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Autore: Dira_    19/01/2012    17 recensioni
“Mi chiamo Lily Luna Potter, ho quindici anni e credo nel Fato.
Intendiamoci: niente roba tipo scrutare il cielo. Io credo piuttosto che ciascuno di noi sia nato più di una volta e che prima o poi si trovi di fronte a scelte più vecchie di lui.”
Tom Dursley, la cui anima è quella di Voldemort, è scomparso. Al Potter lo cerca ancora. All’ombra del riesumato Torneo Tremaghi si dipanano i piani della Thule, società occulta, che già una volta ha tentato di impadronirsi dei Doni della Morte.
“Se aveste una seconda possibilità… voi cosa fareste?”
[Seguito di Doppelgaenger]
Genere: Azione, Romantico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Severus Potter, Lily Luna Potter, Nuovo personaggio, Rose Weasley, Scorpius Malfoy
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Doppelgaenger's Saga'
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Capitolo XLIX
 

 

Dear my love, haven't you wanted to be with me
And dear my love, haven't you longed to be free
I can't keep pretending that I don't even know you
I've dreamt so long I cannot dream anymore
(Anywhere, Evanescence)
 
 
Norvegia, Durmstrang, ora di cena.
 
Lily pensò che sarebbe morta in quel preciso istante.
Un momento prima stava seguendo la luce dell’ultima bacchetta della coro, quello dopo un maglio di ferro le aveva tappato la bocca e trascinata nell’angolo presumibilmente più appartato dell’intero castello – e ce ne voleva, visto che era tutto buio.
La sua reazione non si fece attendere; tentò di piazzare calci mirati contro le gambe o le parti più sensibili del suo aggressore. Che stranamente non cercò di stordirla o strattonarla per farla smettere. Serrò solo la presa contro la vita. Non sulla bocca.
“Lilian, sono io!”
Avrebbe riconosciuto anche dopo un milione di anni quel tono di voce; basso, accentato e maschile.

Ren!
Si bloccò di colpo. Sentendola calma, Sören la liberò permettendole finalmente di voltarsi. Le torce della sala riverberavano fin lì e vide che era proprio lui. Capelli lunghi, uniforme e quegli occhi scuri che avrebbero mozzato il fiato a qualunque persona, di qualsiasi sesso sulla faccia della terra.
“Cosa…” Inspirò, ritrovando la voce. “… che diavolo ti è saltato in testa, sei impazzito?!” Esclamò sentendo un fiotto di rabbia cancellare il sollievo come un colpo di straccio. “Mi hai spaventata a morte! Pensavo volessero aggredirmi!”
L’altro non rispose, limitandosi a guardare alle sue spalle quasi il vero aggressore dovesse ancora arrivare. “Che ci fai qui?” Le chiese.

Mi ha almeno ascoltata?
Inspirò, intimando al proprio cuore di piantarla di battere come una grancassa. Avrebbe potuto schizzarle fuori dal petto, a quei ritmi. “Sono nel coro. Non mi hai vista?”
“Sì, ti ho vista.” Incrociò per un attimo il suo sguardo, ma subito lo puntò oltre a lei. Ancora. “Questo non risponde alla mia domanda.”

Lily ebbe l’impulso di scrollarlo per le spalle ed intimargli di darle attenzione, che era chiaro che non avesse ascoltato una singola parola di quel che aveva detto.
Non lo fece però, perché a guardarlo non aveva l’aria di uno che poteva esser afferrato senza conseguenze. E aveva visto di cos’era capace.
Sören si stava comportando in modo incomprensibile; non che l’ultima volta che si erano incontrati fosse stato meglio.
Ma almeno mi guardava … Adesso sembra che aspetti che qualcuno ci piombi addosso per farci fuori!
“Faccio parte della delegazione e sono qui perché faccio parte del coro della scuola, come ti ho già detto. Sono una delle soliste, mi hai visto…”
Sören le inchiodò gli occhi addosso, tanto che il tuffo al cuore che sentì era più che altro un’avvisaglia di infarto. “Non è vero. I tuoi genitori ti hanno proibito di venire. Non avresti dovuto prendere il treno, né esibirti.” Il tono era tagliente, diversissimo da quello che aveva sempre usato con lei, gentile e pieno di cura.

Lily sentì un magone, come qualcosa di sgradevole che non riusciva a deglutire. Quella frase era peggio della freddezza di suo fratello, del trattamento del silenzio di Rose e della lettera di suo padre.
Quanto sono scema.
“Io…” Se avesse pianto avrebbe mandato tutto all’aria. Tutto ciò a cui aveva rinunciato e che aveva rovinato per quel viaggio non avrebbe avuto senso.
L’avevi messo in conto che non ti avrebbe accolto a braccia aperte. Lo sapevi.
Allora perché cavolo fa così male?
Sören sembrò accorgersi della sua lotta contro l’emotività e qualcosa mutò nella sua espressione; gli occhi persero quell’orribile durezza e si ammorbidirono, anche se di poco. La bocca continuava a mantenere una piega fredda e nervosa invece.
“Lilian…” Iniziò e non si sbagliava, anche la voce era cambiata. Quando le parlava normalmente perdeva sempre molto del suo accento.
“In realtà mi chiamo Lily.” Le uscì spontaneo e ignorò l’espressione sconcertata che ne conseguì. “Sì, ti ho detto che mi hanno battezzata Lilian e Lily è un diminutivo, ma non è vero. Dico sempre così perché non mi piace il mio nome. Ti ho detto una bugia.”
Sören rimase in silenzio; era evidente che non si aspettasse quella confessione fuori contesto ed aveva ragione. Ma le serviva per riprendere controllo sull’impellente desiderio di scoppiare a piangere.

