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Autore: Lady Vibeke    20/12/2011    8 recensioni
Una donna urla, la voce frammentata da singhiozzi.
Tutto è buio.
Battiti di cuore come tamburi attorno a lei, stretta tra braccia esili. Occhi innocenti di bambina si sgranano nell’angoscia dell’incapacità di comprendere quel caos improvviso.
– Dammi la bambina – Sentenzia la persona senza volto, ed è un ordine ineluttabile che impregna l’oscurità.
C’è il terrore che spadroneggia nella bimba. Troppo piccola per capire, ma abbastanza grande per rendersi conto del pericolo. E intanto quelle braccia insistono a volerla proteggere.
– Se la consegnate a me, sarà salva. Loro stanno arrivando. Se riescono a trovarla, la prenderanno e la uccideranno sotto ai vostri occhi. Datela a me. –
– Cosa vuoi da lei? –
Un lampo squarcia le tenebre. Il volto di una donna appare per un brevissimo istante al di sotto del cappuccio.
– Voglio salvarle la vita. –
Il silenzio della tensione calca sulle loro teste, impietoso. In lontananza, nitriti selvaggi si mescolano a un rumore di zoccoli in corsa.
Le braccia della ragazza si allentano attorno al corpicino indifeso della piccola. Altre due braccia sottili si aprono in un invito. Tutto è preda di una tensione innaturale. Tutto è immobile.
Poi un lampo di luce rossa divora ogni cosa.
Genere: Avventura, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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24. VERITÁ

 

Somewhere in the night
The visions come to me
And I dream of home
Those dreams won't set me free
The road is made of eternity
And I know that it's too late
Too late to change my way
Too late to alter my fate

– I Don’t Care Anymore, Tarot –

 

 

Regan le aveva immaginate così le case dei racconti ­– un po’ storici, un po’ fiabeschi – che Derian aveva condiviso con lei durante le loro lunghe notti insonni di clausura: semplici e accoglienti, di una bellezza naturale creata nel legno e nella pietra, nella semplicità del mobilio dall’intensa aura antica.

Molti fiori di diverse specie rallegravano l’ambiente con i loro colori, ma c’era del macabro nel loro immobile risposare in teche e campane di vetro che sembravano chiudere fuori da sé il logorio del tempo, impedendo a ciò che custodivano di perdere anche solo un soffio della loro vitalità. Regan aveva già visto qualcosa di simile, prima, ma in scala nettamente inferiore, e non sapeva ancora decidere se le piacesse quella sorta di incanto di eternità gettato su quelli che erano in tutto e per tutto degli esseri viventi. Guardava i petali sgargianti di una rosa al di là del vetro della sua cupola e rivedeva sé stessa, prigioniera impotente strappata alle proprie radici, relegata in una gabbia senza saperne il motivo.

Tutto ciò che avrebbe voluto, adesso, non era più nemmeno arrivare ad Aurin; era così scoraggiata e smarrita che le sarebbe solo piaciuto tornare a Norden, rivedere le foreste di betulle imbiancate di soffice neve, e il sole basso dell’inverno accarezzare di luce ramata le pianure silenziose, e ritrovare il freddo secco e pungente del vento che solo lì aveva sentito, mani invisibili e abbracci immateriali di un luogo che rispecchiava la sua anima come nessun altro.

– Prego, sedetevi. –

Malice fece cenno a Regan e a Soile di accomodarsi su una panca dal coperchio imbottito, apparentemente il seggio più comodo che la grande stanza – che fungeva ingresso, tinello e cucina – aveva da offrire.

La donna aveva portato loro delle coperte e degli indumenti caldi e asciutti e steso i loro, fradici e gocciolanti, su un paio di sedie davanti al camino. Regan non aveva avuto alcun imbarazzo a spogliarsi davanti ad altre due donne, ma si era sentita un po’ ridicola quando, attraverso la biancheria intima bagnata, aveva intravisto il corpo flessuoso e femminile di Soile, gli arti affusolati, il seno pieno e sodo. Regan si era rivestita in fretta, vergognosa del suo corpo acerbo, e si era amaramente detta che non c’era di stupirsi se Lucius non riusciva a vederla che come una sorella minore.

Ma un giorno, giurò a sé stessa, un giorno crescerò anch’io, e non potrai più guardarmi come una bambina.

