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Autore: Lady Vibeke    15/11/2011    5 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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23. SHAR CARAS

 

The only thing you can rely on
Is that you can’t rely on anything

– Plasticine, Placebo –

 

 

Lo schianto contro una superficie dura tagliò il respiro di Shin in gola. Non aveva battuto la testa, per fortuna, ma la sua spina dorsale era un unico flusso di stilettate accecanti che si diramavano in tutta la schiena. Era buio e non riusciva a vedere niente; sentiva solo degli ansiti appesantiti accanto a sé in cui distinse qualcosa della voce di Lucius.

Una cosa, comunque, era più che certa: non erano nella piazza di Aurin e con ogni probabilità non vi erano nemmeno lontanamente prossimi.

Che diavolo è successo?

– Shin? –

La voce di Lucius gli giunse come un sibilo strozzato.

– Sto bene – rispose, e si accorse che la sua stessa voce non suonava poi tanto meglio. Si tirò su a fatica, la schiena che doleva come se fosse precipitato da un dirupo. Aveva un gomito che sanguinava e la sgradevole sensazione che non avrebbe mai più respirato normalmente, ma si fece forza. Aiutò l’amico a tirarsi su e, appena i suoi occhi si abituarono all’oscurità, si accorse che anche lui era ferito: un taglio verticale si era aperto sulla tempia destra e il sangue gli imbrattava metà del viso, scendendo lento ma costante.

– Dove pensi che siamo finiti? – gli chiese. Aveva provato a guarirgli il taglio con la magia, ma non aveva funzionato, quindi si era dovuto accontentare di tamponarglielo con un fazzoletto che aveva in tasca fino a che l’emorragia si era arrestata.

– Non ne ho idea – rispose Lucius con un gemito sommesso.

Alzandosi in piedi, scoprirono che il soffitto era alto quanto bastava per consentire loro di stare eretti. Si trovavano in un cubicolo molto piccolo, chiuso da muri su tre lati e da una grata massiccia sul quarto.

Una cella.

– In gabbia! – esclamò Lucius, incredulo, le mani aggrappate alle sbarre come a volersi accertare che non fosse solo un’allucinazione. – Tutto questo non ha senso! –

Shin era d’accordo. I Portali erano strutture efficienti, la cui funzionalità era regolarmente verificata, e se proprio mostravano qualche difetto, un ignaro utente rischiava di concentrarsi su una determinata città di destinazione e ritrovarsi invece teletrasportato da tutt’altra parte. Ma il punto era quello: i Portali non avevano collegamenti a residenze private. A parte i sette sbocchi esclusivi sulle sedi dei diversi Nuclei, a cui comunque avevano accesso solo i membri ufficiali dotati della loro Stella, tutte le comunicazioni tra Portali portavano solo ed esclusivamente in punti strategici delle città in cui erano collocati. Era pressoché impossibile che un Portale sfociasse in un posto simile.

A meno che qualcuno di veramente molto abile non ci mettesse mano.

– Dove saranno Regan e Soile? – si chiese ansioso.

Lucius si appoggiò con la fronte alla grata e sospirò.

– Non qui. Soile ha gridato qualcosa, mentre io stavo passando, e mi sono sentito strappare via Regan dalla mano. Ha capito che qualcosa non andava e l’ha portata al sicuro. –

Dalla vibrazione nel suo tono, Shin capì che si stava sforzando con tutto sé stesso di crederci, ma non ne era del tutto convinto.

Perquisirono la cella alla ricerca di un punto debole o perlomeno una pietra smossa che potesse permettere loro di vedere qualcosa di diverso dalla parete su cui si affacciava la grata, la quale, peraltro, era priva di serratura. Sigilli molto potenti erano stati posti a vegliare su quel luogo e Shin aveva anche l’orribile sospetto che qualcuno di essi stesse assorbendo le sue forze, oltre che inibendo sensibilmente i suoi poteri.

– Lo sento solo io? – chiese, mentre la sua vista iniziava a sdoppiarsi.