Funzionò; funzionò perché di colpo realizzò che l’unico modo in cui l’altro poteva sapere della sua non-autorizzazione era aver letto le sue lettere. Quelle che gli aveva mandato dopo il Ballo e che non avevano mai avuto risposta.
Le ha lette.
Non era molto, ma era abbastanza. Batté le palpebre per scacciare gli occhi lucidi. “Ti ho detto una bugia e te ne stavo dicendo un’altra. È vero, non sono qui con il permesso dei miei genitori. Mi sono imbucata.”
L’espressione di Sören sarebbe stata buffa, se non fosse stato serio il contesto. Era puro, semplice smarrimento. “Imbucata? Che significa?”
Doveva ricordarsi che l’altro non era avvezzo ai colloquialismi. “Intendo dire che ho preso il treno nascondendomi nel vagone merci.” Spiegò. “Mi hanno scoperto, ma a quel punto era troppo tardi, perché eravamo in territorio norvegese.”
“La Traccia…”

Lily annuì, sentendosi di momento in momento più forte. Quello che aveva fatto era sbagliato, ma l’aveva fatto bene. Inutile negarlo.
“Starò qua con altri finché non troveranno il modo per rispedirmi in Scozia.” Scrollò le spalle. Avendole nude sentiva un gran freddo, ma poteva ignorarlo, per il momento. “Secondo le mie ricerche però, ci metteranno tempo. Un bel po’.”
Senti Sören inspirare lentamente. Un respiro profondo, quasi dovesse incamerare aria per andare a lungo in apnea.
“… non dovresti essere qui…” Mormorò ed era un tono pieno di controllo, falso quanto le bacchette che vendeva suo zio George. Ormai capiva quando Sören fingeva. “Perché allora?”
Era la domanda campale. Formulata male, ma non poteva aspettarsi molto dalle capacità oratorie dell’amico. Era chiaro non fossero il suo punto di forza.

Quella domanda se l’era aspettata, e si era anche preparata un discorso che avrebbe fatto solo a lui. Un discorso sensato, organizzato, che l’avrebbe convinto che poteva fidarsi di lei e che gli avrebbe fatto realizzare che poteva aiutarlo, qualunque fosse il guaio in cui si era cacciato.
Ma occhi negli occhi – ehi, era romantico, ma anche inevitabile visto che Sören adesso la guardava, eccome – non riuscì a ricordarsene neanche metà. Neanche un quarto. Per niente.
Sentì le guance prendere fuoco e il cuore riprendere la sua sfrenata corsa verso un malore. Si umettò le labbra e racimolò tutta la sfacciataggine che le era rimasta.
“Per te, Ren. Non ti abbandono.”
Che poi, era il succo del discorso.
 
Sören avrebbe voluto urlare. In realtà, no. O forse sì.
Forse sarebbe impazzito perché provare tutte quelle emozioni concentrate in una manciata di secondi non doveva essere sano.
Sentiva rabbia; rabbia perché Lilian – no, anzi Lily – era lì e avrebbe dovuto essere miglia lontana.  
Sentiva paura; perché anche se suo zio voleva Thomas, non significava che quelli che lo circondavano sarebbero stati evitati nel processo di appropriarsene. E lui cosa avrebbe potuto fare per tenerla al sicuro?
E poi c’era qualcosa di ancora più profondo, che gli scuoteva il corpo come una febbre, ma la sensazione non era sgradevole. Era un misto tra esasperazione, nervosismo e la sensazione che aveva provato le poche volte che suo padre l’aveva carezzato, o quando Lily l’aveva preso per mano la prima volta.
E poi quella mano non te l’ha lasciata. Si intende metaforicamente. Anche adesso.
E infine il senso di colpa; quello sommergeva tutto il resto.
Lily era una bambina; una bambina vestita con un meraviglioso abito di festa, che sorrideva ed era felice quando cantava. Sprovveduta, con una famiglia che la amava e una vita perfetta. Stava bene alla luce. Lui invece vi sembrava grottesco.  
“Mi dispiace per averti spaventato, prima.” Iniziò, perché per prendere le distanze si doveva iniziare così. “Volevo solo ribadirti quello che ti ho detto al ballo. Devi starmi lontana.”
Lily non sembrò particolarmente turbata dalla sue parole. Sembrava aver acquistato una nuova sicurezza. Si chiese cosa diavolo gliel’avesse data. Cosa avesse sbagliato.

“Non ha funzionato, ti pare?” Replicò e fece persino un mezzo sorriso. “Senti, rispondi solo ad una domanda.”
“Lily…”
“Mi piace più quando mi chiami Lilian.” Era sfacciata, inopportuna … e ci stava ricascando di nuovo. Avrebbe dovuto metterla in guardia, spaventarla. Invece la stava ascoltando obbediente. “Siamo amici?” Fece persino un passo verso di lui. “È solo una domanda, a tutti è concessa una domanda. Siamo amici, Ren?”

Una domanda infantile. Sciocca, avrebbe detto suo zio. Con la vita che aveva non gli era concesso avere amici. Erano rischiosi, gli amici.
Era bello, avere un’amica.
“Ti sei fatta un’idea sbagliata di me. Pensi…” Perché nessuno gli aveva mai insegnato a gestire quel genere di situazioni? Suo zio non aveva minimamente considerato quell’aspetto. “… pensi di avere come amico una persona che…”
Che non esiste. Che è stata inventata solo per te.

“Che sta qui davanti a me.”
Era esattamente tutto il contrario. Ma non poteva contraddirla, perché farlo avrebbe significato far saltare la copertura.
Sören ritenne che rimanere senza parole era il danno collaterale minore, tutto sommato.
“Ren, sei davanti a me.” Continuò Lily e gli afferrò la mano, dal nulla. Trasalì e si frenò da compiere qualsiasi gesto di difesa. Doveva ricordarsi che Lily non era una minaccia.
Non fisica, almeno.
“Lo so.”  
“Sei la stessa persona che mi portava i libri, che mi dava ripetizioni di Incantesimi e che è diventato il mio cavaliere… Sei Ren.” Gli toccò la base del collo e stavolta Sören non tentò neppure di scostarsi. Si sentiva come uno di quei serpenti indiani, ipnotizzato dal suono di un flauto.
È davvero lei la sola ad essere stata presa in giro?
Direi proprio di no.
 
