I
coltelli sono tutti uguali
Messi
di taglio poco rimangono in equilibrio
E
cadono su un lato senza aspettare dubbio o consenso
Che sia
l’uno che sia l’altro, un lato diventa cieco, l’altro rimane specchio
VII – Sul giusto lato del
coltello
Coltello,
Rosa e Caramello si rassegnarono a continuare a camminare lungo il lato del
ripido pendio, perché gli appigli che offriva
in quel punto il fianco della montagna non erano sufficienti per scendere senza
ritrovarsi a cadere e rotolare a slavina insieme alla neve che li ricopriva
pesantemente. Per loro fortuna, tuttavia, non dovettero percorrere molta strada
prima di trovare qualcosa di molto prezioso
per la loro situazione. Quasi subito, infatti, si
imbatterono in un punto in cui il pendio scosceso assomigliava più a una discesa
affrontabile, piuttosto che a un dirupo rigido e severo. Scoprirono addirittura
un sentiero che serpeggiava giù dalla montagna,
zigzagando abbondantemente, al punto che la strada da percorrere ne risultava
quintuplicata, e quello che in distanza in linea d’aria
era di pochi metri, il sentiero lo rendeva in decine e decine di
tornanti. Ma era dopotutto l’unico modo intelligente per percorrere il fianco
della montagna con la prospettiva di arrivare sani e salvi da qualche parte.
Benché la neve avesse abbondantemente ricoperto ogni cosa, il sentiero era
stato un poco lavorato, in modo da offrire una superficie relativamente piana
nel terreno obliquamente digradante, e appariva quindi anche abbastanza
riconoscibile ad occhio nudo nonostante l’uniforme biancore superficiale del
manto innevato.
«Bene…» disse lentamente Rosa, dopo un po’ che tutte
fissavano in silenzio il percorso che avevano individuato. «Finalmente potremo
scendere da qui senza romperci l’osso del collo.» aggiunse, come a certificare
con le parole chiaramente udibili un sollievo
che stentava a concretizzarsi persino dentro di loro.
Forse
ne avevano passate troppe, e in un certo senso la loro capacità di sperare era
molto fuori allenamento ormai – o questa capacità aveva paura che, se solo
avesse fatto capolino troppo vistosamente, sarebbe puntualmente arrivato
qualche cosa a decapitarla di netto.
Questo
supponeva tra sé e sé Coltello, senza sapere come altro spiegare quella
mancanza di sollievo
estroverso. Tuttavia, c’era qualcosa di molto più strano…
Improvvisamente
non voleva più proseguire: le sembrava assurdo il proseguire, e le sembrava
assurdo trovarlo tale.
«Iniziamo
a scendere?» chiese Rosa, evidentemente stanca di rimanere immobile troppo a
lungo a contemplare da lontano l’ultimo tratto di strada prima di uscire
definitivamente da quell’incubo.
«Non… non mi sento molto bene.» disse flebilmente Coltello,
per prendere tempo.
Anche
se non era esatto. Il suo corpo stava benissimo. Eccetto che per i muscoli
delle gambe, che parevano convinti che qualcosa
ordinava loro di recalcitrare istintivamente da quella discesa. Ed eccetto per qualcos’altro che le stava rivoltando lo stomaco per
l’emotività, come se si sentisse sconvolta. Così, risolse solo di sedersi per
terra per aspettare di capire come farsela passare.
Rosa e
Caramello la osservarono stupite. Poi, gradualmente, Caramello assunse un’aria
premurosamente preoccupata, mentre l’espressione di Rosa divenne pungente come
succo di limone.
«Hai
di nuovo la febbre?» chiese Rosa ruvidamente, quasi infastidita.
Ma fu
Caramello che le si appressò, si tolse un guanto
e le appoggiò la mano fredda sulla fronte.
«No,
non mi sembra…» disse piano dopo un po’, ritirando la
mano e tornando ad affondarla repentinamente nel calore dell’indumento.
«Non è
il momento di lasciarsi andare.» le disse Rosa,
piuttosto duramente. «Siamo quasi arrivate.» fece presente, chiaramente
determinata a non lasciare che alcun contrattempo si mettesse ancora in mezzo
tra loro e la tanto desiderata salvezza, ormai a soli pochi chilometri di
distanza.
«Mi
riposo solo un momento. Solo un momento.» ripeté Coltello, giusto per
acquietarle un po’. Aveva bisogno di tempo, anche se non sapeva ancora per che
cosa.
Improvvisamente
era come se gli alberi della foresta, alle sue spalle, mormorassero. Non era
sicura che si rivolgessero a lei. Ma sembravano dire qualcosa
di preciso, eppure di inafferrabile. Non per la prima volta, ma più
intensamente che mai, sentì di poter aver ragione nel dubitare delle proprie
facoltà mentali. Cosa poteva garantirle che non stava…
o che già non era impazzita?
Non di
certo era fraintendibile lo sguardo delle altre due ragazze, alle quali, era
evidente, il suo improvviso esitare testardo sembrava la cosa più inopportuna
da fare in quel momento. E se sul viso di Caramello permaneva una salda
pazienza comprensiva, su quello di Rosa aleggiava un’espressione di
risentimento, quasi che considerasse involontariamente quel gesto come un
affronto personale, come un dispetto fastidioso.
Coltello
distolse lo sguardo dalle altre due, chiuse gli occhi e scosse piano il capo,
come cercando di liberarsi dei propri pensieri. Strinse fortemente il coltello che aveva in tasca, chiuso
nella propria custodia; il coltello del quale portava il nome.
Non
doveva pensare male di Rosa e Caramello, si intimò. Le tornarono in mente le
parole di Scintilla, un’eco lontano eppure vivido, come se fossero diventate
parte del mormorare degli alberi della foresta alle sue spalle: ‘tu fa’ qualcosa per loro’. Ma adesso non capiva più
che senso potessero avere: non c’era niente
che potesse fare per loro due, no? O forse intendeva dire che avrebbe dovuto
sforzarsi di accompagnarle sane e salve fino a qualche abitazione, mettendo da
parte i suoi dubbi, i suoi tentennamenti… ? Ma
c’era qualcos’altro, aveva questa sensazione.
Diversi
pensieri si accavallavano confusamente nella sua
testa, come se, cercando un filo conduttore in tutto quello che le era successo
dacché si era svegliata alcuni giorni prima in quella baita, stesse
buttando all’aria involontariamente tutto ciò che sapeva. Ed era come aprire
gli occhi e vedere anche meno di prima, come decidere che se ne aveva
abbastanza di andare a tentoni nell’oscurità e prendere a devastare per pura
rabbia tutto ciò che si ha intorno, senza ancora sapere cosa si stia davvero
cercando.
Va
bene, si disse, avrebbe fatto qualcosa per Rosa e Caramello; ma prima dovevano
essere loro a fare qualcosa per lei, decise.
Alzò
lo sguardo di colpo, e non aveva idea di come apparissero i suoi occhi in quel
momento, ma vide Rosa allarmarsi e Caramello sussultare istintivamente.
«Vorrei
sapere alcune cose, intanto che siamo qui. Dopo proseguiremo…
ve lo assicuro.» disse, con una voce ferma che quasi non riconobbe come la
propria.
Per qualche momento le altre due tacquero. Caramello pareva sorpresa
del suo stesso sollievo; forse si era aspettata di sentirle pronunciare parole
ben più terribili. Rosa, invece, la studiava ancora, e sembrava che il suo
risentimento stesse crescendo. Infatti, quando rispose il suo tono era di viva
protesta, a stento attenuata da una volontà ragionevole.
«Pensi
che sia il momento migliore per fare una chiacchierata?» la rimbeccò.
«No,
non lo è. Avrei dovuto insistere molto di più prima…
nei giorni precedenti. Ma mi sono illusa del fatto che, quando vi sareste
sentiti pronti a parlare apertamente, voi o Scintilla lo avreste fatto. Magari
quando fossimo arrivati in qualche luogo sicuro… Ma
adesso ho bisogno di sapere. Perché… » Coltello esitò
brevemente, e quando riprese a parlare il suo tono si era molto incupito,
assomigliando un po’ di più al suo sguardo ora
« … se devo avere sulla coscienza Scintilla, un lupo e tutti quei bambini… almeno voglio sapere che cosa sta succedendo. Dico
davvero.» concluse, a muso duro.
Aveva
fatto diversi altri errori, ed ora, all’improvviso, se ne rendeva conto. Le risalivano alla coscienza come lacrime spinose agli occhi, ed avrebbe solo voluto che se ne andassero in
fretta, che scivolassero fuori da lei il più rapidamente possibile, per andare
a tormentare qualcun altro. Ma era lei ad aver fatto quei passi falsi. E il suo
sbaglio più cospicuo, più difficile da accettare di tutto il resto, stava per
arrivare. Sentiva che avanzava dalle ombre oscure dell’incoscienza:
una sagoma che si muoveva nel buio per venire alla luce lentamente, per
questo ancora più terribile.
Le sue
parole sembravano aver aperto una breccia nell’irritazione di Rosa. La ragazza
parve un momento stupita, poi amareggiata.
«Perché
dovresti averli sulla coscienza…? Tu non hai fatto
niente.» le disse.
«Appunto.»
rispose solo Coltello.
E ora,
anche l’ultimo errore era venuto a galla, come se ciò che aveva detto, una sola
banale parola, lo avesse invitato a scoprirsi del tutto. Cosa aveva fatto, lei?
Perché non aveva cercato di strappare il fucile dalle mani di Scintilla? Perché
non aveva cercato di fermarlo con la forza quando lo aveva visto andarsene da
solo, completamente inerme e nudo nella foresta? Perché non aveva fatto nulla
per i bambini?