– No – rispose Lucius, senza nascondere un accenno di panico. – Chiunque ci abbia catapultati qui, aspettava gente di un certo livello e ha preso delle ammirevoli precauzioni. –

Non un suono trapelava nei dintorni. Le sole cose percettibili erano l’umidità e un intenso lezzo di muffa misto a qualcos’altro su cui Shin preferiva non interrogarsi.

Il suo corpo, intanto, stava perdendo vigore e le gambe non lo reggevano più stabilmente. Si appoggiò a una parete con la schiena ancora dolorante. Che a lui venisse in mente, c’era un solo luogo nel Mondo Occulto che potesse essere così impenetrabilmente buio, umido e maleodorante.

– Pensi anche tu quello che penso io? – disse all’amico.

Lucius gemette accasciandosi accanto a lui, affaticato come uno che aveva appena spostato un monte, e Shin lo intravide annuire.

– Le catacombe di Medilana. –

Rimasero in silenzio per qualche minuto, credendo di aver sentito qualcuno avvicinarsi, ma uno squittio denunciò la presenza di un topo nelle vicinanze. Ce n’erano parecchi, là sotto.

– Di questo passo, entro pochi minuti saremo completamente esausti –

Lucius aveva ragione: non sapevano cosa aspettarsi da chiunque li avesse imprigionati lì dentro e avrebbero avuto ancora meno possibilità di fuggire se fossero rimasti stremati.

Se non altro, Regan era riuscita a scampare a quella subdola trappola.

Sempre più indebolito, Shin si lasciò scivolare verso il pavimento e mentre lo faceva si accorse che qualcosa gli sbucava dalla tasca del farsetto. Vi accostò la mano, accigliato, e quando capì di che cosa si trattava ebbe un sussulto di speranza.

– Lucius, avvicinati – sussurrò cautamente. – Mi è venuta un’idea. –

 

 

L’aria la investì in pieno viso proprio l’istante prima che perdesse conoscenza. Sputò acqua gelida con forti colpi di tosse che le graffiarono i bronchi e i polmoni faticarono a riprendere a respirare.

Non vedeva niente: aveva i capelli incollati al viso e sugli occhi e, anche se così non fosse stato, era così stordita dal freddo insopportabile che dubitava sarebbe riuscita a distinguere qualche forma.

Qualcosa l’aveva afferrata e strappata alle acque glaciali quasi senza che lei se ne rendesse conto. Si era sentita quasi una spettatrice estranea quando aveva visto le luci sfocate avvicinarsi sempre più, ma poi lo specchio sopra di lei si era infranto e come d’incanto era tornata in sé, mentre l’aria le si riversava dentro come vita che riprendeva possesso di un corpo riconquistato per un soffio.

Una voce le parlò, ma non riuscì a comprendere le sue parole. Erano troppo lontane, troppo deboli, e lei voleva solo chiudere gli occhi e abbandonarsi alla stanchezza che la stava cogliendo.

 – Regan! Avanti, apri gli occhi! –

Uno schiaffo esitante le colpì il viso, poi un altro, più deciso, e un terzo ancora.

I suoi occhi, di malavoglia, si riaprirono su un paio di occhi di cristallo verde chiaro.

– Soile? – riuscì a farfugliare, ma non poteva giurare di aver articolato correttamente ciò che il suo cervello aveva formulato, perché le labbra erano insensibili e il mento le tremava. Inoltre la pelle della faccia le bruciava da impazzire.

– Va tutto bene? Riesci a stare in piedi? – fu tutto quello che le rispose la donna, aiutandola a tirarsi su. Le nubi di vapore provocate dai loro respiri erano dense quasi come nuvole vere.

Regan ci provò: vacillò per un po’, sorretta dalle braccia dell’altra, ma alla fine in qualche modo riuscì a trovare un buon equilibrio.

– Tieni, mettiti questo. –

Soile si tolse il mantello e glielo avvolse intorno. La parte inferiore era fradicia, ma la parte superiore era asciutta e calda. Evidentemente la proprietaria era riuscita a non cadere miseramente nell’acqua.

Naturalmente.

– E voi come farete? – protestò debolmente lei, anche se per nulla al mondo avrebbe voluto essere privata del misero conforto di quel mantello sul suo corpo intirizzito.