 
Sören aveva il battito accelerato di chi stava per schizzare via da un momento all’altro, eppure era immobile e la fissava come se fosse l’esatto centro di una voragine. O di uno scrigno del tesoro, non riusciva a decidere.
Avrebbe mentito se avesse detto che non era inquietata. Sentiva che in quel momento teneva un ragazzo tra le sue mani. E non in senso metaforico, malizioso o simili. Letteralmente. Era una sensazione assurdamente nitida.
Sören non era un ragazzo normale; uno che con un paio di fatture Orcovolanti ben piazzate avrebbe potuto allontanare se diventava molesto. L’aveva visto allenarsi, aveva visto la calcolata furia di cui era capace. Avrebbe potuto renderla un mucchietto di polvere con un colpo di bacchetta.
Eppure Lily aveva la sensazione che in quel momento il potere, trai due, l’avesse lei. Il che era dannatamente bizzarro.
Aveva quindici anni, in pochi mesi ne avrebbe avuti sedici, e gli unici ragazzi che aveva conosciuto era innocui, ormonali, scemi.
Non erano Sören. Forse, in effetti, era proprio quello il punto focale dell’intera faccenda.
Poi l’universo – insomma, loro in quel momento – si mosse tutto assieme. Sören la spinse e poi venne il freddo del muro di pietra.
Lily non tentò neanche di divincolarsi. In realtà, non aveva la più pallida idea di cosa fare.

Cosa… che fa?
Sentì i capelli dell’altro sfiorarle le guance. La sua altezza era sotto la media dei ragazzi che conosceva, ma comunque era più alto di lei e le toccava con la guancia la fronte. Aveva una peluria leggera, morbida. Non gli aveva mai visto un filo di barba addosso. Forse non gli cresceva.
Era… strano. Avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo ad averlo così vicino, eppure, non sapeva come, aveva la certezza che non ci fosse niente che preludeva a baci o cose del genere.
Era come quando l’aveva afferrata in bagno – anche se meno doloroso, in effetti.
Era una versione tutta sbagliata di un abbraccio.
“Sì… siamo amici.”
Fu poco più che un sussurro. Sembrava la voce di un bambino che aveva paura di dire ad alta voce la forma che pensava avrebbe preso il suo Molliccio.  
“Ren…” Gli sfiorò la guancia con le dita. Era bollente come al solito; sembrava avesse la febbre. “… Ren, che succede? In che guaio ti sei cacciato?”
Sören a quella domanda – che poi era quella vera, quella che voleva fargli da sempre – si irrigidì di botto. Si scostò, facendo un intero passo indietro. “Sai tornare al tuo dormitorio?”  
Lily annuì frastornata da quel repentino cambio di situazione. “Sì, credo… credo di sì.” Esitò. “Non è che ora sparisci di nuovo?”
Per quello che ho detto? Voglio solo aiutarti, accidenti!
Sören non mutò espressione. Si era chiuso di nuovo in quel suo guscio irraggiungibile. Solo che non c’era più tanta gentilezza attorno. “È Durmstrang. Non sparirò.” Replicò. “Torna al tuo dormitorio. È quasi ora di cena.” Non aspettò che lo salutasse e marciò via.
Lily si accorse improvvisamente di avere un gran freddo. Non voleva pensare, processare in quel momento ciò che era accaduto.
In effetti non sapeva che pensare.
Tornò indietro, verso le luci della sala e in dirittura del loro dormitorio.
Non si accorse minimamente di chi era dietro le porte da cui filtrava la luce.
 
 
****
 
Germania, Bassa Sassonia.
 
“Conrad Blecher?”
L’uomo si congelò nell’atto di infilare in una valigetta una pila di documenti.
Harry non sorrise, anche se il ghigno divertito che gli tendeva le labbra premeva per uscire. Ma non era professionale.

Conrad Blecher era il factotum della famiglia Luzhin; colui che al momento mandava avanti l’azienda nell’attesa che i coniugi tornassero. Colui che aveva risposto evasivamente alle domande di Ron, colui che aveva dato loro accesso a documenti sì, ma superficiali.
Colui che qualcosa sapeva, ma che aveva preferito non dire.
Lo sguardo dell’uomo, sulla tarda quarantina, saltò da lui, all’uniforme e il fodero della bacchetta fino alla porta. “Wer sind Sie?” Esclamò tra lo spavento e l’oltraggio.
Ron entrò in quel momento seguito da Nora.
“Buonasera.” Sorrise il suo vecchio amico, di quei sorrisi che non avevano niente di amichevole e molto di minaccioso. Lanciò un’occhiata alla ventiquattro ore di pelle. “Non disturbiamo, spero.”
Il mago si umettò le labbra. Sembrava oscillare tra il nervosismo e l’irritazione per essere stato colto con le mani nel sacco.

Il sacco di chi se la dà a gambe. Appena in tempo.
I permessi di indagine erano arrivati quella sera, a cena. Un Gufo da parte di Nora li aveva subito fatti correre all’Ufficio Passaporte. Per una volta né Ginny né Hermione si erano lamentate del pasto saltato. Ginny l’aveva addirittura aiutato a mettersi il mantello.
“Chi siete?” Disse il mago, stavolta in un inglese passabile.
“Sergente Auror Ronald Weasley, Sergente Gillespie… e Harry Potter.” Snocciolò Ron. Nora si chiuse con delicatezza la porta alle spalle.
“Harry Potter…” L’uomo sembrò sgonfiarsi come un palloncino. Ad Harry non piaceva vedere come il suo nome facesse ancora effetto sulle persone. Quella volta ne fu soddisfatto.
“Pensavo di aver risposto alle vostre domande.” Borbottò, abbandonando la valigetta e lisciandosi nervosamente le falde del mantello. “Vi ho detto tutto ciò che so sui miei datori di lavoro.”
“Ancora nessun piano di lavoro?” Spiò Ron allungandosi sulla sedia di fronte alla scrivania, pigramente, quasi dovesse riposarsi per un lungo viaggio. Lungo non era stato, ma faticoso eccome; la Passaporta Continentale per Hannover li aveva lasciato nauseati e frastornati.