Perché
se avesse cercato di strappargli il fucile di mano avrebbe rischiato allo
stesso tempo di essere colpita da un colpo partito per sbaglio. Perché se
avesse cercato di fermarlo, Scintilla avrebbe trovato il modo di scrollarsela
di dosso e non si sarebbe mai lasciato persuadere a rimanere. Perché non c’era
niente che potesse fare per i bambini, che si trovavano chiusi in una baita a
chilometri di distanza, sorvegliati e tenuti prigionieri da uomini e donne
armati, che avevano su di loro più diritti di parentela di chiunque altro. E
lei non era che una ragazza sperduta sulle montagne, intenta a stringere tra le
mani un coltello che considerava una specie di talismano.
Le
domande l’avrebbero perseguitata per sempre. E le risposte non sarebbero mai
valse a nulla.
Lei,
lei che si era data tanta pena di rimproverare a Scintilla di sembrare
insensibile a tutto quello che gli accadeva intorno; lei che aveva rimproverato
a Rosa di non aver fatto o detto niente per i bambini; lei che aveva giudicato
Caramello troppo debole per riuscire a provvedere a se stessa e reagire di
fronte alle difficoltà; lei che aveva guardato con rabbia alla gelida e
calcolatrice Occhi-di-Ghiaccio; lei che aveva
guardato con superiorità alla supposta pazzia degli uomini rinchiusi nella
baita e al militarismo spietato delle Tute.
Lei che
adesso, ancora, non aveva fatto nel complesso nient’altro che giudicare tutti e
tutto quanto, tranne se stessa. Lei che non aveva fatto niente quando avrebbe
dovuto e potuto, e si era lasciata semplicemente travolgere dagli eventi.
Quando
ritrovò il senso di ciò che stava avvenendo fuori dalla sua testa, piena di una
ridda confusa di rimorsi e pensieri brucianti, vide che Rosa la stava ancora
guardando, ora con maggiore pazienza.
«Non
c’era niente che potessi fare. Non c’era nessuno che potesse fare niente.»
«E
proprio questo ci ha condotte qui…» mormorò Coltello
di rimando.
Rosa
non riuscì a capire cosa intendesse, perciò disse ancora «Qui? Qui non siamo in
nessun posto! Se solo tu ti alzassi e ti trascinassi in qualche modo per quel
poco che ci rimane saremmo al sicuro! Si può sapere cosa ti prende?» si
spazientì.
Nonostante
tutto, Coltello si sentì grata nei suoi confronti. Se solo avesse potuto
ascoltarla, assecondare il suo tentativo di riscuoterla per riportarla a una
dimensione più concreta, semplice e immediata, dove tutto ciò che doveva fare
era semplicemente camminare finché non fossero arrivate al sicuro. Il suo corpo
intero, dalla punta dei capelli a quella degli alluci, non desiderava altro che
un letto dove riposare, cibo e bevande caldi, acqua calda e sapone con cui
lavarsi via tutto, proprio tutto. E dimenticare…
dimenticare solo quell’avventura infelice, quella sorta di incubo; risvegliarsi
in un luogo, con delle persone che conosceva da più tempo, in una realtà che le
fosse familiare, che fosse il suo passato, quello che non riusciva più a
ricordare.
Ed
improvvisamente ciò la confuse e le chiarificò qualcosa, nel medesimo tempo.
Qualcosa che aveva a che fare, in qualche oscuro modo, con quelle espressioni
di Scintilla, sempre sofferte e trincerate dietro a sarcasmo e indifferenza
solo in parte sinceri. Se lei avesse dimenticato quei giorni su quelle montagne
avrebbe dimenticato anche Scintilla? O lo avrebbe ricordato com’era, come lo
aveva conosciuto prima di perdere la memoria e risvegliarsi nella baita? E soprattutto… se fosse in realtà che aveva perduto la
memoria perché il suo passato era farcito di ricordi spiacevoli e dolorosi? In
tal modo, aveva perso anche la memoria di chi conosceva, di chi era, di… tutto ciò che aveva vissuto. Cosa poteva averla spinta
a dimenticare, se davvero era così? Ma ecco, ora si trovava a desiderare
nuovamente di dimenticare anche quel poco che già aveva!
Provò
un travolgente moto di orrore e paura, come se temesse di perdere davvero la
memoria da un momento all’altro, e si aggrappò più saldamente al coltello,
stringendolo tra le nocche sbiancate dalla spasmodica forza della sua stretta.
«Oh,
che cos’hai? Ti fa male da qualche parte?» chiese angosciosamente la voce di
Caramello, vicino a lei.
Coltello
rifocalizzò lo sguardo su di loro, con urgenza.
«Vi
prego, dovete dirmi quello che sapete! Non capite? Io ho dimenticato tutto,
tutto! Tutto quello che è successo prima che mi risvegliassi alla baita,
qualche giorno fa! Voi non sapete chi sono? Come mi chiamo…
e chi era Scintilla, e come ci siamo ritrovati là? Chi sono le Tute? Cosa
diavolo sta succedendo là?!» si ritrovò quasi a gridare, preda di una profonda
esasperazione.
Non
voleva più dimenticare. Voleva ricordare tutto quanto, non importava quanto
potesse farle male… ne aveva bisogno, o sentiva che
avrebbe potuto svanire da un momento all’altro dentro di sé, affondare in
qualche sorta di incoscienza e perdere ogni contatto col mondo esterno.
Nel
sentirla parlare con tanta disperata foga, Caramello si ritrasse un po’,
spaventata. Rosa la fissava sempre più intensamente, e sembrava inviperita ora.
«Tu… che stronza.» le sibilò.
Coltello
si sentì come colpita da uno schiaffo. Ora che finalmente stava facendo tutte
le domande, senza riserve, che si stava veramente sforzando di capire cosa
stava succedendo, cosa era successo, per affrontare tutta la realtà…
«Sai
benissimo che nemmeno noi ricordiamo niente!» urlò Rosa, rabbiosamente.
Per un
lungo momento Coltello rimase semplicemente senza parole, lo stesso corso dei suoi
pensieri paralizzato dal nonsenso di quell’affermazione.
«Cosa… ?» riuscì infine a dire, banalmente, in un mormorio
esitante. Non era più così sicura di voler sapere. Di voler sapere che non
c’era niente da sapere.
«Ah!
Ma cosa credevi, di essere l’unica ad aver dimenticato tutto? Eravamo tutti
nella stessa situazione là alla baita, o quasi. Abbiamo iniziato a perdere i
ricordi col passare dei giorni. Nessuno sa più il suo nome là, praticamente… e molte altre cose. Per questo non… ah, avanti! Non guardarmi così!» si interruppe Rosa,
seriamente indispettita.
«Ma se
tu sai questo, che là non ricorda niente nessuno…
perché io non lo so?» ribatté Coltello, aggrappandosi all’ultimo barlume di
logicità che le era rimasto in mano, come un giocatore che ha puntato tutto sul
cavallo dato per vincente e, avendolo visto cadere, chiude gli occhi, e solo
dopo un certo tempo lentamente prova a riaprirli, per vedere che ne è stato
delle sue ultime speranze.
«Oh, insomma…» si lamentò Rosa, incrociando le braccia sul petto.
Sospirò e chiuse brevemente gli occhi, come alla ricerca di pazienza e nuova
calma, e, quando tornò a guardarla, sembrava averne trovate abbastanza da
parlare con maggior autocontrollo.
«Ognuno
di noi perdeva la memoria, i ricordi, in maniera diversa…
Non sappiamo come succedesse… Certe volte le persone
si svegliavano con delle facce spaventose… di chi non
ha… chi non ha nulla… E
tutti hanno iniziato a far finta di niente perché…
non c’era niente che potessimo fare, che riuscissimo a fare…
cercavamo solo di aspettare che trovassero un modo, una strada sicura per
andarcene di lì… Ma quelle Tute…
non sappiamo cosa ci facevano lì… sono venute fuori
all’improvviso, hanno accerchiato la baita e hanno cercato di entrare sfondando
le porta-finestre. Abbiamo dovuto rifugiarci di sopra…
Che altro potevamo fare?»
«E
c’ero anch’io quando succedeva tutto questo… ?»
domandò Coltello, con precauzione.
Rosa
tacque alcuni secondi, guardandola bene, come se cercasse qualcosa sul suo
viso, o non osasse parlare.
«Come
posso ricordarlo… ?» mormorò infine, dolente e
spaventata dalle sue stesse parole.
«Ma certo… certo che dovevi esserci anche tu.»
Rosa e
Coltello si voltarono stupite a guardare Caramello, che aveva parlato.
«Deve
essere così… se tu eri nella baita con noi, devi
esserci arrivata insieme a noi.» disse ancora la ragazza, con volenteroso
desiderio di tranquillizzarla.
Per un
momento Coltello provò l’impulso di abbracciare Caramello, ma si limitò a
sorriderle con grata dolcezza. Poi notò che la ragazza aveva tirato fuori dallo
zaino un libro, e lo teneva abbracciato al petto, aggrappandovisi similmente a
come lei faceva col coltello.
Tornò
a guardare Caramello in viso e chiese, precipitosamente «I libri! Voi avete
detto che avete un esame al vostro ritorno a scuola…
quindi qualcosa lo ricordate!»
«Sì…» ammise lentamente Rosa «Ricordiamo che frequentiamo l’università… ricordiamo qualche cosa…
la madre di Caramello, quella signora che hai visto parlare con noi alla baita… loro si ricordano l’una dell’altra…»
«Poi…» confessò piano Caramello, arrossendo «Abbiamo trovato
i libri negli zaini che avevamo con noi…»
Coltello
ripensò, con una nuova fitta di dolorosa mancanza, al suo zaino, quello che era
stata a un passo dall’avere tra le mani.
