Se credi che la violenza sia un istinto di pancia e di cuore,
stai mentendo: menti a te stesso, prima ancora che agli altri; menti perché ti
manca il coraggio di sentirti una bestia – o di essere una bestia fino in fondo.
Quanto più ti avvicini all’età adulta, tanto più odi e
mastichi dolore, ma t’inchiodi all’altare del Dio Controllo e a certezze di
carta.
Non ho ceduto. È già una vittoria.
Invece no: hai mandato a dormire la fiera, ma convivi con
lei. Le dai il tuo cuore da mangiare e spalle da coprire. Vivi in apnea e conti
gli invisibili anelli della catena che chiami ‘razionalità’.
E poi capita anche che salta: si scioglie l’anello, sogghigna
la bestia.
La bestia sei tu.
È una bestia Draco, con la bacchetta in mano e gli occhi
ridotti a due fessure torbide. È una bestia Florian, sospeso tra due nature e
due sentimenti.
“Io sono un Malfoy.”
Più che orgoglio, è un asserto che gronda paura, perché
quando chiedi a una bandiera di raccontare chi sei, hai già perso. È una
debolezza ridicola, quella di nascondersi dietro il nome del padre, e se Draco
non fosse già oltre la soglia del risentimento, lo colpirebbe soprattutto per
quel motivo – e saprebbe di avere ragione.
Florian gli sputa in faccia un grumo di saliva mista a
sangue. È caldissima e cancella l’odore di lei, il profumo di un bacio,
l’incanto di una distrazione necessaria.
“Elettro,” sibila Malfoy, accarezzando ogni sillaba
con la perversa soddisfazione del sadico. È più vicino a Voldemort di quanto
possa immaginare; prossimo al confine che nemmeno suo padre ha mai sfiorato.
Il corpo di Florian si contrae e sussulta come le livide
cosce di rana dell’illusione galvanica. La mascella si serra con violenza e
chiude nella sua morsa implacabile la lingua. Sangue e saliva nebulizzano lo
spettrale crepuscolo di spruzzi rosati. Draco sorride e saluta il buio
accogliente che inghiotte ogni sua emozione.
“Sì, sono un Malfoy,” ripete compiaciuto.
Le dita di Von Kessel si stringono attorno al suo
avambraccio. Incarcerus: la formula gli rimbomba in testa appena prima
che alla tenaglia della presa si sostituisca un invincibile laccio. Non ha
pensato al talento di Von Kessel per gli incantesimi muti. Non ha pensato e
basta, perché distruggere è tutto quel che cerca.
“Hai passato il segno,” sussurra Florian – e lo sguardo non
sa di rabbia, né di rancore, perché non c’è più nulla di umano nella sua
espressione. Draco ha perso la presa dalla bacchetta e si dibatte, inerme, ai
suoi piedi. Potrebbe ancora liberarsi con un contro-incantesimo elementare, ma
non è bravo a mantenere la concentrazione come a perdere la testa. È poco più di
un bambino e chiede per sé alibi che non è disposto a concedere.
Florian, tuttavia, non gliene offrirà: lo domina, ora, occhi
bianchi e lunghe zanne, quasi fosse l’uomo nero dei suoi incubi infantili. È
ombra e buio e l’ansito rauco di una rabbia giovane. Di un dolore assoluto.
“Hai sbagliato, Draco.”
Malfoy tenta di raggiungere la bacchetta, che la luce sempre
più rada fonde alla neve e alla notte.
“Cosa accadrebbe, se lo dicessi?”
Draco deglutisce con difficoltà. Sono cresciuti alla stessa
scuola, loro due: legge nelle intenzioni di Florian e inorridisce.
“Non puoi usare la Cruciatus. Se ne accorgerebbero
tutti e…”
Florian gli regala un sorriso spettrale, mentre s’inginocchia
al suo fianco. L’alito caldo raggiunge appena la sua pelle; una carezza che
puzza di sangue.
“Non sono così stupido, Draco.”
Mastica il suo nome come merda. Sulle labbra rotte, bolle di
plasma pulsano come altrettanti cuori.
“In quanti modi si può uccidere?”
È follia? È rancore? Delle mille maschere di Von Kessel,
quale ha sfidato?
“Partendo dalla lettera A…” sibila Florian, “incontriamo il
fuoco nero, l’implacabile Arde…”
Diffindo.
È il mugolio di un gattino, poi il ruggito trionfale del
leone: Draco recupera la bacchetta e arretra di una decina di passi. L’Ardemonio
scioglie la neve, morde il suolo e riempie l’aria di un mefitico, catramoso
lezzo. Un battito di ciglia, e la notte avrebbe profumato d’arrosto: un nobile
piatto chiamato ‘Malfoy’.
“Tu hai tentato di uccidermi!”
Florian si stringe nelle spalle. “L’avresti fatto anche tu.”
Non c’è calore nei suoi toni, né colore nei suoi occhi.
