24. VERITÁ
Somewhere in the night
The visions come to me
And I dream of home
Those dreams won't set me free
The road is made of eternity
And I know that it's too late
Too late to change my way
Too late to alter my fate
– I Don’t Care
Anymore, Tarot –
Regan
le aveva immaginate così le
case dei racconti – un po’ storici, un
po’ fiabeschi – che Derian aveva
condiviso con lei durante le loro lunghe notti insonni di clausura:
semplici e
accoglienti, di una bellezza naturale creata nel legno e nella pietra,
nella
semplicità del mobilio dall’intensa aura antica.
Molti
fiori di diverse specie
rallegravano l’ambiente con i loro colori, ma c’era
del macabro nel loro
immobile risposare in teche e campane di vetro che sembravano chiudere
fuori da
sé il logorio del tempo, impedendo a ciò che
custodivano di perdere anche solo
un soffio della loro vitalità. Regan aveva già
visto qualcosa di simile, prima,
ma in scala nettamente inferiore, e non sapeva ancora decidere se le
piacesse
quella sorta di incanto di eternità gettato su quelli che
erano in tutto e per
tutto degli esseri viventi. Guardava i petali sgargianti di una rosa al
di là
del vetro della sua cupola e rivedeva sé stessa, prigioniera
impotente strappata
alle proprie radici, relegata in una gabbia senza saperne il motivo.
Tutto
ciò che avrebbe voluto,
adesso, non era più nemmeno arrivare ad Aurin; era
così scoraggiata e smarrita
che le sarebbe solo piaciuto tornare a Norden, rivedere le foreste di
betulle
imbiancate di soffice neve, e il sole basso dell’inverno
accarezzare di luce
ramata le pianure silenziose, e ritrovare il freddo secco e pungente
del vento
che solo lì aveva sentito, mani invisibili e abbracci
immateriali di un luogo
che rispecchiava la sua anima come nessun altro.
–
Prego, sedetevi. –
Malice
fece cenno a Regan e a
Soile di accomodarsi su una panca dal coperchio imbottito,
apparentemente il
seggio più comodo che la grande stanza – che
fungeva ingresso, tinello e cucina
– aveva da offrire.
La
donna aveva portato loro delle
coperte e degli indumenti caldi e asciutti e steso i loro, fradici e
gocciolanti, su un paio di sedie davanti al camino. Regan non aveva
avuto alcun
imbarazzo a spogliarsi davanti ad altre due donne, ma si era sentita un
po’
ridicola quando, attraverso la biancheria intima bagnata, aveva
intravisto il
corpo flessuoso e femminile di Soile, gli arti affusolati, il seno
pieno e
sodo. Regan si era rivestita in fretta, vergognosa del suo corpo
acerbo, e si
era amaramente detta che non c’era di stupirsi se Lucius non
riusciva a vederla
che come una sorella minore.
Ma un giorno, giurò a
sé stessa, un giorno
crescerò anch’io, e non potrai più
guardarmi come una bambina.
Quando
ciascuna di loro fu
seduta, Soile presentò la donna:
–
Regan, lei è Lady Malissa
Morgant. –
–
Chiamami semplicemente Malice –
puntualizzò educatamente quest’ultima.
–
Piacere di conoscervi – Regan
recitò la frase di rito senza quasi accorgersene, tanto era
assorta a studiare
gli occhi della donna. Fu più forte di lei: –
Avete un aspetto molto familiare…
–
–
Malice è una Morgant per
matrimonio – le spiegò Soile. – Di
nascita, è una Edelberg. Sorella minore di
Lord Tristan e maggiore di Persefone. –
Regan
ci aveva visto giusto. Il
viso della donna, ora che la guardava con più
consapevolezza, aveva molto di
Lord Edelberg, della sua durezza, anche se i lineamenti erano
più simili a
quelli di Persefone, ma non ne possedevano la medesima armoniosa
dolcezza. Con
Malice, Regan arrivò a contare quattro fratelli Edelberg
adulti e si chiese se
Anneli, Aeden e gli altri avessero qualche altro zio o zia da qualche
parte che
lei non conoscesse.
