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Autore: cupidina 4ever    02/02/2012    1 recensioni
Se le avessero detto che la sua vita avrebbe subito una radicale svolta nell'arco di un anno, non ci avrebbe mai creduto.Le piaceva la tranquillità, l'ordinarietà delle cose e non le avrebbe scambiate per nulla al mondo. Non avrebbe cambiato un solo secondo della sua vita per altro. Un libro aveva la capacità di renderla felice, appagata della vita che conduceva. Una vita pronta a prendere una nuova direzione.
Lei,Demetra, una ragazza universitaria alle prese con una situazione famigliare difficile,rimasta sola nel momento del bisogno, mentre un segreto più grande le logora, piano piano, l'anima, dovrà superare parecchi ostacoli prima di capire quale sia il suo vero posto sulla Terra. Solo Lui riuscirà a darle una mano nell'unico modo che conosce.
Dal 1° e 4° capitolo:
Continuai a camminare, incurante di dove mettevo i piedi – ormai conoscevo quella stradina a memoria – fino a quando, assorta nei miei pensieri, andai a sbattere contro qualcosa di duro, ampio, tenace. Non caddi ma sentii distintamente la presenza avvolgente di qualcosa attorno al mio fianco impedirmi di conoscere in modo ravvicinato il terreno.
Mi scostai, infastidita da quel tocco non desiderato ed incenerii con lo sguardo l’uomo davanti a me, intento a fissarmi con irritazione e scocciatura.
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- Mi spieghi perchè non vuoi farti aiutare, ragazzina? Non mi ci vuole nulla per lasciarti sul ciglio della strada! - sbottò stringendo con forza il volante.
- E allora fallo! Sai che voglia ho di andare a vivere con un vecchio come te.. piuttosto mi faccio rapire da quel tizio.. - ma non riuscii a terminare la frase perchè una mano si posò con violenza sulla mia guancia, voltandomi il viso dall'altra parte. La macchina si era fermata. Temevo per quello che avrebbe potuto farmi: in fondo, per lui, ero solo un peso in più che lo legava, inevitabilmente, ad una storia dove regnava solo la sofferenza.
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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4° Capitolo: Titanium 


“..You shout it loud
But I can’t hear a word you say
I’m talking loud not saying much
I’m criticized but all your bull is brick of shame
You shoot me down, but I get up..”



Odiavo esser presa di sorpresa alle spalle. In ogni occasione. Da piccola rimproveravo Ian quando mi faceva degli scherzi venendomi dietro e spaventandomi a morte, soprattutto quando si metteva a ridacchiare come un pazzo omicida o quando mi soffiava sul collo. Odiavo profondamente quel gesto, tanto da temere ogni volta che mi trovavo in luoghi affollati. Quell’occasione non fu da meno. 

L’agente Hughes mi aveva appena detto di essere incastrata in una storia più grande di me, di non poter vivere nella casa dei miei genitori senza espormi un valido motivo quando sentii una voce, quella voce, che mi ghiacciò sul posto.
  - Io abito vicino all’università. -  mi arrivò alle spalle, incolore, senza alcuna inflessione della voce eppure l’avevo già sentita. E poi quel brivido, una sensazione che avevo avvertito anche il giorno precedente ma a cui non avevo fatto tanto caso. Mi diedi della sciocca. Mi girai con uno scatto, incontrando quelle iridi grigie a me famigliari. La mascella era tesa, quasi quanto la mia, ed il volto, freddo e composto, non rivelava alcuna emozione. Un pezzo di ghiaccio, insomma.
- Vecchio? Cosa ci fai tu qui? Mi pedini, per caso? – sibilai ironica incrociando le braccia sotto il seno e fissandolo sfacciata. Il vecchio in questione si lasciò andare ad una breve risata e mi fissò come si guardavano i bambini quando si facevano male: con pietà.
- Ragazzina, ti piacerebbe,eh? Ma per tua sfortuna io qui dentro ci lavoro. Tu cosa ci fai qui? Guai con la legge già da piccola? – sibilò maligno e ghignando sfacciatamente. Mi prudevano le mani ma frenai ogni istinto violento. Lasciai perdere l’insana voglia di picchiarlo e fargli sparire dalla faccia da schiaffi che si ritrovava quel dannato ghigno. Perché dovevo trovarli solo io i deficienti palloni gonfiati? Non mi bastava Ian che si comportava come un ragazzino quando aveva quasi 24 anni? No. Doveva mettersi in mezzo anche quel biondino della malora! Digrignai i denti, indispettita dal tono di voce del vecchio e lo fissai truce. Perché si trovava lì? Non era mica un poliziotto,vero? Non mi andava di farmi una note in gatta buia solo per il modo in cui avevo risposto nelle due precedenti mattine. Sperai che si fosse dimenticato tutto ma dal suo ghigno maligno capii che non era così e che mi avrebbe fatto pagare la mia insolenza. Tsè. Come se fosse grave! In fondo se lo meritava. Non si trattano in quel modo barbaro le signorine. Non glielo avevano insegnato?
