolare una simile sofferenza? Adesso capivo
perché Enrico non
mi aveva mai raccontato nulla di tutto questo; primo, non avevamo
ancora un
rapporto tale che giustificasse una simile intimità, e
secondo, probabilmente
aveva ragione lui quando mi aveva spiegato che avrei potuto cambiare il
modo di
vederlo e di rapportarmi a lui, se l’avessi saputo. Non
voleva che iniziassi ad
uscire con lui per pietà, e come dargli torto? Malgrado
tutto, adesso mi
accorgevo che mi sarebbe dispiaciuto da morire se non gli avessi dato
neppure
quella piccola possibilità.
In quel momento, per la prima volta,
mi sentii sola – fu come
un’improvvisa e inattesa presa di coscienza di ciò
che mi circondava.
Non era il tipo di solitudine triste e
devastante di chi non ha
nessuno, ma piuttosto quella pacata, rilassante, quasi confortevole di
chi è in
pace con se stesso e non ha paura di esserlo. Fino a quel momento avevo
sempre
contato molto su Alessandra e i miei amici, sui miei genitori, sulla
mia
famiglia, ma ora mi rendevo conto di essere completa, di non aver
bisogno
dell’approvazione di chicchessia o di chiedere il permesso
alla mia migliore
amica per frequentare qualcuno – cosa che, di fatto, era
accaduta fino a quel
momento. E in tutta quella completezza, in questo nuovo stadio delle
cose,
potevo essere abbastanza forte da gestire tutta la faccenda-Enrico
– da
gestirla da sola.
Anche se continuavo ad essere
dell’idea che fosse improbabile che riuscissi
ad amarlo quanto, invece, sembrava amarmi lui, niente mi impediva di
continuare
a frequentarlo. In fondo poteva diventare un capitolo interessante
della mia
vita, qualcosa che, negli anni a venire, avrei ricordato con un certo
divertito
piacere.
Mi riaccompagnò a casa
molto più tardi – erano quasi le due e
mezzo del mattino.
Dopo quella breve parentesi sul suo
dolore, avevo cercato di
tirargli su il morale e a quanto pare ci ero riuscita, così
ci siamo trovati a
bere vodka alla fragola nella biblioteca mentre giocavamo a carte e
parlavamo
del più e del meno. Non avevo mai riso tanto in sua
compagnia – ma non voglio
essere così ipocrita da attribuire la colpa della mia
allegria all’alcool,
anche perché lo reggo piuttosto bene – e anche se
sia Ale che il resto della
cricca potevano pensare che non era possibile trascorrere quasi sette
ore a
casa di un ragazzo, di notte, senza andarci a letto, quello era
esattamente ciò
che era successo.
Sul fatto che Enrico fosse un
gentiluomo, da quel punto di vista,
non si discuteva.
Per quanto di tanto in tanto
l’avessi scorto ad osservarmi in un
modo non del tutto amichevole, non
aveva cercato di provarci neppure quando lo avevo abbracciato, dopo che
si era
confidato con me. Rispettava le mie convinzioni – anche se
non le condivideva –
e sembrava essersi rassegnato al fatto che io, per il momento, potessi
concedergli solo baci e carezze. Cosa che invece non aveva fatto
Matteo, il cui
maldestro tentativo di approccio nei miei confronti si era rivelato
essere un
fallimento su tutti i fronti e aveva, oltretutto, rovinato sia la
nostra
amicizia che il clima del nostro bel gruppo.
Avevamo appena finito di ridere dopo
il mio ennesimo aneddoto riguardo
le avventure di quando ero piccola; ormai le avevo inventate tutte pur
di
risollevargli l’umore, e in fondo non trovavo ci fosse
qualcosa di imbarazzante
nelle bambinate che avevo combinato negli anni precedenti e subito
successivi
alla nascita di mia sorella – e Enrico d’altra
parte sembrava trovare fin
troppo divertente l’idea del terremoto che ero stata un tempo
per non
approfittare dell’occasione di rivederlo sorridere.
L’atmosfera tetra che c’era
stata a casa sa si era quindi diradata, permettendoci di concludere la
nostra
uscita in bellezza.