Quando ciascuna di loro fu seduta, Soile presentò la donna:

– Regan, lei è Lady Malissa Morgant. –

– Chiamami semplicemente Malice – puntualizzò educatamente quest’ultima.

– Piacere di conoscervi – Regan recitò la frase di rito senza quasi accorgersene, tanto era assorta a studiare gli occhi della donna. Fu più forte di lei: – Avete un aspetto molto familiare… –

– Malice è una Morgant per matrimonio – le spiegò Soile. – Di nascita, è una Edelberg. Sorella minore di Lord Tristan e maggiore di Persefone. –

Regan ci aveva visto giusto. Il viso della donna, ora che la guardava con più consapevolezza, aveva molto di Lord Edelberg, della sua durezza, anche se i lineamenti erano più simili a quelli di Persefone, ma non ne possedevano la medesima armoniosa dolcezza. Con Malice, Regan arrivò a contare quattro fratelli Edelberg adulti e si chiese se Anneli, Aeden e gli altri avessero qualche altro zio o zia da qualche parte che lei non conoscesse.

– Regan ha fatto molto amicizia con i tuoi nipoti, da quando è con noi. –

Soile spiegò brevemente alla loro ospite come stavano le cose, e Regan si stupì nello scoprire quanto Soile sapesse. Sapeva perfino di Derian. Lucius doveva averle riferito tutto per filo e per segno ciò che lei stessa aveva detto a lui, e questo in qualche modo la offendeva, sminuiva il rapporto di confidenza tra loro due, perché nel mezzo, in un modo o nell’altro, c’era sempre Soile.

Alla fine, Malice si alzò e si avvicinò al focolare dall’altro lato della stanza con aria afflitta.

– So che Tristan e Arista hanno avuto un’altra figlia… Luce? –

Soile annuì pacata, e qualcosa di triste aggravò il suo gesto.

Malice si sforzò di sorridere.

– Tredici anni lontana da loro… e loro mi credono morta. –

– Per quale motivo… – cominciò Regan, ma un’occhiata di Soile le disse che quella che intendeva porre era una domanda inappropriata.

Ma Malice la intuì da sé e non si fece alcun problema a rispondere:

– Perchè mi trovo qui? – Il suo sorriso si inasprì. – Ho ucciso mio marito. – Non c’era rimorso nel suo tono, o pentimento, ma solo rancore. – Per impedire a lui di uccidere me. Ma nessuno mi credette. Se non fosse stato per voi, Vostra Grazia… –

– Malice, te ne prego, – la interruppe Soile con voce gentile ma ferma. – Certi appellativi non sono consoni alla mia posizione, lo sai. –

Ma Malice alzò il mento e i suoi occhi scintillarono fieri:

– Né io né la mia famiglia abbiamo dimenticato chi siete e cosa avete fatto per Norden e tutte le altre Terre, e non l’ha dimenticato nemmeno il resto del popolo. Formalmente il governo del Mondo Occulto sarà anche in mano alla Lega, ma se un giorno voi doveste alzarvi e rivendicare il vostro diritto a sedere al trono, la vostra gente non esiterebbe un solo istante a schierarsi in vostro favore. –

Malice doveva avere parecchi anni in più di Soile, ma le parlava come una ragazzina avrebbe parlato a una rispettabile anziana. E c’era della commozione malcelata, ora, nello sguardo forte di Soile, anche se lei non era il tipo da lasciarsi sopraffare dalle emozioni.

– Non è né il luogo né il momento di discutere di queste cose. Ho bisogno di mettermi in contatto con Persefone. –

– C’è uno specchio al piano di sopra, nella mia camera da letto. Potete usare quello. –

Gli specchi. Regan possedeva vaghe nozioni al riguardo: come ogni altra superficie riflettente, erano uno strumento difficile da usare per comunicare e i più, infatti, non erano in grado di sfruttarli.

Soile si alzò e si diresse verso la piccola rampa di scale di legno in fondo alla stanza.

– Ditemi – disse Malice ad alta voce, prima che lei potesse salire il primo gradino. – Lei come sta? E Idar? La piccola Hemel? –

– Stanno bene, tutti quanti. Presto avranno un altro figlio. –

Gli occhi impenetrabili di Malice si riempirono di lacrime, ma si limitò ad annuire, la gola gonfia, e Soile sparì al piano di sopra.