«Eppure,
anche se non ricordo il contenuto del mio zaino…»
ragionò ad alta voce «ricordo benissimo come mai non ho potuto raggiungerlo… Anche voi ricordate come mi siete venute a
sottrarre, insieme a Scintilla, alle Tute, no?»
Rosa
annuì sbrigativamente; apparentemente non lo trovava un elemento significativo.
«Certo,
ma io credo che il dimenticare centrasse solo con la baita…»
spiegò.
«Sì.»
convenne subito Coltello «Hai ragione. Da quando siamo usciti da lì ricordiamo tutto… ma non quello che è successo prima che ci arrivassimo… E se l’avessimo dimenticato per sem…» si interruppe, davanti allo sguardo spaventato e
minaccioso ad un tempo di Rosa, e quello costernato e terrorizzato di
Caramello.
«E adesso… vogliamo andare?» ribadì Rosa, con insistenza.
Coltello
la guardò come se per un momento non avesse idea di che cosa stesse parlando.
«Dobbiamo
arrivare da qualche parte prima che faccia buio!» le ricordò Rosa, in tono duro
e pratico «Ci manca poco, ma non possiamo farci sorprendere dalla notte a metà
discesa!»
Coltello,
però, si rese conto che non poteva ancora proseguire.
«Aspetta…» disse, quasi implorando «Tu prima hai detto… che Caramello e sua madre si ricordano ancora l’una
dell’altra…» ripeté lentamente.
«Sì. E
allora?» sbuffò Rosa, affatto lieta di tornare sull’argomento della perdita di
memoria.
Coltello
non disse apertamente quello che fu il suo primo pensiero, e cioè che, se
Caramello poteva ancora ricordarsi di sua madre perché si trovava fuori dalla
baita, la donna, che era rimasta là, poteva già aver perso memoria della
figlia, tanto più che non poteva più vederla ora… Ma un altro pensiero ben più
allarmante le si stava gonfiando in petto.
«Allora… loro potrebbero dimenticarsi dei bambini… quelli rinchiusi nella stanza! Se nessuno li
ricorda, come potranno dare loro da mangiare, preoccuparsi di loro, e se le
Tute dovessero attaccare?» esclamò, quasi in preda al panico.
«No, a
questo è stato pensato!» replicò Rosa con decisione «Sono stati affissi alcuni
fogli, sulle cartine che tutti guardano sempre, e alcuni si tengono addosso, tipo
annodato attorno al polso, dei fazzoletti con tutto scritto: che ci sono dei
bambini, i loro figli, in una stanza, e che devono accudirli ma lasciarli lì
dentro perché sono al sicuro. E in ogni caso, per fortuna, ci sono alcuni che
stanno perdendo la memoria molto più lentamente… Come
ad esempio …»
«Mangiafuoco.»
la interruppe Coltello all’improvviso.
«Sì…» confermò Rosa, un po’ sorpresa «Allora vedi, che
qualcosa lo ricordi anche tu?» la rimproverò.
«Non è
che lo ricordavo… me lo immaginavo.» disse Coltello,
corrugando la fronte.
Era
certa di doversi ricordare qualcosa di importante a proposito di quell’uomo, ma
al momento non riusciva proprio a determinare cosa. Era una sensazione, così
come aveva provato la sensazione di conoscere Scintilla, la prima volta che lo
aveva visto.
«Tutto
questo… non ha alcun senso…»
mormorò ancora.
«Bene,
nessuno qui ha detto il contrario.» ribatté Rosa, con aria sollevata, come se
stessero finalmente ricominciando a parlare in un modo che la soddisfaceva.
«E i
nomi?» domandò ancora Coltello.
«Cosa?
Che nomi?» si indispettì nuovamente Rosa.
«Io ho… cioè, certe volte i nostri nomi cambiano…
il mio… quello di Scintilla…
e anche Mangiafuoco, ad esempio. Io l’ho chiamato così, ma non ho mai detto ad
altri che gli avevo dato questo soprannome, eppure gli altri già lo sapevano!»
«Mah,
non esageriamo adesso!» protestò Rosa, infastidita «Ci sarà pure una
spiegazione. Probabilmente in realtà tu non hai inventato i loro nomi, ma li
hai ricordati, per questo gli altri, che evidentemente non li avevano già
dimenticati, li sapevano.»
«Se
questo è vero…» insisté Coltello «Com’è possibile che
una persona si chiami davvero ‘Mangiafuoco’? O ‘Caramello’? Questa cosa dei
nomi l’ha tirata fuori Scintilla, e in ogni caso perché non abbiamo fatto altro
che cambiarli, tranne per voi due, anche dopo essere usciti dalla baita? Non
può essere…»
«Oh,
diamine! Scintilla si divertiva a cercare di confondere ancora di più le idee a
tutti, e a quanto pare con te c’è riuscito. Là dentro non lo sopportava nessuno,
e non a torto! È normale che si finisca per essere molto confusi quando si
inizia a perdere pezzi di memoria. Non so se lei…» e
indicò l’altra ragazza «si è sempre chiamata Caramello, o se Mangiafuoco è
sempre stato Mangiafuoco. Può essere che, mano a mano che dimenticavamo i
nostri nomi, ce ne siamo scelti degli altri. E forse ci siamo abituati a tal
punto a questo che abbiamo continuato a farlo senza praticamente accorgercene
anche fuori dalla baita, ecco qua!»
«Ma
certe volte qualcuno sapeva il nuovo nome di qualcun altro senza che nessuno
gliel’avesse dett…»
«Ah,
ma adesso basta!» strillò Rosa «Come faccio a sapere tutto?»
Coltello
la guardò per un po’, in silenzio. «Hai ragione… scusami…» disse alla fine.
Rosa
annuì, con l’aria di trovare le sue scuse più che dovute.
«Adesso
possiamo andare?» chiese per l’ennesima volta.
Coltello
annuì, quasi distrattamente, lo sguardo rivolto al suolo e perso in altre
riflessioni, atteggiamento che Rosa scambiò per pentimento imbarazzato per quel
suo esasperante interrogatorio.
«Finalmente!»
esclamò Rosa «Caramello, avanti… rimetti il libro
nello zaino o si rovinerà… Adesso scendiamo, e
troviamo qualche posto dove ci diano una mano…» disse
stancamente, rivolta all’amica.
Caramello
annuì concorde, eseguì rapidamente e si issò di nuovo lo zaino sulle spalle,
pronta a riprendere la marcia.
Solo
quando Caramello e Rosa mossero qualche passo sull’orlo del pendio, saggiando
prudentemente con i piedi la consistenza e la tenuta della neve sul suolo,
apparve loro manifesto che Coltello non si era ancora mossa né sembrava aver
alcuna intenzione di farlo presto. Per qualche istante Rosa fu travolta da
pura, accecante rabbia, ma si riprese abbastanza in fretta da parlare.
«Hey! Che stai facendo? Stiamo andando!» pensò bene di informarla.
Si era
alzato un vento freddo, piuttosto insistente, che proveniva dalla valle e
risaliva i piedi delle montagne, con la forza e la rapidità di una mandria
gettata a rompicollo giù per una discesa. Le due ragazze videro perciò Coltello
muovere appena le labbra, sempre con lo sguardo basso, ma non ne intesero le
parole, pronunciate in tono troppo flebile e subito rapite dal vento che le
riportò indietro, sulla strada che avevano già percorso, a disperdersi tra gli
alberi della foresta che si erano lasciate alle spalle.
Ad un
passo dal completo disfacimento dei suoi nervi, Rosa ritornò indietro,
riavvicinandosi un po’ a Coltello, ma non troppo. C’era qualcosa di strano
nella figura della ragazza, dallo sguardo abbassato, immobile contro il vento,
come se non la sfiorasse nemmeno…
«Cosa
hai detto?» si informò Rosa, con tono più circospetto che aggressivo adesso.
Dopo
un po’, Coltello si mosse. Estrasse qualcosa dalla tasca e lo strinse forte
nella mano, e Rosa e Caramello sussultarono all’unisono per la sorpresa e lo
spavento.
«Hey!» gridò Rosa «Che hai intenzione di fare?» domandò,
ricordando bene cosa aveva fatto la ragazza l’ultima volta che l’aveva vista
impugnare quel coltello.
«Colt…» iniziò a chiamarla Caramello, ma non osò pronunciare
per intero il nome, che coincideva sinistramente con ciò che l’altra stringeva
nella mano.
Coltello
alzò su di loro lo sguardo, e le ragazze si ritrovarono a fissare due occhi
cristallini nelle intenzioni, ma densi di sentimenti troppo complessi per
essere definiti. La ragazza sorrise, tristemente e debolmente, con la chiara
intenzione di essere più gentile con loro, e non perché provasse al momento
alcuna gioia. Eppure un disarmante senso di sicurezza e pace terribile le
aleggiava intorno, come se fosse posseduta da un qualche spirito molto più
antico di tutte loro.
«Scusatemi…» disse, in tono calmo eppure potente.
Rosa
rabbrividì, trovandola una singolare variazione rispetto alle parole ‘Mi
dispiace’, che già aveva pronunciato Scintilla…
sembrava essere stato molto tempo prima, a ripensarci, nonostante il ricordo
fosse vivido e netto.
«Non
avrei voluto che ci separassimo così.» disse ancora Coltello, con la stessa
intonazione «Ma io non verrò con voi, da qui in avanti.» sentenziò senza
appello.
Le
altre due ragazze la guardarono in completo silenzio per un poco. Ma ben presto
Rosa eruppe in esclamazioni pungenti.
«Ah!