Parcheggiò dietro
l’auto di mia madre e spense il motore, mentre
l’eco
delle risate si spegneva nell’abitacolo che veniva lentamente
invaso dall’oscurità;
solo il lampioncino crepuscolare che mio padre aveva installato nel
parcheggio
ci permetteva di vedere ancora parte dei nostri volti.
“Allora… Grazie
della bella serata”, disse alla fine Enrico,
incerto – suppongo – su come salutarmi.
Decisi di levargli
l’impiccio di dover anche pensare a qualcosa
che non mi ‘offendesse’ eccessivamente, visto che
non mi sembrava il caso di
continuare con quella specie di messinscena. “Grazie a te
della cena, era tutto
ottimo”, replicai con un sorrisetto rilassato mentre cercavo
di sganciare la
cintura difettosa.
Lo vidi inarcare un sopracciglio nella
penombra della macchina.
“Ma se in pratica hai cucinato tutto tu!”
Ribatté fingendosi contrariato.
“Lo so, appunto”,
ribadii ostentando un tono di falsa modestia.
La sua ennesima risatina mi
lasciò talmente compiaciuta che mi
ritrovai a sbattere le palpebre, perplessa per quella piega che aveva
preso
l’intera faccenda e che un tempo avrei catalogato senza
pensarci due volte come
indesiderata. Si trattava di una
piega decisamente troppo intima e disinvolta, che ero certa mi avrebbe
fatto
rimuginare come un’anima in pena per il resto della nottata.
E del giorno dopo.
E di quello successivo…
“Bacio della
buonanotte?” Chiese, imbronciando le labbra e
atteggiando gli occhi in quello che comunemente si definirebbe uno sguardo da cucciolo bastonato.
Fu il mio turno di ridacchiare,
scuotendo appena la testa. “Con
tutti i baci della buonanotte che ti sei fatto dare stasera, potresti
andare a
dormire tranquillo per i prossimi due mesi”, risposi,
mostrandomi tutta
impegnata nell’infilare la giacca per nascondergli un
sorrisetto.
“E dai, non essere
antipatica. Ho messo un tetto sulla tua testa,
ti ho nutrita…” Iniziò, elencando i
suoi gesti di buon Samaritano sulla punta
delle dita e inarcando le sopracciglia con fare compito.
“Mi hai fatto quasi
ubriacare…” Aggiunsi sul suo stesso tono,
prendendolo in giro.
A quella risposta si mostrò
indignato. “Non è colpa mia se ti piacciono
gli ammazzacaffè!”
Risi ancora, voltandomi completamente
contro di lui e poggiando
comodamente la spalla contro lo schienale del sedile. “Dimmi
che non stiamo
facendo tutto questa storia solo per un bacio”, scherzai,
storcendo il naso.
“No, non per un bacio.
Almeno per cinque”, precisò serio.
“Da quando in qua sono
diventati cinque?”
“È
l’inflazione, tesoro. Dai, dammi un
bacio…” Insisté, sporgendo
tutto il busto in avanti con un sorrisetto sensuale al quale era
impossibile
resistere anche volendo – e io avevo già resistito
abbastanza. Non mi ero accorta
che anche lui si fosse tolto la cintura, la qual cosa lo rendeva
più libero e
fluido nei movimenti. Arricciai le labbra come una bambina e sfiorai le
sue
labbra con le mie con un bacetto casto e schiocco enfatizzato, che
tuttavia non
lo soddisfò come speravo. Dischiuse solo un occhio per
ammonirmi e sollevò una
mano insinuandola tra i miei capelli, approfittando di quella presa
delicata
per avvicinarmi a sé e prendere definitivamente il controllo
della mia bocca. La
sua lingua ne seguì il contorno con studiata lentezza, cosa
che mi fece socchiudere
le labbra per assaporarlo meglio e permettergli inconsciamente di
approfondire
il contatto – cosa che non si fece ripetere. Ad ogni affondo
nella mia bocca si
staccava appena per sospirare, a mezza voce, un numero: come promesso
al cinque
si ritrasse, proprio quando io invece avevo iniziato a prenderci gusto.
“Non
c’è cinque senza sei”, borbottai senza
senso, afferrando il
bavero della sua camicia e strattonandolo per tirarlo di nuovo contro
di me. Mi
fermai soltanto quando sentii le sue dita insinuarsi dentro la giacca e
al di
sotto della maglietta, a contatto con il fianco nudo: il contatto della
sua
pelle gelida contro la mia, bollente, mi fece rabbrividire e mi
riportò con i
piedi per terra, facendomi staccare quasi con la forza da lui e
strappandogli
di conseguenza un brontolio contrariato.