– Io non posso ammalarmi. Tu ne hai più bisogno di me. –

Regan rammentò che Prince le aveva accennato a qualcosa al riguardo.

Stirpe Leljen: bellezza, salute, potere.

Si avvolse nel mantello, limitandosi a ringraziare.

Di Lucius e Shin non c’era nessuna traccia e non aveva idea di cosa potesse essere accaduto loro. Tutto ciò che riusciva a ricordare era che a un certo punto, nel caos, una mano l’aveva agguantata e subito dopo si era sentita precipitare nel vuoto, e poi sprofondare in un crudele abbraccio di acqua ghiacciata.

Si guardò attorno, spaesata e tremebonda: non era un torrentello, come aveva creduto all’inizio, ma un vero e proprio lago, profondo solo abbastanza da lambirle metà coscia, e si estendeva tra gli alberi a perdita d’occhio nel buio, inghiottendone le radici e la parte inferiore dei tronchi sotto la sua lustra superficie. E la cosa più incredibile era che a molti degli alberi erano state legate delle lanterne colme di manciate di lucine colorate, che fluttuavano dietro ai vetri come lucciole senza ali, rispecchiandosi nell’acqua in mille riflessi cangianti. Regan ricordava di aver visto cose del genere a illuminare le strade di Shjarna e solo pochi giorni prima sui soffitti del palazzo di Kauneus, al ballo del Solstizio, ma aveva supposto che fossero frutto di qualche magia, mentre invece lì sembravano inspiegabilmente qualcosa di vivo.

Signore e padrone di quella foresta d’acqua era il silenzio.

– Dove siamo? – chiese in un tremito.

Lo sguardo serio di Soile scandagliò lo spazio circostante, come per accertarsi che nei paraggi non ci fosse nessun altro. A lei l’acqua arrivava poco sopra al ginocchio e il tessuto zuppo della gonna le aderiva fin quasi alla vita, disegnando una figura giovanile, tonica e ben tornita.

– Questa è Turne, la Foresta nel Lago della Terra di Astereis–

– Dove sono Shin e Lucius? – Non sapere cosa fosse capitato a loro due la faceva impazzire.

– Non lo so. Ce la fai a camminare? –

Regan la ignorò deliberatamente.

– Dobbiamo tornare indietro a cercarli! –

– Inutile, non li troveremmo. Il Portale è stato manomesso, potrebbero essere ovunque. Ora ti consiglio di abbassare la voce: agli alberi non piace essere disturbati. –

Suo malgrado, Regan tacque. Era proprio il genere di stranezza che le avrebbe detto Lucius.

– Allora, ce la fai a camminare? –

– Credo di sì. –

Cercò di muovere qualche passo, ma era difficile, con l’acqua così alta a intralciarla. Solo allora si rese conto che non c’era terraferma nei dintorni.

– Di solito si gira in barca per questa foresta. Ma non siamo lontane dalla nostra destinazione – le spiegò Soile, forse intuendo la sua perplessità. La sua perspicacia era acuta come quella di Shin e invadente come quella di Lucius.

– Posso farcela – dichiarò Regan, che non aveva nessunissima intenzione di fare la figura della debole e ancor meno essere di peso.

Si misero in marcia. Soile avanzava cauta ma costante nel labirinto di snelli alberi scuri e sembrava seguire un percorso preciso che però Regan non avrebbe saputo individuare. Notò che guardava spesso in su e intuì che c’entrassero qualcosa le lanterne, ma non vedeva nulla di particolare in nessuna di essere che potesse indicare la via.

– Mia nonna mi raccontava spesso delle fiabe su questo posto. Diceva sempre che per orientarsi nell’acqua bisogna seguire l’acqua – le disse Soile.

Regan non capì il senso di quella frase.

– Cosa sono quelle sfere luminose? –

– Semi dell’Albero Ombra. Rappresentano ciascuna vita che dimora in questo mondo. Quando uno perde la sua luce, significa che una vita si è spenta –

Qualcosa cambiò nell’espressione di Soile, oscurandola solo per un momento. Poi le ciglia scure si abbassarono sugli occhi lucidi e quando si risollevarono era tutto cancellato, tanto che a Regan venne il dubbio di esserselo solo immaginata.