Ma bene! Che diavolo c’è adesso? Sei ammattita anche tu? Io non me la bevo! Non
è il momento di fare la vittima, qui siamo tutte nella stessa situazione, e non
mi sembra che né io né Caramello la stiamo mettendo giù così tragica! Guarda
che io non ho alcuna intenzione di mettermi qui ad assecondare il tuo bello e
cattivo tempo, cara mia, mi hai già stancata a sufficienza! Prima tutte quelle storie, adesso qui,
proprio quando siamo ormai arrivate, dici che ci pianti in asso! Cosa credi,
che abbiamo tutti bisogno del tuo sacrosanto aiuto? Avanti, è l’ultimo dei
momenti per piantare grane!»
Tutto
ciò che tale filippica suscitò in Coltello fu un irrigidirsi delle sue labbra,
che rese la sua espressione ancora più determinata.
«Proprio
perché siamo qui… proprio perché siamo quasi arrivate… non c’è più nient’altro che io possa fare per
voi, ammesso che lo abbia fatto fino ad ora… E voi non avrete in ogni caso più
bisogno di me… Sono certa che manca molto poco, ed
arriverete sane e salve a qualche abitazione. Questa, però, non è la mia
strada.»
«E
questo cosa vorrebbe significare?» sbraitò Rosa, puntellandosi le mani sui
fianchi «Quale sarebbe la “tua strada” allora?»
Ogni
tentativo di gentilezza scomparve dal viso di Coltello, e la sua espressione
tradì un lampo di paura. Ma, dopo quel fugace sguardo, il suo viso tornò a
indurirsi di una dolente fermezza, che sembrava quasi inconsapevole.
«Io
tornerò alla baita.»
Scese
un silenzio tetro e sospeso. Poi, quasi con difficoltà, Caramello emise un
flebile gemito, subito dopo il quale trovò le parole di nuovo, precedendo Rosa,
che continuava a fissarla attonita e dubbiosa, apparentemente incapace di
crederle.
«Non
puoi dire sul serio…» disse Caramello, tristemente
«Perché dovresti torna… ?»
«Ti
spareranno a vista.» interruppe con tono tagliente Rosa, continuando a
guardarla intensamente, cercando di penetrare oltre la cortina dei suoi occhi,
senza riuscirvi molto bene.
«Lo
so.» disse Coltello, semplicemente, resistendo ancora ai fantasmi di paura che
le perturbavano lo sguardo.
«Ci tornerò…» iniziò poi a spiegare, rivolta a Caramello
«perché devo tirare fuori quei bambini da lì… e
perché l’unico modo sicuro che ho per sapere qualcosa del mio passato è
ritrovare il mio zaino.»
«Ma
smettila di dire ‘devo qui e devo là’, tu non devi proprio niente!» sputò fuori Rosa, quasi con astio.
«Allora,
è quello che voglio fare.» si
corresse Coltello, dando l’impressione di ritenere importante quella
precisazione.
«Faresti
molto meglio a pensare piuttosto a salvarti la pelle!» disse ancora Rosa, ma la
sua voce aveva un leggero segno di cedimento.
«Forse
sì…» concesse Coltello «Ma se ora non torno indietro,
non me lo perdonerò mai più.»
Si
interruppe, riflettendo brevemente, e disse ancora «Non so se sono meglio poche
ore facendo quello che si vuole, o molti anni evitando quello che si teme e
affrontando i rimorsi, ma io… al momento ho più paura
della seconda… In fondo, forse è ancora la paura a
guidarmi. Solo che si è spostata verso qualcos’altro.»
Rosa
corrugò la fronte, come se quelle spiegazioni la infastidissero più che altro.
Caramello la stava guardando come se riponesse in lei tutte le sue speranze di
persuadere Coltello a non fare pazzie, e ciò le stava inducendo ulteriore
fastidio.
«Fa
quello che ti pare…» disse infine Rosa, e, nonostante
le sue parole, il suo tono si era fatto un po’ più comprensivo «Per quel che
penso, ti pentirai piuttosto dell’essere tornata indietro. E quando vorrai
raggiungerci dovrai correre, perché io non ho alcuna intenzione di stare qui ad
aspettare di vedere se ritorni a ragionare…»
Coltello
comprese, nonostante quei modi ancora risentiti, che Rosa aveva cambiato
opinione prima ancora di rendersene conto lei stessa, e che c’erano desideri
nascosti ora nelle sue parole, come quello che lei cambiasse idea… ed insomma, ciò che le stava riferendo, era ciò che
si augurava. Probabilmente sia per poter poi vantare di aver avuto ragione, sia
perché ci teneva a vederla arrivare sana e salva come loro in qualche rifugio.
E forse voleva cercare, in un ultimo debole tentativo per niente fiducioso, di
indurla ad andare con loro per salvaguardare il suo orgoglio e non dover poi
ammettere di aver sbagliato, se non per altro. Per questo sorrise appena, senza
poterne fare a meno, a Rosa.
Quest’ultima
si riscosse dopo un breve momento, si tolse il fucile da tracolla e glielo
porse. Coltello rimase a lungo a fissarlo, senza osare toccarlo né dire nulla.
Il fucile che aveva ucciso il lupo e aveva fatto andare via Scintilla; il
fucile di cui aveva portato il nome e che, tuttavia, aveva agito in modo molto
diverso da come avrebbe mai fatto lei.
«Prendilo.»
le disse in tono fermo Rosa «Non puoi davvero farne a meno. Sii ragionevole.»
Coltello
però non sentiva di poter riuscire a toccarlo.
«Fallo
per noi…» disse debolmente Caramello.
Qualcosa
scattò in Coltello, e, prima che potesse rendersene veramente conto, aveva
allungato le dita sul gelido metallo e il duro legno dell’arma; solo quando
Rosa la lasciò andare nelle sue mani, sentendone il peso, le parve che le
pesasse più nella testa, sulla coscienza, che sulle braccia. Ma allo stesso
tempo il gesto le procurò un sordo dolore alla ferita fasciata sul braccio. La
smorfia di sofferenza che le sorse spontanea al volto dovette ricordare anche a
Rosa della sua ferita, perché disse:
«E
ricordati bene di cambiare la fasciatura ogni tanto, a seconda di quanto si sporca… E a pulirla se rimane ancora aperto quel taglio,
invece non inumidirlo se vedi che si sta cicatrizzando o saranno guai. A proposito…»
Rosa
appoggiò a terra il suo zaino, vi frugò dentro fino a trovare un tubetto di
crema che le porse. Coltello vi riconobbe quella specie di gel
cicatrizzante/disinfettante che la ragazza aveva insistito per applicarle ad
ogni cambio di fasciatura.
«Potrebbe
servire a voi…» articolò, lentamente.
«Beh,
spero vivamente che non ci feriremo nel scendere!» esclamò Rosa.
«Intendevo
il… fucile…»
«Non
credo che riuscirei mai a usarlo.» disse sinceramente Rosa.
«Nemmeno
io.» mormorò Coltello, con un leggero brivido.
«Sì…» comprese Rosa, a disagio «Ma insomma, può esserti
utile per appoggiarti mentre cammini, o qualcosa del genere…
Ahhh…» si lamentò infastidita «Che vuoi che ci faccia
io? Se proprio vuoi abbandonarlo da qualche parte fallo, ecco!» concluse
sbrigativamente.
«Potresti
portarlo a quelli della baita» suggerì quasi timidamente Caramello «Potrebbe
essere loro utile.»
Per
qualche motivo, quelle parole non tranquillizzarono affatto Coltello. Le ricordò
la promessa che le era stata fatta prima che lasciasse la baita…
che le avrebbero sparato se fosse ritornata.
«Sì,
ecco, riportalo a loro. Ti saranno grati.» suggerì intenzionalmente Rosa, anche
se non aveva affatto l’aria di crederci veramente.
«Il mio lega capelli… puoi tenerlo…» disse ancora Rosa.
«Ah… sì… grazie.» rispose Coltello, ricordandosene
solo in quel momento, e portandosi una mano alla nuca per toccare il suddetto
oggetto, ormai ingarbugliato con le sue ciocche in un grumo di capelli bagnatisi
e riasciugatisi diverse volte, umidi e freddi.
Quando riabbassò il braccio lungo il fianco, in un gesto stanco,
tutte e tre si stavano ancora guardando, e anche se era evidente l’ansia di
andarsene di Rosa e Caramello, ora era controbilanciata dall’indugio di restare
con lei un altro po’. Rosa si sforzava di mantenere un’espressione pratica e
decisa, fingendo persino con se stessa che l’unico motivo per cui non aveva
ancora voltato le spalle all’ennesima persona che le abbandonava al loro
destino, era perché anche lei aveva una coscienza, e non voleva scoprire troppo
tardi di aver tralasciato qualcos’altro.
«Trasferiamo dell’altro cibo dai nostri al tuo zaino. Non ha senso
che ce lo portiamo dietro noi, ci appesantirebbe, e ora abbiamo bisogno di
essere veloci per arrivare entro sera a qualche casa. A te, invece, servirà, e
parecchio! Ma poi, dovresti essere tu a pensare a queste cose!» eruppe infine.
Caramello sembrò lieta di avere un’altra scusa per rimandare la
loro separazione, perché, prima ancora che Rosa avesse terminato di parlare, si
era già sfilata lo zaino e ci stava frugando dentro alla ricerca delle sue
ultime razioni.
Coltello si sentiva stordita, e stavolta sapeva che non si
trattava della ferita, ma forse era l’enormità della scelta che aveva appena
preso a darle le vertigini, a farla sentire come se non fosse lei che stava
facendo ciò che stava facendo, ma qualcuno che, anche se poteva assomigliarle
molto, aveva ben più determinazione e folle coraggio di lei. Si limitò a
guardare, con un certo senso di irrealtà, il modo in cui Rosa stipava nello
zaino di Scintilla praticamente tutto ciò che era rimasto di commestibile, con
mosse rapide e nervose, ma precise.
