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Autore: Beatrix Bonnie    13/12/2011    2 recensioni
-Seguito de La sorella perduta- Dopo aver assistito all'entusiasmante finale della Coppa del Mondo di Quidditch e dopo esser rimasti terrorizzati dalla comparsa del Marchio Nero, Mairead, Edmund e Laughlin torneranno al Trinity per affrontare il loro quarto anno, sperando, questa volta, di uscirne indenni. Ma non potranno certo immaginare che cosa è stato preparato per quell'anno! Tra altezzosi cugini purosangue, gelosie e invidie, misteriosi tornei, scuole di magia lontane e sconvolgenti novità, i tre amici metteranno a dura prova la loro amicizia...
Genere: Avventura, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Primi anni ad Hogwarts/Libri 1-4
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Trinity College per Giovani Maghi e Streghe'
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Nota dell'Autrice: nel capitolo è presente una scena di violenza, e dunque mi sento autorizzata ad avvertirvi che il rating qui si alza verso il giallo-arancione.


CAPITOLO 21

Il potere dell'ossessione





Quando, il pomeriggio successivo, Edmund si recò in riva al lago per sostenere la prova, aveva le viscere attorcigliate. Aveva passato la mattina chiuso in sala comune dei Raloi, nonostante la bella giornata, perché i genitori dei campioni avevano avuto il permesso di venirli a trovare e per lui, ovviamente, si era presentato Adolfus McPride. L'unico modo che aveva trovato per sfuggirgli era stato quello di rintanarsi in sala comune con la scusa di ripassare gli incantesimi per la prova del pomeriggio. McPride non era sembrato molto contento per la cosa, ma non aveva avuto la prontezza di ribattere e quindi Edmund era riuscito a svignarsela. Se durante la mattina era riuscito a restare tranquillo, leggendosi un buon libro accoccolato sulla poltrona, mentre gli altri erano fuori a godersi il sole, con l'arrivo del pranzo aveva cominciato ad agitarsi.

McPride aveva insistito per sedersi con lui al tavolo. Molti studenti li osservavano con un certo interesse, ben riconoscendo il Presidente della Repubblica e chiedendosi cosa ci facesse in fianco a Burke.

«Buffo vedere la Sala Mor da questa prospettiva» mormorò d'un tratto McPride, con un mezzo sorrisetto.

«Nagard, immagino» rispose Edmund, ben sapendo che un uomo ambizioso come McPride non poteva che essere finito tra gli orgogliosi Nagard.

Il Presidente gli rivolse un sorriso enigmatico. «Ovvio» commentò, versandosi del succo di uva nel bicchiere. «Sarà strano avere un figlio Raloi» soggiunse, lanciandogli un'occhiata perforante.

Edmund ebbe come l'impressione che la sicurezza con cui aveva detto quella frase non fosse poi così casuale. «Il Tribunale dei Minori ha emesso la sentenza, non è vero?» mormorò, con un filo di voce dal tono incolore. Aveva quasi paura di avere quella risposta, anche se era certo di conoscerla già.

«Sì, Edmund» rispose McPride, riservandogli il suo terribile sorriso da squalo. «E ha deciso per il meglio: ora io sono tuo padre».

Il vuoto calò intorno a Edmund dopo quella affermazione. Lo sapeva, lo sapeva che sarebbe successo, ma ritrovarsi di fronte al fatto compiuto fu comunque traumatico. Ora non aveva più scampo. Era caduto nella rete del predatore.

Si alzò dal tavolo tanto velocemente che quasi fece ribaltare la panca. Doveva andarsene da lì, al più presto.

«Ed, dove vai?» gli chiese Mairead che, seduta al suo fianco, non aveva avuto modo di sentire la conversazione tra lui e McPride.

«A prepararmi per la terza prova» rispose frettolosamente il ragazzo, allontanandosi a grandi passi.

«Ma, mancano ancora due ore!» replicò Mairead, quando ormai l'amico era troppo lontano per sentirla.


«Che vinca il migliore, Burke» disse una voce alle sue spalle. Edmund, perso nei propri pensieri, si riscosse e riconobbe subito che si trattava di Hewa Wedge.

Aveva passato le ultime due ore seduto su un masso sulla riva del lago, ad osservare i tre ponti che erano stati predisposti per la prova. Non riusciva a pensare a nulla, reso troppo apatico dall'annuncio che gli aveva portato McPride. Era semplicemente scioccato. L'arrivo di Wedge, infine, l'aveva avvertito che doveva mancare poco all'inizio della prova.