Incrociai le braccia sotto il seno, chiudendomi in un mutismo di protesta nei suoi confronti e dandogli le spalle, sicura di avergli causato una grossa sconfitta al suo immenso ego. Lo avevo visto per pochi minuti in quelle mattine, mi aveva rivolto poche frasi, tutte velenose ed alquanto maleducate e già non potevo sopportarlo. Pregai che l’interrogatorio, perché era ciò che era diventata quella semplice chiacchierata con l’Agente Hughes sulla morte dei miei genitori, terminasse entro pochi minuti, permettendomi così di andarmene a casa. Ah. Ma io non posso tornare a casa.
- Perchè non posso tornare a casa mia? Come figlia legittima dei.. – ma non potei terminare la frase che venni interrotta dall’Agente Hughes, il quale, nel frattempo, si era fatto portare un caffè e lo terminò un secondo dopo, ignorando la lingua scottare al tocco caldo del liquido. Buttò il bicchierino nel cestino, si raddrizzò sulla sedia per poi stendersi sullo schienale, il tutto con estrema lentezza, facendomi infuriare ulteriormente. Perché cazzo non capiscono? Sono in lutto è sono costretta a rimanere qui dentro, con gente sconosciuta, con un vecchio psicopatico che mi prenderebbe a calci solo per il modo in cui l’ho trattato, mi dicono che non posso tornarmene a casa ed ora non mi dicono per quale assurdo motivo? Strinsi le labbra infastidita, ricacciando a fondo gola ogni parolaccia che pensai in quegli attimi. Volevo andarmene, non esser arrestata per oltraggio alle forze dell’ordine.
- Ecco, Signorina, la questione è molto più complicata di quello che pensa. Non c’entra nulla se Lei è o meno figlia naturale dei coniugi Hunt ma il suo non essere economicamente indipendente. Questo causa molti problemi, soprattutto a Lei. – incominciò l’Agente, utilizzando un giro contorto per spiegarmi cosa diamine avevano fatto i miei genitori per impedirmi di ritornare nella vecchia casa. Era o no un mio diritto? In fondo, come aveva detto l’agente stesso, non ero in grado di badare a me stessa economicamente, non con la retta universitaria da pagare entro il mese. I lavoretti che svolgevo nel bar della Signora Moore quando  ne aveva più bisogno non mi garantivano uno stipendio fisso e regolare ma, bensì, in base alla clientela ed alla disponibilità dei suoi dipendenti. Purtroppo con l’orario delle lezioni così ampio, lo stage formativo a breve e la pratica di disegno progettistico, non ero in grado di ritagliarmi un tempo sufficientemente accettabile per svolgere un lavoro nel modo in cui desideravo, impegnandomi a fondo e meritandomi i soldi che avrei percepito. Appunto. Avrei. Lo studio m’impiegava un sacco d’ore, escludendo a priori la possibilità d’incastrare qualcosa di nuovo. Tremai impercettibilmente quando realizzai una cosa: se non potevo vivere nella casa dei miei genitori, avrei dovuto trovare un lavoro per pagarmi l’affitto di un appartamento, ed, in questo modo, togliendo il tempo per studiare quindi.. avrei dovuto abbandonare l’università. Ero andata contro il volere dei miei genitori, alle loro critiche per aver scelto una facoltà, Archeologia con alcuni corso di Letteratura Inglese, che non mi avrebbe permesso di svolgere alcun lavoro, liquidavo ogni discorso in merito ed ora, ritrovandomi da sola ed incapace di badare a me stessa come desideravo, la possibilità di abbandonare la facoltà mi lasciò con l’amaro in bocca. Con tutti i sacrifici che avevo dovuto fare per ottenere un misero risultato..
