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Autore: Eliada    28/07/2006    3 recensioni
“-Che cos’è Hogwarts e chi accidenti è Albume Sipente?- -Già e chi sarebbe anche quella… com’è che si chiama?! Minerva McGranito? Che bei nomi!- -Albus Silente!!- tuonò Piton -E Minerva McGranitt…-completò con minor enfasi. -Okay, okay signor Spiton!- cercò di giustificarsi Elisabetta, ma con scarso successo. -Ci rinuncio…- borbottò Piton.” Come vi sembra "l'inizio" di questa ff? Vi ispira?Beh...se è così cosa aspettate!Leggetela...e se vi capita...lasciate una piccola recensionuccina!!!
Genere: Generale, Commedia, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio, Draco Malfoy, Harry Potter, I Malandrini, James Potter, Lucius Malfoy, Remus Lupin, Severus Piton, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo x

Capitolo 32

 

O adesso o mai più

 

-Cavolo raga, tra un po’ si balla!- esclamò eccitata Francesca. Solo il giorno prima lei e la sorella avevano festeggiato il loro compleanno assieme a tutti i loro amici nella torre dei Grifondoro; a sovrintendere ai festeggiamenti c’era Giordano, invitato speciale. C’era stata la torta, la Burrobirra e tante, tante patatine. E ovviamente tanti regali.

-Oh, oh Harry! E se non vinciamo? I soldi chi se li pappa?- chiese Manuel.

-Uhm?! Zitto, porti sfiga!- lo ammonirono tutti.

-Comunque, se perdessimo credo proprio che si farà uno spareggio. Ma noi vogliamo vincere al primo colpo, vero ragazzi?- disse Harry.

-Certo!- risposero in coro.

-Molto bene, adesso mangiate, ma senza esagerare. Vi voglio scattanti come delle lepri, okay?-

-Sì signore!-

Harry lasciò che i suoi ragazzi respirassero un poco prima del grande evento. Nessuno voleva ammetterlo, ma dall’esito della partita dipendeva il destino della scuola. I ragazzi cercavano di non pensarci.

-Dai, li abbiamo già battuti una volta, lo faremo di nuovo!- incoraggiò Enrique.

-Sì, ma non gasiamoci troppo. Se siamo troppo sicuri di vincere va a finire che perdiamo…- ricordò scaramantica Elisabetta.

Erano stati sistemati in una stanza a parte, separati dai loro compagni, giusto per non generare nuova eccitazione e preoccupazione. A Ramona ricordava molto la stanza in cui avevano fatto bisboccia un po’ di tempo fa…

Alle otto e quaranta, giusto per essere sicuri di non fare tardi, erano già negli spogliatoi; dopo cinque minuti erano già vestiti di tutto punto.

Elisabetta aveva le mani fredde e sudate, come sempre quando era nervosa; sua sorella rideva nervosa per un nonnulla e girava per la stanza come una trottola, Enrique era stranamente muto come un pesce, Manuel cercava di acchiappare la sua ragazza per dirle due parole, Ramona aveva le mani nei capelli perché anche lei stava rincorrendo Francesca, Maicol stava confabulando con Enrique che però non lo degnava di uno sguardo, e più in generale c’era una gran confusione e i toni si stavano accendendo.

Da fuori proveniva un discreto vociare, segno che gli sfidanti non si erano ancora presentati.

Harry arrivò tutto trafelato, seguito da Silente. Entrambi erano sovreccitati e si comportavano un po’ alla maniera di Francesca.

Forse Harry non ricordava cosa si provava prima di una partita, altrimenti sarebbe stato zitto! fu il pensiero comune.

I minuti scorrevano lenti, i ragazzi, tutti i ragazzi, erano snervati dall’attesa, quando finalmente i ragazzi dell’altra scuola arrivarono. Silente scappò via immediatamente per dar loro il benvenuto.

-Si dovrebbe scaldare di meno, tanto è solo suo fratello con qualche migliaio di ragazzi, tra cui un centinaio di figli illegittimi…- osservò divertito Maicol. Un po’ di allegria allontanò per qualche minuto la morsa dell’attesa, ma solo per poco.