“Okay. Vado.
Buonanotte”, balbettai, indietreggiando verso lo
sportello e afferrando alla cieca la levetta che l’avrebbe
aperto. Una volta
fuori dalla macchina mi ritrovai a barcollare appena sui tacchi,
disabituata quasi
a stare in equilibrio sulle mie gambe, e mi allontanai verso la veranda
di casa
mia mentre sentivo Enrico accendere il motore e fare manovra per uscire
dal
vialetto di casa. Rimasi a guardarlo appoggiata ad un pilastro fin
quando non
vidi i fari posteriori dell’auto sparire dietro
l’angolo, e quando ciò accadde
sentii uno strano fremito lungo la schiena e nel basso ventre,
nonché un senso
di vuoto all’altezza del petto.
Poteva essere un gentiluomo e tutto il
resto, ma non dovevo
dimenticare che era pur sempre un uomo giovane con i suoi bisogni e i
suoi desideri:
fino a quando avrei potuto tirare la corda, con lui? Non mi sentivo
ancora
pronta per quel passo, volevo
essere
sicura, volevo esserne certa, volevo avere la sicurezza che non me ne
sarei
pentita dopo… Oh, diavolo.
La verità
era che io non la volevo una relazione seria con un
delinquente, e se ci fossi andata a letto questo era proprio
ciò che avrei
ottenuto. Ma la parte peggiore di tutto questo – che io non
sopportavo –
riguardava senza dubbio il fatto che Enrico mi stesse facendo cambiare
idea al
riguardo!
____________________________________________________________________________________________________________________________________________________________
AA - Angolo Autrice:
Pubblico questo capitolo praticamente senza rileggerlo, perchè se lo facessi non lo pubblicherei più visto che non ne sono soddisfatta, dunque non ho controllato se ci sono incongruenze o grossi errori grammaticali; abbiate pietà.
Arrivo ad aggiornare con un ritardo talmente terribile che, se scrivessi per lavoro, sicuramente sarei già licenziata già da tempo e questa non sarebbe una cosa da scrivere tra le mie credenzialità. Vi chiedo immensamente scusa, ma sappiate che non mi sono "grattata" in tutto questo tempo, ma ho avuto i miei buoni motivi per assentarmi dagli schermi - anche se avrei preferito di gran lunga non averli. Comunque non è qualcosa su cui vi voglio tediare, perciò amici come prima e facciamo finta di niente! ;D
Passando alla storia. Probabilmente visto l'attesa che avete dovuto sopportare vi sareste aspettate un capitolo lungo chilometri, pieno zeppo di colpi di scena (o perlomeno di tanto sesso) e mi rincresce davvero avervi dovuto deludere anche stavolta. Non so se per il sesso siamo lontani o vicini, e non ve lo so dire neppure per i colpi di scena, ma posso assicuravi che cercherò di non far mancare nè l'uno nè gli altri! xD Al momento godetevi questo ennesimo capitolo di passaggio (dove, spero, la nostra protagonista sia riuscita ad aprire un po' di più gli occhi e il cuore ad Enrico - alle gambe penseremo poi - oggi sono in fase zozza, scusatemi!) in attesa dell'altro che, devo ammettere, non ho ancora iniziato a scriverlo e pertanto non posso promettervi che ci sarà presto. Comunque cercherò di fare il possibile per muovermi!
Adesso vi saluto, scappo dalla folla inferocita che credo si sia formata al di là dello schermo, vi saluto con un bacio per ammansirvi e - spero - ci sentiamo presto!
PS: Per qualche astruso motivo a me ignoto, la casella di posta di EFP non mi funziona molto bene, per cui ricevo in ritardo mail e risposte e finisco per sembrare maleducata. Proprio ieri ho ricevuto una mail risalente a settembre, per cui... Se volete scrivermi, chiedermi qualcosa, o semplicemente per incitarmi ad accelerare nel pubblicare i miei aggiornamenti (xD) potete contattarmi tranquillamente su Faccialibro!
Di nuovo con affetto, vostra
Niglia.