Non sapeva stimare quanti esseri viventi ci potessero essere sulla faccia della terra, ma di certo non potevano limitarsi alle poche centinaia di lumicini che riempivano a scarse manciate le lanterne che rilucevano ovunque sui loro alberi.

Regan fece del suo meglio per tenere il passo, ma già dopo pochi minuti iniziò a rimanere indietro e dovette appoggiarsi a un albero per riprendere fiato. Ancora non sopportava bene gli sforzi di quel tipo. Andò subito meglio, però, o se non altro la sensazione di dover crollare sfinita da un momento all’altro si attenuò. Sotto il suo palmo, la corteccia coriacea dell’albero sembrava quasi irradiare un misterioso calore.

Appena Soile si accorse che lei non la stava più seguendo, tornò indietro per sincerarsi che stesse bene.

– Sono solo un po’ stanca – si scusò lei, imbarazzata. – Non ho mai avuto grandi occasioni di fare movimento quando… –

Si interruppe. Non voleva evocare il passato.

Soile, comunque, parve non aver nemmeno sentito.

– Avvicinati. Posso aiutarti. –

C’era una dolcezza nuova in quelle poche parole, accennata soltanto, ma tangibile, che le fece vedere quegli occhi per la prima volta come specchi di un’umanità che strideva con la perfezione innaturale in cui era incastonata.

Soile le prese il viso tra le mani e Regan rimase sorpresa nel trovarle meno fredde di quello che aveva pensato. In un primo momento non accadde nulla, poi un fiotto caldo iniziò a sprigionarsi dalle mani sottili della donna sulle sue guance e una nuova energia prese a scorrerle nelle vene, rinvigorendola.

Quando Soile riabbassò le mani, Regan la ringraziò, stupefatta. Sapeva che quel tipo di magia ­– cedere o privare di energia – non era cosa da tutti e la maggior parte delle volte veniva considerata indice di animo malvagio. Presumibilmente questo non contava per una con una reputazione del genere e diventava quindi solo una dote in più.

– Siete stata voi a portarci qui, non è vero? Vi ho vista accigliata di fronte al Portale – disse, una volta ripreso a camminare.

Soile le dava le spalle; il tessuto pesante del vestito stava assorbendo rapidamente l’acqua, aderendo alla vita e alla schiena, e ormai era anche lei quasi del tutto zuppa. Nelle zone d’ombra, sembrava una cosa sola con il nero della notte: Regan riusciva a intravedere solo il bianco delle mani sotto le maniche lunghe.

– Sì. Ho avvertito che c’era qualcosa che non andava, ma non ne ero sicura – Chinò la testa. – Avrei dovuto parlare prima. –

– Come mai siamo qui? –

– Era il posto più lontano e sicuro che mi è venuto in mente. –

Regan le rivolse un’occhiata interrogativa.

– Ti sto portando a Shar Caras, la Città Antica. –

Il nome le diceva qualcosa: era la città senza tempo di cui si narrava nei racconti mitologici, la prima a essere fondata nel Mondo Occulto in tempi immemorabili, quando ancora le Sette Terre non esistevano. Ai più fantasiosi piaceva raccontare che era stata rasa al suolo da Lucifero quando la sua furia imperversava sul mondo, e quanto pareva si sbagliavano di grosso.

– Credevo fosse una leggenda – si meravigliò, ma capì subito che era stata un’osservazione sciocca: Soile non era il tipo da scherzare; ciononostante, da signora quale era, non glielo rinfacciò, né direttamente né velatamente.

– Fortunatamente, non solo tu – si compiacque invece. – Nessuno verrà a cercarti in una leggenda. –

L’ultimo pensiero di Regan era che qualcuno la stava cercando. Non che se ne fosse mai curata più di tanto, sicuramente sbagliando, ma non voleva altro che arrivare ad Aurin. Era anche in ansia per Lucius e Shin, ma Soile non sembrava esserlo, quindi o non le importava, o lo nascondeva bene.

Oppure conosce meglio di me le loro vere capacità.