Edmund si alzò da terra e si voltò verso il suo avversario. «Strano, non ho mai pensato che tu potessi dire una cosa del genere» mormorò, guardandolo dritto negli occhi. Che Jansen avesse avuto ragione nel dire che non era poi così male?

«Sono sempre stato di questa idea. Solo che... be', io sono il migliore, quindi vincerò io» rispose Wedge, con un sorrisetto sarcastico.

No, Jansen aveva torto marcio: Wedge era odioso.

«Lo vedremo» sibilò Edmund.

Dopo poco, per fortuna, arrivarono anche i presidi insieme a Chaitaly e la conversazione tra i due campioni fu interrotta. Edmund cercò di cancellare dalla mente ogni pensiero che non riguardasse la terza prova: ora doveva concentrarsi solo su quella.

«Sapete già cosa dovete fare» esclamò Captatio con un tono allegro. «Quando sentirete il primo fischio, partirà il signor Wedge, sul ponte qui al centro. Al secondo fischio partirà la signorina Hiranmay, a destra, e al terzo il signor Burke, a sinistra. Il primo che arriva alla coppa, vince» spiegò il preside, indicando con un gesto l'altra sponda del lago, dove si trovava il palco con il piedistallo su cui era poggiato il trofeo, e le tribune per gli spettatori. Quella volta non avrebbero utilizzato degli Argo, perché il pubblico riusciva a vedere benissimo tutto ciò che accadeva sui ponti.

«Attenti a non cadere in acqua, o sarete squalificati» li ammonì Captatio, ma poi batté le mani estasiato. «Il sole è alto in cielo, il tempo è ottimo e non ci resta che augurare a tutti voi buona fortuna!» e con quelle parole i tre presidi salirono su una piccola imbarcazione per raggiungere l'altra sponda.

I tre campioni si posizionarono rispettivamente di fronte al proprio ponte e sfoderarono le bacchette, pronti a partire al segnale.

Edmund attese con il cuore in gola che arrivasse il suo turno. Vide prima Wedge e poi Chaitaly lanciarsi di corsa sul proprio ponte. Il campione africano era già arrivato quasi a metà, quando il terzo fischio riecheggiò lontano. Edmund poggiò piano il piede sulle assi di legno della passerella, per controllare che fosse stabile: era certo che doveva esserci qualche trucchetto nascosto per rallentarli. Quando fu sicuro della solidità del ponte, cominciò a percorrerlo sempre osservandosi in giro guardingo.

Infine accadde: un mostro si materializzò sul cammino di Wedge, come se fosse stato protetto da una gabbia invisibile che prima lo teneva nascosto agli occhi di tutti. Edmund lo osservò: pareva un grosso rinoceronte; ma non ebbe tempo di perdersi in sguardi ammirati, perché un'altra creatura comparve sul ponte di Chaitaly: uno strano corpo di serpente ma piumato e bipede; sembrava una stana accozzaglia di diversi animali, come se il suo creatore si fosse divertito a mettere insieme elementi diversi per creare un effetto stupefacente.

Edmund procedette lentamente sul suo ponte, ben conscio che presto sarebbe toccato a lui. Infatti, circa all'altezza degli altri campioni, anche sul suo ponte comparve un mostro: un cavaliere senza testa, con la spada insanguinata fino all'elsa e un destriero che sbuffava polvere e sudore.

«Per le mutande di Morgana!» esclamò Edmund scioccato. «Un Dullahan!»

I Dullahan erano demoni irlandesi che, per tener fede ad un ancestrale patto di sangue, uccidevano i maghi che incontravano sul loro cammino decapitandoli con un colpo di spada e facendo bere al loro destriero il sangue delle vittime. Il consiglio che tutti i professori di Difesa contro le Arti Oscure avevano sempre dato a generazioni di studenti del Trinity, qualora avessero incontrato un Dullahan, era: “datevela a gambe”.

Consiglio poco produttivo, in quella situazione.

Il cavaliere puntò la spada verso di lui, spronò il cavallo e si gli si gettò addosso.

Edmund rimase paralizzato per una manciata di secondi, poi reagì: «Stupeficium!» gridò ma non riuscì a centrare l'obiettivo. Cominciò a indietreggiare atterrito, quando gli venne un'illuminazione: era il cavallo la guida del Dullahan, i suoi occhi e le sue orecchie; se avesse colpito quello, anche il cavaliere sarebbe rimasto cieco.