Solo quando Caramello, che aveva iniziato a lacrimare in un
commosso silenzio, la strinse in un abbraccio comprese il reale motivo del
perché si sentiva così assente. Se fosse stata più presente, in quel momento,
la paura e l’inesorabilità della sua scelta l’avrebbero demolita brano a brano.
Aveva bisogno, almeno per un po’ di tempo, di non pensare realmente alle
conseguenze materiali di quello che stava facendo; aveva bisogno di affrontare
solo un istante alla volta, senza preoccuparsi troppo di quello che sarebbe
accaduto dopo. Perciò, ricambiò con un certo imbarazzato distacco l’abbraccio
di Caramello, e quando la ragazza la lasciò andare, si ritrovò a fissare di
nuovo il volto contrariato di Rosa.
«Non ti aspettare un abbraccio da me.» le intimò «Non si sa mai,
che tutta questa follia sia contagiosa.»
Di nuovo comprese dal suo tono che, pur se travestito da offesa,
il suo era qualcosa di simile a un complimento: che non era convinta di starsi
meritando.
Non era come quando si era frapposta tra il fucile e il lupo.
Allora aveva sentito fin nelle viscere che stava facendo qualcosa che aveva una
propria, intrinseca e indubbia giustizia. Ora non aveva sinceramente idea di
che cosa stesse facendo, che cosa avrebbe fatto, a che cosa sarebbe mai potuta
servire lei, una ragazza che vagava da sola per una foresta con un fucile che
non voleva usare, un coltello che era più un amuleto che un’arma, e lo zaino di
un fantasma scomparso tra gli alberi senza girarsi al suo disperato richiamo.
Un pulviscolo in un mare di polvere posatasi su cose che hanno già preso da
tempo il loro percorso, senza curarsi di lei: questo era.
Guardò le ragazze, che sembravano aspettare che dicesse qualcosa.
«Voi… ricordate la vostra casa, la
vostra famiglia, le vostre persone care… qualcosa di
importante della vostra vita?»
«Beh, sì, qualcosa sì.» ammise Rosa «Dopotutto noi tre,
fortunatamente, non dovremmo essere rimaste molto a lungo nella baita. Certo,
su diverse cose faccio molta fatica… Ma insomma, non
credo sia davvero possibile dimenticare così…» e
schioccò le dita «le cose veramente importanti, a meno di non ricordare proprio
niente di niente! Devono essere proprio le ultime che dimentichi.»
Rosa la guardò, aspettandosi che il suo ragionevole discorso
avesse qualche riconoscimento, ma Coltello sembrava essersi immersa in altri
pensieri. Allora sospirò, pesantemente, con rassegnazione.
«Ora… sarà meglio che noi andiamo…»
disse, con un certo tatto.
«Sì…» rispose lentamente Coltello.
Le guardò con intenzione, più per dire addio alla loro presenza
che con l’intento di memorizzare il loro aspetto, le loro espressioni, il loro
atteggiamento. Poi, di colpo, si ritrovò a dire, guidata da un’intuizione che
non provò ad ostacolare.
«Addio, Salva.» e guardò la ragazza che aveva portato il nome
‘Caramello’.
«Addio, Vittoria.» disse ancora, spostando lo sguardo sull’altra,
che aveva portato il nome di ‘Rosa’.
Il viso di Salva apparve sorpreso, poi si illuminò in un sorriso
radioso e triste ad un tempo, sembrò cercare di dire qualcosa, ma tacque e
annuì. Parve raccogliersi su di sé, per abbracciare il proprio nome con
trasporto e sollievo. Vittoria invece, dopo l’iniziale stupore, le rispose, in
tono altrettanto serio.
«Semmai ‘arrivederci’, Coraggiosa.»
Coraggiosa
non riuscì a percepire il tempo per un momento, trattenendo il fiato mentre il
nuovo nome, dall’aria così importante, le si appoggiava indosso come un
invisibile mantello, per la verità forse piuttosto misero, perché cucito solo
dei suoi stessi sfrontati propositi. Quando ritornò del tutto in sé, vide le
due ragazze, le spalle voltate a lei, sparire lentamente oltre il ciglio del
pendio, scendendo a cauti passi lungo il sentiero coperto di neve. Lei non si
mosse, finché non riuscì più a sentire il rumore del loro affondare nella neve
bianca, scricchiolante sotto i loro passi appesantiti dagli zaini e dagli abiti
imbottiti.
Allora,
lentamente, Coraggiosa dovette rendersi conto che il nome che aveva ora era più
grande di lei, e se non fosse riuscita a crescere abbastanza in fretta da
riempirlo e sostenerlo, probabilmente avrebbe finito per schiacciarla. E
dovette accettare il dato di fatto che, ora, non aveva idea di che cosa fare.
Eppure,
avrebbe dovuto essere semplice e scontato, o no?
Alla
fine riuscì a voltarsi, e tornò a guardare le montagne innevate e coperte di
boschi alle sue spalle, e le tracce dei loro passi ancora visibili nella neve.
Si rese conto di alcune cose: che, seguendo a ritroso
le loro tracce, avrebbe continuamente dovuto fare i conti con la differenza che
c’è tra sei e due piedi; poi, più avanti, anche con quella che c’è tra otto e
due piedi; e che gli alberi, che prima l’avevano tormentata coi loro
mormorii, ora tacevano. Di primo acchito li considerò dei traditori insidiosi,
di quel tipo che prima si finge amico e consigliere fidato, ma che poi, dopo
averti persuaso a seguire uno sciagurato suggerimento, resta a guardare in
silenzio mentre ne subisci le conseguenze, senza muovere più un dito in tuo
soccorso. Ma in fondo, non erano altro che alberi. E
lei non era altro che un corpo provato dalla fatica e dal freddo,
piuttosto mingherlino e solitario, che doveva ripetere da capo il percorso di
chilometri di neve, alberi, lupi e ricordi dolorosi, per arrivare infine
davanti a una spianata di armati, divisi in due squadre diverse ma non troppo
dissimili, e stare a vedere chi avrebbe sparato per primo la pallottola che
l’avrebbe fatta cadere definitivamente.
Ma c’erano altre cose importanti, quelle che l’avevano spinta a
fare la scelta; lei, però, riusciva a vederne bene solo una. Salva e Vittoria
avevano detto di aver qualcosa che ricordavano, qualcosa a cui ritornare,
mentre lei non aveva niente. E in fondo non aveva detto loro tutta la verità,
perché non era la paura dei rimorsi la più terribile ora. Era la paura del
niente, il timore di tornare a qualche civiltà, e scoprire che quando l’aveva
lasciata non aveva niente da perdere; perciò, anche tornando, non avrebbe
trovato niente ad aspettarla. Nessun luogo che potesse chiamare casa, nessuna
persona nell’incontro della quale ritrovare il proprio affetto e amore per un
altro essere umano.
E, in
qualche modo, quell’ignoto faceva molta più paura di ciò che sapeva riguardo a
baite presidiate da pazzi armati, Tute, fucili, lupi, e quant’altro.
Si
ritrovò a stringere di nuovo il coltello. Si accorse di aver iniziato già a
camminare, sulle spalle il suo zaino e quello di Scintilla, il fucile a
tracolla, e il coltello nel pugno. La sua direzione decisa dalle tracce che
aveva già lasciato una volta, almeno fino al fiume innevato, che di nuovo avrebbe
dovuto essere la sua guida e, stavolta, anche il suo unico compagno di percorso.
Riuscì
a procedere solo poche ore, e non si preoccupò di calcolare seriamente il tempo
che passava, ancora illudendosi di essere fuori da esso fintanto che riusciva
ad evitare di affrontare qualsiasi altro frammento di spazio-tempo che non
fosse quello dove si trovava in quel preciso istante: un frammento alla volta,
lasciando cadere dietro di sé quelli già passati e raccogliendo distrattamente
quelli che aveva di fronte, scegliendone uno tra i tanti senza fretta, come se non facesse
realmente differenza.
Quando
si sentì senza forze, si sedette sopra agli zaini, allungando le gambe davanti
a sé e appoggiando la schiena a un tronco d’albero, il braccio ferito
appoggiato con delicatezza in grembo. Guardò il cielo grigiastro, pieno di
nuvole fumose, ed ebbe la netta sensazione che i suoi occhi fossero vuoti e
nebulosi come le appariva quella distesa di grigio sporco.
«Non
posso chiamarmi Coraggiosa.» disse piano nel calmo silenzio che la circondava
«Non ora.»
Lasciò
ricadere il silenzio, senza chiedersi con chi stesse parlando. Chi altro, se
non se stessa? Ma in effetti si stava rivolgendo a qualcuno. Qualcuno che
probabilmente, a quell’ora, doveva giacere assiderato da qualche parte nella
foresta.
«Mi
chiamerò Fortuna. Tu cosa ne dici… ?» disse ancora,
più piano, mentre gli occhi scivolavano nel chiudersi, stanchi di tutto quel
vuoto.
Il suo
corpo esausto si afflosciò, abbandonandosi al sonno che la stava avvolgendo
senza chiedere il permesso, ma un’improvvisa fitta al braccio ferito la
riscosse e le strappò un piccolo lamento. Si raddrizzò nuovamente, stringendo
con l’altra mano il braccio, a denti stretti. E la smorfia si tramutò in uno
stentato e brevissimo sorrisetto.
Una
volta di più ebbe l’impressione che il coltello, e il taglio che con esso si
era procurata, le avrebbero salvato la vita, più di qualsiasi altra cosa.
