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Autore: Fair_Ophelia    09/02/2012    4 recensioni
Dopo la caduta di Galbatorix, un altro pericolo incombe su Alagaësia e soprattutto su Nasuada: un nemico che silenziosamente stringe intorno a lei la sua rete, separandola dai suoi alleati. Riuscirà a liberarsi dal suo aguzzino e a sciogliere i nodi di questa intricata matassa, alla scoperta del vero essere del Waìse Néiat? Scopritelo con me attraverso un viaggio pieno d'azione e romanticismo... Spero che diate almeno un'occhiatina :)
Genere: Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Murtagh, Nasuada, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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2-CASTELLO IN COLLINA

Saphira faceva acrobazie nel cielo.
Il vento la sfidava: sfidava le sue ali, membrane filigranate da vene sempre pulsanti, sfidava i suoi muscoli massicci e gli occhi, che le bruciavano, e sfidava le sue fauci spalancate da cui penzolava la lingua.
Era un vento davvero forte, che aveva portato con sé nuvoloni grigi i quali ben presto avrebbero scatenato la loro ira.
Con una scrollata del capo scacciò tutte le sensazioni fisiche spiacevoli: una corrente debole come quella non l’avrebbe indebolita, si disse. Inoltre Eragon, il suo compagno per la vita, la stava guardando e non si sarebbe mai permessa di farsi commiserare da lui. Riprese a volteggiare noncurante della fatica, dicendogli:
Gustati questa: è nuova, l’ho inventata giusto ieri. Si chiama ritorno serrato.
Nome artistico... Fa’ vedere. Eragon era impressionato da ciò che era riuscita a fare Saphira fino ad allora, e ancor di più dai nomi di cui investiva le sue contorsioni aeree. L’ultima, un cerchio in cielo effettuato mentre ruotava su se stessa, aveva il nome di “nastro”, perché ricordava uno dei nastri turchesi che le zingare usavano mostrare nei loro spettacoli tra le vie cittadine. Distolse la mente da quel ricordo e si concentrò sullo spettacolo che gli si offriva in cielo: la dragonessa stava richiudendo le ali per poi lanciarsi in picchiata a testa in giù, simile ad uno dei fulmini azzurrini che di rado solcavano il cielo in quel pomeriggio di maggio, messaggeri del temporale che presto si sarebbe scatenato. D’un tratto ripiegò la testa verso l’alto, tenendola vicinissima al collo, e lasciò che il resto del corpo la seguisse, tracciando una stretta U. Il fisico maestoso era reso blu scuro dalla mancanza di luce e si stagliava debolmente sullo sfondo grigio. Il Cavaliere non era abituato a non vedere le squame di Saphira rilucere, ma questo non toglieva spettacolarità all’incredibile acrobazia; anzi, se possibile la rendeva ancor più eccezionale e, per un certo verso, selvaggia.
Che te ne pare?
Sono senza parole, è meraviglioso! Hai davvero superato te stessa!
si entusiasmò lui.
Troppo gentile... Si può sempre migliorare. Alla fine esercizio la coda non ha seguito il resto del corpo. Ma quella frase non bastò a dissipare l’enorme orgoglio che provava, trasfuso dal loro legame mentale.
Non mentire...
Un tuono rimbombò in cielo e interruppe le parole del Cavaliere. Subito dopo iniziò a piovigginare: le gocce minute s’infiltrarono a poco a poco tra i fili di làmarae e a segnare scie sulla sua pelle. Saphira, per oggi basta....
Hai ragione,
concordò lei. Ma non perché sono stanca.
Gli scappò un sorriso bieco. E chi ti sta accusando di essere stanca? O hai la coda di paglia?
Lei lo fissò truce dall’alto. Ne riparliamo quando arrivo.
Il giovane non poté fare a meno di continuare a sorridere. Saphira non avrebbe mai ammesso la sconfitta, fosse essa ad opera di nemici o elementi naturali; piuttosto avrebbe inventato la scusa più improbabile di tutta Alagaësia... e anche oltre, visto che ora non si trovavano più nella terra natia.