Malice portò a Regan del the caldo e qualche biscotto fatto in casa e rimase a guardarla con attenzione mentre lei faceva sparire tutto rapidamente, un po’ perché aveva appetito, un po’ perché sperava che la avrebbe aiutata a scacciare tutto quel freddo che ancora si sentiva nelle ossa.

Quando sollevò lo sguardo dopo aver spazzolato anche l’ultima briciola e goccia di the, Regan si accorse che Malice stava sorridendo.

– Ne vuoi ancora? –

– No, vi ringrazio. Mi sento già molto meglio. –

– Dammi del tu. Nessuno mi dà più del voi da anni, ormai. Sono piccolezze che appartengono al mondo al di fuori di qui. –

Regan lesse della nostalgia in lei, il cordoglio per una distanza invalicabile tra la sua persona e tutto ciò che avesse di più caro.

– Come sei finita qui, se posso chiederlo? –

Dalla sua sedia, Malice la squadrò attentamente, forse per decidere se fidarsi di lei o meno, ma se Soile l’aveva portata lì, un luogo segreto che nemmeno avrebbe dovuto esistere, era implicito che la ritenesse degna di apprenderne i segreti.

– Nessuno crede più all’esistenza di Shar Caras, oggigiorno – iniziò a raccontare Malice, infatti. – Dicono che sia qui che Lucifero abbia perso il senno. Secoli fa questo luogo era un mito, poi si è trasformato in una credenza popolare, e adesso è solo un ricordo che in pochi conservano. Ma come puoi vedere esiste, anche se per lungo è tempo è rimasto inabitato. Non so come Lady Leljen lo abbia trovato, ma da anni fa nascondere qui gli innocenti condannati a morte. Non che io sia innocente, certo, ma probabilmente una moglie maltrattata e umiliata ha più diritto di vivere di un efferato assassino… anche se chi mi giudicò non la pensava così. –

Regan, che ormai conosceva il resto della famiglia di Malice e sapeva quanto fossero delle brave persone, era indignata. La Lega non le aveva mai suscitato simpatia e se questo era il loro modo di impartire la giustizia, allora lei non ci stava.

– Non riesco a credere che vi abbiano condannata così ingiustamente! – si infiammò. – Se vostro marito era crudele con voi, doveva essere lui quello da punire! –

Malice emise una piccola risata contenuta.

– Mi ricordi molto i miei fratelli minori, sai? Io sono sempre stata molto più simile a Tristan, forse perché siamo i maggiori: seri, poco inclini verso tutto ciò che esulava dai nostri doveri. Ma Persefone e Ardal erano come te: facevano quello che si sentivano di fare, non erano disposti a scendere a compromessi con la loro posizione sociale. Non che Persefone sia mai cambiata, comunque. Io e Tristan accettammo senza remore i consorti che nostro padre scelse per noi. A mia sorella andò bene: giovanissima, quando ancora frequentava la Domus Aurea, si innamorò di un giovane ufficiale che godeva di ottima reputazione e nostro padre fu più che lieto di dare la benedizione alle loro nozze. Ardal, invece… – scosse la testa addolorata. – Le nostre vite sarebbero state tutte molto più felici se non avessimo avuto l’obbligo di assecondare le tradizioni. –

 Tutto ciò che Regan sapeva di Ardal Edelberg era che si era infatuato della donna sbagliata e la sua famiglia non glielo aveva perdonato. Si chiese che razza di genitori potevano mai negare l’amore a un figlio e condannare una figlia a vivere con un marito violento.

Le vecchie usanze erano dure a morire, e così come l’erede di una stirpe reale era ancora trattata come una regina, allo stesso modo il resto della nobiltà ci teneva a perpetrare il proprio status con matrimoni tra rampolli di rango. Anche se sulla carta tutti erano uguali, nei fatti le cose non erano poi molto diverse dai tempi delle monarchie.

Soile ritornò diversi minuti dopo e sembrava quantomeno tranquilla. L’abito color vinaccia che Malice le aveva prestato le si drappeggiava troppo largo addosso, creando pieghe e arricciature attorno al nastro nero che le cingeva la vita, ma il colore faceva spiccare i suoi occhi più che mai e regalava alle sue gote un riflesso rosato che ingentiliva quell’espressione perennemente impassibile.