La via fu lunga, anche se Soile aveva detto che non erano distanti dalla meta. Forse era perché il suo fisico era debole e poco resistente ai prolungati sforzi, ma a Regan parve di aver camminato per ore quando finalmente vide la sua compagna di viaggio fermarsi. Sollevò lo sguardo e restò senza parole: proprio dove Soile si era fermata, gli alberi si fermavano all’improvviso, lasciando in vuoto avanti a sé, e lo vigilavano silenti, come guardie poste lungo un confine. E entro quel confine emergeva un’isoletta erbosa, appena sopra il pelo dell’acqua, e su di essa, sotto una spettacolare volta celeste stellata, Shar Caras mostrava senza timore la sua semplice, antica bellezza.

Regan avrebbe voluto dire qualcosa per esprimere la sua meraviglia, ma la verità era che non c’erano parole che potessero rendere giustizia a quello spettacolo: casupole di legno minute si ergevano tra alberi molto più piccoli ed esili di quelli della foresta, spogli e chiari. Una miriade di sentieri si snodava in ogni dove, collegati da qualche scalino là dove il terreno saliva e scendeva, a volte sboccando direttamente sul lago in piccoli moli di pietra semicircolari, altre volte saltando in ponticelli da una riva all’altra quando piccoli rigagnoli d’acqua si insinuavano nella terraferma. L’architettura degli edifici (che a occhio non potevano essere più di una trentina) era arcaica, fatta di tetti angolosi, pannelli intagliati e piccole torri alleggerite da finestrelle, e in effetti faceva pensare a qualcosa di leggendario, racconti da focolare di ere segnate da eroi e imprese gloriose che tutti sognavano e nessuno aveva mai visto. Ora, per suo inestimabile privilegio, Regan aveva davanti a sé un pezzo di tutto ciò, e lo trovava magnifico.

– Vieni con me. –

Soile la prese per mano che ancora lei non aveva smesso di rimirare la visione che le si era presentata così inaspettatamente. Regan le arrancò appresso un po’ smarrita: stavano camminando sull’acqua come se fosse stata un solido specchio. Capì in fretta perché Soile la stesse guidando con tanta rigorosità: a un certo punto, mentre si avvicinavano all’isoletta, deviò di un solo passo dal percorso che avrebbe dovuto seguire e il piede le scivolò; affondò in un vuoto la cui fine non era indovinabile. Soile dimostrò una grande prontezza di riflessi nel tirarla verso di sé, al sicuro, e, a giudicare dalla sua espressione allarmata, non c’era solo un abisso d’acqua ad aspettare gli ignari, là sotto. Tanto più che Regan non sapeva nemmeno nuotare.

C’era una casupola costruita proprio sul ciglio dell’isola, separata dal lago da una striscia di erba larga tanto quanto bastava a consentire il passaggio di una persona. Era molto graziosa: costruita su due piani e una sorta di torretta circolare nel mezzo del tetto spiovente, sormontata da un piccolo tetto a punta. Tutte le luci, come quelle delle altre abitazioni, erano accese e producevano bagliori dorati che a Regan ricordavano quelli delle braci incandescenti. Non c’era bisogno di luci per l’esterno: ciò che non riuscivano a illuminare le luci delle case, veniva compensato dalla luna. Tutto aveva un aspetto accogliente e ordinato, cosa che non ci si sarebbe aspettata da un villaggio millenario.

Soile si diresse proprio verso la casa che avevano di fronte e lasciò andare Regan solo quando si fu accertata che entrambi i suoi piedi poggiassero ben stabilmente su una superficie solida. Dal basamento di pietra c’erano sette gradini che salivano tra due esili ringhiere tutte riccioli e volute di ferro battuto fino all’ingresso della casa.

Regan voleva domandare chi mai abitasse in un posto che tutti ritenevano inesistente, ma Soile parlò prima di lei:

– Siamo arrivate. –

Poi, senza aspettare risposte, bussò.

Chi aprì era una donna di mezza età, il volto solcato da rughe lievi ma ben evidenti, che le squadrò entrambe prima con diffidenza, poi con evidente stupore, e allora si portò una mano alla bocca per nascondere una reazione di puro sconcerto.