I ragazzi dell’altra squadra erano lenti a cambiarsi, così parve ai sette prodi; Ramona si stava tormentando l’unghia del mignolo destro, indecisa se mangiarsela o no, ed Elisabetta e sua sorella giocherellavano nervose con i propri capelli.

Dopo minuti che parvero un’eternità, la porta dello spogliatoio venne aperta dall’esterno; la battaglia per la sopravvivenza aveva avuto inizio.

Frastornati dai cori e dagli insulti e da mille altre parole, i sette uscirono e si dettero un’occhiata intorno, le scope ben salde nelle mani.

La loro curva mostrava orgogliosa un piccolo capolavoro: un immenso cartellone con l’immagine di una tigre, il loro simbolo. Era veramente stupenda, davvero realistica, e si muoveva anche! Dava una bella zampata verso la curva avversaria, decisamente più nutrita. Anche loro si erano dati da fare. I cartelloni non si contavano; i più erano di incitamento ai propri campioni, ma alcuni veramente offensivi nei confronti degli avversari.

Sarebbe stato anche uno scontro di tifoserie. Poi, quando ormai alcuni dei simpatizzanti delle Tigri si era arreso all’inferiorità numerica, fecero il loro ingresso le ragazze pon-pon, che a dirla tutta comprendevano anche dei ragazzi: ognuno di loro aveva la bacchetta sguainata e ora creava a intervalli regolari delle piccole tigri di fumo, ora mandava un ruggito di avvertimento.

I sette con le scope sorrisero di cuore. Per lo meno non sarebbero stati soli del tutto.

Albus Silente, l’arbitro della partita, si portò in mezzo al campo; indossava un buffo completo viola, con tanto di cappello a punta; al collo portava un fischietto. Sorrise benevolo a entrambe le fazioni.

Solo in quel momento tutti poterono notare che, mentre i ragazzi italiani erano tutti sui quattordici, tra quelli inglesi ce n’erano anche di più grandi, molto più grandi! Sarebbe stato uno scontro impari.

-E dove sta scritto che noi non possiamo avere giocatori più grandi e più esperti?- aveva puntualizzato un uomo alto e brizzolato, azzimato, con lo stemma dei Serpeverde sul petto.

Tutta la curva delle Tigri segnò la sua faccia fra quelle di cui vendicarsi; lo fece persino Severus Piton, ignaro che quello fosse il suo successore alla cattedra di Pozioni.

-O quanto vorrei che qualcuno dei nostri gli spedisse un bel Bolide in faccia!- soffiò la McGranitt.

Ma era tempo per i sette paladini delle Tigri di mettere da parte i rancori: la partita stava per iniziare.

I giocatori di entrambe le squadre di misero a cavallo delle proprie scope. I giocatori dei Dragoni sembravano tutti antipatici, tranne una ragazza che sembrava capitata lì per caso; era magrolina e bassa, ma tutto sommato era carina, anche grazie ai suoi grandi occhi chiari e i capelli biondo cenere. Elisabetta le fece un cenno col capo; la ragazza le rispose. Si sorrisero.

FIIIIIU

Si comincia.

Subito i Cercatori si dileguarono verso l’alto, in cerca del Boccino. La ragazza bionda era appunto il Cercatore avversario.

Ramona svelta aveva guadagnato la sua porta; non riusciva a ricordare nemmeno una faccia tra quelle avversarie, segno che la squadra si era rinnovata.

Manuel ed Elisabetta si scambiavano segni creati appositamente per indicarsi a vicenda dove andare o chi coprire. A Francesca ci avrebbe pensato il ragazzo.

I Cacciatori delle Tigri avevano subito perso palla, anzi Pluffa. Ora si trovavano all’inseguimento, o quanto meno ad ostacolare, dei Cacciatori avversari.

Nelle tribune delle Tigri, Sara urlava all’impazzata, imitata da tutti i suoi amici; il tifo era una cosa fondamentale, almeno per l’umore.

Dopo poco le Tigri erano già sotto di tre reti. La povera Ramona vedeva venirsi incontro due o tre Cacciatori che la disorientavano passandosi la Pluffa ad alta velocità e non riusciva quasi mai a capire da dove le sarebbe arrivata la fiammata rossa.