– Ci fermeremo qui fino a domattina, se Malice vorrà essere così gentile da concederci ospitalità – disse, e prima che Malice potesse dire qualcosa aggiunse: – Ci basteranno delle coperte per terra. – E con uno sguardo cercò l’approvazione di Regan.

– Naturalmente. Novità da Persefone? –

– Di Lucius e Shin ancora nessuna notizia – rispose Soile, smascherando ancora una volta il vero intento della domanda.

A Regan si strinse lo stomaco e seppe che quella notte non avrebbe chiuso occhio, ma forse, a giudicare dalla mascella contratta di Soile, non sarebbe stata la sola.

 

 

Malice fu molto gentile: ammucchiò una buona quantità di ciocchi nel camino e mise a disposizione una pila di coperte e trapunte, nonché dei cuscini molto invitanti.

Soile si coricò, dando le spalle a Regan, la quale se ne rimase avvolta in tre coperte per tutta la notte, ma senza riuscire a prendere sonno.

Era stanca ma non sarebbe riuscita a prendere sonno, visto il suo stato d’animo. A tenerla sveglia c’era da un lato il pensiero dei suoi amici e dall’altro il timore di sognare, di rivivere quelle immagini che le avrebbero solo fatto venire voglia di fuggire e complicare ulteriormente la situazione a tutti.

Si sentiva un macigno sulle spalle di troppa gente, ma ciò di cui più si vergognava era che non le importava: su qualsiasi altro sentimento vinceva l’egoismo, il bisogno spasmodico di darsi un nome, una storia, delle radici concrete. Voleva solo essere qualcuno e non le sembrava un desiderio così meschino.

Voglio solo quello che hanno tutti…

Non era del tutto sicura che Soile stesse veramente dormendo. Tuttavia anche se non lo era non disse niente quando, mentre la luce rosata dell’alba iniziava a tingere il cielo viola, Regan si alzò e uscì.

Fuori il freddo era inclemente, ma piacevole sul viso stanco. L’erba umida sotto i piedi nudi era un tappeto dai fili teneri avvolti da una patina gelata. Il profumo della notte era ancora lì, sapeva di terra e di ghiaccio, indugiava tra le case sopite e tra gli alberi nudi e muti. Uno spicchio di luna si attardava ancora nel cielo, fioca pennellata di bianco su una tela ancora trapunta di stelle evanescenti.

Inspirò profondamente, come a voler catturare tutta la vita che il mondo poteva darle. Era un mondo anche suo, adesso, e questo pensiero la fece sentire strana.

Non aveva mai avuto niente che le appartenesse, nemmeno dei ricordi. Era stata strappata alla sua vita troppo presto perché potesse conservarne qualche memoria concreta, e tutto ciò che in seguito era stato di lei non era che un succedersi di giorni tutti uguali, vuoti e tristi, senza un senso o uno scopo a cui aggrapparsi. Era stato esistere, ma non vivere. E adesso guardava in su, verso un cielo immenso e mozzafiato che si spalancava come un miracolo tra il nero dei rami degli alberi intrecciati tra loro, e sentiva la forza impetuosa del vivere irradiarsi dentro di lei, fiotti di energia purissima che provenivano dalle carezze del vento, dai raggi del sole che a est iniziavano a risvegliare pigramente il creato.

Per un momento Regan pensò che non era poi così importante sapere chi era o da dove veniva: era un regalo così grande, così inestimabile, essere lì a guardare l’alba che sorgeva, che tutto il resto passava in secondo piano. Non aveva dimenticato che doveva tutto a chi l’aveva salvata e protetta senza mai chiedere nulla in cambio. E adesso Lucius e Shin, a causa sua, potevano essere in pericolo.

Ma Soile era relativamente calma, solo vagamente preoccupata, e Regan si accorse di sentirsi a sua volta stranamente serena. Se i suoi amici fossero stati davvero nei guai, sapeva che in qualche modo lo avrebbe sentito.

Non è possibile, le diceva per contro la razionalità, ma era una voce insulsa a confronto della certezza innata che loro stessero bene. Così come Shin, inspiegabilmente, riusciva sempre a trovare lei, allo stesso modo lei sentiva che non c’era nulla da temere.

C’era solo da augurarsi che quell’istinto non sbagliasse.