Ci sono ottimi motivi per non abbandonare la nostra gloriosa nazione…
L’uomo ebbe uno scatto nervoso. Un ridicolo scatto verso la valigetta e un’occhiata verso la porta. Harry con la coda dell’occhio notò che Nora vi si appoggiò contro, bloccandola.
“Si sieda, Herr Blecher. Gli Auror hanno ancora qualche domanda per lei.” Disse in tono calmo, ma talmente ferreo che ebbe l’effetto di un ordine. Il mago infatti si sedette dietro la scrivania, slacciandosi il panciotto con un sospiro. Aveva cominciato a sudare.
Se c’è una cosa che ho capito della Thule, è che non prende manodopera stupida. Gli stupidi sono materiale, piuttosto. Lui sembra proprio fatto di quel materiale.
“Va bene…” Prese la pipa dall’interno della giacca e cominciò a caricarla. “Va bene, sono sempre a disposizione delle forze di polizia magica. È mio dovere di cittadino del mio Ministero.” Fece un sorrisetto esile. “In cosa posso aiutarvi?”
“I Luzhin l’hanno contattata dalla nostra ultima conversazione?” Chiese Ron; l’amico aveva saltato la cena, un pasto vitale per lui – ma quale non  lo era? – solo per buttarsi un mantello addosso ed essere sparato su suolo germanico. Harry sapeva che era preoccupato quanto lui. Anzi, forse di più; Ron aveva un senso della famiglia che rasentava la devozione che un soldato babbano avrebbe avuto per la propria Patria. L’idea che Lily o Rose, o Albus fossero nei guai riusciva persino a fargli bypassare i suoi istinti più atavici.

“No, no… nessun contatto.” Scosse la testa il mago. “Ve l’ho detto, l’ultima volta che li ho sentiti, tramite Camino, era Settembre. I primi di Settembre.” Specificò. “Hanno lasciato un piano di lavoro dettagliato, a cui ci siamo attenuti scrupolosamente… Herr Luzhin mi aveva detto che si sarebbe messo in contatto con me per metà Novembre, ma non l’ha mai fatto.”
“E non si è preoccupato?”
L’uomo schioccò le labbra, tirando una boccata di fumo. “Ve l’ho già detto. È già capitato che Herr Frederick e sua moglie si rendessero non rintracciabili. Quando sono in Asia non hanno le stesse possibilità di comunicazione che abbiamo qui in Europa. È già tanto se si trova un camino funzionante ogni dieci villaggi di maghi. È per questo che vogliamo arrivare in quelle zone.” Scosse la testa. “Non ci siamo allarmati perché era già successo.”
“Per così tanto tempo?”
L’uomo scoccò loro un’occhiata. “No.” Ammise lentamente.  

Nora si staccò dalla porta, affiancandosi alla poltrona di Ron. Harry sapeva che avrebbe dovuto sedersi, ma non ci riusciva. Bruciava dal desiderio intenso di afferrare quel tipo per il bavero del mantello e scrollarlo fino a farlo confessare.
Qualsiasi cosa.
La donna dovette accorgersi del suo stato d’animo, perché gli rivolse un sorriso comprensivo.
Sì, so di essere irragionevole. So che come capoufficio e ormai imbratta-carte non dovrei neppure essere qui.
Al diavolo.
“Sören…” Ed ecco di nuovo quel fremere nervoso nella labbra del factotum. Stavolta non se l’era immaginato, c’era stato davvero. “… Sören, il figlio. È il Campione di Durmstrang. Concorre per il Torneo Tremaghi … è un onore non privo di rischi.”
“Conosco il Torneo.” Commentò secco l’uomo. “Siamo tutti molto orgogliosi di lui.”
“E i genitori?” Incalzò Ron. “Sono tanto orgogliosi da essersene dimenticati?”
“No!” Esclamò quasi saltando sulla sedia. Era una molla carica, notò Harry. Ma c’era sincera indignazione nel suo tono. E paura. “Lei non…”
“Ci spieghi, Conrad.” Disse con il suo miglior tono calmo. “Perché ci sono punti in questa storia che ci rendono perplessi.”
“Le vostre finanze per esempio.” Esordì Ron. “L’anno scorso l’azienda era sull’orlo del lastrico, destinata a chiudere. Adesso sembra essere tornata sulla breccia, tanto che pensate di espandere il vostro mercato in Asia. I conti non tornano… un benefattore, forse?” Chiese mentre l’uomo perdeva velocemente colore. “Magari canadese?”
“Come…”
“Abbiamo controllato, Signor Blecher.” Si inserì Nora. “E abbiamo notato l’incongruenza. Com’è possibile ricevere un’iniezione di liquidi da un’azienda che coltiva in serra Fiori Volanti quando l’azienda in questione non ha mai avuto rapporti con voi prima di allora?”

“È stata…” Altra boccata. “… è stata un’idea di Herr Frederick. Ci hanno finanziato ricerche di mercato per…”
“Sulla fiducia? Ad un’azienda in perdita.” Ron inarcò le sopracciglia, con un’aria magistralmente stupefatta. “La cosa davvero strana, Signor Blecher, è che l’azienda benefattrice risulta… Com’è che dite voi americani, Nora?”
“Fittizia.” Rispose la strega con un lieve sorriso. “Non esiste nessun’azienda canadese. Però i soldi sono stati versati.”
“La domanda è da chi, Conrad?”

Il mago aveva le mani che tremavano. Harry lo registrò quando la pipa gli scivolò dalle mani e dovette riacchiapparla al volo prima che rovesciasse tabacco su tutto il tavolo. Non era nervoso, era terrorizzato. “Non ne ho idea. È stata un’idea di Herr Luzhin…” Ripeté meccanicamente. “Ha molti contatti all’estero, viaggia molto. Io mi occupo delle vendite all’ingrosso in Germania, di mandare avanti l’azienda quando lui è in viaggio. Di cercare nuovi portafogli clienti e cose del genere se ne occupa il padrone.”
Sta mentendo.
Harry non era arrivato ad esser a capo dell’Ufficio Auror solo per la sua vecchia cicatrice. Non era un Legimante, non avrebbe mai padroneggiato un ramo simile della Magia – Piton gli aveva reso dolorosamente chiaro quanto fosse negato. Ma si poteva scoprire molto anche solo osservando.
“La Thule.” Lasciò cadere quelle tre sillabe come se scaricasse un peso gravoso. Blecher congelò all’istante. “Ne ha mai sentito parlare?”

“No…” Sussurrò. “… cioè, sì. Come tutti… è quella setta, no? Sui giornali. Ne ho letto sui giornali, come chiunque.” Borbottò.
Harry si lanciò un’occhiata con Ron. “Lei ha frequentato Durmstrang, vero?”
“Sì, cosa c’entra questo?” Spiò il mago sconcertato da quell’improvvisa diversione.

“Negli stessi anni del Signor Luzhin?”
“No, ero qualche anno più avanti.” Scosse la testa. “Cinque per la precisione.”