-Qui è ora di dare inizio alla guerriglia!- disse fra sé Elisabetta. Fece un cenno a Manuel mostrando pollice e indice a formare una pistola. Il ragazzo annuì. Ogni Bolide che capitava sotto tiro doveva diventare una cannonata volta a disarcionare i Cacciatori avversari.

Purtroppo i Battitori avversari non impiegarono molto a capire la nuova tattica di gioco, e iniziarono a fare altrettanto. Solo che i loro Bolidi erano molto più potenti e altrettanto precisi.

Dopo quindici minuti tutta la squadra delle Tigri era sulla difensiva; non si attaccava più e si era sotto di ben sette reti. Harry, da bordo campo, cercava di fare del suo meglio, ma ogni giocatore pareva far di testa sua.

Le sorti della partita sembrarono un po’ risollevarsi quando Manuel, grazie ad una sparata pazzesca, riuscì a mandare ko uno dei Cacciatori avversari. Fior fiore di fischi vennero dalla curva di tifosi avversaria, ma Manuel mostrò i medi e riprese a giocare.

Ora Ramona riusciva un po’ meglio a controllare gli spostamenti della Pluffa, ma faticava lo stesso. I tre Cacciatori delle Tigri iniziarono allora a farsi vedere nei paraggi degli anelli avversari. Con un movimento fulmineo Maicol riuscì anche ad infilarne uno.

Evviva, iniziava l’inseguimento!

Francesca, dall’alto della sua postazione, teneva d’occhio tutti i movimenti dei ragazzi della sua squadra. Desiderosa di dar manforte, ad un certo punto della partita, quando la Pluffa era in mano avversaria, si insinuò tra i due Cacciatori avversari rimasti e rubò la Pluffa, andando velocemente a segnare. Acclamazioni vennero dalla sua curva, insulti dall’altra.

Molto interessata dall’innovazione, anche Elisabetta decise di dar la caccia alla Pluffa. La sua più bella azione fu quando prese tra le braccia da una parte la Pluffa, dall’altra un Bolide che aveva intercettato a velocità modesta. Iniziò a volare prima verso l’area avversaria, poi fu costretta a ripiegare verso la sua, marcata da un Cacciatore avversario che la seguiva dal lato in cui lei stringeva la Pluffa; quando si accorse di aver l’avversario praticamente affiancato, con un’abile mossa da giocoliere gli rifilò il Bolide e procedette con la sola Pluffa dalla parte opposta, dopo una rapida inversione di marcia. I Cacciatori avversari erano distanti, così ebbe tutto il tempo per passarla a Enrique e dargli modo di segnare il terzo goal.

Il pubblico, preso com’era a seguire le gesta dei Cacciatori, non si era accorto del duello aereo tra Francesca e la Cercatrice avversaria che avrebbe potuto decidere le sorti della partita. Il Boccino, per scampare dalle mani delle due ragazze, si stava dirigendo verso terra. A pochi metri da essa, voltò bruscamente in direzione degli anelli delle Tigri, sempre con le Cercatrici alle calcagna; era un testa a testa continuo.

Ad un certo punto però scomparve, a livello degli anelli. Le due Cercatrici, interdette, si guardarono a vicenda per verificare se l’avesse preso l’altra, ma nessuna delle due era stata.

Ramona intanto guardava con orrore qualcosa simile ad un insetto che le si era infilato nella divisa  formare inquietanti protuberanze. Elisabetta, che aveva seguito la scena a poca distanza, gridò con quanto fiato aveva in gola: -Ramona, porcaccia la miseriaccia, non muovere neanche un muscolo, altrimenti ti ritroverai senza!- e si diresse a velocità folle verso di lei; le si tuffò sopra e volontariamente la fece cadere, ma da un’altezza talmente modesta che non se ne accorse nemmeno. I suoi compagni avevano capito cosa stava succedendo, e così pure gli avversari. Le Tigri si disposero a cerchio attorno alle tre (si era aggiunta anche Francesca), tenendo a distanza gli avversari. Intanto Elisabetta frugava fra le vesti di Ramona, alla disperata ricerca del Boccino; Francesca stava a distanza, pronta a rimediare ad una sua eventuale fuga. Infine, con il mantello della divisa di Ramona, Elisabetta immobilizzò il Boccino a terra, così Francesca poté prenderlo con tutta calma.