Ritornò verso la casa di Malice che il sole si era già alzato oltre l’orizzonte, anche se lei da lì non lo poteva ancora vedere. Avvicinandosi alla porta, sentì la voce della padrona di casa:

– … e trovo insolito che un Coordinatore del vostro calibro si prenda il disturbo di scortare personalmente una semplice ragazzina senza nome. Con questo non vi sto chiedendo di rivelarmi cose che non potete, ma almeno consentitemi di credere che ci sia di più di quanto non vogliate far sembrare. –

Regan si accostò cautamente alla porta e tese l’orecchio. Soile prese parola:

– Non può essere una semplice ragazzina senza nome: Desmond l’ha tenuta nascosta per tutto questo tempo, personaggi che non sono mai comparsi in tutta la storia della Lega le danno la caccia e a quanto pare succedono cose misteriose ovunque lei vada. –

Ci fu una breve pausa e Regan credette che fosse finita lì, ma poi Malice disse:

– E che altro? –

Seguì solo il silenzio, veicolo di incertezza, di timore, di segretezza. Ma Soile alla fine scelse di dire la verità:

– Il più fidato dei miei uomini possiede il dono di scrutare nell’anima. È stato lui a trovare Regan e a trarla in salvo. Dice che in lei c’è qualcosa, qualcosa che non ha mai scorto in nessun altro, anche se non è in grado di capire di cosa possa trattarsi. Pensiamo che sia quello a renderla tanto importante. Ma finché non sappiamo cosa sia… –

Regan non ascoltava più. Si era portata una mano alla bocca, per soffocare un gemito di sorpresa, ma anche di estrema delusione. Lucius sapeva che in lei c’era qualcosa di strano, qualcosa che la rendeva diversa da chiunque altro, e lo aveva detto a Soile, ma non a lei.

Era determinata a non mettersi a fare la vittima. Non avrebbe iniziato a piagnucolarsi addosso perché Lucius le aveva taciuto una cosa tanto importante. Aveva sicuramente avuto delle ottime, valide ragioni, lei non poteva saperlo. Eppure si sentiva ferita nell’orgoglio, ridotta davvero a poco più di una bambina considerata troppo piccola e ingenua per poter capire.

Sì, era indifesa, e, sì, quel poco che Derian aveva potuto insegnarle era niente in confronto di quello che un qualsiasi allievo della Domus Aurea apprendeva solo nel suo primo anno di frequenza, ma non sarebbe stato così per sempre: se solo il destino, o la Madre, o chiunque governasse gli eventi, le avesse concesso una possibilità, Regan avrebbe dimostrato che poteva essere una persona molto migliore di quella che era. Voleva farlo a tutti i costi.

Con la manica della veste si asciugò gli angoli umidi degli occhi. Inspirò un paio di volte per cancellare ogni segno di emozioni dal proprio viso, poi, fingendo di non spere che dall’altra parte della porta c’erano le due donne ad attenderla, entrò.

 

 

Orientarsi in quell’intrico impossibile di strettissimi budelli asfittici era impossibile. C’erano cunicoli in cui era impossibile passare, perché il pavimento aveva ceduto e si era spalancato in voragini su stanze inferiori che erano rimaste ostruite dalle macerie; altri erano più ampi e promettenti, ma non avevano intrapreso nessuno di quelli.

Lucius si muoveva con una strana confidenza in quel labirinto, come guidato dall’istinto più che dalla conoscenza, una fiamma viola che fluttuava sul palmo della sua mano sinistra a rischiarare il cammino. Shin sapeva che quel sotterraneo non era estraneo al suo amico: Lucius aveva vissuto per un po’ a Medilana, da ragazzino, e spesso il suo rifugio erano state le vecchie catacombe. Pochi avevano l’ardire di addentrarsi in quei corridoi tutti identici, poiché nessuno che vi fosse entrato senza cognizione ne era mai uscito. Chissà quanti erano rimasti intrappolati là sotto, lasciati a marcire divorati da ratti e insetti.

Shin percepiva lo straordinario potere insito nella terra che lo circondava: i luoghi segnati dal sangue e dalla morte – come gli ospedali, i campi di battaglia, le camere di tortura – restavano intrisi dell’energia vitale che si consumava su di essi, assorbendola per farsene i custodi.