La magica lanterna dell’amicizia si è spenta, per lasciare
loro lo scheletro fragile di un’illusione da bambini. Non è stato l’affetto a
unirli, ma la paura; erano fragili e quella vulnerabilità li ha resi fratelli.
Erano spaventati e si sono rifugiati l’uno nell’altro.
Ora, però, l’altro è uno specchio da polverizzare,
perché così sarà emendata ogni debolezza.
È il veleno di Voldemort, che circola libero e infetta ogni
senso: sono troppo giovani per rendersene conto; troppo giovani per capire che
un po’ d’amore non basta a salvare una vita, ma rallenta comunque l’agonia.
Draco contrae le dita attorno alla bacchetta. Il biancospino
è un ossimoro che gli somiglia, perché alla delicatezza dell’infiorescenza
oppone un cuneo che strazia la carne: così Malfoy, un principe pallido, che la
collera spoglia d’ogni nobiltà; delicato e femminile nei tratti, forse, ma
crudele quando è il momento di mordere.
Lo vuole, Draco?
Sì: vuole carne e sangue.
La carne di Florian.
Il sangue di un’amicizia che gli ha spremuto il cuore.
“Cru…”
La maledizione è un sibilo flebile, che il vento disperde.
Un’ombra minacciosa lo raggiunge alle spalle e gli torce il braccio fin quasi a
spezzarglielo.
“Che cosa pensi di fare, piccolo idiota?”
Florian abbandona la bacchetta e arretra. Barty fa saettare
il magico occhio del guercio Malocchio dall’uno all’altro; le labbra strette in
una smorfia carica di disgusto. “Carne per cerberi,” ruggisce. “Ecco cosa siete!
Il Signore Oscuro merita un esercito di eroi, non di bambinetti presuntuosi!”
Draco tenta di sottrarsi alla morsa, ma Barty gli assesta una
gomitata tra le costole che gli mozza il respiro e gli fiacca le ginocchia.
“Tale e quale a tuo padre, Malfoy, ma senza l’intelligenza di
capire quando chinare il capo!”
Draco boccheggia. La bacchetta di Crouch è un chiodo tra le
scapole.
“Vediamo se non mi riesce di educarti…”
È un sibilo rauco, intriso di feroce compiacimento.
“Sai? È dai tempi di un certo processo che nutro il desiderio
di mostrare a un Malfoy la mia gratitudine per il servizio reso alla
causa…”
Draco chiude gli occhi. Il rugginoso latrato di Barty è
quello di un cane pazzo; la formula di trasfigurazione, un debole fuoco fatuo.
“Non osare mai più, capito, Malfoy? Non deviare dal
tracciato, bambino… Non sfidare…”
La terra gli sfugge, poi gli arriva addosso: un cozzo
spietato, che gli strappa un sospiro vulnerato. Ride, Barty, e lo fa rimbalzare
quasi fosse una palla, tra neve e pietrisco.
Florian non muove un muscolo.
Florian pagherà anche questo.
***
Qualcuno dice che nei Krum c’è sangue di lupo, perché la
ferocia di un predatore solitario e paziente, resistente e ostinato, è filtrata
nell’ambizione di un clan di Czar, guerrieri e conquistatori.
Viktor è uno Czar, un guerriero, un conquistatore. E un
ragazzo innamorato.
Trattiene il fiato. L’acqua del lago è un amnio gelido che
paralizza il pensiero. I suoi muscoli si tendono in un ultimo, disperato spasmo,
mentre la luce pallida dell’inverno, poco a poco, fende il torbido diaframma e
lo rassicura.
I polmoni si riempiono di ossigeno. La pelle ringrazia.
“Tu non sei umano,” ride Isaac
Adamič, e gli lancia una ruvida coperta di
lana.
Hogwarts è un’ombra nera, avvolta dalla bruma del primo
pomeriggio.
“Non è ancora abbastanza,” replica a fatica, perché è
piuttosto vero il contrario: è umano, troppo umano. Gli battono i denti. Gli
trema il cuore.
Lei ha detto di sì.
“E per chi? Non penserai davvero di doverti preoccupare di…”
Gli basta un’occhiata per ridurlo al silenzio; un’occhiata
per ricordargli che Viktor Krum non è il migliore perché ha la bocca larga ed
entusiasmi facili.
Non teme Potter, né Diggory. Quanto alla campionessa di un
collegio di ricamatrici, si chiede quale perversione del Caso l’abbia candidata.
Eppure…
Si stringe nelle cocche della coperta e fiuta l’inverno.
L’antenato lupo ringhia e questa sensazione non gli piace: il
vento sa di morte, non di zucchero. Si chiede se sia l’unico a essersene
accorto.
“Hai sentito l’ultima?”
Viktor si strofina con energia le spalle e scuote il capo. I
pettegolezzi non gli interessano quanto il dominio della forza e degli elementi.
Il Torneo Tremaghi è una guerra che combatte nel nome dei Krum, prima ancora che
di Durmstrang.
“No, studiavo,” replica asciutto.