L’adrenalina era salita a mille, il cuore tamburellava contro il petto come a volerne uscire, gli occhi erano colmi di gioia, bestemmie e preghiere mescolate e confuse si innalzavano al cielo, così come Francesca aveva innalzato il Boccino d’Oro, stretto nel suo piccolo pugno affinché tutti potessero vederlo.

La curva delle Tigri ruggì come un’anima sola…

Silente e la McGranitt (i minori) avevano improvvisato una tarantella inventata, e la conclusero abbracciandosi, noncuranti di chi li poteva vedere. Parallelamente, anche la Chiodo e Piton si abbandonavano alla gioia, sfogandola allo stesso modo.

Fu il più bel giorno di scuola per i sette ragazzi vincitori. Si raggrupparono e tutti assieme sfogarono i loro sentimenti fino ad allora frenati intonando cori che da una vita avevano preparato e urlando come pazzi.

Gli avversari, mogi per la sconfitta, lanciavano loro ogni sorta di malalingua o insulto presente nel loro vocabolario; Albus Silente però sorrideva fra sé: era stato un bene che avesse vinto l’altra scuola, così avrebbe potuto sopravvivere all’anno… per essere sconfitta quello successivo!!!

Suo fratello, per non essere scortese, invitò lui e la sua scolaresca a intrattenersi con loro fino a sera; Albus accettò con molto piacere.

La voce di Albus Silente risuonò per tutto il campo (aveva usato l’incanto per amplificare la voce):

-Oggi saremo ospiti qui in Italia. Ringraziamo il preside della scuola!- ripeté ciò una volta in italiano e una in inglese.

-Magnifico! Così avranno il tempo per insultarci meglio!- borbottò Enrique.

Stanchi, i giocatori di entrambe le squadre furono sollecitati dai rispettivi allenatori ad andare negli spogliatoi per farsi una doccia e vestirsi.

In quello delle Tigri si fece letteralmente a botte, siccome c’erano solo tre docce, due per i maschi e una per le femmine. Addirittura si arrivò a far la doccia in due (ma non diremo i nomi di chi lo fece, assicurando che furono tutte coppie dello stesso sesso).

Quando tutti furono usciti, l’orologio segnava le dieci e mezza.

Il pranzo si sarebbe svolto nel parco, per godere della bella giornata di sole; occorrevano però dei camerieri che trasportassero le pietanze dalla cucina fin lì, con o senza bacchetta. Francesca trascinò sia la sorella che Ramona dalla Tassi, responsabile di reclutare i camerieri.

-Così sapremo dove sono le cucine!- disse per giustificarsi. Alle amiche si illuminarono gli occhi.

-Benee! Vi chiamereemo quando avreemo bisognoo di vooi! Andatee!- disse la Tassi.

Per un’ora almeno i ragazzi potevano fare ciò che credevano. Si formarono gruppi misti: alcuni organizzarono un’altra partita a Quidditch, altri una partita a pallavolo, i maschi una a calcio.

I professori passeggiavano controllando qua e là a coppie o a gruppetti. Piton e la Chiodo passeggiavano assieme, distanti dagli altri loro colleghi. Evidentemente volevano parlare.

-Così, Severus, cos’ hai intenzione di fare?- esordì la Chiodo.

-In che senso?- chiese smarrito Piton.

-Sto parlando di nostro figlio, Severus!- ribatté la donna, che iniziava a scaldarsi.

-…-

-Severus, non puoi continuare ad ignorarlo! Lui è dentro di me, c’è! E conserva dentro di sé una parte di te…- sussurrò la Chiodo.

-Questo è quello che mi spaventa…- bisbigliò Piton, appena percettibile, ma la donna intese.

-Perché, perché non vuoi accettarlo? È tuo figlio!!! Sangue del tuo sangue!- disse alzando la voce.

-Sangue sporco, allora!- Piton iniziava a spazientirsi –Che padre avrebbe, sai dirmelo? Un assassino, ecco che razza di padre avrebbe! Sarà meglio per lui non conoscermi. –

-Oh, Severus, perché continui a tormentarti? Non hai già pagato abbastanza per tutti gli errori che hai commesso?-

A poca distanza, stava avendo luogo una partita di pallavolo, sei giocatori contro sei. In una squadra, quella che dava le spalle ai due professori, c’era Elisabetta, unica della sua scuola ad apprezzare quello sport; sua sorella e Ramona avevano preferito giocare a calcio con i ragazzi.