- No, aspetti. Non intendo lasciare l’università ora che sono vicina a realizzare il mio sogno, chiaro? Ho bisogno di quella casa! Non posso andare a vivere sotto un ponte, Agente! – sibilai con gli occhi ridotti a due piccolo fessure, sperando di commuoverlo in qualche modo e fargli cambiare idea. Purtroppo, dopo quello che mi parve un secolo, scosse il capo e si tolse gli occhiali, sbucati da chissà dove, dal naso, appoggiandoli sulla scrivania. Congiunse le dita tra di loro e mi fissò serio, cercando le parole adatte da rivolgermi. Perfino il vecchio rimaneva in silenzio, probabilmente curioso di sapere come mai fossi uscita con quella frase e cosa diamine ci facessi lì. In realtà me lo continuavo a chiedere anche io quando sarei dovuta esser sul divano di casa, con un fazzoletto in mano, stretta tra le braccia di Ian a piangere la morte dei miei genitori.
Mi voltai appena con il capo, cercando la figura del vecchio: era appoggiato, come in precedenza, allo stipite della porta, con le braccia incrociate da cui guizzavano i muscoli ed il volto rivolto ostinatamente alla mia figura. Dal suo viso, contratto in una smorfia, non potei leggere nulla, neppure la più piccola emozione, eppure,quando feci per voltarmi, notai il mignolo battere spasmodicamente contro la pelle tesa del braccio, un po’ come se fosse la sua valvola di sfogo. Inclinai leggermente il capo, immaginando di prendere il posto del suo arto.. arrossii senza accorgermene. Ma che pensieri mi vengono in mente? Sono in lutto, merda! E poi lui è il vecchio! Nessun pensiero sconveniente sul vecchio! Tornai nella precedente posizione appena in tempo per vedere l’Agente Hughes tirar fuori una cartellina color avorio da un cassetto della scrivania e porgermelo. Lo afferrai titubante, timorosa di trovare la risposta alle mie domande. Lo aprii e scorsi tra i vari fogli, proprio come aveva fatto precedentemente Ian con quei documenti di cui non aveva voluto parlarmi, cercando qualsiasi cosa potesse confermare ciò che continuava a ripetermi l’Agente Hughes.
Rimasi ghiacciata, con la bocca leggermente socchiusa, gli occhi fissi su quelle poche righe e la voglia prorompente di scoppiare a piangere da un minuto all’altro quando trovai un documento di vendita della casa, della mia casa, ad un certo Godwin Butler, risalente a circa 11 anni fa, da quanto attestava la data in basso a sinistra. Quando scoprii che Ian era mio fratello adottivo.
- No.. non può.. no.. – balbettai inorridita, stringendo con forza quel maledetto pezzo di carta mentre la voglia di avere fra le mani quel viscido verme e fargliela pagare per ciò che aveva fatto scorreva nelle vene, offuscandomi la mente. Una lacrima, una sola, scivolò ribelle dal mio occhio destro e percorse l’intero profilo del mio viso. Con un gesto di stizza, feci finta di asciugarmi la fronte mentre speravo che il vecchio non si fosse accorto di nulla. Perché? Come mai avevano venduto la casa? Perché non avevano aspettato la maggiore età di Ian per intestarla a lui? E chi era quell’uomo? Non lo avevo mai sentito..
Un colpo di tosse catturò la mia attenzione, scollegandomi dalle mie riflessioni per puntare le mie iridi verdi sull’uomo davanti a me. Fece un gesto del capo ad un suo collaboratore, intimandogli di avvicinarsi.
- Mi dica, Signore. –
- Agente Black, accompagni la Signorina nell’ufficio dell’Agente Speciale Mason e le dia qualcosa da bere o da mangiare. Faccia quello che le chiede ma.. – e si rivolse a me, alzandosi in piedi ed appoggiando i palmi aperti sul legno per arrivare meglio alla mia altezza – non ha il permesso di muoversi da qui. Nessun gesto avventato, la prego, Signorina. – e mi sorrise triste, leggendomi negli occhi cosa stessi provando in quel momento. Ma chi poteva capirmi in realtà? Solo Ian, forse. In fondo non erano neppure i suoi veri genitori quindi che importanza poteva mai costituire, per lui, la loro morte? Non era sangue del loro sangue, non aveva nessun tratto somatico uguale al mio, non aveva alcun interesse in comune con mio padre o mia madre.. nulla! E se n’era andato senza darmi uno straccio di spiegazione su cosa diamine vi fosse scritto su quei fogli. Nulla. Maledizione! Neppure di mio fratello mi posso fidare? Mi diedi della sciocca un secondo dopo aver pensato tutte quelle cattiverie su di lui: mi aveva vista crescere, diventare una ragazzina e poi prendere le forme di una donna, maturare il mio carattere duro e freddo, aver a che fare con i primi ragazzi. Lui non poteva esser criticato in quel modo, neppure da me, per una stupidaggine. Mi avrebbe detto tutto, ne ero sicura, quando sarebbe stato pronto. Non potevo mettergli fretta per il mio stupido ego e la mia voglia insaziabile di sapere.
