Videogiochi > Final Fantasy VII
Segui la storia  |       
Autore: Guardian1    21/12/2011    2 recensioni
“C’era una volta una ragazza di nome Yuffie, ma questa storia fa schifo, perché lo sanno tutti che le principesse delle fiabe sono bellissime, hanno gli occhi dolci e splendidi nomi fiabeschi come Aeris.”
Non funziona. Io non sono una principessa.
Sono solo una viaggiatrice.
… Sì, così può andare.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Vincent Valentine, Yuffie Kisaragi
Note: Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: FFVII
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Sunshine in Winter


il primo mese






Sapete, Vincent è una persona affascinante. Parlare con lui o imparare a conoscerlo ha sempre suscitato reazioni forti in me, vuoi per la rabbia allibita contro l’intero universo che permette a certe persone di fare cose come quelle ad altre persone, vuoi per l’impulso di acchiapparlo per le spalle e scuoterlo fino a fargli sputare tutto il dolore che aveva imbottigliato dentro.

Da questo punto di vista siamo due persone incredibilmente differenti, quasi due poli diametralmente opposti. Come Wutai e Icicle Inn. O Midgar e la Città degli Ancient. Bianco e nero, estate e inverno, e qualsiasi altro contrasto di questo tipo. Lui è introverso e io sono estroversa, una maniera elaborata per dire che lui è silenzioso da morire e io sono una rompiballe. Vincent tiene per sé tutti i suoi pensieri e la sua merda complicata, mentre io li grido e li mostro al mondo come fossero medaglie sul petto. Lui non viene ferito perché non dice niente a nessuno. Io non vengo ferita perché dico tutto a tutti e così nulla può cogliermi impreparata.

… Nessuno di noi due vuole essere ferito. Somiglianza numero uno.

Io mi infurio come una tempesta, il momento prima sono solare e quello dopo mi ritrovo a sguazzare in uno zampillo di ira incontrollata e nera come un incubo, che poi scema di nuovo in soffici nuvole bianche. Vincent è più come un vulcano, che ribolle lentamente sotto terra prima di esplodere all’infinito e senza più freni quando non ce la fa più a contenersi. Ci arrabbiamo entrambi, ma apparentemente questa è l’unica emozione che lui ostenti volentieri; per il resto, è come bloccato dietro una sorta di parete che nessuno può penetrare. Ma, come ho detto, ci arrabbiamo entrambi, perciò è un comportamento normale, credo? Umano?

Forse è questo che mi interessa tanto. Sono sempre stata curiosa come un furetto selvatico, e lui dà l’impressione di un muro che nasconde diecimila cose veramente allucinanti. Non è una bella impressione. Ho voglia di frantumare la parete e oltrepassarla solo per vedere se mi brucerò. È per questo che ho sempre trovato interessante Valentine. Voglio squarciarlo per studiare i suoi meccanismi, le sue ragioni di vita, i suoi bisogni, e contemporaneamente lasciarlo intatto. È l’esatto contrario della vecchia Yuffster, ma intravedo dei lampi, lì – dentro di lui – che in un certo senso mi ricordano me stessa.

… Oddio. Devo essere malata, se blatero a tal punto. Di questo passo, mi comprerò un cazzo di mantello e mi verrà il feticcio del rosso. Sto già usando delle brutte metafore, il che vuol dire che sono già mezza andata.

Comunque, torniamo a roba più interessante dei miei deliri che non mi prenderei mai la briga di riferirgli. Penso le abbia già intuite. Insomma, quando vivi in una bara per un botto di anni, devi esaurire ogni tipo di pensiero, ne? Forse è per questo che sta sempre zitto. Non ha più niente di cui parlare!

… Sono un’idiota, vero? Sì, lo penso anch’io.