–
Regan ha fatto molto amicizia
con i tuoi nipoti, da quando è con noi. –
Soile
spiegò brevemente alla loro
ospite come stavano le cose, e Regan si stupì nello scoprire
quanto Soile sapesse. Sapeva perfino
di
Derian. Lucius doveva averle riferito tutto per filo e per segno
ciò che lei
stessa aveva detto a lui, e questo in qualche modo la offendeva,
sminuiva il
rapporto di confidenza tra loro due, perché nel mezzo, in un
modo o nell’altro,
c’era sempre Soile.
Alla
fine, Malice si alzò e si
avvicinò al focolare dall’altro lato della stanza
con aria afflitta.
–
So che Tristan e Arista hanno
avuto un’altra figlia… Luce? –
Soile
annuì pacata, e qualcosa di
triste aggravò il suo gesto.
Malice
si sforzò di sorridere.
–
Tredici anni lontana da loro… e
loro mi credono morta. –
–
Per quale motivo… – cominciò
Regan, ma un’occhiata di Soile le disse che quella che
intendeva porre era una domanda
inappropriata.
Ma
Malice la intuì da sé e non si
fece alcun problema a rispondere:
–
Perchè mi trovo qui? – Il suo
sorriso si inasprì. – Ho ucciso mio marito.
– Non c’era rimorso nel suo tono, o
pentimento, ma solo rancore. – Per impedire a lui di uccidere
me. Ma nessuno mi
credette. Se non fosse stato per voi, Vostra Grazia…
–
–
Malice, te ne prego, – la
interruppe Soile con voce gentile ma ferma. – Certi
appellativi non sono
consoni alla mia posizione, lo sai. –
Ma
Malice alzò il mento e i suoi
occhi scintillarono fieri:
–
Né io né la mia famiglia
abbiamo dimenticato chi siete e cosa avete fatto per Norden e tutte le
altre
Terre, e non l’ha dimenticato nemmeno il resto del popolo.
Formalmente il
governo del Mondo Occulto sarà anche in mano alla Lega, ma
se un giorno voi
doveste alzarvi e rivendicare il vostro diritto a sedere al trono, la
vostra
gente non esiterebbe un solo istante a schierarsi in vostro favore.
–
Malice
doveva avere parecchi anni
in più di Soile, ma le parlava come una ragazzina avrebbe
parlato a una
rispettabile anziana. E c’era della commozione malcelata,
ora, nello sguardo
forte di Soile, anche se lei non era il tipo da lasciarsi sopraffare
dalle
emozioni.
–
Non è né il luogo né il momento
di discutere di queste cose. Ho bisogno di mettermi in contatto con
Persefone. –
–
C’è uno specchio al piano di
sopra, nella mia camera da letto. Potete usare quello. –
Gli
specchi. Regan possedeva
vaghe nozioni al riguardo: come ogni altra superficie riflettente,
erano uno
strumento difficile da usare per comunicare e i più,
infatti, non erano in
grado di sfruttarli.
Soile
si alzò e si diresse verso
la piccola rampa di scale di legno in fondo alla stanza.
–
Ditemi – disse Malice ad alta
voce, prima che lei potesse salire il primo gradino. – Lei
come sta? E Idar? La
piccola Hemel? –
–
Stanno bene, tutti quanti.
Presto avranno un altro figlio. –
Gli
occhi impenetrabili di Malice
si riempirono di lacrime, ma si limitò ad annuire, la gola
gonfia, e Soile
sparì al piano di sopra.
Malice
portò a Regan del the
caldo e qualche biscotto fatto in casa e rimase a guardarla con
attenzione
mentre lei faceva sparire tutto rapidamente, un po’
perché aveva appetito, un
po’ perché sperava che la avrebbe aiutata a
scacciare tutto quel freddo che
ancora si sentiva nelle ossa.
Quando
sollevò lo sguardo dopo
aver spazzolato anche l’ultima briciola e goccia di the,
Regan si accorse che
Malice stava sorridendo.
–
Ne vuoi ancora? –
–
No, vi ringrazio. Mi sento già
molto meglio. –
–
Dammi del tu. Nessuno mi dà più
del voi da anni, ormai. Sono piccolezze che appartengono al mondo al di
fuori
di qui. –
Regan
lesse della nostalgia in
lei, il cordoglio per una distanza invalicabile tra la sua persona e
tutto ciò
che avesse di più caro.
–
Come sei finita qui, se posso
chiederlo? –
Dalla
sua sedia, Malice la
squadrò attentamente, forse per decidere se fidarsi di lei o
meno, ma se Soile
l’aveva portata lì, un luogo segreto che nemmeno
avrebbe dovuto esistere, era
implicito che la ritenesse degna di apprenderne i segreti.