Non era un fenomeno, ma se la cavava; la sua specialità erano le schiacciate, ma come alzatore era un vero disastro. La squadra poi non la incoraggiava per niente: le sue cinque compagne avevano l’aria di essere un gruppo molto affiatato tra loro, e lei era un po’ emarginata. Inoltre, giocare senza ginocchiere non era per niente facile, abituata com’era a cadere e a soffrire.

Ecco, la schiacciatrice alla mano si stava preparando a fare uno dei suoi numeri; la palla era bellissima, alta e alla distanza giusta dalla rete, in più era una giocatrice che schiacciava molto forte, talmente forte che aveva scavato alcuni buchi nel terreno umido su cui si stava disputando la partita. Elisabetta, centrale in seconda fila, fece alcuni passi indietro, titubante: palle di quel genere era meglio lasciarle andare…

Ecco, il braccio della ragazza calava inesorabilmente; quando toccò la palla, si udì uno schiocco. Per fortuna, schiacciando non aveva chiuso il polso, elemento essenziale affinché la palla cadesse nel campo avversario e non schizzasse via; Elisabetta trasse un sospiro di sollievo, che però le si bloccò a mezzo: dietro di lei qualcuno gridò di dolore, una ragazza. Si voltò, pronta a scusarsi fino alla pateticità, ma rimase male, molto male: la palla, a velocità folle, aveva colpito la Chiodo in pieno petto, e ora rotolava qualche metro più in là. Sapeva per esperienza quanto potesse far male una palla: una volta gliene era arrivata una in pieno viso (dolore al naso!), un’altra in un orecchio

(-Aiuto! Non ci sento più!-), un’altra nel basso ventre; l’ultima era stata quella che le aveva fatto più male, anche perché era stato durante uno dei suoi cicli mestruali.

In quel momento, la sua prof. giaceva accasciata ai piedi di Piton, ancora shockato; lei probabilmente era svenuta. Poteva una schiacciata farle rischiare di perdere il bambino? si chiedevano Elisabetta e Piton. 

Passato lo shock, l’uomo cercò di trovare una posizione che gli consentisse di trasportare la donna, ma aveva bisogno di aiuto. Tacitamente, Elisabetta si offrì di dargli manforte.

Più svelti che poterono attraversarono il parco, sotto lo sguardo ora curioso, ora sgomento di chi incrociavano. Goffamente salirono le scale, fino all’Infermeria.

-La prossima volta l’Infermeria fatela a casa di Dio, così se uno sta per morire lo fa durante le scale!- grugnì Elisabetta.

Piton prese mentalmente nota di farlo presente al Preside.

Per strada incontrarono Francesca, che si offrì di dar loro una mano, ma anziché agevolarli li penalizzò ulteriormente.

-Va dalla signorina Ilenia, dille che la Chiodo sta male ed è svenuta, presto!- chiese Elisabetta alla sorella.

-Ma…- tentò di replicare quella.

-VAI!- le gridò la sorella con quanto fiato aveva in gola, noncurante di essere stata sgarbata.

Francesca, intimorita e amareggiata da quell’atteggiamento, volò letteralmente su per le scale, mentre la spiegazione alle parole della sorella iniziava ad esserle chiara: lei aveva supplito alla mancanza della madre durante l’anno scolastico.

Avvertì la Medistrega della scuola dell’accaduto, esortandola a prepararsi per l’imminente arrivo dei tre. Dopo poco infatti fecero il loro ingresso nella stanza Piton, Elisabetta e la Chiodo, ancora priva di sensi. Delicatamente la appoggiarono su un letto libero, poi tutti quanti furono invitati ad attendere fuori.

Seguirono diversi minuti di silenzio teso.

Ma non potevo prenderla io, la palla? Un salto deciso, mani aperte, un semplice tocco. Maledetta la mia codardia! Maledetta! E con tutti i posti, proprio lì doveva schiacciare? Non poteva finire attaccata a rete? Ora per colpa mia la Chiodo rischia…

 

Vittoria… Vittoria… ti prego, fa che non le accada nulla, ti prego! Ti scongiuro, non lei, non il nostro bambino… è troppo importante per me. Dio, se è vero che esisti, non restare indifferente alla mia preghiera, la preghiera di un povero peccatore che ora cerca la sua strada.