Mi alzai, accostandomi all’Agente Black ed, a capo chino, rimuginando ogni momento vissuto quel giorno non ancora concluso, superai il vecchio, sfiorandolo leggermente con la spalla. A quel tocco, involontario da parte mia, sentii una scarica elettrica attraversarmi la spina dorsale ed accendere ogni mia cellula, ogni mio tessuto, organo ed apparato, regalandomi una sensazione di calore e protezione di cui non mi sarei mai stancata di sentire. Una sensazione che desiderai rivivere qualche minuto dopo, quando mi ritrovai da sola nello studio dell’Agente Speciale Mason a girare il cucchiaino nella tazza di thè all’arancia e cannella fumante. Mi sentivo come un granello di zucchero: il suo unico scopo era scomparire.  

                                   
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- Agente Black, accompagni la Signorina nell’ufficio dell’Agente Speciale Mason e le dia qualcosa da bere o da mangiare. Faccia quello che le chiede ma.. – iniziò Algar rivolto alla ragazzina, appoggiandosi alla scrivania per guardarla meglio in faccia. Probabilmente le avrebbe raccomandato di non allontanarsi, di non compiere gesti avventati, di seguire le sue indicazioni alla lettera e, cosa più importante, di non creare problemi agli altri agenti. Tipico di lui! – non ha il permesso di muoversi da qui. Nessun gesto avventato, la prego, Signorina. – terminò con voce pacata. Ghignai divertito e soddisfatto: non sarebbe cambiato mai, neppure ora che sua moglie, Christine, gli aveva detto di esser nuovamente incinta. Non sarebbe cambiato di una virgola.
La ragazzina, da quello che potei vedere dalla mia posizione, si lasciò scappare una lacrima dall’occhio sinistro ma la cancellò velocemente con il dorso della mano facendo finta di togliersi del sudore dalla fronte. La schiena era rigida, perfettamente dritta mentre le gambe, fasciate in un paio di jeans che le sottolineava le forme dei fianchi, tremavano leggermente, toccandosi di tanto in tanto e producendo un sibilo appena udibile ma,comunque, presente. Non compresi a fondo il motivo di tale reazione ma dovetti aspettare che se ne andasse, lasciandomi solo a parlare con Algar.
Quando si sollevò in piedi, notai le sue gambe tremare nuovamente. Allora è un vizio! Fa la dura solo con me, questa? Tenne il capo chino per uscire, tenendosi distante da dove mi trovavo ma quando mi passò accanto sentii distintamente la sua spalla sfiorare delicatamente la mia. In quella frazione di secondi, avvertii una scarica d’eccitazione smuovere le mie membra e socchiudere gli occhi. Come poteva un solo movimento provocarmi tanto scalpore? Diamine! Era solo una ragazzina. Viziata ed immatura, tra l’altro.
Aspettai che andasse nel mio ufficio – imprecai mentalmente verso Algar per averla spedita nel mio mondo, pronto a fargliela pagare nel caso in cui la ragazzina avesse combinato qualche guaio – e mi avvicinai alla scrivania, sedendomi scomposto sulla sedia su cui, poco prima, vi era lei. Avvertii uno strano profumo, di cannella misto a vaniglia, uno strano connubio, pensai in seguito, che mi arrivò dritto alle narici e m’invase i polmoni. Il profumo della ragazzina. Non ne avevo mai sentiti di così..intensi. eppure, ripensando agli incontri delle due mattine precedenti, non avevo avvertito nessun profumo nell’aria.
- Hai sentito anche tu, Kaleb, vero? Questa storia è molto più complicata del previsto, dannazione! Piuttosto.. sai chi è Butler? – mi domandò spiazzandomi mentre sistemava un paio di cartelline davanti al mio naso in modo da poterle esaminare. Butler. E chi non sapeva chi fosse, in quel posto?
Butler rappresentava il demone dei Capi della Sezione, colui che gestiva il traffico di droga dell’intera città e che, negli ultimi anni, si era potuto espandere nelle altre vicine, aumentando a dismisura il suo potere sui piccoli trafficanti e creandoci un sacco di problemi. Anche mio padre, Jack Mason, aveva lavorato al caso ma venne ucciso, con un colpo di pistola proprio da Butler, durante un’azione rivelatasi, in realtà, una trappola per farlo fuori. Quando venni a sapere il tutto, circa 9 anni fa, giurai a me stesso di vendicare la sua morte, di prendere quel maledetto figlio di puttana e ucciderlo nello stesso modo con cui aveva ucciso mio padre. Annuii rigido.