– Vostra Grazia! –

Regan ebbe la netta sensazione di conoscere quegli occhi, neri e intensi, venati di grigio, che fissavano Soile pieni di riverenza, e anche il bel volto rotondo le diceva qualcosa.

– Buonasera Malice – disse Soile, e Regan scoprì che nemmeno la cortesia poteva indurla a sorridere.

La donna, invece, i folti capelli scuri raccolti in un nodo semplice sulla nuca, ancora disorientata, accennò un inchino, e improvvisamente Regan realizzò perché quegli occhi le erano familiari.

Occhi da Edelberg.

 

 

Il giovane Arith aveva temuto per la propria incolumità quando aveva sentito l’anello scaldarsi contro la sua pelle, solo una manciata di ore prima. Lo teneva scrupolosamente nascosto sotto la camicia, infilato in una catena, e non c’era momento della sua vita che non temesse che qualcuno dei criminali a cui ormai da anni usava mescolarsi potesse fare domande su quel monile così prezioso e particolare. Ma finché nessuno lo avesse visto, nessuno avrebbe chiesto.

Al momento c’era altro a cui pensare, però: Genesis aveva convocato una riunione straordinaria dei cinque Esecutori e non aveva perso tempo in preamboli: l’idea di sfruttare il Portale di Kauneus era stata approvata subito all’unanimità, ma i dettagli successivamente esposti avevano fatto sorgere svariati dubbi. Innanzitutto il piano voleva che l’alterazione del Portale fosse solo temporanea, per impedire alla Lega di scoprirla, e soprattutto doveva essere attuata a brevissimo termine.

Dianthe era impallidita come uno spettro quando Genesis le aveva detto di indagare sulla tipologia di sigilli che garantivano protezione ai Portali da eventuali manomissioni, ma non aveva osato sottrarsi all’ordine. Tutti insieme, loro cinque, erano abbastanza abili e potenti da poter ottenere i risultati desiderati; l’unica cosa che serviva era la conferma che ciò fosse possibile e, per fortuna, Dianthe era tornata con buone notizie, pur senza esimersi dal sottolineare che la sua richiesta di accesso agli archivi privati della Lega aveva sollevato sospetti: il Vice Coordinatore Gwareth non le aveva negato il permesso, in virtù della sua stimata posizione, e questo era stato un bene, ma la aveva fatta vergognare ancora di più. La scusa era stata debole, ma almeno aveva funzionato.

Adesso, mentre lui e Niamh si dirigevano verso la cella che era stata predisposta ad accogliere appropriatamente la ragazza dai capelli sanguigni e chiunque altro fosse stato tanto sventurato da seguirla, Arith si domandava cosa potesse andare storto, a quel punto, perché quella era la sua sensazione: era troppo facile.

– Smettila, mi stai innervosendo! – berciò Niamh, mentre percorrevano il lungo corridoio deserto.

Arith si rese conto che stava giocherellando con la catena della lanterna che reggeva e smise subito. Anche Niamh era nervosa, o non sarebbe stata così acida con lui, che di norma era il suo protetto.

Quando entrarono nel vano delle celle, la tensione aumentò ulteriormente. Quella parte di sotterraneo era stato costruito in origine per essere adibito a dispensa e deposito armi per le sette e le minoranze che usavano quegli spazi, ma ora erano completamente cadute in disuso. Genesis le aveva personalmente trasformate in prigioni inespugnabili. Se la loro trappola aveva funzionato, la ragazza ormai non aveva più scampo.

Nessuno si era preso il disturbo di affrettarsi a scendere a controllare: avevano lasciato trascorrere un paio d’ore, il giusto tempo necessario perché i sigilli agissero e rendessero ogni eventuale prigioniero del tutto inoffensivo.

Ma giunti alla cella predisposta ebbero una brutta sorpresa: al di là delle sbarre c’erano due persone, e nessuna delle due era il loro obiettivo.

Niamh imprecò sottovoce.

Erano due ragazzi, un angelo e un demone, entrambi privi di sensi. I sigilli non avevano avuto alcuna pietà di loro. Uno, l’angelo, aveva lunghi capelli biondi, quasi bianchi, molto alto e magro; l’altro, il demone, si dava il caso che Arith lo conoscesse: era abbastanza famoso negli ambienti da lui frequentati: briganti, Ladri di Anime e fuorilegge di ogni sorta parlavano di lui come il più pericoloso acquisto di cui la Lega si fosse avvalsa negli ultimi anni e lo dipingevano come un guerriero di valore, ma soprattutto come un giovane pericolosamente astuto e caparbio.