Impiegarono ore per trovare la via giusta. Un paio di volte Lucius si perse, un altro paio trovarono il passaggio sbarrato da un crollo o da un chiaro odore di morte che preannunciava una prosecuzione pericolosa. Il timore più grande era quello di incrociare qualcuno dei compari dell’uomo e della donna che avevano lasciato ad assopirsi nella cella, prosciugati dai loro stessi sigilli. Non sarebbero morti, ma almeno non avrebbero potuto dare l’allarme.

C’era anche la tentazione di osare e andare a cercare il loro covo, o qualunque cosa conservassero là sotto, ma non sapevano quanti fossero né quali fossero le loro risorse, e buttarsi alla cieca in un’impresa così rischiosa non era opportuno. La priorità, adesso, era uscire sani e salvi e trovare Regan. Shin avrebbe solo voluto avere l’assoluta certezza che ci fosse Soile con lei.

Era stanco. Ormai doveva essere notte fonda, se non addirittura quasi l’alba. Non si era ripreso del tutto, dopo che Lucius aveva rinchiuso le loro energie nel cristallo.

Era stato bizzarro: si era sentito svuotare di tutto, come se le sue ossa si fossero pian piano dissolte e i suoi muscoli avessero perso ogni vigore, e la mente si era spenta. Lucius non dava segni di aver risentito del processo di riassorbimento, perché un tempo per lui era stato la quotidianità avere a che fare con certe magie, ma il corpo di Shin non aveva reagito altrettanto bene.

– Lucius – ansimò a un tratto. Si fermò ad appoggiarsi alla parete rocciosa per riprendere fiato. Aveva la vista offuscata, gli girava la testa.

– Shin! – esclamò l’amico allarmato. – Shin, ti prego, non adesso! Sento che c’è qualcuno, qui vicino, non possiamo rischiare di farci trovare. –

Un rumore secco proveniente da lontano si propagò fino a loro.

– Fantastico – bisbigliò Lucius, abbassando la voce fino a renderla quasi inudibile.

Si volse a controllare rapidamente l’ambiente che li circondava: un crocevia di quattro cunicoli. Nel più stretto di essi, pochi metri avanti a loro, si incastonava una porta a due battenti velata di ragnatele.

Risoluto, Lucius si caricò un braccio di Shin sulle spalle e lo trascinò verso la loro unica possibilità. Una volta rifugiati al di là dei due battenti, la fiamma viola fu spenta e attesero in silenzio.

Dopo una manciata di secondi, un rumore di passi iniziò ad avvicinarsi, e con esso un vociare confuso. C’era anche qualcos’altro, come se qualcuno stesse trascinando un sacco di farina.

– … evitare problemi, quindi vediamo di far sparire il cadavere e andarcene. Questo posto mi fa accapponare la pelle. –

Era una voce maschile e sommessa, con un accento rozzo. Parlava in modo esitante. Le rispose un timbro molto più grave, cavernoso:

– Zitto e trascina. E bada a non tirare troppo quella maledetta fune, non possiamo rischiare di rimanere intrappolati qui, maledizione! –

– Sta quasi per finire, fermiamoci qui – disse l’altra voce. – Buttiamolo oltre quella porta e andiamocene! –

Lucius fremette e Shin, ancora appoggiato a lui, represse a stento un brivido di panico: se davvero quei due, chiunque fossero, avessero deciso di entrare là dentro, ci sarebbe stato un problema in più da affrontare. Inoltre, se davvero stavano cercando di occultare un cadavere, sarebbe stato dovere suo e di Lucius arrestarli e portarli davanti ai tribunali della Lega, ma non avevano né modo né tempo per affrontare tutto questo. Dovevano uscire di lì al più presto, finché potevano.

– No, no, lì non va bene, troppo ovvio! Troviamo un punto di pavimento franato o qualcosa del genere… sarà più difficile che lo trovino. –

 Fortunatamente proseguirono. Shin rimase immobile col fiato sospeso finché il rumore e le voci non furono scomparsi del tutto.

– Farabutti – imprecò Lucius sottovoce, spingendo piano uno dei due battenti, i cui cardini erano tanto arrugginiti che si bloccò così, aperto. – Non appena mi sarà possibile tornerò a indagare su qualsiasi cosa stiano combinando. –

Sapeva esattamente a chi rivolgersi per recuperare il corpo.