« Aghhhhh » è stato il mio gemito incoerente, prima del sagace: « Uhhhhhnnn » e dell’articolato: « Oh, santi numi. »

Sono molte le cose non propriamente divertenti che ho fatto in vita mia. Ho combattuto contro i mostri, combattuto contro gli uomini, combattuto le calamità venute dal cielo, combattuto contro gli angeli con un’ala sola. In questo periodo, sto avendo a che fare con il mostro più feroce di tutti: il desiderio irrefrenabile di vomitare nel mio bagno tutto quello che abbia mai mangiato. I conati asciutti mi tormentavano le costole, la nausea mi assaliva anche dopo aver rimesso tutto quello che avrei mai potuto rimettere. Non avevo più niente da buttare fuori.

Il mio stomaco mi ha smentito e dopo l’ennesimo colpo di tosse mi sono sporta sulla tazza di porcellana screziata di marrone, per poi appoggiarmi alla parete con un lamento sommesso. Di questo passo i denti mi si sarebbero sciolti per gli acidi del mio stesso stomaco e mi avrebbero seppellito con una dentiera.

« Yuffie, dove sei? »

Mi è salito il panico e il mio stomaco ha trovato immediatamente qualcos’altro di cui sbarazzarsi. « Sono in bagno » ho strillato. Maledizione! Ero riuscita a nascondere per settimane il fatto che non ero in grado di assimilare niente di quello che mangiavo indossando abiti sformati e cercando di ritardare la tabella di marcia del vomito fino a quando lui non usciva (lo stronzo. Non. Dormiva. Mai.), e se Vincent l’avesse scoperto mi avrebbe portato da Asa talmente in fretta da non sollevare neanche un granello di polvere.

La sua mano ha cercato la maniglia, fermandosi quando l’ha trovata bloccata. « Che stai facendo? »

« Un bagno. »

Silenzio, e poi il sospiro che ultimamente faceva tanto spesso; molto probabilmente si stava massaggiando le tempie. « Yuffie, tu non ti stai facendo un bagno. »

« E tu che ne sai, eh? Hai la vista a raggi x? Perché in questo caso fuori da casa mia, pervertito. Pensa te, con tutte le volte che ti ho permesso di guardarmi vestita tu eri lì a spiarmi attraverso i vestiti- »

« Yuffie, so che non ti stai facendo un bagno perché la tinozza dell’acqua è ancora appesa al gancio qui fuori. Poi non so come avresti potuto entrare in una vasca con la tua gamba. Pertanto, dev’essere una bugia. »

« Beh, DOH! » Se avesse continuato a tormentarmi così avrei vomitato subito, e tanto piacere se poteva sentirmi o meno. Oh, cazzo, che male. Vaffanculo, Vincent Valentine.

Con una fatica immane e un rapido ripasso di pensieri anti-vomito, la voglia di rimettere è diminuita, e ho cercato innocentemente di tirare la catena del vecchio gabinetto rachitico prima di sbloccare la serratura, scivolando fuori con tutta la grazia consentita da un paio di stampelle. Me le ha fabbricate Godo. Non aveva proprio niente di meglio da fare. « Visto? Di che ti preoccupi? Ero al cesso, santissimo cielo. Stai diventando paranoico e iper-protettivo. »

Vincent alla fine ha smesso di far finta di dover partire e ha traslocato in via semi-permanente nella mia casetta. Secondo Asako l’ha fatto perché era preoccupato per la mia incolumità. Secondo me o era completamente rincoglionito o era un masochista in erba. Si era trovato un bel lavoretto a Gongaga, e mi ha raccontato che lì era stato abbastanza felice, esperienza insolita per lui. Perché dire addio a tutto ciò per fare da baby-sitter a un cadavere sboccato che non si impegnava a nascondere la propria ingratitudine?

Ha anche iniziato a portare qualche vecchio vestito di Godo, di quando mio padre aveva degli addominali veri, per inserirsi nella comunità. Quando se ne andava in giro vestito dello yukata tradizionale, con i capelli legati in una coda, c’erano molte donne wutaiane che senza dubbio reputavano si stesse integrando bene e probabilmente giocherellavano con l’idea di farlo integrare ancora meglio. (Non io.)

« Beh, ci sarebbe un ragazzo che ha il permesso di lasciare le scarpe sotto il mio letto quando gli pare » ha detto una volta Asako giuliva.