Ron gli lanciò una seconda occhiata; era un azzardo. Non c’era nulla, sulla carta, che collegasse il factotum alla Thule o a Alberich Von Hohenheim. Conrad Blecher era un purosangue di una famiglia relativamente poco agiata, un ramo cadetto dei Luzhin. Lui e il Capofamiglia erano cugini alla vicina, e questo doveva essere uno dei motivi principali del suo impiego. Una persona come Hohenheim, influente e dominante, difficilmente si sarebbe avvicinato ad uno come Blecher, un mago che si poteva tranquillamente definire di seconda mano.
A meno che non ci sia stato un periodo della loro vita in cui erano pari.  
C’era una cosa che collegava Von Hohenheim all’uomo di fronte a loro.
Sono coetanei. Entrambi allievi a Durmstrang. Gli schedari di quella maledetta scuola sono accessibili quanto la Gringott, l’abbiamo visto con Sören, ma si può sempre fare un tentativo alla cieca…
Diede un lieve cenno d’assenso a Ron.
“Ha frequentato l’Istituto negli stessi anni in cui l’ha frequentata il loro leader, o uomo di facciata, che dir si voglia.” Disse Ron. “Mi sembra strano che non l’abbia conosciuto. Alberich Von Hohenheim?”
La reazione non si fece attendere. Blecher come Occlumante sarebbe stato una frana totale, perché l’espressione di panico che gli spuntò in viso era inequivocabile.
Eccolo qua, il collegamento trai Luzhin e Von Hohenheim.
“Non… non ricordo. Può essere.” Mormorò con una cautela del tutto inutile. Scrollò la cenere della pipa un’altra volta, anche se il caricatore era vuoto. “Nel nostro anno non eravamo pochi, non abbiamo Case che ci dividono come da voi… eravamo divisi per anno, in dormitori misti.” Continuò tentando di montare una storia il più rapidamente possibile.
Harry ne aveva abbastanza di stare ascoltare chiacchiere sterili. Si avvicinò in una falcata e sbatté la mano sul tavolo, con forza, abbassandosi all’altezza dell’uomo. Quello sussultò come se gli fosse esploso un incantesimo sotto il fondoschiena. “Blecher, se volessi sentire una storia di fantasia ascolterei la radio. Voglio la verità.”
“Sto…”
“Possiamo fare un controllo e vedere se soggiornavate nello stesso dormitorio.” Si inserì Nora; forse stava bluffando, anzi quasi sicuramente. Ma il tedesco non poteva saperlo. “Non ci vorrà molto.”
“Blecher, fai un favore alla nostra pazienza e al tuo sedere.” Sbottò Ron. “Dicci quel che sai.”

L’uomo fece un ultimo disperato tentativo di guardare la porta, ma questa era saldamente ostruita da Nora. E di fronte, aveva la mole fulva di un inglese di nome Ron Weasley.
Si passò le mani sul viso, sfregandole. “Io… sì. Lo conosco. Conoscevo.” Rettificò con un filo di voce. “È stato tanto tempo fa, eravamo ragazzi. Erano solo incontri… un gruppo di studio. Se stava organizzando la sua … associazione…”Esitò sulle parole, ma poi continuò. “… io non ne sapevo nulla.” Non tolse le dita dagli occhi, premendole appena. “Alberich era un tipo a cui davi retta. Da stimare, uno di quegli studenti portati in palmo di mano. Aveva quel modo di parlare che subito… beh, ti ritenevi fortunato che ti rivolgesse la parola, specie se eri una persona da nulla come me, uno che non portava neppure l’anello.”
Harry guardò confuso Ron, che sospirò. “Nobiltà cadetta.” Spiegò. “Non hanno il diritto di portare l’anello col blasone di famiglia.” Scrollò le spalle, con l’aria di chi la riteneva una grande cavolata.

“Siete rimasti in contatto durante questi anni?” Chiese Harry e il mago ridacchiò come se avesse sentito qualcosa di molto divertente. Tolse le mani dal viso e prese a caricare di nuovo la pipa.
“No, Alberich non era precisamente un tipo da rimpatriate, se capite cosa intendo.” Fece un mezzo sorriso. Harry notò che aveva smesso di tremare. Per quanto fosse ancora pallido e nervoso, sembrava meno spaventato.
Scaricarsi la coscienza fa questo effetto.
Lo pensò con rabbia sorda, ma cedere ai propri sentimenti sarebbe stato contro produttivo a quel punto dell’interrogatorio.
“Quindi come siete tornati in contatto?”
“Un anno fa, circa… l’azienda navigava in cattive acque. Pessime, a dirla tutta.” Fece una smorfia, seguita da un tiro di pipa. “Il padrone e sua moglie mi chiesero consiglio. Mi chiesero se conoscevo qualcuno che poteva aiutarli.” Fece una breve pausa. “La verità è che è stato lui a cercarmi.” Inspirò. “Non ho idea di come abbia fatto, ma non me ne stupisco. Uno come Alberich ha orecchie e occhi ovunque.”

Harry non disse nulla, processando le informazioni; Hohenheim non era il solito nemico che si ergeva solo, con una corte di devoti sottoposti a danzargli attorno come burattini. Era chiaro che la sua organizzazione funzionasse indipendentemente dai limiti che poteva avere in quanto persona. Lui, semplicemente, la usava.
Una famiglia a rischio rovina. Un ragazzo coetaneo di Tom. Un infiltrato perfetto.
Ma solo un ragazzo… com’è possibile che abbiano scelto un adolescente come spia?
Certo, a quanto gli aveva detto Nora la Thule sceglieva adepti giovani, la cui personalità in formazione si adattava benissimo ad essere plasmata.
Ma il ragazzo, facendo i conti, è stato contattato meno di un anno fa. È poco tempo per un’operazione così delicata. Dissennatori, infiltrarsi…
Dato il modus operandi della Thule gli sembrava insolitamente incauto.
“Io ho solo fatto da intermediario.” Continuò il mago. “Herr Luzhin ha voluto fare tutto da solo… mi sono soltanto limitato a ritirare una lettera nella taverna in cui vado di solito.”
“Una lettera?”
L’uomo si chinò ad aprire un cassetto basso nella scrivania. Harry vide Ron e Nora portarsi la mano destra alla cintura, ma poi il mago tornò su e gli porse una lettera la cui ceralacca era stata già strappata. “Il padrone mi ha chiesto di conservarla. Per sicurezza.” Spiegò. “Gli è stata recapitata da… beh, lui.”