Intanto la vide iniziare la sua discesa: ad un quarto di miglio dal suolo, però, un draghetto argenteo le venne incontro arrancando tra le folate di vento, ruggendo al massimo delle sue possibilità, cioè in modo che lei neanche lo sentì.
Tamen! Torna subito al nido! É pericoloso!
Ma io...
“Ma” cosa? Zitto e obbedisci!

Dopo un istante passato nel difficile tentativo di non perdere il controllo, Tamen se ne tornò mesto dai compagni di cova, sballottato da un lato all’altro dalle correnti. Gli altri lo aspettavano: alcuni pigolavano ancora, altri già ruggivano. Lui era il più grande.
Quel presuntuoso farà meglio ad abbassare le punte cervicali. Saphira aveva appena terminato la discesa ed era entrata nella stanza che lei ed Eragon condividevano. Quando lui la raggiunse, si scrollò le gocce di dosso, bagnandolo.
Ehi!, fece lui, cercando invano di ripararsi con le braccia.
Te l’avevo detto che te la facevo pagare, quella frecciatina.
Lasciamo stare... Comunque, riprendendo il discorso... Tamen ha appena tre mesi e si crede una leggenda, solo perché è il primo drago selvatico nato dopo il dominio di Galbatorix. Magari si fa anche il galletto coi più piccoli.  Hai ragione, devi metterlo in punizione.

Delle duecentodiciassette uova di drago selvatiche se n’erano schiuse già una cinquantina nel giro di due mesi. Nell’ultimo mese invece quella continua nascita aveva subito una battuta d’arresto, ed Eragon si era chiesto il perché.
I draghi sono sensibili al mondo esterno. Avranno avvertito che sarebbero stati troppi da allevare per noi, se ne fossero nati altri, e ci sono venuti in aiuto, aveva detto Saphira, fugando ogni suo dubbio. Dopotutto, se non lo sapeva lei, che era un drago... A suo parere comunque anche cinquanta erano troppi; la dragonessa aveva badato loro come una madre, ed era soddisfatta del risultato ottenuto, ma il compito la stancava oltremodo. “Badare a cinquantuno cuccioli di drago”, gli aveva detto il giorno prima, “è più stancante di combattere con l’armatura che mi hanno regalato i nani schiacciata all’interno, come mi era successo per quel maledetto Urgali nella battaglia del Farthen Dûr,  non so se ricordi”. Eccome ,se ricordava.
Con un sospiro si sedette sul letto e si guardò allo specchio: dei suoi tratti umani rimaneva ben poco, solo il viso leggermente più largo e gli occhi non esageratamente obliqui. Se all’inizio aveva accettato i cambiamenti dell’Agaetì Blödhren, ora non più,  perché gli stavano togliendo definitivamente il passato. Non credeva che sarebbe cambiato così celermente. Tempo un anno o due, e sarebbe stato completamente elfo. Un’altra prova che non era più il ragazzino di Carvahall, e che quella strada era persa per sempre. Il pensiero gli provocò un brivido inaspettato, che gli attraversò la schiena fino al collo.
Non incupirti, piccolo mio; non sarai mai completamente elfo dentro.
E chi può dirlo? Tra un po’ potrei iniziare a parlare anch’io per enigmi!

Lei esalò dalle narici una nuvoletta di fumo che uscì dalla finestra aperta. Non essere sciocco. Non te lo permetterei mai. Non ti fidi del mio istinto? Se volevo un Cavaliere elfo, allora me ne sceglievo direttamente uno, non mi sarei di certo schiusa davanti a te. Il tuo wyrda non è diventare elfo, me lo sento nel sangue, e se non ti fidi neanche di me, allora non solo sei elfo, ma sei anche un ben misero Cavaliere. E ora basta rammaricarsi. Non sei davanti allo specchio per fare il vanitoso. Il suo tono si addolcì. Mi prometti che non penserai più una cosa del genere?
Sì... Grazie.
Lei lo leccò su una guancia.