Shin si lasciò accompagnare fuori. Vide che a terra, lungo la parete, correva la fune di cui avevano parlato i due uomini: un’idea banale ma efficace per ritrovare la strada in un posto così inospitale. Questo avrebbe facilitato l’uscita anche per lui e Lucius.

– Non deve mancare molto, questa corda non può essere lunga più di tanto, no? –

– Sbrighiamoci – replicò Shin, facendosi forza. – Prima che ritornino, o si presenti qualcuno di peggiore. –

Fece per incamminarsi, ma Lucius non si mosse. Era rimasto impalato a fissare la porta che si erano appena lasciati alle spalle.

– Che succede? –

Le sopracciglia di Lucius si corrugarono. La sua mano si allungò verso le spesse ragnatele che si drappeggiavano dallo stipite fino a terra e le tolse con uno sguardo quasi ipnotizzato. Scoprì così un’incisione nel legno marcente che prima era stata a malapena visibile. Sempre come se fosse stato sotto l’effetto di una trance, fece lo stesso con l’altro battente e, quando anch’esso fu ripulito, lo richiuse con un lieve scricchiolio. A porta chiusa, le incisioni delle due ante coincidevano, andando a formare un disegno noto: la strana fiamma arrotondata che riproduceva le insegne del loro misterioso nemico.

– Lucius, lasciamo perdere – sussurrò Shin, ansioso. – La stanza dentro è vuota, quel simbolo non ci sarà di alcun aiuto. –

­– Non è il simbolo in sé – disse Lucius in tono assente. Fissava la porta con aria sconcertata. Spinse indietro una delle due ante e si fermò di nuovo a scrutare il simbolo, spaccato in due lungo il suo asse.

– Shin – aggiunse dopo un po’, voltandosi senza fiato per afferrarlo per le spalle, gli occhi scintillanti di un’eccitazione febbrile. – Credo di sapere dove dobbiamo andare a cercare le risposte di cui abbiamo bisogno. –

 

 

Sentiva che questa era la volta buona.

Distese avanti a sé la mano sinistra; una fiammella violacea le galleggiava sul palmo a rischiarare la densa oscurità. Non c’era illuminazione in quella zona del sotterraneo, perché teoricamente a nessuno, a parte Angina e in occasioni straordinarie Kael, era acconsentito accedere.

Teoricamente.

L’arcata di ingresso delle Stanze Proibite era chiusa da un’inferriata le cui sbarre si contorcevano e ritorcevano su sé stesse in solide volute spinose. Sigilli di cui Venena non riusciva a immaginare la potenza custodivano quella segreta, e nessuno – o soltanto pochi eletti – sarebbe riuscito a forzarli e superarli, senza possederne la chiave.

Un ghigno di soddisfazione si dipinse sulle sue labbra mentre la sua mano destra si sollevava e si avvicinava alla serratura circolare sul lato dell’inferriata. Stretta tra le sue dita, la chiave dorata scintillò alla flebile luce della fiamma. Un fremito di eccitazione le percorse la schiena quando, girando la chiave nella toppa polverosa, la serratura scattò.

Aveva già compiuto diverse volte quell’operazione, ma non riusciva mai a smettere di meravigliarsi quando il varco si spalancava davanti a lei.

Dapprima non accadde nulla. Poi d’un tratto una vaga luminescenza azzurrina animò il metallo: dopo un impercettibile fremito, una ad una le spire si sciolsero e iniziarono a ritrarsi lentamente, raccogliendosi lungo l’arcata. In una manciata di secondi, il passaggio fu libero.

Il cuore di Venena le balzò in gola e prese a pulsare furiosamente, com’era successo ogni altra volta. Ancora non le era passato il rimorso per quello che stava facendo alle spalle di Angina.

Sentiva di essere ormai prossima al raggiungimento del suo scopo; doveva solo trovare il libro giusto.

Sempre che un libro giusto esista.

Ma se c’era, non poteva trovarsi che lì.