Harry lesse. Era un indirizzo. Ad una sua occhiata interrogativa l’altro chiarì. “È un indirizzo qui ad Hannover, nel nostro quartiere magico. È esolo un numero civico in mezzo ad una strada. Una casa abbandonata. È lì che Herr Luzhin deve essersi incontrato con Von Hohenheim.”
O più probabilmente con un suo tirapiedi.

“Non so come si siano svolte le cose dopo, cosa abbia comportato accettare quei soldi. Non credo sia stata beneficienza.” Disse Blecher, con una smorfia amara. “So solo che verso Settembre sono partiti per l’Asia e da allora…” Tacque e un’ombra gli passò nello sguardo. “Avevo avvertito Herr Frederick… gli avevo detto che ogni cosa ha un suo prezzo, e che tutti questi galeoni ci avrebbero salvato, sì, ma erano… troppi.” Sussurrò chiudendo gli occhi per un attimo. “Ogni cosa ha un suo prezzo.”
“Dove sono adesso i Luzhin, Blecher?” Chiese Ron, e dall’espressione che Harry gli vide era chiaro avesse già la risposta.

“Non lo so. Non so se la loro sparizione c’entri con Alberich o con la Thule.” Sembrava sincero e Harry pensò che neppure il migliore Veritaserum avrebbe potuto fargli avere quell’espressione di disarmata angoscia.  Ron lanciò un’occhiata alla ventiquattro ore e alla piccola cassaforte alle spalle del mago.
“È per questo che stava scappando?”
Il tedesco serrò appena le labbra. “Cosa vi aspettate che facessi? L’azienda è stata tutta la mia vita, ma visti i presupposti, visto che persino degli Auror inglesi sono venuti a farmi domande… credevo fosse meglio sparire per un po’. E di mia spontanea volontà.”
“E Sören?” Spiò Harry; per quanto quel ragazzo fosse una possibile minaccia, era pur sempre una vittima.
È stato offerto dai suoi genitori a Hohenheim per salvare l’azienda.
Sentiva la rabbia che sobbolliva, e non era scattato solo grazie alla mole spaventosa di tensione che aveva dovuto processare durante tutta la sua infanzia.
Ragazzini. Questa è una maledetta guerra tra ragazzini.
“È a Durmstrang.” Rispose l’uomo ottusamente. “È il Campione del Tremaghi.”
“Non ha pensato che possa essere stato coinvolto?”
“Sören?” L’uomo apparve sconcertato all’idea. “Per quale motivo?”

Harry si scambiò un’occhiata con Ron e Nora; la reazione dava da pensare, ma poteva essere comprensibile alla luce di un uomo che non aveva idea come funzionassero le strategie di Von Hohenheim.
“Si è tenuto in contatto con lui?”
“No… non abbiamo corrispondenza.” Scrollò le spalle. “Sono solo il factotum dell’azienda. Se avesse bisogno di qualcosa certo, mi manderebbe un Gufo, ma fin’ora non è mai successo.”

“E non è mai tornato a casa?”
Blecher scosse la testa. “No, è andato direttamente all’Istituto.”

“E non l’ha trovato strano?”
Il mago aggrottò le sopracciglia. “È da anni che non lo vedo, da quando è entrato all’Istituto. Non viene mai ad Hannover, passa le vacanze in Baviera. La famiglia di sua madre ha una casa sul lago Chiemsee¹.” Si mosse sulla sedia. “Gli è successo qualcosa?”
Harry improvvisamente ricordò una cosa che gli aveva detto Tom.
Potrebbe anche non essere il vero Luzhin… Potrebbe anche avergli rubato l’identità.

Lì per lì non gli aveva data molta udienza; era infatti impossibile che un altro ragazzo si fosse sostituito al Luzhin originale. C’era un’intera scuola che l’avrebbe smascherato immediatamente.
Però… abbiamo la magia. E la magia risolve molte incongruenze.
“Nessuno dell’azienda lo vede da quando ha undici anni, è esatto?”
L’uomo esitò. “Beh, di persona. Ho visto le sue foto sul giornale.”
“L’ha trovato cambiato?”

Era cosciente del fatto che Ron e Nora lo stessero guardando perplessi, ma gli si stava formando un’idea in testa. Un’idea che gli dava i brividi, ma che partiva proprio da quella serie di opportune coincidenze.
Un ragazzo che nessuno ad Hannover o nell’azienda di famiglia ricorda. Un ragazzo che non torna a casa da anni, che è sempre rimasto chiuso in una scuola Intracciabile.
“Com’è naturale direi, tutti cambiano in sette anni.”
Si limitò ad un cenno d’assenso, lasciando che Ron continuasse nell’interrogatorio.
C’era assoluto bisogno di trovare i genitori di Sören Luzhin; gli unici, a quanto pare, capace di dirgli se suo figlio fosse stato sostituito.
 
****
 
Norvegia, Durmstrang. Notte.
 
Rose stava cercando di trovare la posizione adatta per dormire.
Era stata una giornata densissima di avvenimenti e l’ultima cosa di cui aveva bisogno era passare la notte in bianco.

Non che dipendesse da lei; trovarsi in un ambiente così distante dal silenzio delle foreste della Scozia, era disagiante. Era inquietante sentire quel continuo mugghio, quasi una bestia della favole soffiasse sulle mura del castello.
Aprì gli occhi, sbarrandoli nel buio della camerata. Le imposte erano state chiuse e da esse non filtrava luce.  
Di colpo notò qualcosa di improbabile. C’era una luce. Una luce che filtrava dalla porta della stanza, da sotto. Sembrava la luce di una candela o di una lanterna. Era intermittente.
Sembra quasi… non è possibile. Sembra codice morse!
Conosceva quel particolare codice grazie ad una passione tutta personale di Hugo per i linguaggi cifrati; aveva passato notti intere a giocare con il fratello nel loro grande appartamento di Mayfair, a lanciarsi segnali con le torce – o si chiamavano pile?  