–
Nessuno crede più all’esistenza
di Shar Caras, oggigiorno – iniziò a raccontare
Malice, infatti. – Dicono che
sia qui che Lucifero abbia perso il senno. Secoli fa questo luogo era
un mito,
poi si è trasformato in una credenza popolare, e adesso
è solo un ricordo che
in pochi conservano. Ma come puoi vedere esiste, anche se per lungo
è tempo è
rimasto inabitato. Non so come Lady Leljen lo abbia trovato, ma da anni
fa
nascondere qui gli innocenti condannati a morte. Non che io sia
innocente,
certo, ma probabilmente una moglie maltrattata e umiliata ha
più diritto di
vivere di un efferato assassino… anche se chi mi
giudicò non la pensava così. –
Regan,
che ormai conosceva il
resto della famiglia di Malice e sapeva quanto fossero delle brave
persone, era
indignata. La Lega non le aveva mai suscitato simpatia e se questo era
il loro
modo di impartire la giustizia, allora lei non ci stava.
–
Non riesco a credere che vi
abbiano condannata così ingiustamente! – si
infiammò. – Se vostro marito era
crudele con voi, doveva essere lui quello da punire! –
Malice
emise una piccola risata
contenuta.
–
Mi ricordi molto i miei
fratelli minori, sai? Io sono sempre stata molto più simile
a Tristan, forse
perché siamo i maggiori: seri, poco inclini verso tutto
ciò che esulava dai
nostri doveri. Ma Persefone e Ardal erano come te: facevano quello che
si
sentivano di fare, non erano disposti a scendere a compromessi con la
loro
posizione sociale. Non che Persefone sia mai cambiata, comunque. Io e
Tristan
accettammo senza remore i consorti che nostro padre scelse per noi. A
mia
sorella andò bene: giovanissima, quando ancora frequentava
la Domus Aurea, si
innamorò di un giovane ufficiale che godeva di ottima
reputazione e nostro
padre fu più che lieto di dare la benedizione alle loro
nozze. Ardal, invece… –
scosse la testa addolorata. – Le nostre vite sarebbero state
tutte molto più
felici se non avessimo avuto l’obbligo di assecondare le
tradizioni. –
Tutto ciò che
Regan sapeva di Ardal Edelberg
era che si era infatuato della donna sbagliata e la sua famiglia non
glielo
aveva perdonato. Si chiese che razza di genitori potevano mai negare
l’amore a
un figlio e condannare una figlia a vivere con un marito violento.
Le
vecchie usanze erano dure a
morire, e così come l’erede di una stirpe reale
era ancora trattata come una
regina, allo stesso modo il resto della nobiltà ci teneva a
perpetrare il
proprio status con matrimoni tra rampolli di rango. Anche se sulla
carta tutti
erano uguali, nei fatti le cose non erano poi molto diverse dai tempi
delle
monarchie.
Soile
ritornò diversi minuti dopo
e sembrava quantomeno tranquilla. L’abito color vinaccia che
Malice le aveva
prestato le si drappeggiava troppo largo addosso, creando pieghe e
arricciature
attorno al nastro nero che le cingeva la vita, ma il colore faceva
spiccare i
suoi occhi più che mai e regalava alle sue gote un riflesso
rosato che
ingentiliva quell’espressione perennemente impassibile.
–
Ci fermeremo qui fino a
domattina, se Malice vorrà essere così gentile da
concederci ospitalità – disse,
e prima che Malice potesse dire qualcosa aggiunse: – Ci
basteranno delle
coperte per terra. – E con uno sguardo cercò
l’approvazione di Regan.
–
Naturalmente. Novità da
Persefone? –
–
Di Lucius e Shin ancora nessuna
notizia – rispose Soile, smascherando ancora una volta il
vero intento della
domanda.
A
Regan si strinse lo stomaco e
seppe che quella notte non avrebbe chiuso occhio, ma forse, a giudicare
dalla
mascella contratta di Soile, non sarebbe stata la sola.
Malice
fu molto gentile:
ammucchiò una buona quantità di ciocchi nel
camino e mise a disposizione una
pila di coperte e trapunte, nonché dei cuscini molto
invitanti.
Soile
si coricò, dando le spalle
a Regan, la quale se ne rimase avvolta in tre coperte per tutta la
notte, ma
senza riuscire a prendere sonno.