Ho arrancato fino al bancone della cucina e ho buttato giù un sorso d’acqua per togliermi il sapore disgustoso dalla bocca. Maledizione, quelle stampelle non funzionavano più. Avevo l’impressione che il dolore si stesse diffondendo fino all’anca. Si propagava, si propagava, proprio come aveva detto Bannon. Dannato dottore, perché doveva avere ragione?

« Chdett- » Ho deglutito. « Che ha detto nonna sulla mia cura? »

« Devi prendere delle nuove pillole contro l’infezione. Asako voleva che le prendessi subito – dice che il veleno sta cominciando a propagarsi. »

Tsk. Asako. Non ho ancora nemmeno zoppicato di fronte a lei. Probabilmente sente il dolore a distanza di continenti.

« Come una brutta malattia venerea. » Mi sono stiracchiata e mi sono afflosciata dolorosamente sulle mie stampelle. « Che cosa deprimente, Vincent. »

Lui mi ha teso la mano, con dentro tre tonde pillole bianche. « Prendi queste. Ti aiuteranno a non svenire quando ti muovi troppo. »

Le ho ingollate subito e ho bevuto un altro po’ d’acqua, osservando attentamente i suoi occhi. Usava parole tremende, ma rimaneva una creatura scolpita nel marmo, che mi guardava costantemente come per assicurarsi che non crollassi a terra da un momento all’altro.

« Oh, Dio! » Ho sentito per sbaglio il sapore amaro delle medicine e mi è venuto da tossire, strozzandomi nel tentativo di deglutire. « Ugh! Ha un sapore di merda! Perché le medicine devono avere sempre il sapore degli scarti industriali? » Ho visto i suoi occhi scintillare, l’approssimazione vincentiniana più vicina all’accenno di un sorriso, e gli ho fatto un patetico colpo di tosse in faccia, bevendo ancora di più. « Sei orribile. Hai fatto in modo che avessero questo saporaccio di proposito. Ci godi. »

« … Ai tempi che furono ne ho prese parecchie anch’io, Yuffie. » Si è seduto sulla poltrona vicino al mio letto, la sua consueta tana; ho la sgradevole sensazione che ogni tanto venga a guardarmi mentre dormo. « Non hanno mai avuto un buon sapore. »

« Pillole? » La mia curiosità si è accesa immediatamente. « Tu? E quando? »

La sua titubanza era palese. « I Turk devono seguire uno stretto regime. »

Ora, la cosa si faceva interessante. Se non parlava mai della sua vita, parlava ancora di meno di quando era un Turk. Lo vedevo bene come Turk: pacato, implacabile, letale. Mi sono avvicinata barcollante alla poltrona e sono precipitata sul letto, ignorando la fitta alla gamba. « Vitamine e cose così? »

« Sì. E sostanze stimolanti. » Mi è parso già pentito di avermelo detto, gli occhi persi altrove, ai giorni in cui aveva indossato la divisa. « Quella parte del lavoro non mi è mai piaciuta… Perché ti interessa tanto? »

« Boh. » Mi sono azzardata a tirargli una ciocca di capelli con la mano; a onor del vero, ormai la sua prima reazione non è di ritrarsi non appena qualcuno ha l’impudenza di toccarlo. Forse perché sa che non dovrà sopportarmi ancora per molto. « Volevo solo sapere com’eri all’epoca. Portavi la divisa blu? E come avevi i capelli? Indossavi una cravatta? »

« Sì, corti, sì. »

« Hai ucciso un botto di gente, giusto? Gli tagliavi subito il gozzo o avevi uno stile schifoso che prevedeva la rasatura completa della vittima a cui lasciavi un solo ciuffo di capelli sulla testa? Portavi delle cravatte divertenti? No, frena, tu sei Vincent, tu non sei divertente. Cioè. Eri divertente allora? »

Lui ha sospirato. « Sì… hm… nessuno dei due, no e no. Saresti un’ottima interrogatrice. »

« Ooh! Hai fatto una battuta! Udite udite, Vincent ha fatto una battuta! Non era granché, ma resta pur sempre una battuta! »

Vincent mi ha fissato intensamente.

