Non
è tanto una serata allegra, si vede, dato che ho “partorito”
questo-
Non so nemmeno se è finita o no. E' triste, sì. Non so bene se
collocarla in ambito di qualche altra mia storia, ma direi tutto sommato di no. Sta bene dove sta.
Buona
lettura
Suni
LE PAROLE CHE NON TI HO DETTO
Remus
si passò la mano sul viso, constatandone la ruvidezza. Tentò
distrattamente di ricordare quando poteva essere stata l’ultima occasione
in cui si era dedicato a qualcosa di futile e pratico, come ad esempio farsi la
barba. Ma poiché in fondo non gliene importava davvero nulla, di
rispondere ad un simile quesito, scrollò lentamente la testa con un sospiro
silenzioso e riprese a scendere le scale verso il piano inferiore. Sapeva di
avere qualche impegno improrogabile quel giorno, come anche il giorno prima, ed
era altrettanto certo che l’avrebbe semplicemente glissato, ancora come
il giorno prima. Presumibilmente, sarebbe rimasto tutto il tempo seduto sul
divano, strano a dirsi, come il giorno prima. E tutta queste serie di cose era
avvenuta anche durante l’intera settimana precedente.
Entrò
in cucina e si diresse ai fornelli, registrando mentalmente quanto fosse strano
trovarla così vuota, senza Molly che spignattava, né Tonks che
raccoglieva cocci di un qualunque oggetto da lei appena distrutto, o Kingsley immerso nella lettura di qualcuno dei suoi dossier
del Ministero. Oppure Mundungus che tra una
chiacchiera e l’altra faceva svanire tra le pieghe del mantellaccio
qualche prezioso cimelio di famiglia di pregiata fattura, con mossa furfantesca
e discreta che Sirius fingeva di non notare assolutamente.
Il
viso di Remus tremò impercettibilmente, mentre senza volerlo serrava gli
occhi trattenendo il fiato.
Respirò
profondamente, una, due volte prima di riaprirli, e prese una tazza dalla
credenza, posandola sul tavolo.
Già.
Mai uno sguardo, non un gesto, salvo poi, non appena la porta si chiudeva
dietro le spalle del vecchio imbroglione, scoppiare a ridere di cuore, con
quella risata spenta eppure così viva, simile ad un latrato, spezzata,
amara ma contagiosa, mentre mostrava divertito e soddisfatto ai suoi ospiti un
nuovo buco, un pezzo mancante nel servizio d’argento del corredo nuziale di
sua madre. Deliziato come un ragazzino.
Si
passò di nuovo la mano sul viso, sul collo, tra i capelli, con un
tremito; espirò a lungo rilassando le spalle. Quel pomeriggio, l’ultimo
altro inquilino della casa sarebbe andato via: Hagrid
lo aveva confermato, sarebbe passato dopopranzo a prendere Alisecco
per riportarlo ad Hogwarts, a casa. Aveva trascorso tutta la settimana fermo,
senza toccare cibo né quasi acqua, povera bestia. Più o meno come
lui, si era trovato pensare Remus. A
quel punto però, era tempo di lasciare la casa. Non era più
sicura, bisognava verificare a chi sarebbe toccata adesso, forse non ad Harry. Nemmeno quell’ultimo,
misero desiderio di Sirius sarebbe stato avverato, il poter almeno lasciare al
figlioccio quella dannata casa, le ultime vestigia di sé, in vece del
tempo che avrebbe tanto voluto poter trascorrere col ragazzino e che un destino
beffardo e accanito gli aveva sempre strappato via. Forse, a Remus faceva
ridere il solo pensiero, Bellatrix Lestrange avrebbe seduto su quella sedia che lui ora stava
fissando, la stessa su cui il cugino da lei assassinato aveva trascorso una
discreta parte dell’ultimo anno, come una tigre in gabbia.
Non
l’avrebbe permesso.
Il
sibilo del bollitore gli ricordò di versarsi il the nella tazza. Lo fece
lentamente, osservando le volute fumose di calore sprigionarsi dal liquido
bollente. Piuttosto sarebbe tornato lì ed avrebbe distrutto lui stesso
ogni piatto, ogni mattone delle pareti, ogni infisso, ma Bellatrix
non avrebbe tenuto quella casa.