Trovò
in qualche modo la forza di estrarre dallo zaino il sacco a pelo, stenderlo per
terra e infilarcisi dentro, imbacuccandosi il meglio
possibile. Ora che era sola, e che aveva bisogno di dormire, non c’era nessuno
che avrebbe potuto mantenere acceso un fuoco la notte e fare la guardia. Perciò
si sarebbe limitata ad affidarsi al sacco a pelo e a tutti i vestiti che aveva
per il freddo, e al suo nuovo nome per tutto il resto.
***
Un
ragazzo dall’aria solitaria passeggiava sulla spiaggia ghiaiosa di un lago. Era
un tramonto piuttosto silenzioso, e il sole si era nascosto dietro le nuvole
ammassate tutte sull’orizzonte: nuvole di
temporale.
Nella
scarsa luce del tramonto estivo ombreggiato dal preludio temporalesco, egli
procedeva guardando per terra, cercando. Di tanto in tanto si chinava,
raccoglieva qualcosa, lo rigirava tra le dita agili, osservandolo e saggiandolo
al tatto con minuziosa cura. A volte se lo metteva in tasca, altre volte lo
lasciava ricadere per terra. In entrambi i casi, la sua espressione rimaneva di
svagata e ironica noncuranza, senza segno di soddisfazione o di scontento,
nonostante sembrasse particolarmente assorto in quella selezione.
Alla
fine si fermò. C’era una barca di legno capovolta, tirata in secco sulla
spiaggia, ormeggiata con una lunga corda fronzuta dal consumo, che la teneva
stretta ad un pesante blocco di cemento. Il ragazzo le rivolse solo una breve
occhiata, poi si chinò di fianco ad essa, guardando il legno incrostato qui e
là di muschi marini. Tirò fuori la mano dalla tasca, piena dei sassetti raccolti, e ne scelse uno da essi. Con quello
provò a scrivere sul legno della barca qualcosa, ma si accorse ben presto che
il suo era un tentativo fallito in partenza. Scosse piano la testa, piuttosto
divertito, e si rimise i sassetti in tasca. Stavolta
frugò nella tasca del giubbotto che indossava, e ne trasse un coltellino
svizzero. Aprì la lama più appuntita, e con essa ricominciò a incidere sul
legno.
Quando
ritenne di aver finito e rifinito per bene ogni lettera, in modo che fosse
impressa a sufficiente profondità e avesse una larghezza e precisione che ne
rendeva immediata la lettura, si rialzò in piedi e rimise via il coltellino. Si
soffermò per un po’ a guardare il lavoro nel complesso, inclinando appena la
testa di lato, improvvisamente serio e riflessivo. Qualsiasi cosa ne pensasse,
non trasparì dal suo viso.
Si
voltò e tornò vicino all’acqua del lago, le cui pallide ondine si arrotolavano
sui sassolini della spiaggia. Si mise di fronte all’acqua in una posizione
abbastanza concentrata, trasse un sassolino dalla tasca e studiò con occhio
critico la traiettoria ed il movimento più
adatto del polso, prima di scagliarlo. Il sassoso proiettile percorse una linea abbastanza diritta da riuscire a saltare un paio
di volte sulla superficie dell’acqua, prima di affondarvi dentro con un
sommesso piccolo tonfo.
Il
ragazzo continuò a lanciare sassolino dopo sassolino, cercando di migliorare il
numero massimo di saltelli che riusciva a fargli fare. Il suo migliore lancio,
dopo una decina di minuti, ne contava ben sei, quando qualcosa lo distrasse.
Un
rumore di passi sui sassi, dietro di lui, si avvicinava. Non sapeva bene
com’era possibile, e non se lo sarebbe mai chiesto sul serio, ma riconobbe quel
peculiare tipo di passo senza doversi girare. Perciò finse di non accorgersi o
di non essere interessato, mentre quei passi si avvicinavano fino a giungergli
dietro le spalle, e fermarsi. Per tutto il tempo pretese di rimanere concentrato
nel prendere la mira per tirare il sassolino che aveva in mano, ma non lo
lanciò finché non ebbe sentito la voce rivolgerglisi.
«Aria
di tempesta.»
Il
sassolino partì verso l’acqua, teso nella traiettoria impartitagli, e riuscì a
fare solo due o tre saltelli goffi prima di affondare.
«Quello
era piuttosto scarso.» disse ancora la voce, con una certa divertita malizia.
Lui
alzò le spalle, e riuscì a trattenere abbastanza bene il sorriso che gli
spuntava sulle labbra. Aveva già un altro sassetto in
mano, e fece per prendere la mira. Sentì muovere dietro di sé, una mano si
appoggiò sulla sua, e dita sottili si intrufolarono tra le sue per sottrargli
il sassolino. Senza nemmeno rifletterci, si trovò a non opporre alcuna
resistenza. Si lasciò prendere il sasso, con la stessa calma affettuosa con cui
la spiaggia lasciava che le piccole onde le portassero via i suoi sassi,
facendoli rotolare in un chiacchiericcio che sembrava sciocco e leggero. Ma non
resistette alla tentazione di spiare la ladra gentile.
Incontrò
un breve sguardo color acquamarina, incorniciato da capelli scuri come
cioccolato fondente, e spettinati come se loro la tempesta l’avessero già
vista, e non gli fosse sembrata niente di così straordinario, in confidenza. E,
di nuovo, sentì la curiosa sensazione che doveva provare la spiaggia, di starsi
disgregando poco a poco, pur se aveva la certezza di lasciare i suoi pezzi alla
fidata acqua, che li scombussolava un po’ ma, in fondo, non li portava lontano,
e gliene restituiva la maggior parte con qualche onda di ritorno,
probabilmente.
La
ragazza stava già prendendo la mira a sua volta. Scagliò, in un modo molto meno
scattante eppure più spedito del suo, e il sasso sfrecciò sull’acqua come se ci
giocasse. Cinque salti, anche se l’ultimo era già un mezzo tuffo. Lei si voltò
a sorridergli, contenta, ma anche con un accenno di impudente vittoria.
«La
fortuna della principiante.» disse lui, senza trovare di meglio come commento.
Lei
rise, allora, cogliendolo curiosamente alla sprovvista, per il suono
cristallino del suo divertimento.
«Ah…, te l’ho insegnato io come si lanciano.» gli ricordò la
ragazza.
«E io
ho un record più alto del tuo.» ribatté lui tranquillamente, cercando di non
sbilanciarsi mostrando la sua voglia di vincere, almeno a parole «Giusto prima
che tu arrivassi ne ho fatti sei… sei e mezzo di fila.»
«Questo
è il tuo record?» chiese lei, pregustando che l’avrebbe spuntata.
«Certo
che no.» spiegò lui, impegnandosi sempre nel mantenere l’espressione di
superiore distacco scherzoso «Una volta ne ho fatti nove.»
Finalmente
sul viso di lei si disegnò lo stupore. Ma poi incrociò le braccia sul petto e
ritornò la sfida nei suoi occhi. «Non me la bevo.» gli comunicò.
«Dici
così perché tu non ci riesci a fargli fare nove salti.» la punzecchiò, certo di
colpire nel segno.
La
conosceva abbastanza bene da cogliere ogni minimo segno di fastidio, e seppe di
averci azzeccato quando vide un brevissimo tremolio in uno dei suoi
sopraccigli. Lui, invece, fece più fatica a trattenersi dal lasciar trasparire
qualche segno di come si stava gustando il dolce siero della vittoria.
«E’
solo che ho imparato a farli saltare ancora prima di imparare a contare.» trovò
tuttavia da ribattere sagacemente lei «E quando te ancora non sapevi dirla la
parola ‘sasso’.»
Lui
ghignò, divertito. Avrebbe potuto batterla col gioco dei sassi, forse, anche se
non era mai arrivato sul serio a nove salti, ma lei avrebbe trovato lo stesso
il modo di spuntarla, a costo di lanciare tutta la spiaggia nel lago per
esercitarsi, sasso dopo sasso. Aveva voglia di sfidarla a chi riusciva a fare
prima a scambiare di posto il lago con la spiaggia. E forse, se si fosse
sentito particolarmente bendisposto, avrebbe usato un cucchiaino bucato, lui,
per l’acqua, in modo che lei vincesse, e poi non glielo avrebbe mai confessato.
Ma lei lo avrebbe capito lo stesso, e avrebbe preteso di ricominciare la sfida
da capo. Così, alla fine, il lago e la spiaggia sarebbero tornati al loro posto
originale.
«Cosa
ci fai qui?» le chiese, per cambiare argomento.
«Io?
Io abito a un tiro di schioppo da qui. Tu, piuttosto?»
«Sono
mesi che vengo qui a fare un giro ogni tanto.» le ricordò.
«Sì… ma non mi aspettavo di vederti prima di un temporale.»
rispose lei, lanciando uno sguardo alle nuvole temporalesche che borbottavano
in lontananza. Non sembrava per niente preoccupata, e lui le invidiò qualcosa
che non riuscì a capire.
«Non
mi dispiacciono, i temporali.» disse solo, staccando a malincuore lo sguardo da
lei per rivolgerlo alle nuvole.
«Beh… su questo ti capisco.» disse lei, con un lieve
sospiro.
La
ragazza alzò le braccia sulla testa, allungando le mani verso l’alto, e si alzò
sulla punta dei piedi, stiracchiandosi con piacere rilassato ed energico.
Stavolta lui si concentrò appositamente per non voltarsi a guardarla troppo
direttamente.
«Sembri
stanca.» osservò solo.
«Hm… no, non particolarmente. È stata una giornata di lavoro
come altre.» tacque, e la sua espressione divenne seria
e pensierosa. Allora l’altro non disse niente, intuendo in qualche modo che
avrebbe presto ripreso a parlare: stava solo cercando le parole.
«Per
la verità è che…» incominciò lei, poi esitò un
momento, e rivolse un lieve sorriso malinconico e incerto all’orizzonte già
lampeggiante di fulmini e ribollente di nuvole livide «Per la verità, quello
che non riesco a sopportare è l’idea di dover passare una vita così, quando
avrò finito la scuola. Una vita a lavorare.»