Dubitava però che qualcuno dei suoi compagni conoscesse quel codice.
Anche se…
C’era una persona a cui l’aveva insegnato per comunicare durante le noiose lezioni del professor Rüf. Che poi era la stessa persona che stava facendo quei segnali luminosi, dato che a decifrarli, veniva fuori un nome.
Scorpius.
Si alzò dal letto, infilandosi la vestaglia e afferrando la bacchetta sul comodino. Si appoggiò alla porta chiusa. “Ehi, sei tu?”
“Ehi.” Gli rispose la voce familiare del suo ragazzo. “In persona, fiorellino. Dormivi?”
“Certo, come no.” Ironizzò. “Tu?”
“C’è uno del coro che russa come una grancassa. È tremendo.” Sospirò. “Posso entrare?”
Rose guardò alle sue spalle; sentiva i respiri pesanti delle ragazze addormentate. Anche Lily era crollata, anche se aveva passato buona parte del post-buonanotte a fissare il soffitto con gli occhi sbarrati. Non era un sonno pesante, però, ne era sicura, con la sicurezza di sette anni passati a dormire in compagnia altrui.  

“Meglio di no… Alcune potrebbero avere una sincope a vedersi un maschio a pochi centimetri dal letto.”
“Primine.” Sbuffò il ragazzo. “Allora vieni tu?”
“In una camerata di ragazzi? Scordatelo. Ho già passato esperienze olfattive oltre il tollerabile in quella di Grifondoro.”
“No, intendevo… in un posto.” Il tono si fece vago. “Qui in giro.”

A Rose sovvenne un pensiero. “Da quant’è che sei in giro?” Sospettava che James gli avesse passato alcune deprecabili abitudini. Prima tra tutte, le passeggiate notturne. 
“Svariato tempo.” Fu la replica sibillina. “Mi apri? O dobbiamo sussurrarci come amanti clandestini? Pensavo avessimo passato questa fase.”
Rose ridacchiò, stringendosi la cintura della vestaglia ed infilandosi la bacchetta in una delle tasche. Aprì la porta con tutta la cura possibile e se lo trovò di fronte, bardato di mantello e lanterna.
“Una lanterna, sul serio?”  

“Un uccellino mi ha detto che se qui accendi un lumos è come mettere una freccia enorme e luminosa sopra la tua testa.”
Rose batté le palpebre, stupefatta. “Rilevano…”
“Già.” Confermò con un mezzo sorriso. “E non vogliamo che qualcuno ci scopra in una scuola straniera dopo il coprifuoco, vero fiorellino?” Ghignò e Rose non poté non pensare che quell’espressione le faceva venire le farfalle allo stomaco.

Sempre fatta. Prima però le scambiavo per irritazione. Faccia da schiaffi Malfoy.
Inarcò le sopracciglia, perché dargliela vinta al primo round sarebbe stato controproducente per il loro rapporto. E poco divertente, anche. “Cosa ti fa pensare che ti venga dietro senza colpo ferire?”
Scorpius batté le palpebre. “Il tuo amore imperituro?”
“Ritenta, sarai più fortunato.”
Il ragazzo si grattò una guancia, poi squadernò un gran sorriso. “La tua curiosità vorace. Ehi, siamo a Nord. Facciamo i turisti!”

“Malfoy, sii comprensibile.”
“Non è divertente.” Scrollò le spalle come se fosse una spiegazione del tutto sensata. “Dai, fidati. Ti porto in un bel posto.  Prendi il mantello e mettiti gli stivali da viaggio.”
Rose inspirò. “Io… credo che potrebbe essere pericoloso. Non siamo ad Hogwarts.”

Quella scuola le dava i brividi..
Persino Dominique, che facendo parte della delegazione francese era arrivata il giorno prima, si era espressa in termini simili.
Beh, più o meno. Alla Domi, insomma.
 
“’Sti tipi sono simpatici come un dente di drago su per il culo.” Aveva chiosato scivolandole accanto alla fine del pasto. Il tavolo di Beaux-Batons era accanto al loro e il passaggio era stato notato solo dalla Parkinson-Goyle che aveva fatto finta di guardare dall’altra parte. Come al solito.
“Domi!”
“Beh? È vero. Prova a parlare con uno di loro. O fingono di non capirti o mettono su la commedia del soldatino. Non son contenti di averci qui, parola mia.”

Scorpius sbuffò. “Ti sei fatta influenzare da Dursley. È un accademia, non una prigione.”
Rose sospirò. “Solo un giro veloce.”
“Promesso.”
Dopotutto non era vera vacanza, per il suo sangue Weasley, se non c’era un’avventura di mezzo.

 
Si fece guidare dalla mano di Scorpius, e la luce della lanterna che ondeggiava a pochi passi da lei era l’unica cosa che vide durante tutto il tragitto. Di Durmstrang, tornata a casa, avrebbe descritto soprattutto il buio.
Sperava non fosse perenne, che perlomeno la mattina il sole sorgesse.
Salirono delle ripidissime scale, scivolose e ghiacciate; il cambio di temperatura si fece sentire di colpo. “Scorpius…”
“Stiamo uscendo sul tetto, copriti bene.” Le consigliò, voltandosi e regalandole un sorriso che la fece desistere da ulteriori obiezioni. Era quel maledetto sorriso da Raggio di Sole che le aveva fatto voltare le spalle alla forma mentis di suo padre e metà della famiglia.

Le avrebbe fatto anche percorrere delle maledette scalette gelide.
Sentì una porta cigolare sopra le loro teste; era una botola. Si chiese come Scorpius la conoscesse, ma poi lasciò perdere. Non c’erano limiti alle informazioni che quella testa matta riusciva ad ottenere dalla sua famiglia o da Zabini e Nott.  
“Chiudi gli occhi.”
“Mi ammazzerò su queste scale!”
“Ti tengo per mano, non ti romperai niente. Weasley malfidata.”
“Detto da quello che di cognome fa Malfoy.” Replicò sentendolo ridacchiare. Perché sì, nel mentre gli occhi li aveva chiusi sul serio. Sentì la forte morsa gelida del freddo e poi mosse qualche passo su una superficie liscia, grossi quadratoni di pietra, pavimento; erano usciti. Scorpius la aiutò a compiere i restanti passi verso qualcosa. Sperava non verso un’altezza sconsiderata perché non aveva simpatia per le voragini aperte nel vuoto.
“Okay, apri gli occhi.”
Rose lì aprì e, come la volta in cui l’aveva fatta salire su una scopa per sorvolare la Foresta Proibita, si sentì mozzare il fiato. Il cielo non era cupo e scuro come si sarebbe aspettata. Era anzi luminoso come il giorno, in mille rifrazioni di colore che si muovevano come onde sinuose nell’atmosfera.