Allora alzò la bacchetta e la puntò verso il muso del destriero, che si avvicinava sempre di più. «Conjunctivitus!» gridò e un raggio di luce partì dalla punta della sua arma per centrare dritto negli occhi il cavallo. Quello nitrì, si imbizzarrì e scalciò. Edmund si scansò di lato e si appiattì contro la ringhiera del ponte, per evitare di finire calpestato dalla furia dell'animale. Infine, per completare il suo piano, puntò la bacchetta verso un'asse di legno poco lontana e con un Incantesimo di Levitazione silente la sollevò da terra e la fece rotolare sul ponte più avanti. Il cavallo, che ormai faceva affidamento su gli altri sensi rimasti, si gettò all'inseguimento di quel rumore, superando Edmund senza accorgersene.

Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo e chiuse un attimo gli occhi, attendendo che il cuore tornasse a battere a velocità normale. Doveva darsi una mossa, però, prima che il Dullahan cambiasse idea e tornasse indietro.

Prese a correre lungo il ponte, sicuro che non ci fosse più nulla a separarlo dalla riva, quando un secondo mostro comparve sul suo cammino. Era lo stesso strano essere che aveva sbarrato la strada a Chaitaly. Forse era una creatura della sua terra, così come il Dullahan era un demone tipicamente irlandese. Il problema era che Edmund non aveva la più pallida idea di come affrontarlo.

Quella specie di grosso biscione avanzò verso di lui, ma questa volta Edmund reagì subito: «Impedimenta!» gridò e centrò la creatura sul muso. Quella si bloccò e Edmund si affrettò a scagliare un Incantesimo di Levitazione, nella speranza di buttarla giù dal ponte, ma l'effetto dell'Incantesimo di Ostacolo durò troppo poco e così il ragazzo si ritrovò a fare galleggiare sopra la sua testa un serpentone di quattro metri per nulla contento di ritrovarsi appeso. La bestia, indemoniata, sferzò l'aria con la coda e colpì Edmund in pieno volto. Il dolore fu tale che Edmund interruppe la magia e il mostro quasi gli piombò addosso. La creatura sibilò e si preparò ad attaccare di nuovo, ma il colpo aveva reso più vigile il giovane campione che puntò la sua bacchetta sulle assi di legno sotto l'avversario e grido: «Reducto!» Il ponte si ruppe e la creatura cadde nel lago con un ululato dolorante.

Meno due. pensò Edmund, riprendendo fiato. La prova si stava rivelando un'impresa davvero difficoltosa, ma, per fortuna, aveva dimostrato di avere un buon sangue freddo e spirito d'iniziativa.

Proprio in quel momento un urlo riempì l'aria e Edmund si voltò istintivamente verso gli altri campioni. Entrambi stavano affrontando il loro secondo ostacolo, Wedge un Dullahan e Chaitaly l'enorme rinoceronte africano, ma sembrava essere in grosse difficoltà. La bestia trafisse con il suo corno il parapetto del ponte e lo fece esplodere. Chaitaly, che vi si era appiattita contro per evitare la carica dell'animale, perse l'equilibrio e cadde nel lago. Riemerse poco dopo sulla superficie e scoppiò a piangere: la caduta le aveva meritato la squalifica dal torneo.

Da un lato, Edmund fu dispiaciuto per lei, dall'altro pensò che era più vicino a vincere il Torneo Trecolonie di quanto non lo fosse mai stato. Prese a correre verso l'altra riva, ben sapendo che presto avrebbe dovuto affrontare la terza creatura: il rinoceronte africano che, dal corno esplosivo, aveva riconosciuto essere un Erumpent. Aveva letto di quelle bestie nel libro “Animali fantastici: dove trovarli” di Scamandro e gli era rimasto impresso perché il veleno del suo corno e la coda erano ingredienti preziosi per molte pozioni.

Dopo pochi metri, infatti, un Erumpent si materializzò sul suo cammino. Con la coda dell'occhio, Edmund vide che anche Wedge aveva incrociato il suo terzo ostacolo: ora tutto si risolveva in chi dei due avrebbe sconfitto la creatura più velocemente.

Edmund non perse tempo; alzò la bacchetta e gridò: «Stupeficium!» ma il suo incantesimo venne respinto dalla dura corazza della bestia. Incapace di arrendersi all'evidenza, Edmund cominciò a lanciare qualsiasi magia gli passasse per la testa, mentre l'Erumpent cominciava la sua carica verso di lui.