Con
la tazza ustionante tra le mani, senza far caso al bruciore, uscì dalla
stanza e si apprestò a raggiungere la sua posizione fissa, ormai
rituale, ma due cose lo contrariarono e stupirono profondamente. Per
cominciare, la finestra non più socchiusa ma spalancata; ma soprattutto,
la busta appoggiata sulla sua postazione, il divano di Sirius, piovuta
lì da chissà dove per opera di chissà chi. Corrugò
le sopracciglia, profondamente indispettito dal fatto che qualcosa lo
sostituisse su quei cuscini ormai riservati a lui. Posò la tazza sul
tavolino in mogano, ben contento all’idea di lasciarvi un alone, e prese
la lettera tra le mani: ampia, spessa, color giallo tenue.
La
voltò per leggere il destinatario.
REMUS J. LUPIN
Il divano ormai vuoto
davanti al camino
12, Grimmauld
Place (casa mia)
N.B:
DA RECAPITARE SOLO IN CASO DI MORTE IMPROVVISA
Remus
ebbe per un attimo la confusa certezza che il suo cuore si sarebbe fermato
lì, semplicemente, e lo avrebbe abbandonato. Il fiatò gli si
mozzò con violenza, mentre incredulo rileggeva l’intestazione un’altra
volta, e un’altra. La grafia gli era ben nota, e quella parentesi dopo l’indirizzo
bastava da sé a fugare ogni dubbio. Soffocò un gemito contro la
mano, sbigottito, e strizzò le palpebre per ricacciare indietro le
lacrime che spontanee sentiva affluire agli occhi. Rimase così, la mano
schiacciata sulla bocca e le ciglia serrate, per un tempo che gli sembrò
indefinibile, in realtà appena una manciata di secondi.
E
la lettera era ancora lì, nell’altra sua mano. Si lasciò cadere
sul divano di schianto, le labbra socchiuse, lo sguardo fisso su quelle lettere
sbilenche. Molto, molto lentamente il battito frenetico del suo cuore
ritornò a ritmi sotto il livello di guardia, facendogli ritenere
scongiurato il rischio di un arresto cardiaco.
E
finalmente, un barlume di lucidità si fece largo a fatica nel caos
vischioso della sua mente. Sirius gli aveva scritto una lettera, in un qualche
momento precedente la sua morte. Il desiderio di sapere che cosa contenesse –le
ultime volontà, i saluti di un amico, la dichiarazione di quell’antico, rinnovato amore troppo a lungo messo da
parte- si affacciò prepotentemente nell’animo di Remus, spingendo
le sue dita ad avvinghiarsi intorno al bordo della busta, dove essa si apriva,
ed immediatamente si cristallizzò.
Non
l’aveva notata: piccola, poco marcata, una scritta proprio sopra l’apertura,
là dove talvolta compariva il mittente. La lesse.
Le parole
che non ti ho detto.
Remus
si grattò lentamente il mento ruvido, con occhi attenti, le labbra
leggermente arcuate all’ingiù, serio, concentrato. Quindi, si
alzò; con delicatezza, come avesse avuto paura che ad un tocco brusco si
sbriciolasse, posò la lettera dove l’aveva trovata, e
ritornò al tavolino, riportò la propria attenzione sul the ormai
poco più che tiepido. Lo bevve, assorto.
Una
lacrima dispettosa gli scivolò sulla guancia, la scacciò con
fastidio.
La
morte di Sirius l’aveva spezzato, annientato, distrutto, ridotto ad una
larva di se stesso. Ogni mattina il risveglio era un peso insostenibile.
Qualunque cosa fosse scritta su quei fogli, avrebbe solo potuto peggiorare un
dolore già troppo lancinante.
Realizzò
di non voler leggere quelle parole.
Con
uno sbuffo, deciso, tornò al divano, prese in mano la busta e con
lentezza e sacralità, dapprima esitando e poi con sempre più
sicurezza e naturalezza la strappò in due metà, che sovrappose
per strapparle ulteriormente in due, e così via, fino ad ottenere una
gran manciata di frammenti svolazzanti, larghi quanto chicchi di caffè, che gettò nel camino.
Immediatamente
si voltò, tornò ad accasciarsi sul divano e lasciò,
finalmente, che i singhiozzi lo sommergessero, squassandolo, mentre si
rannicchiava su se stesso coprendosi la testa con le braccia, come a difendersi
da invisibili colpi.
TO BE CONTINUED…
Per favore, per favore, per favore.
Sei arrivato/a qui leggendo qualcosa che
ha impegnato una più o meno ingente quantità di tempo e
sicuramente grande quantità di energie mentali.
Spreca un pizzico dei tuoi per dirmi che
ne pensi.
Grazie
suni