« Scusa. So che non ti va di parlarne. »

« Ricordarlo non mi piace, Yuffie » ha chiarito gentilmente. « Quello del Turk non è un lavoro nobile, né facile, e nemmeno tanto buono. È una parte della mia vita che preferirei lasciarmi alle spalle. » Ha spostato gli occhi sopra la mia testa, nel vuoto. « Anche se sarò un assassino addestrato per il resto della mia vita, farò tesoro degli istanti in cui riuscirò a non pensarci. »

Wooooooooooow! Accidenti, un discorso!

« Beh, non hai la faccia da assassino. » L’ho guardato seriamente. « Nemmeno con quei capelli scuri, e gli occhi rossi, e quel grosso artiglio, e lo sguardo del tipo sto-per-ucciderti che – cioè, hm, in effetti… »

« Spavento le persone. »

« Non me » gli ho assicurato. « Nulla mi spaventa più, ormai. »

Per qualche ragione, ha fatto lo sforzo di alzare la mano buona e darmi qualche pacca enigmatica sulla spalla. « Allora sono sulla buona strada. Asako vuole vederti a pranzo. Perché non ti fai un bagno? »

« Stai per caso dicendo che puzzo? »

« … Sì. »

« Sai, Vincent, gli amici mentono se necessario. »

« Ah. Allora non puzzi. »

« … Ti odio. »

Due battute in un giorno! Era la sua giornata!




Come già detto, è affascinante – sia da ascoltare che da guardare. Oh, non in quel senso; insomma, è bello e tutto quanto (ma rimane sempre Vincent), solo che ogni volta che lo osservo con cura c’è qualcos’altro di lui che vorrei conoscere. Chi gli ha fatto quella cicatrice in particolare? Perché ripone le mani in questo modo? È il fantasma di un tatuaggio quello che ho appena visto? Un sacco di cose.

Forse è che quando sei bloccato in un posto solo, a lungo, con le stesse persone, comincia a ossessionarti la dissezione delle cose più piccole. E quando hai un piccolo orologio della morte sulla testa, hai lo stimolo feroce di scoprire il perché di tutto adesso invece che in un vago futuro.

Nessuno avrebbe mai classificato me e Vincent come amici, suppongo. Avrebbero detto, beh, Yuffie fracasserà le ultime rotelle di Vincent, e lui la farà impazzire con i suoi lunghi silenzi depressi. Oltretutto, il mio passato si riassume sostanzialmente nell’aver imparato a rubare molto e nell’aver sopportato la mia trappola turistica camuffata da città, mentre ha più morte, sangue, desiderio e passione lui di un romanzetto rosa con un protagonista di nome Biff. Non abbiamo niente in comune…

A parte il fatto che siamo molto ostinati. Così ignoriamo il fatto che sono più fastidiosa di un barile di scimmie e che lui è più angst di una ragazza nella pre-adolescenza, e decidiamo di andare d’accordo per il gusto di farlo.

È per questo che ho pensato che dovrebbe tornarsene a casa. Fra tutti i miei amici, di tutta l’AVALANCHE, lui è l’ultima persona che avrei voluto mi vedesse appassire. Non voglio che sia la mia badante, che mi guardi sciogliermi nella polvere. Non potrebbe ricordarmi per com’ero una volta, invece di vedermi diventare un fagotto di costole e materia?

Costole e materia – ah! Ecco cosa sono diventata. Sono passati i giorni in cui mi guardavo allo specchio e mi convincevo di aver raggiunto la maturità. Il mio corpo adesso è tornato quello di quand’avevo dodici anni: gambe sottili come due stuzzicadenti (beh, uno stuzzicadenti; l’altro era talmente gonfio da sembrare quasi normale), vita e fianchi volatilizzati, e un seno che pare fuori posto, un qualcosa di sano e pieno appiccicato a una bambina. Ho perso anche il mio colorito. Sembro schifosamente grigia.

Mia madre era così prima di morire.