Lui si stupì, e non ne comprese il perché. Era la cosa più
naturale che avesse mai sentito, eppure faticava ad associarla all’immagine di
lei, per qualche motivo.
«Ci
saranno altre cose, nella tua vita…» disse,
pacatamente. Se ne sentiva convinto. Non avrebbe potuto sopportarlo se non
fosse stato così.
Lei lo
fissò, quasi scettica, ma alla fine sorrise, e poi rise calorosamente.
«Sì, probabilmente
hai ragione.» ammise «Era ora che mi
insegnassi qualcosa di tuo, visto che col gioco dei sassi proprio non ci sei.»
lo provocò.
«Questo
lo dici tu…» obbiettò lui sogghignando «Però …»
qualcosa di ciò che stava pensando lo fece schernire fugacemente «Non ho niente
da insegnare a questo proposito.»
Lei
diventò molto seria, e tacque, non osando dire ad alta voce nient’altro.
Mentre
guardavano in silenzio la tempesta avvicinarsi, lui iniziò ad udire un
suono diverso da quello dei tuoni lontani: un canticchiare
sommesso. Ascoltò.
«Vorrei
due ali d’aliante… per volare sempre più distante… e una baracca sul fiume…
per pulirmi in pace le mie piume… *»
Lei si
interruppe quando si rese conto che la stava guardando, e sorrise con una
smorfia timida di chi non si sente davvero così in imbarazzo.
«Non
la conosco…» disse allora lui, mancandogli il
sentirla cantare piano, piuttosto stonata, ma con quel tono così dolce «Continua…» la invitò, con esitazione.
«Non
ricordo le altre parole…» confessò lei, un po’ stupita
dalla richiesta «L’ho sentita prima alla radio…»
«Non importa…» disse lui «Cioè… non
importano le parole… quelle erano belle.»
Lei
rise di nuovo.
Poco
dopo un roboante preludio di tuono risuonò molto vicino, e le nuvole stavano
accelerando, sospinte da un vento d’alta quota che lì, sulla spiaggia e sul
lago, quasi non si avvertiva.
«Hai
intenzione di prendere l’acqua?» chiese lei.
«Sì,
al volo naturalmente.» scherzò lui per un attimo, con un lieve sorriso rivolto
al lago. Poi disse, più seriamente, e fingendosi più distratto di quanto non
potesse essere quando c’era lei «No. Non ho voglia di un raffreddore.»
«Mhm.» mugugnò solo lei, giusto per dare segno di averlo
sentito.
Diversi
minuti dopo, però, erano ancora lì immobili. Lui giocherellava coi sassolini
che gli erano rimasti in tasca, mentre lei canticchiava a bocca chiusa ancora
il motivetto della canzone che aveva accennato prima; forse si erano
semplicemente dimenticati di muoversi. Quando le prime gocce iniziarono a
cadere erano ancora dove si trovavano.
La
ragazza iniziò a sbattere le palpebre ogni volta che una goccia le cadeva sulle
ciglia, infastidendola, e alla fine disse «A questo punto la prenderai comunque
l’acqua.»
«Beh…» esitò lui, guardandosi intorno «Non è detto…»
Seguì
il suo sguardo, e si ritrovò a fissare anche lei una barca di legno, tirata in
secco e capovolta sulla spiaggia. Sorrise, divertita, e ci si avviò con
curiosità quasi infantile, affiancata dall’altro.
Quando
vi giunse di fronte, però, si fermò, stupita. Qualcuno aveva rozzamente inciso
una parola sullo scafo, sgrattuggiando la flora
marina che vi si era incrostata, e scheggiando il legno. La lesse, si fece
assorta, e di getto mormorò «Che bel nome… »
Il
ragazzo se ne sorprese «Davvero?»
«Sì, è…» iniziò lei, ma si interruppe colta da un’intuizione, e
si voltò a guardarlo con divertito sospetto «Ma sei stato tu?»
Alzò
le spalle, sentendosi vagamente accusato «Può essere.»
Lei
sorrise vivacemente «Sì, è un bel nome.» confermò. «Di chi è?» chiese ancora,
curiosa.
«Come
di chi è? Della barca, no?»
«Voglio
dire… insomma, è di qualcun altro?»
«Che
ne so. Di nessun’altro che io conosca.»
Lei ne
sembrò contenta, poi afferrò la barca per il bordo, infilando le dita tra il
legno e i sassetti della spiaggia.
«Che
fai?» le chiese, ma già si sentì stupido per la domanda, mentre ancora lei gli
stava rispondendo.
«Se
deve servirci da riparo, dovremo pure metterci sotto, non ti pare? O pensavi di
scavare un tunnel?» scherzò.
«Era
una domanda retorica… anche perché non credo che
riuscirai a sollevarla…»
Lei
smise immediatamente di provarci, e si volse a rivolgergli un’occhiata
sarcastica. «Allora, fallo tu.» disse, tranquillamente.
Si
fece avanti, afferrò a sua volta il bordo della barca e provò a far leva, e si
rese conto che era più pesante di quello che aveva pensato. Si chiese se fosse
solo la sua impressione che la ragazza si stesse divertendo ora nel guardare i
suoi sforzi, e se avesse previsto che non ci sarebbe riuscito. Ma lei non disse
niente, si limitò ad affiancarglisi e a dargli una
mano, e in questo modo riuscirono ad alzarla abbastanza da potercisi
infilare sotto, uno dopo l’altra.
Sotto
la barca c’era un’atmosfera satura di odore di legno bagnato, con un vago
accenno di marcio, ed era praticamente buio. La prima cosa che fece lui fu
accendere l’accendino che aveva con sé, per fare luce, e si sorprese nello
scoprire che lei aveva un indice in bocca.
«Ti
sei fatta male?»
«Eh?»
fece lei, distraendosi dalla contemplazione dello spazio che avevano a
disposizione «Ah, no. È solo una scheggia. Me la sto togliendo.» spiegò, con
tranquilla naturalezza.
«Ah…» fu tutto quello che trovò da replicare, e poi, con sua
stessa sorpresa, gli venne da ridere. Scoprì che non sapeva più bene come
farlo, perché il suo sembrò uno strano verso, che poteva ricordare quando a
qualcuno andava di traverso qualcosa.
«Cosa?»
chiese lei, curiosa.
«Sei veramente…» iniziò lui.
Lei
aspettò, pazientemente, ma attenta.
«… selvatica… » azzardò lui, non troppo sicuro.
La
ragazza sembrò non capire cosa intendesse, non ritenerla né un’offesa né un
complimento, un puro nonsenso. Per lui aveva senso, invece, ma solo
paragonandola alle persone di città che conosceva. Quel tipo di persone che per
una scheggia avrebbero pensato di rivolgersi a un medico.
«E tu
non ne hai prese di schegge?» si informò lei.
«Sì…» per un attimo gli venne in mente che avrebbe potuto
succhiare anche le sue dita per togliergli le schegge, e si imbarazzò
abbastanza da dire in fretta, in tono scherzoso «Vuoi togliermele tu?»
Lei lo
guardò con aria di sfida «Sì, dammi il coltellino.»
Decise di
stare al gioco, grato che non si fosse accorta o avesse fatto finta di non
accorgersi del suo imbarazzo travestito alla bell’e meglio da sicurezza di sé.
«Allora no, grazie.» celiò.
Aveva
la sensazione che ci fosse qualcosa di importante che stava sfuggendo loro,
qualcosa che aveva a che fare con la barca, anche se al momento non riusciva a
farselo venire in mente, e, per la verità, al momento gli risultava proprio
difficile il pensare, anche se non era sicuro di volerne scoprire il motivo.
Dopotutto quell’ambiente non sembrava così male, nonostante l’umido dell’aria
che trasudava dal legno.
Sentì
che lei rideva di nuovo, e vide che lo stava guardando.
«Cosa
c’è?» chiese, cercando di non prendersela troppo prima di aver appurato il
motivo del suo divertimento.
«Sembri… hai i capelli bagnati, e si sono…
arruffati, sì. Sembri un uccello con le penne bagnate.» spiegò lei, ancora
divertita.
«Hmm.» mugugnò lui, incerto se ritenerla una provocazione
«Che genere di uccello?»
Lei lo
guardò per un po’, prendendosi il tempo di studiarlo con calma.
«Un
corvo.» disse alla fine, con sicurezza.
«Un corvo…» ripeté lui lentamente, assai poco convinto.
L’accendino che aveva in mano si spense.
«Credo
che sia finito il gas.» le comunicò. Sentì un leggero fruscio di vestiti, e gli
parve di intravedere che lei aveva alzato le spalle.
«Niente
di grave.» commentò.
La
pioggia stava iniziando ad abbattersi con una certa violenza sui sassi della
spiaggia, fuori, e a rumoreggiare sullo scafo del loro rifugio improvvisato.
«Se
quando smette di piovere siamo asciutti, significa che questa barca può ancora
navigare.» disse lei.
Silenzio.
«Perché
vorrà dire che non ci sono falle.» esplicitò.
«L’avevo
capito.» si difese lui.
«Dici
davvero, corvo?» disse allusiva, lanciandogli uno sguardo provocatoriamente
divertito.
«Hey… non mi sembra che siamo abbastanza in confidenza da
darci dei soprannomi…» osservò allora lui,
scherzosamente.
«Sinceramente
il tuo nome di battesimo non mi dice niente di che.» gli disse lei.
«E
invece ‘corvo’ cosa ti dice?» indagò, ironico.
«Mah… mi ricorderà di quando abbiamo avuto la bella idea di
ripararci dalla pioggia sotto una barca rovesciata…»
ribatté, sardonica.