- Uhm.. i genitori della ragazza, circa 11 anni fa, hanno venduto la loro casa a Butler. Ora, tu sai benissimo in che genere di affari è specializzato, cosa fa ogni giorno e il tipo di potere che ormai possiede ma non riesco a capire come diamine possano esser collegati! Non l’ha detto esplicitamente ma, dall’espressione del suo viso, è chiaro che lei non conoscesse quest’uomo. Si aggiunge, anche, la sua totale mancanza di protezione! Butler, se rimetterà piede in quella casa, avanzerà delle pretese da lei, magari anche richiederle di essere la sua puttana personale! No. Non posso permettere che le accada qualcosa del genere, non ad una ragazza che potrebbe esser tranquillamente mia figlia! – sbottò rabbioso, battendo con forza un pugno sul legno della scrivania. Era realmente arrabbiato. Sicuramente si era preso a cuore la causa di quella ragazzina. Non aveva tutti i torti: poteva esser sua figlia! Mi passai una mano tra i capelli, scompigliandoli ulteriormente ed allungai le gambe sotto la scrivania, flettendo i muscoli intorpiditi. Lo star troppo seduto, in quel periodo, mi faceva male.
- Ti capisco, Algar. Ma cosa possiamo fare? Ha già rifiutato di andare a vivere da suo fratello perché è troppo lontano dall’ateneo e non vuole assolutamente lasciare.. – mormorai tamburellando le dita sul legno, escogitando qualche cosa per quella ragazzina. Ma guarda cosa mi tocca fare per una ragazzina maleducata ed ingrata! Se fossi io suo padre, l’avrei già messa in riga da un bel pezzo. Non si parla in questo modo a degli agenti, per lo più se sono dell’FBI! Ma tanto non capisce la gravità della situazione, è palese. A lei interessa solo frequentare l’università! Non le importa dei suoi genitori, della casa, di dove andrà a vivere.. oh no! Non vuole neppure lavorare, la poveretta, perché se no dovrebbe lasciare la facoltà! Cazzo, che nervoso che mi da. Non immagina neanche quello che le potrebbe accadere se finisse nelle mani di quel pezzo di merda. Oh no. Lei non immagina minimamente di cosa è capace di fare Butler. Strinsi nervosamente un lembo dei jeans tra le dita, sperando di placare il nervosismo e la rabbia che si erano impossessati del mio corpo e della mia mente.
Algar sospirò brevemente, aggirando con un solo gesto fluido la scrivania e vi si sedette sopra accanto a me, scrutandomi per alcuni secondi in religioso silenzio. Era come se fosse indeciso sul parlare o meno, se le parole che doveva pronunciare fossero.. quelle sbagliate. Magari c’entrava la ragazzina e non era così sicuro di parlarne con me fino in fondo dopo la dimostrazione d’affetto reciproco che ci eravamo scambiati. Maledetta ragazzina! Pure la fiducia del mio capo ed amico mi fa perdere? Con un gesto della mano lo esortai a parlare.
- Prendila con te. Lo so che ti sto chiedendo molto e che preferiresti donare un rene piuttosto che avere una ragazzina in giro per casa invischiata, indirettamente, nel caso Butler ma.. – iniziò ma non lo lasciai terminare poiché lo sovrastai con la mia voce, la quale risuonò fredda, distante e calcolata in ogni inflessione.
- Va bene. Me ne occuperò io, se ci tieni così tanto, ma pensi davvero che accetterà di venire a vivere a casa mia? Andiamo, Algar! Hai visto come mi ha parlato, come mi ha ignorato bellamente quando mi è passata accanto? Mi odia di già! Secondo me preferirebbe tornare a casa sua e vivere alle dipendenze ed alle perversioni di quel bastardo piuttosto che venire con me.. – mormorai sovrappensiero, immaginando mentalmente la sfuriata che sarebbe conseguita alla rivelazione. Mi venne il mal di testa solo a pensarci. Non sarei riuscito a concludere la giornata in modo pacifico con quella lì alle costole. Odio reciproco, ragazzina. Odio reciproco.