A quel tempo non si poteva neanche sperare in una cura per una polmonite doppia, e verso la fine ricordo che somigliava a uno spaventapasseri, con i suoi bellissimi capelli lunghi premuti flosci e pesanti sul cuscino; i suoi polsi erano ancora più esili dei miei, e una volta ricordo che qualcuno urlò: « Oh, Michiko, che brutto modo per morire. »

Potrei scegliere la strada altruista: ordinargli di andare a casa per non assistere a una brutta, lenta morte. Per non dargli altre ragioni per espiare l’ennesimo stramaledetto peccato del cazzo e rattristarlo per il resto della sua fin troppo lunga vita. Per risparmiargli un fardello carico di dolore.

Ma io sono Yuffie Kisaragi, e sono nata egoista. E, tutto sommato, preferisco che sia lui a tenermi la mano più di ogni altro. Spero che tu ce la possa fare, amico mio.

… Ho divagato ancora. Non ho mai potuto rimanere attenta per più di cinque secondi.

E chi se ne frega!




« Yuffie, non stai mangiando. »

Ho sollevato il capo, sorpresa. Non pensavo avrebbe potuto accorgersene. Ho usato le mie tecniche speciali perfezionate durante l’infanzia, quando mio padre e mia madre mi volevano costringere a mangiare le verdure.

« Io… non ho molta fame, nonna. Ho fatto un abbondante colazione. »

Asako ha abbassato una bacchetta e ha inarcato un liscio sopracciglio bianco prima di rivolgersi a Vincent. « È vero? »

« L’ho vista preparare degli spaghetti stamattina. »

Oh, buon per Vincent. Poi è uscito e li ho vomitati. « Visto? Ho mangiato! Smettila di cercare di farmi da mamma! Sto una meraviglia! »

« Stai continuando a bere il mio tè? »

Sì, anche se non funzionava esattamente più. « Posso alzare il dosaggio, nonna? Sento dolore. »

« Mezza tazza. Non di più. Hai preso le pillole? »

« Sì. Sapevano di merda, nonna. »

Lei ha tirato su col naso. « Mi pare ovvio. I dottori pensano che delle buone medicine debbano avere un saporaccio. Ho sempre pensato che le mie fossero deliziose. »

« Non quel tè » ho borbottato, rimodellando gli spaghetti in forme interessanti.

Vincent si è voltato verso di me, spingendo fermamente il piatto verso le mie bacchette. « Yuffie, mangiane solo un po’. Per favore? » ha aggiunto, senza che ce ne fosse bisogno.

Forse potevo farcela. Oddio, se avevo fame. Mi pizzicava lo stomaco e lo sentivo restringersi, ma allo stesso tempo sapevo che se ci avessi messo qualcosa dentro mi sarei ritrovata a esaminare di nuovo i miei succhi gastrici. Il sangue mi pulsava nelle vene in modo innaturalmente forte, rendendomi irritabile.

Ho avvicinato con cura il piatto alla bocca, imprigionando una piccola porzione di spaghetti e mettendomeli tra le labbra. Mastica mastica mastica. Cerca di ingoiare-

L’unica difesa è stata sputare immediatamente gli spaghetti, cadendo dalla sedia e sbattendo sul pavimento. Non faceva più tanto male; il dolore alla mia gamba era come il battito palpitante di un tamburo il cui ritmo si era fuso inesorabilmente alla mia mente, per sempre. Sono rimasta sdraiata a terra in preda a conati di vomito asciutti finché non è arrivato Vincent a raccogliermi, un po’ maldestramente perché aveva preparato le braccia a un peso molto maggiore. Ero leggera come una piuma. Costole e materia, costole e materia-

« Portala qui » ha sbraitato Asako. Riuscivo a malapena a sentirla mentre chiudevo gli occhi, stordita e semi-svenuta. « Mettila sul letto, Vincent. »

Lui ha eseguito. Non poteva fregarmene di meno; proprio com’è già successo un milione di altre volte nelle ultime settimane, volevo soltanto morire e farla finita, volevo smetterla di essere stanca, malata e completamente, terribilmente patetica, smetterla di vedere gli occhi di sangue di Vincent perforarmi dovunque andassi, come se stessero cercando di scrutare il mio male; volevo smetterla di prendere medicine e pillole. Era una specie di castigo? Per aver annientato Sephiroth? Per non essere riuscita a salvare Aeris? Per essermi avvicinata tanto a Jenova? Cazzo, forse era soltanto la pena che mi spettava per tutte quelle volte che sono andata ai distributori automatici e ho rubato le bibite intrufolandoci la mano dentro-

Dalla gola mi è sfuggito un rumore tenue e lamentoso, un bizzarro tipo di risata.