Il reparto aveva diverse sezioni. Quella che interessava a lei era la più ristretta, in quanto a numero di volumi, ma anche la più preziosa. Angina aveva dedicato gran parte della propria vita a raccogliere molti di quei testi: come per le armi, anche per i libri aveva sempre avuto la mania del collezionismo e aveva girato il mondo per mettere insieme quella che probabilmente era la più completa raccolta di testi proibiti esistente al mondo. Alcuni li aveva comprati, altri li aveva rubati, ma per la maggior parte erano un’eredità che la sua famiglia si tramandava da generazioni. Venena si ripromise di lasciare tutto come lo avrebbe trovato: avrebbe preso quel che le serviva, se mai lo avesse trovato, e avrebbe rimesso tutto a posto. Angina l’avrebbe perdonata, se il suo istinto si fosse rivelato nel giusto.

La caverna che ospitava le Stanze Proibite era una delle più piccole e rustiche dell’intero sotterraneo: gli scaffali si incastravano tra stalattiti e stalagmiti come se ci fossero cresciuti intorno, separati l’uno dall’altro solo quanto bastava per permettere il passaggio di una persona. I libri erano riposti con cura sulle mensole in ordine alfabetico e suddivisi per argomento, gelosamente protetti dall’umidità da un semplice incantesimo. Venena avanzò nello stretto corridoio di mezzo con lo sguardo che vagava da uno scaffale all’altro, cercando di leggere i nomi che contrassegnavano le targhe di ottone infisse su ciascuno di essi: Magia Nera, Maledizioni, Metempsicosi, Necrofagia, Sigilli Perduti, Storia Antica, Violazione dei Segreti…

Si fermò di fronte a Storia Antica.

I suoi occhi dardeggiarono cupidi lungo le poche file di volumi, gran parte dei quali sembravano tenersi insieme per miracolo. Poi lo vide.

Il sangue le si gelò nelle vene. Le lettere d’oro erano lise e alcune addirittura mancavano, ma l’impronta che avevano lasciato rendeva le parole ancora leggibili. Aveva sentito parlare di quel testo, ma era sempre stata convinta che fosse più mito che realtà. Si diceva che ne esistessero solo tre copie al mondo, di cui una andata perduta da quasi mille anni e un’altra, un tempo in possesso della Lega, trafugata dagli Archivi Segreti circa cinquant’anni prima. E ora eccola lì, davanti ai suoi occhi, la terza ed ultima copia: Ontologia del Male.

Esisteva davvero, allora.

Sollevò tremante la mano destra e afferrò il dorso di pelle consunta. Tirando si rese conto che non sarebbe riuscita a sorreggerlo con una mano sola. Lasciò la fiamma viola a fluttuare a mezz’aria al proprio fianco e afferrò saldamente il pesante tomo con entrambe le mani. Chissà da quanto tempo non veniva anche soltanto sfiorato. Si sollevò una nuvola di polvere quando il libro fu sfilato dalla sua dimora.

La sua curiosità scientifica bramava dalla voglia di scoprire da cima a fondo le inestimabili conoscenze contenute non solo in quelle pagine, ma in quelle di tutti gli altri volumi del reparto, ma dovette trattenersi. Era lì per uno scopo preciso e non aveva molto tempo. Doveva finire e andarsene prima che l’effetto della pozione che aveva somministrato segretamente ad Angina esaurisse i suoi effetti.

Si sedette a terra e si appoggiò delicatamente il libro sulle ginocchia, poi consultò l’indice. La carta ingiallita era sottile e fragile sotto al suo tocco, ma per fortuna la scrittura era intatta. Alcuni dei temi che lesse le fecero letteralmente brillare gli occhi, ma non si soffermò.

Continuò a cercare. Alcune pagine avevano lacerazioni, in altre i bordi erano terribilmente deteriorati, e certe parti mancavano del tutto. Stava iniziando a scoraggiarsi, finché non incontrò una voce che le smorzò il respiro: Eredità di Lucifero. E il titolo dell’ultimo sottocapitolo era esattamente quello che stava cercando.

Voltò le pagine con malcelata impazienza, uno strano sibilo sordo a riempirle le orecchie, e poi, finalmente, trovò il punto giusto. Lesse avidamente, saltando intere righe. Termini come “Incarnazione”, “epurazione” e “Veglianti” le saltarono immediatamente all’occhio e il resto venne da sé.

Un brivido di eccitazione le percorse la spina dorsale.

Richiuse il libro con uno scatto trionfante, dimentica dei secoli di età che esso aveva sulle spalle, e si alzò.

Il suo istinto non si era sbagliato, e ora ne aveva le prove.

   
 
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