Probabilmente mi aspettavo un cenno di assenso, un qualcosa che mi facesse capire che, anche lui, la pensava come me su quella ragazzina ed il rapporto che avremmo avuto se lei fosse venuta a vivere a casa mia ma non accadde nulla di tutto ciò ma, bensì, scoppiò a ridere. Esattamente. Il silenzio, creatosi per qualche secondo, si spezzò sotto i suoi singulti, provocando il mio sconcerto: cosa diamine c’era da ridere, adesso? Trova divertente la situazione, per caso? Lo fissai ad occhi sgranati, iniziando ad irritarmi sempre di più a mano a mano che passavano i minuti. Quando iniziai a muovere nervosamente il piede sul pavimento e tamburellare con forza le dita sul legno del mobile, parve accorgersi della mia irritazione e cessò, non senza qualche ricaduta intermedia.
- Non te la prendere, Kaleb, se rido ma la situazione è davvero divertente. Ne vedremo delle belle fino a quando rimarrà con te e suo fratello non avanzerà pretese. – e mi scoccò uno sguardo eloquente, prima di andarsene senza lasciarmi il tempo per replicare alla sua battuta. Divertirsi? Con quel peperino tutto lingua ed acido come uno yogurt andato a male? Mah! Se lo diceva lui.
Scossi il capo irritato, avvertendo salire l’emicrania al solo pensiero di ritrovarmi una ragazzina acida, permalosa, con la lingua biforcuta gironzolare per casa, avanzando,addirittura, diritti inesistenti sui miei beni. Con la coda dell’occhio la vidi nel mio ufficio, intenta a trafficare con gli oggetti posti sulla scrivania, toccandoli uno ad uno per poi rimetterli sul legno con una smorfia sul viso. M’irritai all’ennesima smorfia di disgusto così uscii dallo studio di Algar e, con passo deciso, arrivai nel mio, entrando velocemente e richiudendo la porta alle mie spalle, per evitare ascoltatori indesiderati. E perché non volevo che gli altri colleghi, soprattutto quelli più giovani e libertini, la sentissero ed avessero tutta l’intenzione di provarci con lei. La cosa m’irritò ancora di più e non seppi spiegarmi il perché.
Quando avvertì la mia presenza aveva già aperto il cassetto dei numeri: lo potevo vedere dalla sua espressione stupefatta e di disgusto, data dall’elevato numero di telefono che giacevano in quella cassettina e che mai avevo usato. Lo intuì anche  lei dal momento che li tenevo lì alla mercè di tutti, lasciando che chiunque potesse guardarvi dentro e prenderne qualcuno. Non ero affatto geloso delle miei conquiste di una notte, tanto meno se avevo tutta l’intenzione di non rivederle. Qualcosa dal mio migliore amico avevo imparato, ed anche bene, prima che si sposasse e sfornasse una nidiata di cuccioli.
- Uhm.. lo dovevo immaginare che un uomo così vecchio potesse avere simili.. vizi. Funziona ancora il viagra? – sibilò acida, socchiudendo appena le labbra non appena terminò la frase. Capii subito che si era pentita di ciò che aveva detto dal modo in cui si mordicchiò il labbro. Uno strano brivido  mi attraversò la schiena a quella vista. Mi diedi dello sciocco e mi concentrai. Mi aveva dato veramente del vecchio? Trattenni a stento la voglia di buttarla fuori a calci ed insegnarle l’educazione nel campo d’addestramento lì vicino, costringendola a sopportare torture fisiche e psicologiche degne di un marines. Ne aveva proprio bisogno, quella mocciosa. Ghignai lievemente, nascondendomi  alla sua vista con una cartellina che raccattai dalla mia scrivania.
- Funziona ancora il cervello, mocciosa? Non vorrei che tutta questa acidità abbia disciolto il criceto che avevi in testa.. – sibilai ghignando, appoggiando con la spalla allo stipite della porta e guardandola in cagnesco. Non avrei mai e poi mai retto una convivenza forzata con lei, poco ma sicuro! Ne sarei uscito pazzo, avvilito, senza forze, completamente distrutto..e tutto per una mocciosa acida e maleducata! Se non fosse stato il mio superiore, l’avrei rifilata ad Algar. Volevo vederlo io, con quella peste maledetta. Mi staccai dallo stipite, mi avvicinai all’attaccapanni, facendo finta di non vedere l’improvviso irrigidimento della ragazzina e il suo passo indietro, presi il cappotto e lo infilai. Agguantai sotto i suoi occhi le chiavi della macchina ed uscii dal mio ufficio. Sospirai estasiato quando non la sentii seguirmi ma quasi mi strozzai quando la sentii correre per il corridoio, inseguendomi mentre gridava un “Ehi vecchio! Aspettami!”. Strinsi il pugno e feci finta di nulla, arrivando la macchina.