 

Non è possibile, non rischierà di… perdere il bambino? Che faccio, lo chiedo a Piton? No, no, è troppo coinvolto, come potrei chiederglielo? Mi ucciderebbe se lo facessi… però, devo sapere!

No.

Sì, devo sapere. Oh, ma come faccio?

 

Alla fine fu Francesca a rompere il silenzio…

-Ehm, professore, la Chiodo… ecco, non rischierà… voglio dire: una schiacciata in pieno petto…- la domanda non era diretta, ma a buon intenditore, poche parole.

-Francesca!- soffiò Elisabetta impercettibilmente.

Piton si voltò a fissarla. Ecco, ora mi uccide! pensò Francesca.

-Non lo so. Staremo a vedere. – disse semplicemente l’uomo.

Che razza di risposta era? Ne sapeva quanto prima, però almeno era ancora al mondo! pensò la ragazza.

-…-

-…-

Seguirono quindi minuti di totale silenzio; Elisabetta, stanca di attendere in piedi, si sedette sul pavimento freddo, imitata poco dopo dalla sorella. Era incredibile come nelle situazioni di tensione ogni azione, anche minima, venisse profondamente valutata… si temeva sempre di sbagliare, che cosa poi non lo si è ancora capito.

Dopo un’altra mezz’ora di silenzio, Francesca buttò distrattamente un occhio sull’orologio; era tardi.

Betti, dobbiamo andare! comunicò alla sorella.

-Ehm, professore, noi adesso dovremmo andare. Vuole che le andiamo a chiamare Silente, o la McGranitt, o…- stava chiedendo Elisabetta, quando il suo interlocutore la liquidò dicendole di sbrigarsi, di non tardare oltre.

-…!-

Fuori, nessuno era al corrente dell’accaduto; interpretando le indicazioni di Piton, le sorelle non fecero parola dell’accaduto con alcuno, se non con Ramona e Sara.

L’impiego da cameriere distolse le loro menti per un bel pezzo; erano in una trentina, e dovevano provvedere ad un’infinità di gente; qualcuno si chiese come, in effetti, facessero a stare ottocento persone nel loro striminzito cortile. Qualcuno rispose che era magia.

-Quando si tratta del fratellone, Silly si dà un gran da fare…- sogghignò Ramona.

I poveri camerieri dovevano volare dalle cucine fino al parco, stando attenti a bilanciare correttamente i vassoi su cui reggevano piatti di pasta, vaschette di patatine fritte, bottiglie d’acqua, crocchette di pollo; la più facile da trasportare era l’insalata, chissà il perché…

Intanto, nella solitudine dei “piani alti”, Piton iniziava ad innervosirsi. Perché quell’impiastro di Medistrega non si decideva a dirgli che la sua Vittoria stava bene? E che il suo bambino era forte e sarebbe nato presto? Cosa ne sarebbe stato di lui, della sua vita, senza di loro? Gli unici che sapevano amarlo per come era, consapevoli dei suoi sbagli ma anche disposti a perdonarlo nel profondo del cuore. La sua Vittoria era andata oltre le apparenze, oltre la sua maschera fredda e distaccata, e aveva centrato il suo cuore, scaldandolo e struggendolo. Era un essere speciale, un dono del cielo, un angelo del Paradiso.

Dopo pochi minuti la porta dell’Infermeria si aprì; la signorina Ilenia gli diede il permesso di entrare, essendo lui “privilegiato”, ovvero il padre della creatura che la paziente portava in grembo, ma il viso era totalmente privo di espressione.

-Vittoria!- balbettò Piton, sedendosi accanto al letto della donna e prendendole delicatamente una mano. Purtroppo, non ottenne risposta.

Si voltò di scatto verso la Medistrega per chiederle spiegazioni.

-Dovrebbe riprendersi da un momento all’altro. Vedrà, la sua presenza l’aiuterà. – lo incoraggiò lei, lasciandolo solo nella stanza.