Era
stanca ma non sarebbe
riuscita a prendere sonno, visto il suo stato d’animo. A
tenerla sveglia c’era
da un lato il pensiero dei suoi amici e dall’altro il timore
di sognare, di
rivivere quelle immagini che le avrebbero solo fatto venire voglia di
fuggire e
complicare ulteriormente la situazione a tutti.
Si
sentiva un macigno sulle
spalle di troppa gente, ma ciò di cui più si
vergognava era che non le
importava: su qualsiasi altro sentimento vinceva l’egoismo,
il bisogno
spasmodico di darsi un nome, una storia, delle radici concrete. Voleva
solo
essere qualcuno e non le sembrava un desiderio così meschino.
Voglio solo quello che hanno tutti…
Non
era del tutto sicura che
Soile stesse veramente dormendo. Tuttavia anche se non lo era non disse
niente
quando, mentre la luce rosata dell’alba iniziava a tingere il
cielo viola,
Regan si alzò e uscì.
Fuori
il freddo era inclemente,
ma piacevole sul viso stanco. L’erba umida sotto i piedi nudi
era un tappeto
dai fili teneri avvolti da una patina gelata. Il profumo della notte
era ancora
lì, sapeva di terra e di ghiaccio, indugiava tra le case
sopite e tra gli
alberi nudi e muti. Uno spicchio di luna si attardava ancora nel cielo,
fioca
pennellata di bianco su una tela ancora trapunta di stelle evanescenti.
Inspirò
profondamente, come a
voler catturare tutta la vita che il mondo poteva darle. Era un mondo
anche
suo, adesso, e questo pensiero la fece sentire strana.
Non
aveva mai avuto niente che le
appartenesse, nemmeno dei ricordi. Era stata strappata alla sua vita
troppo
presto perché potesse conservarne qualche memoria concreta,
e tutto ciò che in
seguito era stato di lei non era che un succedersi di giorni tutti
uguali,
vuoti e tristi, senza un senso o uno scopo a cui aggrapparsi. Era stato
esistere, ma non vivere.
E adesso guardava in su, verso un cielo immenso e
mozzafiato che si spalancava come un miracolo tra il nero dei rami
degli alberi
intrecciati tra loro, e sentiva la forza impetuosa del vivere
irradiarsi dentro
di lei, fiotti di energia purissima che provenivano dalle carezze del
vento,
dai raggi del sole che a est iniziavano a risvegliare pigramente il
creato.
Per
un momento Regan pensò che
non era poi così importante sapere chi era o da dove veniva:
era un regalo così
grande, così inestimabile, essere lì a guardare
l’alba che sorgeva, che tutto
il resto passava in secondo piano. Non aveva dimenticato che doveva
tutto a chi
l’aveva salvata e protetta senza mai chiedere nulla in
cambio. E adesso Lucius
e Shin, a causa sua, potevano essere in pericolo.
Ma
Soile era relativamente calma,
solo vagamente preoccupata, e Regan si accorse di sentirsi a sua volta
stranamente serena. Se i suoi amici fossero stati davvero nei guai,
sapeva che
in qualche modo lo avrebbe sentito.
Non è possibile, le diceva per
contro la razionalità, ma era una
voce insulsa a confronto della certezza innata che loro stessero bene.
Così
come Shin, inspiegabilmente, riusciva sempre a trovare lei, allo stesso
modo
lei sentiva che non c’era nulla da temere.
C’era
solo da augurarsi che
quell’istinto non sbagliasse.
Ritornò
verso la casa di Malice
che il sole si era già alzato oltre l’orizzonte,
anche se lei da lì non lo
poteva ancora vedere. Avvicinandosi alla porta, sentì la
voce della padrona di
casa:
–
… e trovo insolito che un
Coordinatore del vostro calibro si prenda il disturbo di scortare
personalmente
una semplice ragazzina senza nome. Con questo non vi sto chiedendo di
rivelarmi
cose che non potete, ma almeno consentitemi di credere che ci sia di
più di
quanto non vogliate far sembrare. –
Regan
si accostò cautamente alla
porta e tese l’orecchio. Soile prese parola:
–
Non può essere una semplice
ragazzina senza nome: Desmond l’ha tenuta nascosta per tutto
questo tempo,
personaggi che non sono mai comparsi in tutta la storia della Lega le
danno la
caccia e a quanto pare succedono cose misteriose ovunque lei vada.