« Le sta venendo una crisi isterica » ha borbottato nonna, sbottonandomi la camicia prima di prendere un coltello e tagliare con decisione le tre vestaglie che mi sono messa perché nessuno si accorgesse della mia mancanza di forma. « È – Dei misericordiosi! Poco più che un mucchietto d’ossa! Vincent, da quanto tempo non riesce più a ingurgitare cibo? »

« Non ne ho idea. » La sua voce era grave. « Deve aver cercato di nascondermelo. Penso l’abbia fatto anche stamattina. »

« Sembra non mangi da tantissimi giorni! E non ne ha parlato con nessuno! Pazza! Stupida bambina! » Con mia grande sorpresa e non poca disperazione, Asako è scoppiata a piangere.

Ho insinuato le mie mani tra le sue, spalancando le palpebre e sorridendole debolmente, mentre la nausea rifluiva. « È tutto a posto, nonna. Non piangere… Però ti prego, non dire nulla a papà, sì? »

« Probabilmente lo ucciderebbe quanto sta uccidendo te » ha ansimato violentemente, asciugandosi gli occhi, e facendo scorrere le dita sulle mie costole troppo grandi e sullo stomaco lievemente rigonfio, arrabbiato per non essere stato nutrito. Ho sentito fremere le ossa fragili quando è arrivata alle bende sulla mia gamba.

« Non ne avevo idea. » Era la voce di Vincent. Solitamente era profonda, ma adesso si era abbassata talmente tanto da diventare quasi impercettibile. « Ho fallito- »

« Chiudi il becco, Vincent! Di che stai parlando? Non è stata colpa tua, stupido cretino. » Ho provato a mettermi a sedere, ma poi mi sono accorta che ero un po’ mezza nuda e sono arrossita. « Oddio! Due stracci da mettermi addosso no? »

Vincent mi ha riabbottonato la camicia seduta stante: mi ha sfiorato le costole a ogni bottone, riuscendo nel compito con una rapidità ammirevole per aver usato una mano sola e facendomi vergognare il doppio.

« Stai vomitando tutto quanto? » mi ha domandato dolcemente Asako, scostandomi i capelli scuri dalla fronte.

Ho annuito. « Non riesco a trattenermi. Ci ho provato. Non funziona. »

« Beh, non c’è da meravigliarsi se il tè non è più efficace. Devi prenderlo a stomaco pieno. »

« Morirò, Nonna? »

« Se non ricominci a mangiare al più presto? Direi proprio di sì. E non è bello morire di fame. »

« Almeno sarebbe una morte più rapida di un’infezione di drago » ho detto io, funerea.

Ho sentito un dolore acuto al polso quando me l’ha agguantata, forte. « Sei una sciocca, Yuffie-chan. Pensi che ti lasceremo morire così facilmente? Così in fretta? Scordatelo! Togliti questi stupidi pensieri dalla testa e smettila di usarli per ferire chi ti sta attorno. »

Come se fossi tornata una bambina piccola, ho chinato il capo, mortificata.

« Cosa facciamo, Nonna? » Ancora una volta Vincent, flebilmente, e non senza un po’ di preoccupazione.

« Preparerò dell’altro tè. E le cambierò le bende, almeno. » Oh, evviva. Altri tagli. Ho sperato che le mani di Vinnie fossero pronte. « Poi starà a lei. Il tè aiuterà, ma deve farsi venire fame e smetterla di credere che rimetterà tutto. La nausea è per tre quarti suggestione, Vincent Valentine. »

Lui ha annuito, delicato e fluido.