“Aurora boreale…” Sussurrò.
“Da queste parti si vede.” Confermò affiancandolesi. “Me ne aveva parlato mia madre tempo fa. Tenuto a mente.” Si picchiettò la fronte. “Come dico spesso, fiorellino, a volte bisogna vedere le cose da una diversa prospettiva. Durmstrang non è orribile. È solo diversa.”
Rose distolse lo sguardo dallo spettacolo naturale per fissarlo sul suo, di spettacolo personale; Scorpius aveva fiutato la sua angoscia. E come sempre, aveva fatto la mossa giusta.

Lo abbracciò stretto, grata e innamorata. Erano cose che andavano piuttosto bene a braccetto.
“Non c’è di che.” Indovinò Scorpius baciandole i capelli. “Non ti sei innamorata di un cretino, sai?”
“Sì, invece.” Alla sua espressione offesa rise, baciandolo. “Ma sei un cretino fantastico.”

Scorpius assunse un’espressione riflessiva. “Posso sposarti, un giorno, Rosie?”
Rose inspirò bruscamente, perché se sarebbe morta d’infarto, un giorno, sarebbe stata colpa di quel bislacco, pazzo biondo. “… direi di sì. È una proposta?”
Scorpius le prese il viso tra le mani. “Puoi contarci. Lo giuro su questo milione di particelle luminose. Un giorno, Weasley, io ti sposo.”
Rose diede un’occhiata all’aurora. “Beh, allora dov’è il mio anello?” Scherzò. Intercettò l’improvviso accendersi dello sguardo dell’altro.
… Oh.
“Sì, ho pensato anche a questo.”
 
 
“Svegliati.”
“Mh?”
Albus rotolò sullo stomaco, sentendo la mano di Tom scuoterlo con una certa urgenza. D’istinto afferrò la bacchetta sul comodino, cercando di mettere a fuoco la situazione. “Che succede?”
“Niente che richieda una bacchetta.” Lo tranquillizzò. Riusciva a vedere nel buio l’ombra del suo profilo e persino il vago disegno deprimente della t-shirt elettiva di quella sera.

“Sì, ma … è già ora di alzarsi?” Intravedeva un lieve lucore alle imposte della finestra.
Se è questa tutta la luce che avremo…
“No, è notte. Vieni a vedere una cosa.” Lo incitò e Al, remissivo come solo il rincoglionimento gli permetteva, si trascinò infreddolito fino alla finestra. E spalancò gli occhi di colpo.
Non aveva la minima idea di cosa fossero quelle scie di luce verdi che lampeggiavano nel cielo notturno. Incantesimi? Troppo brillanti e continuate.  Lanciò un’occhiata preoccupata a Tom, ma vide che l’altro sorrideva divertito.
“Non è magia. Si chiama aurora polare, o boreale. È un’illusione ottica causata dall'interazione di particelle di origine solare con l’atmosfera terrestre. È un fenomeno naturale.” Gli spiegò. “Siamo alla latitudine giusta per apprezzarla al meglio.”

Al capì solo metà dei termini che l’altro snocciolò. Si limitò ad apprezzarla al meglio. Era uno spettacolo che neppure nel Mondo Magico aveva uguali, e sì che di luci e colori loro ne erano pieni.
“La possono vedere anche i babbani?”
Tom inarcò le sopracciglia. “Fenomeno naturale, ho detto.”
Al arrossì. Si era chiesto, durante il viaggio, quale sarebbe stata la sua utilità in tutta quella faccenda una volta arrivati a Durmstrang. Non per la delegazione, ma per Thomas. Era bravo con le erbe, e con gli incantesimi curativi. Ma non sapeva nulla di duelli e a quanto pare, della maggior parte delle cose del mondo. Quell’Hohenheim invece sembrava un pozzo di conoscenza, se aveva reso Tom chi era.

“Un'altra prova della mia ignoranza.” Ironizzò incrociando le braccia al petto, reprimendo un brivido.
“Non sei ignorante, sei nato mago.” Aggrottò le sopracciglia alla parola, ma la ritenne valida, perché continuò. “Sei settoriale.”  
Tom aveva l’aria di qualcuno che non era riuscito a chiudere occhio, neppure per riposarsi.
Quindi ha trovato una scusa per svegliarmi. Non è romantico? Beh, è Tom. Va bene così.
“È molto bella, ma io ho freddo.” Si voltò verso di lui. “Se non vuoi che torni a letto e dorma forse dovresti ovviare al problema.”
L’altro lo guardò attentamente, poi fece un mezzo sorriso. Lo abbracciò passandogli le mani ancora calde di letto lungo le spalle e le braccia, fermandosi sulla vita. Erano quello che qualcuno avrebbe chiamato ‘coccole’, ma non il suo spigoloso ragazzo; aborriva quella parola come se fosse una tremenda maledizione arcaica.
Gli appoggiò la guancia sulla spalla, baciandola e ispirando il leggero profumo di cotone e dentifricio. “Andrà meglio domani.” Gli promise e si promise. Forse non era un duellante abile, né un eroe da prima ora. Forse era quello il suo compito. Non esserlo. “Domani, andrà molto meglio.”
Tom non rispose ma strinse la presa.

Sì, eccolo qui il mio compito – pensò lanciando un’occhiata a quell’aurora, che illuminava di verde e azzurro la loro prima notte a Durmstrang.
 
 
****
 
Note:

Questa la canzone. Non mi ricordo neanche di che album sia, ma la adoro.

1.Il Chiemsee, detto anche bayerisches Meer, cioè mare bavarese, è il più grande lago della Baviera e, dopo il lago di Costanza ed il Müritz, è il terzo lago della Germania per estensione. (da Wikipedia)
 
Spero di riuscire ad aggiornare in tempi brevi, ma come sapete, non posso promettere niente.
Un grazie fantastilioso a tutte le ragazze di facebook. Ricordo ancora che per chi mi vuole contattare o avere informazioni sui capitoli, nel mio profilo c’è anche il bottone facebook. Chiedetemi l’amicizia, solo specificate chi siete^^
A presto! – spero, sigh.
  
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