–
Ci
fu una breve pausa e Regan
credette che fosse finita lì, ma poi Malice disse:
–
E che altro? –
Seguì
solo il silenzio, veicolo
di incertezza, di timore, di segretezza. Ma Soile alla fine scelse di
dire la
verità:
–
Il più fidato dei miei uomini
possiede il dono di scrutare nell’anima. È stato
lui a trovare Regan e a trarla
in salvo. Dice che in lei c’è qualcosa, qualcosa
che non ha mai scorto in
nessun altro, anche se non è in grado di capire di cosa
possa trattarsi.
Pensiamo che sia quello a renderla tanto importante. Ma
finché non sappiamo
cosa sia… –
Regan
non ascoltava più. Si era
portata una mano alla bocca, per soffocare un gemito di sorpresa, ma
anche di
estrema delusione. Lucius sapeva che in lei c’era qualcosa di
strano, qualcosa
che la rendeva diversa da chiunque altro, e lo aveva detto a Soile, ma
non a
lei.
Era
determinata a non mettersi a
fare la vittima. Non avrebbe iniziato a piagnucolarsi addosso
perché Lucius le
aveva taciuto una cosa tanto importante. Aveva sicuramente avuto delle
ottime,
valide ragioni, lei non poteva saperlo. Eppure si sentiva ferita
nell’orgoglio,
ridotta davvero a poco più di una bambina considerata troppo
piccola e ingenua
per poter capire.
Sì,
era indifesa, e, sì, quel
poco che Derian aveva potuto insegnarle era niente in confronto di
quello che
un qualsiasi allievo della Domus Aurea apprendeva solo nel suo primo
anno di
frequenza, ma non sarebbe stato così per sempre: se solo il
destino, o la
Madre, o chiunque governasse gli eventi, le avesse concesso una
possibilità,
Regan avrebbe dimostrato che poteva essere una persona molto migliore
di quella
che era. Voleva farlo a tutti i costi.
Con
la manica della veste si
asciugò gli angoli umidi degli occhi. Inspirò un
paio di volte per cancellare
ogni segno di emozioni dal proprio viso, poi, fingendo di non spere che
dall’altra parte della porta c’erano le due donne
ad attenderla, entrò.
Orientarsi
in quell’intrico
impossibile di strettissimi budelli asfittici era impossibile.
C’erano cunicoli
in cui era impossibile passare, perché il pavimento aveva
ceduto e si era
spalancato in voragini su stanze inferiori che erano rimaste ostruite
dalle
macerie; altri erano più ampi e promettenti, ma non avevano
intrapreso nessuno
di quelli.
Lucius
si muoveva con una strana
confidenza in quel labirinto, come guidato dall’istinto
più che dalla
conoscenza, una fiamma viola che fluttuava sul palmo della sua mano
sinistra a
rischiarare il cammino. Shin sapeva che quel sotterraneo non era
estraneo al
suo amico: Lucius aveva vissuto per un po’ a Medilana, da
ragazzino, e spesso
il suo rifugio erano state le vecchie catacombe. Pochi avevano
l’ardire di
addentrarsi in quei corridoi tutti identici, poiché nessuno
che vi fosse
entrato senza cognizione ne era mai uscito. Chissà quanti
erano rimasti
intrappolati là sotto, lasciati a marcire divorati da ratti
e insetti.
Shin
percepiva lo straordinario
potere insito nella terra che lo circondava: i luoghi segnati dal
sangue e
dalla morte – come gli ospedali, i campi di battaglia, le
camere di tortura –
restavano intrisi dell’energia vitale che si consumava su di
essi, assorbendola
per farsene i custodi.
Impiegarono
ore per trovare la
via giusta. Un paio di volte Lucius si perse, un altro paio trovarono
il
passaggio sbarrato da un crollo o da un chiaro odore di morte che
preannunciava
una prosecuzione pericolosa. Il timore più grande era quello
di incrociare
qualcuno dei compari dell’uomo e della donna che avevano
lasciato ad assopirsi
nella cella, prosciugati dai loro stessi sigilli. Non sarebbero morti,
ma
almeno non avrebbero potuto dare l’allarme.