“Malfoy e Von Kessel se le sono date di santa ragione. Se non
fosse intervenuto quel vecchio matto che insegna Difesa contro le Arti Oscure,
finiva male.”
“Malfoy e Von Kessel?”
“Strano anche solo pensarlo, vero?”
Peggio: sinistro, pensa Viktor, ma evita di dar voce a
emozioni che non saprebbe chiamare.
“Malocchio ha trasformato Malfoy in un furetto. Una scena
da…”
“E perché avrebbero discusso?”
Isaac si stringe nelle spalle. “Non l’ha capito nessuno,
anche se…”
“Anche se?”
È un sorriso osceno, che prelude a un’osservazione
prevedibile almeno quanto carica di una sua pericolosa plausibilità.
“Ragazze? Non so come la pensi tu, ma io non ne ho mai
viste così tante.”
Viktor abbassa lo sguardo.
Una ragazza: ce n’è solo una che abbia catturato il suo
sguardo; la stessa, tuttavia, su cui ha visto posarsi gli occhi mercuriali di
Draco – e no, non solo una volta. Non per caso.
Stringe i denti e si sforza di contenere il tremito
innaturale delle membra. Isaac penserà al freddo, perché non immagina il gelo e
il buio che quelle parole gli hanno fatto scivolare dentro.
È un riflesso di quel suo strano istinto? È un senso chiamato
orrore?
“Mi chiedo perché il Preside li abbia portati con noi. Sono
due ragazzini e i ragazzini…”
“… Devono stare al loro posto,” sibila tetro.
Adamič si stringe nelle spalle e lo
anticipa sul ponte dell’arca.
I suoi occhi cercano ancora Hogwarts, regina di pietra tra
fantasmi lattiginosi e cumuli di neve: ne accarezza le guglie e i pinnacoli, le
trifore come orbite cieche.
Accarezza Hermione a distanza, e chiede a libri e
pergamene di proteggerla finché non le offrirà il braccio.
Finché non le domanderà il cuore.
“Immagino che così sarà. Malfoy era livido e non solo perché
Von Kessel gli ha fatto un occhio nero.”
Io non sono Florian, pensa. Non mi accontenterei di
tanto poco.
“Vado a vestirmi,” mormora. “E dovresti farlo anche tu. Non
so chi tu abbia invitato, ma le donne hanno il pessimo vizio di prendere tutto
molto sul serio.”
***
Quando cade la neve, il tempo si ferma; bioccoli ovattati
ingolfano la clessidra della Storia e il rumore del mondo si attenua sino a
svanire.
La neve che cade è un pensiero di morte, un bianco telo che
divora i colori come la maschera di cera che piangi in un’agonia di fiori.
Buck Bello sbadiglia, si gratta la solita pulce
prepotente e trotterella oltre lo spartano ricovero che il Destino gli ha
destinato perché fosse libero – umiliato, ma libero. Cane, ma vivo.
È un’alba bianca, che dei ricordi migliori trattiene un’eco
flebile. Com’era la Yule dei suoi giorni d’oro?
Lontana da casa. Lontana da un sangue puro almeno quanto
maledetto.
È un punto nero nel candore immacolato dell’inverno. È
un’orbita bruciata nell’orgogliosa pianta dei Black.
Almeno sono vivo, pensa. Regulus non ne ha avuto né
modo né tempo.
Raspa il suolo gelato, spruzzando pietrisco e neve.
Indispettito, un passero schiamazza da un ramo scheletrito; ha invaso il suo
territorio e la Natura non è generosa come si crede: la solitudine di un grosso
cane nero non commuove chi combatte ogni giorno per qualche briciola vetrificata
dal gelo.
È Natale, felice Natale! urla una voce sepolta sul fondo
di una memoria che cannibalizza se stessa, alla ricerca di risposte inesistenti.
Perché ci è successo questo?
La Yule che amava non contemplava Regulus, ma James; un
fratello scelto in luogo di uno donato dal sangue. Un fratello mai salvato, come
condannato è stato l’altro.
Non gli ha voluto abbastanza bene.
È arrivato tardi a domandare perdono.
A che serve, poi?
È Natale, felice Natale!
Sono le memorie di una Londra babbana, trapunta di stelle
artificiali, glassata di cristalli e neve di plastica.
La vecchia detestava la bellezza gioiosa del rosso e
dell’oro.
Sirius vi ritrovava i colori della libertà e della scelta.
Il gelo toglie aderenza alle sue zampe, eppure corre, Sirius
– Buck Bello – verso il quieto silenzio di una scuola addormentata.
Tra i denti stringe un dono per Harry; nel cuore rode il
tarlo di una consapevolezza tardiva: a Regulus ha mai donato qualcosa?
Forse solo la convinzione d’essere invisibile.
Ero un fantasma ancor prima di morire, fratello.
Lo so, ma nemmeno questa è vita, piccolo…
Il vento inghiotte il suo latrato e gli restituisce un’eco
che somiglia a un singhiozzo.