-Vittoria…- ripeté l’uomo, prendendole anche l’altra mano, fredda come la gemella, tra le sue, calde –Vittoria, oh ti prego, svegliati! Coraggio, sei forte, lo so che puoi farlo; ti basta solo volerlo. Avrei dovuto dirtelo prima ma… io… io ti amo, Vittoria. Non posso farcela senza di voi. –

Anche se la donna non era sveglia, udiva lo stesso le parole dolci del suo amato, e ciò la riempiva di gioia, spronandola a riaprire gli occhi. Lo fece dopo pochi secondi.

-Vittoria?! Come stai?- chiese ansioso Piton inginocchiandosi al suo capezzale, appena la donna ebbe sbattuto un paio di volte le palpebre.

-Tranquillo, Severus, ora sto meglio…- rispose la donna, ammiccando.

-E… il bambino?- continuò l’uomo.

La Chiodo gli rivolse uno stupendo sorriso, il più bello che gli avesse mai visto fare pensò l’uomo.  -Lui è forte, deve aver preso da te… anzi, se vuoi saperlo, mi ha appena tirato un calcio!-

-Oh, Vittoria…- Piton l’abbracciò forte, sollevato –Solo ora comprendo quanto siate importanti per me. Ti prego, perdonami se sono stato così sciocco. – lo spettacolo era nuovo per quelle mura: Piton in lacrime, di gioia.

La signorina Ilenia, all’insaputa di tutti, stava spiando la scena dal buco della serratura, un fazzoletto agli occhi. Proprio come nei romanzi strappalacrime.

-Ti amo, va bene Vittoria, ti amo. Nessuno potrà impedircelo, nessuno. Cresceremo il nostro bambino, diverrà grande e forte, e ci darà una discendenza lunga e prospera. Oh, Dio, attraverserei tutto il mondo per te, scalerei le montagne più impervie, attraverserei i deserti più inospitali… morirei, per te. – Severus Piton era riuscito a gridare alla sua donna il proprio amore.

 

 

Intanto, fuori, la povera signorina Ilenia piangeva come una fontana, proprio mentre sopraggiungevano le sorelle Serpini, che di loro spontanea iniziativa volevano portare qualcosa da mangiare ai presenti (e magari rubacchiare qualcosa pure loro…).

-Oh Dio! Cos’è successo? Perché piange?- chiese allarmata Francesca.

-Perché… oh, non ho mai sentito nessuno parlare così ad una donna. Merlino, che uomo!- rispose in enfasi la donna.

-Ne sappiamo quanto prima. Coraggio, sfondiamo la porta!- disse Elisabetta, prima di bussare.

Quando fu accordato loro il permesso di entrare, fecero il loro trionfale ingresso reggendo due vassoi con le cose da mangiare più buone che gli elfi avevano preparato: patatine, tortellini in brodo, crocchette di pollo, scaloppine…

-Permesso? Tutto okay? Portavamo qualcosa da sgranocchiare!- si giustificarono le due.

-Venite, venite, ho una fame!- rispose lieta la Chiodo.

-Ah, ah: niente cibi pesanti per un po’, sarà meglio…- scattò la signorina Ilenia, ricomponendosi e riassumendo il solito tono monotono di chi è solito prescrivere proibizioni e medicine schifose.

-Caspita! Il brodino lo danno ai malati, vuole mo’ vedere che le fa male?!- ribatté Elisabetta. Francesca passò un piatto alla Chiodo e uno a Piton.

-Se vuole favorire, le patatine sono fantastiche. – propose Francesca.

-No, grazie. Il fritto fa male. – e così dicendo la Medistrega uscì di scena.

-Meglio: ce ne sono di più per noi!!- esclamarono in coro le sorelle; Piton e la Chiodo risero di cuore.

Quella giornata fu memorabile, per tutti. Tranne che per una povera ragazza inglese, che ritornò al suo Paese con un occhio nero e il ricordo di una belva che l’aveva attaccata alle spalle…

 

Lucifer_the_Darkslayer: non sono una patita delle song-fic e poi riguardava un’altra categoria, se mi ricordo bene. Infine, non ti offendere, non mi piacciono per niente gli “Yaoi” e “Yuri”.

 

 

 

   

  

 

    

  
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