«Impedimenta! Reducto! Stupeficium! Recido!»

Nulla da fare. «Expelliarmus!» gridò alla fine. Magari, chissà, avrebbe potuto staccargli il corno. Niente. I suoi incantesimi rimbalzavano sulla scorza impenetrabile dell'animale, sempre più vicino a lui. E poi Edmund ebbe un'idea folle. «Avio!» urlò e uno stormo di canarini uscì dalla sua bacchetta. «Oppugno!» ordinò, scagliando gli uccellini contro il rinoceronte come se si trattasse della sua aviazione personale.

Funzionò, almeno in parte. L'Erumpent interruppe la sua corsa e prese a incornare i poveri canarini che caddero come eroici combattenti sacrificati per la patria. Ma l'idea di distrarre la creatura poteva essere buona. Edmund puntò la bacchetta contro una vite del ponte, la appellò nella propria mano e poi la trasfigurò in un corvo. «Oppugno» mormorò, ordinando all'uccello di attaccare il rinoceronte. Ripeté la stessa operazione altre e altre volte perché i corvi, per quanto avessero una sopravvivenza più lunga degli stupidi canarini, ogni volta che venivano trafitti dal corno dell'Erumpent esplodevano.

«Oppugno! Oppugno!» gridò Edmund esasperato, lanciando gli ultimi due uccelli contro il rinoceronte, che prese a sbuffare dalle narici e cercò di incornare quei fastidiosi esserini. Edmund realizzò che era ad un punto morto: avrebbe potuto trasfigurare corvi per l'eternità, mentre Wedge gli avrebbe soffiato la vittoria sotto il naso. No, gli serviva un'idea brillante. Osservò per un attimo l'ultima vite che aveva in mano. E se...?

Non conosceva la formula, ma se sapeva trasfigurarla in un corvo, perché con un altro animale sarebbe dovuto essere diverso?

Ci provò. Si stampò bene in mente l'immagine dell'uccello in cui voleva trasfigurare la vite, si concentrò e toccò il freddo metallo con la bacchetta.

Accadde. Una splendida fenice si formò sul palmo della sua mano. Lo guardò con quei liquidi occhi dorati e chinò la testa verso di lui, in segno di rispetto.

«Ciao, piccolina» mormorò Edmund, accarezzando il suo magnifico piumaggio rosso e oro che brillava sotto la luce del sole. Proprio in quel momento, lo scoppio del suo ultimo corvo lo riportò bruscamente alla realtà. «Portami in salvo» sussurrò alla neonata fenice, che lo afferrò per il colletto della giacca e si sollevò in volo trascinandolo con sé.

«Alla facciaccia tua, Wedge!» esultò Edmund, sorpassando un furioso Erumpent e godendosi dall'alto lo spettacolo dell'avversario che combatteva contro la creatura indiana. La fenice lo depositò dolcemente sull'erba dell'altra sponda, dopodiché lanciò un grido delicato al cielo e si allontanò, scomparendo alla vista. Edmund rimase a fissarla con il naso all'insù per qualche secondo, infine guardò davanti a sé e sulle sue labbra si disegnò un sorriso di vittoria: a pochi metri si innalzava il palco con la coppa del Torneo Trecolonie. Ce l'aveva fatta.

Ma poi Edmund vide che c'era qualcuno nascosto sotto il palco, proprio a fianco della scaletta che serviva per salire. Dal lato della tribuna, non si poteva vedere, perché era coperto dagli stendardi rossi e oro che erano stati messi come decorazione. Edmund strizzò gli occhi e vide che si trattava dello stesso operaio che li aveva fissati con insistenza la sera prima.

«Ma cosa diavolo...?» cominciò a dire, ma non riuscì a terminare la frase che un incantesimo lo colpì in pieno petto.

Edmund si sentì improvvisamente più leggero. Pareva che una mano avesse strappato via tutti i pensieri dalla sua testa, che ora galleggiava placidamente nel vuoto, come se fosse stata gonfia di elio, lasciandogli addosso una sensazione di quiete e serenità.

«Uccidila» ordinò una voce suadente che proveniva da qualche parte sul fondo del suo cervello.