Che lunga giornata mi si prospettava, e non solo per quel giorno.     
           
       
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Caldo.
Soddisfazione.
Oscillò, tra le dita corte e tozze adornate di anelli, il bicchiere di cristallo ricolmo di vino rosso,osservando il moto che compiva il liquido al suo interno. Ripensò fugacemente, con un ghigno tirato sul volto, agli anni in cui era in marina, quando la disciplina e il duro lavoro l’avevano forgiato dal nulla, trasformandolo con il passare degli anni nell’uomo in cui era. L’uomo che aveva sognato di diventare. Ciò che suo padre odiava e che disonorava con le sue luride parole da conservatore.
Ma ora. In quel momento poteva decidere liberamente, senza sentirsi oppresso da decisioni superiori e da persone inette e senza cervello come l’uomo che lo aveva messo al mondo. Non aveva la benché minima intenzione di diventare come lui ma,bensì, di costruirsi una sua vita, la capacità di scegliere del proprio essere e del proprio futuro.
Scosse leggermente il liquido, ghignando placidamente alla vista del suo riflesso, riconoscendo in esso un diavolo, un peccatore consapevole di ciò che fa. E che ne va fiero. Sogghignava tra se e se al pensiero di ciò che aveva fatto a quei due uomini, rendendoli polvere, un ammasso di carne indefinita ed indegna di continuare a vivere un esistenza segnata dall’ipocrisia e dalla menzogna. Li aveva dato fastidio vederli sorridenti, soddisfatti di ciò che avevano realizzato durante la loro vita perciò, in uno scatto d’ira e d’invidia nera, decise di render loro la degna fine per quegli anni subdoli ed assolutamente inutili, durante i quali avevano apportato solo tanfo e sporcizia al mondo. Inutili, in poche parole.
Ed ora poteva ripiegare tutto il suo odio, la sua rabbia, la sua amarezza e la sua infinita vendetta verso quella creatura dalle forme gentili, distinguibili sotto gli abiti e di cui, senza vergognarsene, aveva speso tempo a immaginarle sotto al tatto. Al solo pensiero gli veniva duro.  Ringhiò e ringraziò di esser un uomo di pazienza, e generoso; se fosse stato come Gustav, suo braccio destro, l’avrebbe già presa e resa sua schiava di sesso fino a quando non si sarebbe stufato. Oh, ma lui non si sarebbe mai stufato, di quella piccola creatura.
Da troppi anni bramava di poterla toccare, baciare, sfiorare, venerare, profanare con il suo corpo, renderla la degna compagna di un uomo come lui. Averla al suo fianco nei momenti difficili ed importanti per poi sprofondare nel suo centro caldo e stretto ogni qualvolta ne avesse voluta voglia. E lui, di voglia, ne aveva. Anche tanta, di lei.
Con un ringhio trattenuto a fondo gola, si scolò il restante vino, appoggiò il bicchiere al tavolino e prese ad accarezzarsi sopra alla stoffa dei pantaloni per trovare un minimo di sollievo.
Mentre trovava la soddisfazione che tanto agognava, il suo pensiero ricorreva sempre a lei. A lei, la maledetta.   


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La musica si propagò all’interno dell’abitacolo, spezzando quel silenzio che,ormai, regnava da dieci minuti buoni.
All’inizio non sembrava così opprimente ma, nell’arco di pochi minuti, si trasformò in nervosismo ed irritazione, soprattutto da parte del vecchio che, con aria corrucciata e nervosa, tamburellava con forza sul volante.
  Lo osservai di sottecchi, indugiando qualche secondo di troppo sulla mascella forte e contratta in una morsa d’acciaio, su cui la barba incolta di qualche giorno la faceva da padrone. Un brivido di apprezzamento mi attraversò la schiena, facendomi sussultare sul sedile. Adoravo, la barba, in un uomo. Era così.. erotica. Non provai a spostare lo sguardo nello specchietto, col timore di vedermi rossa per l’imbarazzo di quei pensieri. Accidenti! La Signora Moore ed i suoi pettegolezzi sulla vita coniugale che aveva avuto col suo defunto marito mi avevano annebbiato il cervello. E tutto pensando a quel vecchio. Mi spaventai dei miei stessi istinti.