« I cinici non si dovrebbero mai ammalare, allora. Ecco perché Cid è così in salute, anche se beve e fuma come una ciminiera- »

« Zitta, tu. » Ha cominciato a srotolare le bende e ho afferrato subito la mano buona di Vincent. « Dopo, Vincent, portala a casa. »

Penso di star iniziando a immaginarmi le cose, ma le dita di Vincent contro la mia mano mi sono sembrate ancora più tese e nervose delle mie.




I giorni seguenti potrebbero essere considerati più o meno come i più agghiaccianti della mia vita. Peggio del primo riassestamento del dolore alla gamba; peggio di quando campeggiavamo al Northern Crater, ascoltando gli ululati dei mostri; peggio di quella volta che caddi dal Da Chao e non mi sfracellai al suolo perché i pantaloncini si erano impigliati a un ramo e rimasi immobilizzata per un paio d’ore prima che mio padre mi trovasse. D’altra parte, quando ti trovi di fronte a un dolore che ti annebbia la mente, ti sembra sempre peggio delle volte precedenti – e all’epoca era stato abbastanza triste essere trovata a dieci anni attaccata a un ramo mentre mi sgolavo, per poi piangere fino a non sentirmi più gli occhi mentre mio padre mi portava a casa.

Provavo a mangiare, ci provavo davvero. Ci provavo più che potevo, ma anche costringermi a ingoiare generava altro dolore e nausea e mi faceva vomitare ancora. Bevevo il tè di Asako, stavo sul letto quasi tutto il giorno come se muovermi potesse aggravare in qualche modo la nausea, e mi sono beccata un raffreddore per via dell’impotenza mio sistema immunitario.

Stupido, maledetto corpo!

Vincent era un’ombra costante al mio fianco, che mi porgeva tinozze e le portava via, guardandomi intensamente quando cominciavo a sudare freddo. Il veleno e la fame si univano in un unico glorioso dolore che mi portava a delirare nel sonno, facendomi rigirare, piangere e graffiare a sangue. Lui mi stringeva le mani per non farmi picchiare da sola, come con un malato mentale. Vincent era la mia camicia di forza.

Sarà durato solo una settimana, ma a me sono sembrati una dozzina di anni, e penso di essere invecchiata tanto. Verso la fine ero certa di star per morire (cosa altamente probabile), e scuotevo la testa ogni volta che Vincent mi portava da mangiare. Dormire tantissimo mi è stato utile, un po’, ma il sonno a volte traboccava delle allucinazioni provocate dal veleno nel suo scorrere nelle vene febbricitanti.

Malata, sudata e scheletrica, rimanevo immobile con la pelle che mi faceva male, passando costantemente dalla veglia al sonno. Non riesco neanche a spiegare in cosa incappassi nelle mie visioni – vecchi ricordi, recenti ricordi distorti, i semplici orrori naturali che i bambini piccoli evocano sotto le coperte. Immaginatevi un po’, Yuffie Kisaragi in ginocchio così, quando nemmeno le WEAPON avevano potuto sperare di arrivare a tanto?

Penso che la cosa che ho desiderato di più in quei giorni fosse alzarmi, frugare tra le cose di Vincent, e farmi saltare in aria le cervella con la Death Penalty. Probabilmente la mia balia aveva già preso le dovute precauzioni a queste mie idee, ma non ha mai perso la calma con me, neanche una volta; mi teneva la mano quando singhiozzavo e mi impediva di farmi del male quando dormivo. Non deve aver dormito molto nel suo tristissimo e noiosissimo lavoro di Yuffie-sitter a tempo pieno. Non ce l’avrei mai potuta fare da sola.

« Yuffie. »

La voce veniva da lontano, ma il lento flusso dei sensi che riaffioravano mi ha rassicurato che non si trattava dell’ennesimo incubo; ho sentito qualcosa sulle labbra. Non sapendo bene cosa stessi facendo o anche cosa diamine stesse accadendo, ho aperto la bocca e ho assaggiato con la lingua quel qualcosa, giusto il necessario.