Ucciderla. Già, che bella idea. Era sicuro che poi si sarebbe sentito meglio. Sollevò la bacchetta e la puntò contro la sua vittima, ma poi qualcosa lo bloccò. Perché doveva ucciderla? Non gli aveva fatto nulla di male, nemmeno la conosceva.

«Uccidila!» sibilò la voce, questa volta con maggiore forza.

Sì, va bene, l'avrebbe fatto.

No, grazie, non voglio diventare un assassinio.

La mano di Edmund cominciò a tremare violentemente, per lo sforzo di riuscire a lanciare l'Anatema sebbene parte di lui si rifiutasse.

«UCCIDILA!»

«No!» gridò la voce di Edmund, mentre il suo corpo si accasciava sull'erba.

«Crucio!» ululò qualcuno.

Un dolore allucinante gli trafisse ogni parte del corpo e Edmund si ritrovò a rantolare a terra, con le lacrime agli occhi. Pensò che sarebbe stato meglio morire piuttosto che sopportare quella tortura.

«Stupeficium!» gridò una terza voce.

Il dolore cessò improvvisamente, ma Edmund non ebbe la forza di alzarsi: rimase rannicchiato sull'erba finché un paio di sandali non entrarono nella sua visuale. Li riconobbe subito: erano quelli di Wedge.

«Burke, tutto bene?» domandò il ragazzo di colore.

Edmund si stupì di vedere che gli stava offrendo una mano per alzarsi. Indugiò solo un attimo, poi approfittò dell'aiuto e si rimise in piedi. «Io... sì, credo bene» mormorò in risposta, ancora scosso da quello che era successo.

«Chi diavolo era quel pazzo?» chiese Wedge, accennando all'operaio tramortito a terra.

Edmund si strinse nelle spalle. «Non ne ho la più pallida idea. Comunque, grazie» disse, un po' a disagio. Non avrebbe mai pensato di dire quella parola proprio a Wedge.

«A buon rendere» rispose quello, con un certo disinteresse.

Dopodiché i due ragazzi si accorsero di essere a pochi metri di distanza dal palco, tutti e due ad un soffio dal diventare campioni, e non ci fu più spazio per i convenevoli. Si scambiarono una rapida occhiata, poi entrambi corsero verso la coppa. Wedge era più alto e più veloce, ma erano talmente vicini che non ebbe tempo di sfruttare le sue gambe lunghe per distanziare l'avversario. Edmund, d'altronde, era deciso più che mai a non lasciarsi sfuggire l'occasione di vittoria.

Giunsero insieme sul palco, allungarono entrambi le mani e, nel medesimo istante, strinsero le dita intorno ai manici della coppa.

Ci fu un esplosione di musica, coriandoli colorati, giochi di luce e quelli che sembravano fuochi d'artificio. La folla scoppiò in un boato di gioia, anche se nessuno aveva ben capito quale dei due campioni fosse arrivato primo. Il piccolo palco si trasformò in una selva di colore, come se fosse stato magicamente trasportato nel bel mezzo del carnevale di Rio.

«Non riesco a togliere la mano dalla coppa!» gridò Wedge, per sovrastare il rumore.

Edmund tentò di aprire le dita, ancora serrate intorno al manico, e scoprì di non riuscirci. «È stato fatto affinché il primo campione a toccarla fosse anche l'unico vincitore» spiegò il ragazzo. Il problema era che entrambi avevano afferrato la coppa nel medesimo istante: quale dei due era il fortunato vittorioso?

Ma un grido che non aveva nulla a che fare con la festa fece voltare entrambi di nuovo verso il lago. A stento tra i coriandoli colorati si intravedeva la sagoma dell'operaio folle: evidentemente l'incantesimo si Wedge l'aveva preso solo di striscio e l'effetto era già terminato.

«Avada Kedavra!» strillò il mago in preda al furore.

Edmund non riuscì a scorgere quale fosse il destinatario della maledizione, né se essa ottenne l'effetto desiderato ma, a giudicare dalle grida di terrore che scoppiarono in tribuna, il bersaglio doveva essere stato centrato.

«Dobbiamo fermarlo!» urlò Edmund al compagno, ben sapendo che con quel caos di coriandoli e luci nessuno dagli spalti poteva avere speranza di colpire l'assalitore. Il problema era che entrambi erano legati alla coppa e avrebbero dovuto collaborare per riuscire a combinare qualcosa. Così, improbabili partecipanti ad una gara di corsa a tre gambe, Edmund e Wedge ruotarono per riuscire a voltarsi e si mossero verso l'uomo, che stava già puntando sul suo secondo obiettivo.