«Ma tu
potresti anche andare a casa, veramente, abiti da queste parti, no?» ripiegò.
«Avrei
dovuto farlo prima. Ormai piove troppo.» disse solo lei.
Lui,
in qualche strana maniera, si sentì particolarmente felice che non avesse colto
il suo suggerimento. La vera domanda era perché glielo avesse detto… Forse stava solo cercando di auto sabotarsi, e anche
se non ne sapeva il perché, qualche valido motivo doveva pur esserci, no… ?
«Era
un tentativo di cacciarmi?» chiese lei, infatti.
«No…» rispose, troppo impulsivamente per i suoi gusti. Si
schiarì la gola, per recuperare un tono distaccato «Anche se qui sotto non c’è
tanto spazio.»
«Potresti
sempre andare fuori a prendere l’acqua.» gli rimbeccò lei.
Si
ritrovò a chiedersi se si era offesa davvero, anche se il loro era ancora un
tono di scherzo.
«Dovrò
dare un soprannome anche a te, mi sa.» disse infine, cercando di recuperare.
«Ti
tocca.» concordò lei.
«Allora…» tacque, riflettendo, ma non gli veniva in mente assolutamente niente: non trovava il modo di
riassumerla efficacemente. Forse, se solo lei non fosse stata proprio lì, ci
sarebbe riuscito meglio. Aveva bisogno di prendere le distanze per poterla
riassumere, così era un tentativo perso in partenza.
«Non so…» ammise infine, scoraggiato.
«A me piacerebbe…» e disse il nome che lui aveva inciso sulla
barca, venendogli in aiuto.
«Non è
possibile… c’è già la barca che si chiama così.» la
informò lui. Stavolta sì, lo sentì chiaramente: l’aveva scontentata.
Il
ragazzo si rialzò sulle ginocchia, e cercò di sollevare di nuovo la barca per
uscire.
«Sta
ancora piovendo.» gli disse lei, chiedendogli implicitamente che diavolo
volesse fare.
«Devo
andare a fare una cosa. Torno subito.» Si interruppe un momento e le lanciò uno
sguardo «Hem… potresti aiutarmi a sollevarla?»
Lei lo
aiutò, e lui riuscì a strisciare fuori di nuovo.
Sotto
la barca, la ragazza rimase in ascolto, cercando di distinguere qualcosa oltre
il tamburellare selvaggio della pioggia sullo scafo. Però non riuscì a sentire
i passi che si allontanavano. Poi un rumore, prima sommesso poi sempre più
forte e ripetitivo, la fece sussultare. Sembrava che qualcosa stesse grattando
da fuori contro la barca. Si chiese con sincera curiosità che cosa stesse
combinando, ma si risolse ad aspettare ancora.
Dopo
diversi minuti sentì un bussare sul legno. Di nuovo fece leva per sollevare il
bordo, sentendo la forza dell’altro che si univa alla sua dall’altra parte. Poi
il ragazzo, praticamente fradicio, strisciò dentro. Aveva in mano il coltellino
svizzero, chiuso, e quando fu di nuovo seduto sotto la barca se lo rimise in
tasca.
«Beh?»
chiese lei, aspettando una spiegazione.
«Adesso
la barca ha un altro nome.» le disse.
Con
suo stesso disappunto, lei rimase senza parole. Infine domandò «E come si
chiama adesso?»
«Fortuna.»
«Un
bel nome per una barca… molto adatto.» approvò, con
sincera ammirazione. Esitò, poi chiese «Quindi io posso avere il nome che aveva
prima?»
«Sì,
adesso sì.» confermò lui.
«Così
sembra una cosa molto superficiale…» osservò allora
la ragazza, ancora scontenta.
«Vuoi
che te lo incida col coltello anche a te?» scherzò lui.
«Ah,
dai!» protestò lei, ridendo, ma con ancora un’ombra di delusione.
«Va bene… forse c’è un altro modo…»
disse lentamente lui.
«E
sarebbe?»
«Beh… dovresti chiudere gli occhi.»
«Siamo
al buio praticamente.» notò lei, decisa a dargli filo da torcere.
«Ma sì… non è per quello… è una
questione di rituale.» si schernì appena lui, trattenendo un sorriso teso.
«Hm… va bene…» si arrese, pur
senza sembrare affatto fiduciosa. E li chiuse davvero. Comunque, non era certo
abbastanza per farla sentire senza difese, lo sapevano entrambi.
Ad
occhi chiusi, lo sentì muoversi, e aveva già intuito da un po’ le sue
intenzioni quando percepì il suo respiro solleticarle le labbra. Quello che non
aveva previsto,e che non si sarebbe immaginata, era di sentirlo esitare a tal
punto. E, soprattutto, che si sarebbe sentita in quel modo.
Le
sussurrò pianissimo il nome che lei voleva sulle labbra, rimanendo a una
frazione di centimetro di distanza, e poi lei sentì che si stava ritraendo di
nuovo. Allungò le mani alla cieca, impulsivamente, e riuscì ad afferrarlo
confusamente per i vestiti. Il ragazzo si fermò, e gli sentì addosso la
sorpresa, e un lieve timore che la sua fosse rabbia. Ma non lo era, qualsiasi
cosa fosse. Ad occhi socchiusi cercò di trovare quelli neri di lui nella
penombra, e si ritrovò a fissare uno sguardo incerto, nudo, scoperto
nell’insicurezza quasi timorosa verso qualcosa che lo spaventava e lo attirava
ad un tempo.
Lei lo
tirò piano per i vestiti, invitandolo a riavvicinarsi di nuovo.
Si
baciarono piano, cercando di acquisire confidenza reciproca l’uno con la bocca
dell’altra, e viceversa, con una pazienza che sembrava in grado di smagliare il
tempo abbastanza da renderlo amico, piuttosto che arbitro severo. Dopo pochi
istanti, però, il ragazzo si ritrasse un po’ di nuovo, staccandosi. Si
guardarono negli occhi per un momento, ma lei non riusciva a trovare nei suoi
alcun segno di pentimento, per quanto gli stesse chiedendo col suo sguardo di
dirle qualcosa, senza parlare.
«Mi è
venuto in mente... che…» mormorò lui, quasi
timidamente «Una barca di legno… potremmo essere
colpiti dai fulmini.»
Per
qualche motivo lei ebbe un ammanco di razionalità tale da farle credere che lui
stesse facendo della poesia. Ma si riprese abbastanza in fretta da capire che
stava parlando seriamente, e molto materialmente. Sul viso della ragazza si
disegnò una buffa espressione divertita, e poi scoppiò a ridere, neanche si
stesse facendo beffe della costernazione preoccupata che aveva invece
l’espressione dell’altro.
«No… scusa…» chiese poi perdono,
per chiarire che non stava ridendo di lui «E’ che…
non ci avevo pensato…»
Quanto
a lui, al momento riusciva solo a pensare che avrebbe voluto baciarla ancora,
fulmini o no.
***
Fortuna
sussultò e si svegliò, le due cose in una, e un curioso pensiero in testa: ‘non
sono una barca’.
Poi,
più lentamente, si sforzò con la logica di uscire dai residui del sonno pesante
dal quale andava riemergendo, per realizzare meglio dove si trovava. C’era un
silenzio profondo, tutto intorno a lei, e lo trovò quasi allarmante. Per
qualche motivo, si aspettava di sentire scoppi di tuoni rimbombanti, ed
elettricità che sfrigolava nell’aria satura di umidità. Invece, c’era solo un
tenue suono pacato in sottofondo, continuo e irregolare.
Dalla
sua posizione sdraiata, imbacuccata all’interno del sacco a pelo, lasciò vagare
lo sguardo sugli alberi della foresta, immobili e silenziosi come sempre, i
contorni delle loro sagome confusi dalla pesante penombra dei tramonti di quel
luogo, che cadevano precipitosamente, e senza traccia di sole, ma solo densi di
grigio e di notte che avanza sulle montagne. Si era abituata a quel genere di
tramonto. Ma aveva la sensazione, ora per la prima volta, di aver conosciuto un
modo diverso del sole di calare sull’orizzonte, di aver conosciuto altro genere
di orizzonti.
Il suo
sguardo strisciò intorno, sulla neve, e subito trovò la fonte del rumore.
Minuti e radi fiocchi bianchi si muovevano nell’aria, cadendo dall’alto verso
il basso senza grandi deviazioni. Il vento si era placato, iniziava a nevicare
lentamente. Almeno c’era qualcosa che si muoveva lì, visto che lei era ancora
immobile.
Considerò
con una certa apprensione il tetto di fronde sopra la sua testa, chiedendosi se
si fosse dovuta preoccupare di rimanere sepolta dalla nevicata mentre dormiva.
Ma i fiocchi non superavano per niente la cortina di aghi verdi sopra di lei.
Bene, perché non aveva nessuna voglia, al momento, di fare alcun movimento. Si
sentiva ancora molto stanca. Ma sentiva anche una grande tristezza, una malinconia
che faticava a individuare. Forse aveva a che fare con ciò che aveva sognato.
Ma aveva sognato? Non ricordava di aver sognato nulla.
Eppure
una strana nostalgia la avvolgeva, rendendo in qualche modo affettuoso persino
il caldo abbraccio del sacco a pelo. Chiuse gli occhi che si andavano
inumidendo, cambiò un po’ posizione nel sacco a pelo, e si lasciò di nuovo
scivolare verso il sonno. Sogni o non sogni, voleva solo dormire ancora,
cercare di curare quella stanchezza profonda, le radici della quale aveva
rinunciato ad inseguire.
Si
addormentò, stringendosi al petto il coltello nella sua custodia.
* da ‘Non voglio
mica la luna’, di Marina Fiordaliso