Era una mela, calda, ricoperta di zucchero e di certe spezie familiari di cui non riuscivo a ricordare il nome. Un momento, cannella… Sì. Cannella.

« Me le faceva mangiare mia madre. » Vellutata e morbida, la sua voce era come musica. « Quand’ero piccolo e stavo male. Me le sbucciava, perché mi piacevano solo così. »

Ho lasciato che la dolcezza dello zucchero e il calore del frutto accarezzassero la mia bocca, che fino pochi istanti prima ricordava un sacco di ghiaia.

« Quand’ero malato, e quand’ero infelice, da piccolo… andava sempre tutto via. Mangia un poco, Yuffie, per favore… »

Beh, chi se ne frega. Tanto sono vicina alla fine. Perché no? I miei denti si sono calati con difficoltà, ma ho staccato un pezzo, e l’ho masticato molto lentamente. Tanto dolce, morbido e fragrante com’era, non è stata molto dura, e ho tossito quando ho inghiottito quel primo boccone. Solo gli Dei sapevano quanto volessi mangiarla, più di ogni altra cosa, e sebbene sentissi già le prime contrazioni del mio stomaco, ho serrato i pugni per aiutarmi a combatterli.

Le sue dita erano calde, e mi hanno aiutato a mangiare, spronandomi a tenere duro. « Ero molto più piccolo di te, di dieci anni, e penso che tu sia molto più forte del bambino che sono stato. Mi cadevano le cose di mano – e di buono avevo solo la mira. »

Sono riuscita finalmente ad aprire gli occhi. I suoi erano decisi, imploranti, e il suo volto era preoccupatissimo. Aveva una camicia nera con le maniche rimboccate, e i suoi lunghi capelli erano sciolti a dispetto del blando tentativo di tenerli a posto con una bandana bianca. Stringeva un piattino nell’artiglio vicino alla pancia, ed era seduto sul mio letto. Con molta fatica, ho staccato un altro morso, perché ogni volta che lo facevo il suo viso si rilassava un po’ di più. Non avevo mai sentito Vincent parlare tanto, o visto il suo volto mostrare tanta emozione, o essere così gentile.

« Sì… così, Yuffie. » Un altro po’, lentamente, finché non ho finito la fetta. « Mangia. »

Lo sforzo mi stava uccidendo, ma ho aperto di nuovo le labbra quando mi ha porto l’ultimo. Mangiavo come un micetto inerme, dalla sua mano; non era una cosa romantica, come si potrebbe pensare, ma uno mero tentativo di vivere. Dopo un po’ non ne gustavo neanche più il sapore, perché le lacrime mi stavano scorrendo sulle guance. Non so nemmeno perché. Forse perché era così delicato, così non-Vincent, che non potevo non piangere.

Una volta finito tutto quello che aveva da darmi mi ha asciugato le lacrime con il dorso della mano mentre deglutivo. « Vomiterai? »

No. Ho scosso la testa.

Mi ha risposto con un cenno triste del capo. La crisi era stata scongiurata, e la Vincentudine stava tornando furtivamente al suo posto. « … Sono fiero di te. »

« G-grazie » ho squittito, patetica.

I miei occhi avevano voglia di chiudersi. Ero talmente stanca.

« Dormi. Io rimarrò qui. »




È stato allora che ho capito di amarlo. Non amore romantico, non precisamente, perché quello era troppo banale e sciocco per ripagarlo di tutto quello a cui aveva rinunciato per stare al mio fianco; non penso che fosse una cosa fisica, quella che provavo. Solo amore, nella sua forma non diluita, e gratitudine, e – è impossibile descriverlo: è solo la consapevolezza che hai trovato quel qualcuno che hai voluto per tutta la tua vita. Non fraintendete – non era il genere di sentimento che si riserva al proprio amante. Era più… argh! Perché devo essere così atroce con le parole?

Perdonatemi. Fatevi l’idea sbagliata se volete. L’unica cosa che sapevo, prima di disperdermi in un torpore libero dal delirio, era che Vincent Valentine era la persona che preferivo al mondo.
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > Final Fantasy VII / Vai alla pagina dell'autore: Guardian1