Arith si chiese se fosse vero che era stata la sua profonda conoscenza del lato oscuro delle Sette Terre a valergli la rapida scalata al successo di cui aveva goduto.

– Li abbiamo visti passare – sibilò rabbiosamente Niamh, incredula. – Come diavolo è possibile che lei non sia qui? –

Era vero: avevano visto la ragazza passare il Portale assieme al ragazzo dai capelli neri, ed era stato allora che si erano affrettati a sparire. Probabilmente avrebbero dovuto aspettare ancora un momento.

– Lady Leljen! – sbottò Niamh, in tono disgustato. – Dev’essere stata quella cagna! Ho visto come si guardava intorno sospettosa! Maledizione! –

Arith credette di aver visto un muscolo contrarsi lungo la mascella del ragazzo più robusto, ma doveva essere stato uno scherzo di giochi tra luci e ombre.

– Che cosa facciamo? –

– Li perquisiamo, innanzitutto, e portiamo via tutto quello che può essere usato come arma o che può rivelarsi interessante. Poi andiamo a chiamare Genesis e sarà lui a decidere –

Era un eufemismo come un altro per dire che sarebbero morti.

Aveva lei le chiavi. Dovevano fare in fretta, perché nessuno, nemmeno loro, era immune dai sigilli e se si fossero trattenuti troppo a lungo avrebbero rischiato di soccombere alla loro influenza.

Niamh aprì e lasciò la grossa chiave nella serratura.

– Su, avanti, facciamo presto. –

Entrarono e si chinarono sui due corpi privi di conoscenza, la lanterna appoggiata lì vicino. Fossero stati due ladruncoli, li avrebbero spogliati dei ricchi vestiti e sarebbero fuggiti via in fretta e furia, ma a loro interessava tutt’altro: presero le spade dai foderi e le misero da parte, poi li voltarono per controllare sotto i mantelli.

Arith notò che Niamh fece una faccia strana quando vide il viso del ragazzo più giovane, forse per via della sua insolita bellezza quasi femminea. Ora che ci pensava, gli ricordava qualcuno.

Niamh si riscosse, però, quando vide che l’altro aveva qualcosa di luminescente al collo, proprio accanto alla Stella che denunciava la sua professione.

– Credo di sapere cos’è – disse Arith. Era accigliato: se la sua supposizione era corretta, un membro della Lega non avrebbe dovuto possedere un oggetto del genere. Il cristallo era quasi del tutto riempito di luci e ombre che si intricavano le une nelle altre, in costante movimento, il che significava che l’energia raccolta al suo interno era intatta. Forse i sigilli di Genesis funzionavano solo sulle persone.

Allungò una mano per scostare meglio il mantello.

Gli occhi del ragazzo si spalancarono all’improvviso.

– Ora! –

Arith e Niamh si ritrassero d’istinto quando i due prigionieri, tutt’altro che inermi, scattarono in piedi in un lampo, prendendoli alla sprovvista. Le loro spade giacevano dietro Niamh, che non ebbe la prontezza di afferrarle, forse a causa dell’effetto dell’ambiente; i due la superarono con un balzo agile e si riappropriarono di quanto era stato loro sottratto. Urtata, la lanterna cadde e si spense.

Accecata dalla rabbia, Niamh sfoderò la sua spada con un grido bellicoso.

– Non osate! – ringhiò.

Il demone dai capelli neri sorrise:

– Chiedo venia, signora, ma mi state vietando la mia attività preferita – rispose, parando il colpo, con una sfacciataggine che quasi strappò un sogghigno ad Arith.

Quasi, perché le cose si stavano mettendo molto male.

Niamh si avventò contro il demone, ma lui balzò di lato e la evitò; gli bastò che lei si voltasse per calare la spada sulla sua e disarmarla con facilità. Lei cadde a terra. Un secondo dopo, la punta della lama del demone era severamente puntata contro la sua gola indifesa.