C’era
anche la tentazione di
osare e andare a cercare il loro covo, o qualunque cosa conservassero
là sotto,
ma non sapevano quanti fossero né quali fossero le loro
risorse, e buttarsi
alla cieca in un’impresa così rischiosa non era
opportuno. La priorità, adesso,
era uscire sani e salvi e trovare Regan. Shin avrebbe solo voluto avere
l’assoluta certezza che ci fosse Soile con lei.
Era
stanco. Ormai doveva essere
notte fonda, se non addirittura quasi l’alba. Non si era
ripreso del tutto,
dopo che Lucius aveva rinchiuso le loro energie nel cristallo.
Era
stato bizzarro: si era
sentito svuotare di tutto, come se le sue ossa si fossero pian piano
dissolte e
i suoi muscoli avessero perso ogni vigore, e la mente si era spenta.
Lucius non
dava segni di aver risentito del processo di riassorbimento,
perché un tempo
per lui era stato la quotidianità avere a che fare con certe
magie, ma il corpo
di Shin non aveva reagito altrettanto bene.
–
Lucius – ansimò a un tratto. Si
fermò ad appoggiarsi alla parete rocciosa per riprendere
fiato. Aveva la vista
offuscata, gli girava la testa.
–
Shin! – esclamò l’amico
allarmato. – Shin, ti prego, non adesso! Sento che
c’è qualcuno, qui vicino,
non possiamo rischiare di farci trovare. –
Un
rumore secco proveniente da
lontano si propagò fino a loro.
–
Fantastico – bisbigliò Lucius,
abbassando la voce fino a renderla quasi inudibile.
Si
volse a controllare
rapidamente l’ambiente che li circondava: un crocevia di
quattro cunicoli. Nel
più stretto di essi, pochi metri avanti a loro, si
incastonava una porta a due
battenti velata di ragnatele.
Risoluto,
Lucius si caricò un
braccio di Shin sulle spalle e lo trascinò verso la loro
unica possibilità. Una
volta rifugiati al di là dei due battenti, la fiamma viola
fu spenta e attesero
in silenzio.
Dopo
una manciata di secondi, un
rumore di passi iniziò ad avvicinarsi, e con esso un vociare
confuso. C’era
anche qualcos’altro, come se qualcuno stesse trascinando un
sacco di farina.
–
… evitare problemi, quindi
vediamo di far sparire il cadavere e andarcene. Questo posto mi fa
accapponare
la pelle. –
Era
una voce maschile e sommessa,
con un accento rozzo. Parlava in modo esitante. Le rispose un timbro
molto più
grave, cavernoso:
–
Zitto e trascina. E bada a non
tirare troppo quella maledetta fune, non possiamo rischiare di rimanere
intrappolati qui, maledizione! –
–
Sta quasi per finire,
fermiamoci qui – disse l’altra voce. –
Buttiamolo oltre quella porta e
andiamocene! –
Lucius
fremette e Shin, ancora
appoggiato a lui, represse a stento un brivido di panico: se davvero
quei due,
chiunque fossero, avessero deciso di entrare là dentro, ci
sarebbe stato un
problema in più da affrontare. Inoltre, se davvero stavano
cercando di
occultare un cadavere, sarebbe stato dovere suo e di Lucius arrestarli
e
portarli davanti ai tribunali della Lega, ma non avevano né
modo né tempo per
affrontare tutto questo. Dovevano uscire di lì al
più presto, finché potevano.
–
No, no, lì non va bene, troppo
ovvio! Troviamo un punto di pavimento franato o qualcosa del
genere… sarà più
difficile che lo trovino. –
Fortunatamente proseguirono.
Shin rimase
immobile col fiato sospeso finché il rumore e le voci non
furono scomparsi del
tutto.
–
Farabutti – imprecò Lucius
sottovoce, spingendo piano uno dei due battenti, i cui cardini erano
tanto
arrugginiti che si bloccò così, aperto.
– Non appena mi sarà possibile tornerò
a indagare su qualsiasi cosa stiano combinando. –
Sapeva
esattamente a chi
rivolgersi per recuperare il corpo.
Shin
si lasciò accompagnare
fuori. Vide che a terra, lungo la parete, correva la fune di cui
avevano
parlato i due uomini: un’idea banale ma efficace per
ritrovare la strada in un
posto così inospitale. Questo avrebbe facilitato
l’uscita anche per lui e
Lucius.
–
Non deve mancare molto, questa
corda non può essere lunga più di tanto, no?