Spostai lo sguardo sulle mie mani, aggrovigliate nella borsa che tenevo sulle ginocchia, leggermente rosse per via del caldo presente nell’abitacolo. Magari ha freddo. Non osai chiedergli di abbassarlo, ma sopportai in silenzio, permettendomi solo di allentare un bottone della giacca, e mi sistemai meglio sul sedile, allontanandomi il più possibile da lui.
Lui, il vecchio. Non sapevo neppure come si chiamava mentre di me, mentre ero in quell’ufficio di un certo Kaleb Mason, sapeva già tutto! Odiavo quella situazione, in tutti i suoi aspetti.
- Come ti chiami, vecchio? – le parole mi uscirono di bocca prima che potessi accorgermene. Sgranai gli occhi e mi portai l’indice sulle labbra, facendo per tenerle chiuse ma il suo sguardo, posatosi su di me, bloccò il mio tentativo e lasciando il braccio sospeso per aria. Alla fine lo appoggiai, tremante, sulla gamba.
- E’ così che ti hanno insegnato l’educazione? Mi complimento per l’ottimo successo dei risultati. – mi schernì, soffiandomi in faccia il suo respiro caldo. Repressi la voglia di schiaffeggiarlo con tutta la forza di cui disponevo solo perché guidava e non avevo voglia di morire.
Morire. Solo in quel preciso istante mi accorsi della fatalità del caso: i miei genitori erano morti, uccisi da un perfetto sconosciuto che si era rivelato il proprietario della casa in cui vivevo fino a quella mattina; l’uomo con cui ero in macchina era lo stesso con cui mi ero scontrata le mattine precedenti ed ora aveva il compito di vegliare su di me fino al momento in cui non mi fossi resa sufficientemente indipendente economicamente; Ian non mi rivolgeva più la parola per la storia dell’adozione e,come ciliegina sulla torta, avevo il vago presentimento di esser seguita da qualcuno, di esser sotto controllo. Come se fossi spiata. Magnifico!
- Se il tuo compito è quello di deridermi, insultarmi e infangare la memoria dei miei genitori.. bè.. puoi anche accostare e farmi scendere perché non ho la benché minima intenzione di starti ad ascoltare! – sibilai incavolata, stringendo gli occhi in due strette fessure e mettendolo bene a fuoco. Che peccato che fosse così stronzo perchè il suo corpo non era affatto da buttare.  Se solo lo avessi conosciuto in una situazione differente, magari..
No! Niente pensieri strani su questo maleducato che sa solo offendere persone non più in vita. Non meritava nulla da me se non il mio disprezzo più profondo.    
- Mi spieghi perchè non vuoi farti aiutare, ragazzina? Non mi ci vuole nulla per lasciarti sul ciglio della strada! - sbottò stringendo con forza il volante.
- E allora fallo! Sai che voglia ho di andare a vivere con un vecchio come te.. piuttosto mi faccio rapire da quel tizio.. - ma non riuscii a terminare la frase perchè una mano si posò con violenza sulla mia guancia, voltandomi il viso dall'altra parte. La macchina si era fermata.
- Zitta! Finchè starai con me, e ti assicuro che sarà per un bel po’ di tempo, commando io, chiaro?  Non mi rende felice averti tra i piedi, che sia chiaro, ma non ti lascerò nelle mani di quel maledetto porco, né adesso né domani. – sibilò con rabbia ad un palmo dal mio viso, fissandomi con i suoi occhi grigi per un tempo che, mi parve, infinito. Si allontanò da me, continuando a guardarmi truce, per ritornare al suo sedile. Riaccese la macchina, strinse duramente il volante tra le dita e s’infilò nel traffico. Per il resto del tragitto fino a casa sua, che scoprii essere distante solo 1 km dall’ateneo, rimasi in silenzio, stringendomi tra le braccia, come a volermi proteggere da qualcosa d’invisibile, e con la schiena premuta al massimo contro il sedile, timorosa di poter ricevere un nuovo attacco da lui.
Nell’arco di venti minuti arrivammo a casa sua. Non mi aiutò a scendere, tanto meno mi tenne la porta aperta per entrare: mi indicò con il capo quale sarebbe stata la mia stanza e se ne andò, lasciandomi da sola nel corridoio. Con stizza, entrai nella camera, buttai la borsa per terra e mi fiondai sul letto, molto più grande di quello che avevo prima, e mi addormentai nell’arco di cinque minuti.
Quella notte non sognai nulla.
Solo incubi, per me.     


“..Cut me down
But is you who had offered there to fall
Ghost town, haunted love
Raise your voice, sticks and stones may break my bones
I’m talking loud not saying much..”


Testo della canzone: David Guetta & Sia - Titanium

   
 
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