Senza perdere altro tempo, anche Arith prese la propria spada, ma l’angelo non gli permise di brandirla: con un colpo incerto ma ben assestato lo disarmò. Era relativamente inesperto, ma molto agile. Normalmente Arith sarebbe riuscito a pararlo, ma le mani gli tremavano leggermente, segno che stava iniziando a indebolirsi. Anche Niamh, al suo fianco, batteva le palpebre come se fosse assonnata.

– Che cosa credete di fare? – ringhiò, però. – Pensate di poter buttare giù la porta e correre via? Siamo in un labirinto, non troverete mai l’uscita prima che i nostri trovino voi! –

Il demone si fece costernato.

– Trovo molto poco galante contraddire una donna, e ancor più deludere una sua convinzione, quindi eviterò di ribattere. –

Arith stentava a credere a tanta insolenza, e Niamh, oltraggiata, non era da meno. Sembrava quasi che fosse lui a condurre il gioco.

Non c’era modo di chiamare gli altri, senza una fiamma a cui esporre l’anello. L’unica era tergiversare e prendere tempo, di modo che si potessero accorgere di quanto stessero tardando e fossero loro a scendere a cercarli.

Decise di improvvisare.

– Che cosa ci fa un uomo della Lega con un cristallo come quello? Non sarai un doppiogiochista, vero? –

Il demone sorrise cortese:

– Non credo che questo vi riguardi. Mi fermerei a chiacchierare tutta la notte, o tutto il giorno, qualsiasi ora sia, ma abbiamo da fare, quindi credo sarà per un’altra volta –

Fece un passo indietro, senza abbassare la guardia per un solo secondo, e fece cenno all’amico di uscire, poi lo seguì.

Arith e Niamh si lanciarono contro la grata di ferro, ma non abbastanza rapidamente: l’angelo aveva già chiuso la serratura e sembrava intenzionato a portarsi via le chiavi. Fissandolo da così vicino, l’impressione di averlo già visto era ancora più forte.

– Andiamo – disse il demone. L’angelo esitò: i suoi occhi neri scesero a scrutare Arith con attenzione, le sopracciglia chiare lievemente corrugate.

Nella mente di Arith, sempre più nebbiosa, scoccò una scintilla e il cuore gli balzò in gola.

Ignaro, l’angelo gli voltò le spalle e se ne andò in un frusciare di broccato nero.

Era il Cavaliere Bianco del ballo del Solstizio d’Inverno.


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A/N:  ancora una volta mi tocca scusarmi per il ritardo nell'aggiornare. Sono alle prese con un sacco di cose, in questo periodo, e stare dietro a tutto è impegnativo, ma non posso aggrapparmi a scuse così banali per giustificare questo ritardo vergognoso. :)
Un grazie di cuore a  chi ha recensito lo scorso capitolo:
Dantalion (sono ben lieta che ti stiano antipatici gli infantilismi di Regan, perchè ci tengo a mostrare che lei è a tutti gili effetti ancora una bambina, con le ingenuità e i capricci che questo comporta :) Voglio darle modo e tempo di crescere e di farsi le ossa nella vita reale... non sarebbe credibile che una persona che non ha mai vissuto veramente si comporti in modo impeccabile.)
Milou_ (grazie, mia cara, sempre presente e gentilissima! :) So che ho tardato ad aggiornare, ma meglio tardi che mai, no? ^^)
Ariana_Silente (comprendo i tuoi sentimenti verso HP... come tu hai sofferto per Sirius, io ho sofferto per il mio amato Remus, ucciso non solo fisicamente, ma anche storpiato e devastato nel personaggio .___. Per quel che concerne la recensione al capitolo, invece, mi sa che è meglio che non ti risponda, sei già troppo acuta di tuo. :D)
Akka (ti ho già detto tutto quello che potevo in via privata e quindi non mi resta che ringraziarti per l'ennesima volta. ^^ Sei stata preziosa!)

Bene, per adesso grazie a tutti di aver letto! Come già sapete, i commenti sono sempre benaccolti, che siano complimenti o critiche intelligenti! :)

A presto!
   
 
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