–
–
Sbrighiamoci – replicò Shin,
facendosi forza. – Prima che ritornino, o si presenti
qualcuno di peggiore. –
Fece
per incamminarsi, ma Lucius
non si mosse. Era rimasto impalato a fissare la porta che si erano
appena
lasciati alle spalle.
–
Che succede? –
Le
sopracciglia di Lucius si
corrugarono. La sua mano si allungò verso le spesse
ragnatele che si
drappeggiavano dallo stipite fino a terra e le tolse con uno sguardo
quasi
ipnotizzato. Scoprì così un’incisione
nel legno marcente che prima era stata a
malapena visibile. Sempre come se fosse stato sotto l’effetto
di una trance,
fece lo stesso con l’altro battente e, quando
anch’esso fu ripulito, lo
richiuse con un lieve scricchiolio. A porta chiusa, le incisioni delle
due ante
coincidevano, andando a formare un disegno noto: la strana fiamma
arrotondata
che riproduceva le insegne del loro misterioso nemico.
–
Lucius, lasciamo perdere –
sussurrò Shin, ansioso. – La stanza dentro
è vuota, quel simbolo non ci sarà di
alcun aiuto. –
–
Non è il simbolo in sé – disse
Lucius in tono assente. Fissava la porta con aria sconcertata. Spinse
indietro
una delle due ante e si fermò di nuovo a scrutare il
simbolo, spaccato in due
lungo il suo asse.
–
Shin – aggiunse dopo un po’,
voltandosi senza fiato per afferrarlo per le spalle, gli occhi
scintillanti di
un’eccitazione febbrile. – Credo di sapere dove
dobbiamo andare a cercare le
risposte di cui abbiamo bisogno. –
Sentiva
che questa era la volta
buona.
Distese
avanti a sé la mano
sinistra; una fiammella violacea le galleggiava sul palmo a rischiarare
la
densa oscurità. Non c’era illuminazione in quella
zona del sotterraneo, perché
teoricamente a nessuno, a parte Angina e in occasioni straordinarie
Kael, era
acconsentito accedere.
Teoricamente.
L’arcata
di ingresso delle Stanze
Proibite era chiusa da un’inferriata le cui sbarre si
contorcevano e
ritorcevano su sé stesse in solide volute spinose. Sigilli
di cui Venena non
riusciva a immaginare la potenza custodivano quella segreta, e nessuno
– o
soltanto pochi eletti – sarebbe riuscito a forzarli e
superarli, senza
possederne la chiave.
Un
ghigno di soddisfazione si
dipinse sulle sue labbra mentre la sua mano destra si sollevava e si
avvicinava
alla serratura circolare sul lato dell’inferriata. Stretta
tra le sue dita, la
chiave dorata scintillò alla flebile luce della fiamma. Un
fremito di
eccitazione le percorse la schiena quando, girando la chiave nella
toppa
polverosa, la serratura scattò.
Aveva
già compiuto diverse volte
quell’operazione, ma non riusciva mai a smettere di
meravigliarsi quando il
varco si spalancava davanti a lei.
Dapprima
non accadde nulla. Poi
d’un tratto una vaga luminescenza azzurrina animò
il metallo: dopo un
impercettibile fremito, una ad una le spire si sciolsero e iniziarono a
ritrarsi lentamente, raccogliendosi lungo l’arcata. In una
manciata di secondi,
il passaggio fu libero.
Il
cuore di Venena le balzò in
gola e prese a pulsare furiosamente, com’era successo ogni
altra volta. Ancora
non le era passato il rimorso per quello che stava facendo alle spalle
di
Angina.
Sentiva
di essere ormai prossima
al raggiungimento del suo scopo; doveva solo trovare il libro giusto.
Sempre che un libro giusto esista.
Ma
se c’era, non poteva trovarsi
che lì.
Il
reparto aveva diverse sezioni.
Quella che interessava a lei era la più ristretta, in quanto
a numero di
volumi, ma anche la più preziosa. Angina aveva dedicato gran
parte della
propria vita a raccogliere molti di quei testi: come per le armi, anche
per i
libri aveva sempre avuto la mania del collezionismo e aveva girato il
mondo per
mettere insieme quella che probabilmente era la più completa
raccolta di testi
proibiti esistente al mondo. Alcuni li aveva comprati, altri li aveva
rubati,
ma per la maggior parte erano un’eredità che la
sua famiglia si tramandava da generazioni.