«Avada...» incominciò quello.

«Stupeficium!» gridò Wedge.

«Impedimenta!» strillò Edmund.

Nessun incantesimo andò a buon fine, ma le azioni dei due campioni furono sufficienti a distogliere il mago dal suo intento. «Ancora voi due?» domandò con rabbia, puntando la sua bacchetta contro di loro. Sembrava completamente folle, gli occhi sgranati e le narici dilatate. «Io devo ucciderle, capite?» ululò, in preda alla pazzia.

«Expelliarmus!» ne approfittò Edmund, ma l'uomo fu lesto a parare e poi cominciò a contrattaccare. Edmund era impacciato nei movimenti, a causa del suo legame con Wedge, ma essere in due contro uno era decisamente più conveniente: per quanto il mago fosse svelto, non riusciva ad attaccare perché doveva preoccuparsi di difendersi su due fronti.

«Fermi!» gridò una quarta voce, con tono deciso.

Il preside Captatio.

Edmund notò che con la bacchetta alla mano e lo sguardo furente, non appariva più tanto buffo. Anzi, metteva decisamente paura.

L'uomo, vedendosi messo alle strette, ululò di rabbia. Retrocedette di qualche passo, guardandosi intorno come una preda in trappola. «Non mi avrete, non mi avrete!» ringhiò con lo sguardo furente. Dopodiché si portò la bacchetta alla gola e, prima che qualcuno potesse intervenire, gridò: «Recido!»

Edmund chiuse gli occhi di scatto, ma non abbastanza velocemente da riuscire ad evitare di vedere il sangue che schizzava dalla ferita sulla gola. Ne sentì l'odore così intenso che gli parve di vedere comunque il corpo morente dell'uomo che si accasciava a terra in una pozza di sangue, nonostante avesse gli occhi serrati.

Quando li riaprì, Captatio era chino sul mago e sussurrava una lenta litania. Dopo poco però, si fermò e scosse la testa sconsolato. «È morto» sussurrò affranto.

Edmund si portò la mano alla bocca e trattenne un conato di vomito. Non sapeva perché, non sapeva nemmeno chi fosse quell'uomo, ma gli era venuta una gran voglia di piangere. Si voltò verso Wedge e vide che anche lui era scosso da quello che era successo.

Sopraggiunsero anche gli altri presidi e McPride, e degli Auror; scoppiò il finimondo. L'unica certezza, per Edmund, oltre al freddo manico della coppa che stringeva ancora insieme a Hewa Wedge, fu lo sguardo cupo ma insieme rassicurante che gli lanciò il professor Captatio.




Eccoci qui, ci stiamo avvicinando inesorabilmente alla fine di questo (entusiasmante?) quarto racconto della saga dedicata ai giovani maghi irlandesi. Il prossimo, infatti, sarà l'ultimo capitolo, seguito da un epilogo.

Ma andiamo con ordine! Le creature che i campioni devono affrontare, non le ho inventate io: il Dullahan (qui il link) è una creatura che fa parte della tradizione irlandese, l'Erumpent (qui il link) e l'Occamy (qui il link), invece li ho recuperati dal libro “Gli animali fantastici: dove trovarli” e sono rispettivamente originari dell'Africa e dell'Estremo Oriente. Mi sembrava carino che i campioni avessero a che fare con esseri della propria terra.

Secondo luogo, spero che il salvataggio di Edmund da parte di Wedge vi abbia aiutato a rivalutare almeno un po' questo personaggio. In fondo, non è cattivo! È solo un po' pieno di sé e vuole sempre dare il meglio per dimostrare quanto può valere un ragazzo di colore (non vi ricorda qualcuno a caso? Vedrete, nel prossimo capitolo se non avere capito! ^^).

Infine, ecco qual era l'utilizzo della Polvere dell'Ossessione insieme al sangue di drago. Ma, se non vi è del tutto chiaro, lo spiegherà Captatio meglio nel prossimo capitolo! Scusate se ho inserito una scena un po' cruda, ma ogni tanto ho manie splatter! Scherzi a parte, il suicidio dell'operaio non è messo lì a caso. Così come ho cercato di rendere la scena reale, con Edmund che, seppur chiudendo gli occhi, è come se vedesse tutto alla perfezione nella sua mente... a voi non è mai capitato?

Bene, basta note chilometriche!

Alla prossima,

Beatrix

   
 
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