Venena si ripromise di lasciare tutto come lo avrebbe trovato: avrebbe
preso
quel che le serviva, se mai lo avesse trovato, e avrebbe rimesso tutto
a posto.
Angina l’avrebbe perdonata, se il suo istinto si fosse
rivelato nel giusto.
La
caverna che ospitava le Stanze
Proibite era una delle più piccole e rustiche
dell’intero sotterraneo: gli
scaffali si incastravano tra stalattiti e stalagmiti come se ci fossero
cresciuti intorno, separati l’uno dall’altro solo
quanto bastava per permettere
il passaggio di una persona. I libri erano riposti con cura sulle
mensole in
ordine alfabetico e suddivisi per argomento, gelosamente protetti
dall’umidità
da un semplice incantesimo. Venena avanzò nello stretto
corridoio di mezzo con
lo sguardo che vagava da uno scaffale all’altro, cercando di
leggere i nomi che
contrassegnavano le targhe di ottone infisse su ciascuno di essi: Magia
Nera,
Maledizioni, Metempsicosi, Necrofagia, Sigilli Perduti, Storia Antica,
Violazione dei Segreti…
Si
fermò di fronte a Storia Antica.
I
suoi occhi dardeggiarono cupidi
lungo le poche file di volumi, gran parte dei quali sembravano tenersi
insieme
per miracolo. Poi lo vide.
Il
sangue le si gelò nelle vene.
Le lettere d’oro erano lise e alcune addirittura mancavano,
ma l’impronta che
avevano lasciato rendeva le parole ancora leggibili. Aveva sentito
parlare di
quel testo, ma era sempre stata convinta che fosse più mito
che realtà. Si
diceva che ne esistessero solo tre copie al mondo, di cui una andata
perduta da
quasi mille anni e un’altra, un tempo in possesso della Lega,
trafugata dagli
Archivi Segreti circa cinquant’anni prima. E ora eccola
lì, davanti ai suoi
occhi, la terza ed ultima copia: Ontologia
del Male.
Esisteva
davvero, allora.
Sollevò
tremante la mano destra e
afferrò il dorso di pelle consunta. Tirando si rese conto
che non sarebbe
riuscita a sorreggerlo con una mano sola. Lasciò la fiamma
viola a fluttuare a
mezz’aria al proprio fianco e afferrò saldamente
il pesante tomo con entrambe
le mani. Chissà da quanto tempo non veniva anche soltanto
sfiorato. Si sollevò
una nuvola di polvere quando il libro fu sfilato dalla sua dimora.
La
sua curiosità scientifica
bramava dalla voglia di scoprire da cima a fondo le inestimabili
conoscenze
contenute non solo in quelle pagine, ma in quelle di tutti gli altri
volumi del
reparto, ma dovette trattenersi. Era lì per uno scopo
preciso e non aveva molto
tempo. Doveva finire e andarsene prima che l’effetto della
pozione che aveva
somministrato segretamente ad Angina esaurisse i suoi effetti.
Si
sedette a terra e si appoggiò
delicatamente il libro sulle ginocchia, poi consultò
l’indice. La carta
ingiallita era sottile e fragile sotto al suo tocco, ma per fortuna la
scrittura era intatta. Alcuni dei temi che lesse le fecero
letteralmente brillare
gli occhi, ma non si soffermò.
Continuò
a cercare. Alcune pagine
avevano lacerazioni, in altre i bordi erano terribilmente deteriorati,
e certe
parti mancavano del tutto. Stava iniziando a scoraggiarsi,
finché non incontrò
una voce che le smorzò il respiro: Eredità
di Lucifero. E il titolo dell’ultimo sottocapitolo
era esattamente quello
che stava cercando.
Voltò
le pagine con malcelata
impazienza, uno strano sibilo sordo a riempirle le orecchie, e poi,
finalmente,
trovò il punto giusto. Lesse avidamente, saltando intere
righe. Termini come
“Incarnazione”, “epurazione” e
“Veglianti” le saltarono immediatamente
all’occhio e il resto venne da sé.
Un
brivido di eccitazione le
percorse la spina dorsale.
Richiuse
il libro con uno scatto
trionfante, dimentica dei secoli di età che esso aveva sulle
spalle, e si alzò.
Il
suo istinto non si era
sbagliato, e ora ne aveva le prove.