Eragon le sorrise e in cuor suo la ringraziò di esistere, poi tornò coi piedi per terra. Da quando lui, Saphira e altri otto elfi si erano stabiliti lì, aveva deciso che un giorno al mese avrebbe parlato con i suoi amici di Alagaësia, e per maggio quel giorno era arrivato. Era infatti la metà del mese, nonostante la pioggia ricordasse maggiormente ottobre.
Dunque...
Levò una mano e disse:-Dramr kòpa un atra eka hòrna-, aggiungendo una modifica che gli avrebbe permesso anche di parlare con la persona divinata: Nasuada. Dopo un istante di tenebra, lo specchio gli mostrò una scena alquanto strana: lei che reggeva un calice in mano e osservava un punto lontano con sguardo vacuo e leggermente melanconico, la veste sforacchiata lungo le cosce, e il gatto mannaro che viveva con lei, zuppo d’idromele, che la guardava di traverso. La regina si accorse di lui e lo salutò. Aveva abilmente nascosto la tristezza di poco prima sotto una perfetta maschera di affabilità. Il ragazzo era stato uno dei pochi, forse l’unico, ad intuire la mossa che la regina utilizzava per celare i suoi veri sentimenti dalla nascita dell’Impero, ma non ne avevano mai parlato apertamente.
-Qual buon vento, Eragon! Ciao, Saphira! Che piacere vederti!-
Eragon si girò a sinistra e notò con sorpresa che la dragonessa si era accucciata dietro di lui e aveva poggiato la testa sul letto, al suo fianco. Le posò una mano sul muso e lei gli fece un occhiolino, oscurando per un secondo l’occhio brillante come un lapislazzuli.
Dille che anche per me è un piacere rivederla.
Eragon ripeté le sue parole. –Anche lì piove?-
-No, non ancora, ma pare che si avvicini una brutta perturbazione... Allora, si sono schiuse altre uova? Com’è fare la balia ai draghi?-
E così lui le iniziò a fornirle dettagli sulla crescita dei cuccioli, mentre lei quelli sulle rivolte a Dras-Leona e Gil’ead. –Sai, senza un cavaliere è più difficile gestire il regno... E Arya sta già facendo il possibile per tutti. É abile, certo, ma non è ancor molto esperta, in particolare sui legami tra drago e Cavaliere, tant’è vero che mi ha parlato della possibilità di venire da voi per completare il suo addestramento... Il suo e quello di Fìrnen. Ma sono sicura che di questo vorrete parlare in privato.-
Nasuada non poteva sapere quanto in cuor suo il Cavaliere stesse gioendo a quella notizia. Cercò di trattenere l’entusiasmo, ma non poté impedire che un largo sorriso gli illuminasse il volto. Saphira invece non si trattenne: alzò la testa e ruggì di gioia, sputando una fiammella azzurra che fortunatamente non intaccò il soffitto.
-Certo... Certo, mia signora-fece lui, leggermente confuso.
Nasuada sorrise. –Ora vi saluto, ho...-
-Aspetta!- Lei gli rivolse uno sguardo interrogativo. -Vorrei parlare con Angela, Solembum e Jeod... E anche Elva, se le farà piacere.
-Certo. Li chiamerò personalmente.-
-Grazie. Salutami re Orrin, e abbi cura di te.-
-Che la vostra spada resti affilata.-
La regina uscì dalla sua visuale. Poco dopo, quattro persone fecero il loro ingresso nella sala. Solembum aveva assunto le sue sembianze umane. Angela lo salutò per prima, con la solita enfasi: -Ehilà, Eragon! Ti sono cresciuti i capelli! Adesso sembri un selvaggio! Ciao, Saphira, ti trovo in forma... Tu conservi sempre la stessa eleganza.-
Eragon poté percepire l’enorme piacere della dragonessa a quel complimento. Dille che la trovo più in forma che  mai.  Lui riferì.
-Anche Solembum ha un’ottima cera...-
-Già, i tendini di cane pastore in salmì marinati nella limonata sono un toccasana per la lucentezza del suo pelo.- Come per dimostrare il sapore e l’efficacia della pietanza, il gatto drizzò la pelliccia sulla schiena, soffiando.
Dopo aver chiacchierato un altro paio di minuti con i due e aver scambiato qualche battuta con Elva, Eragon li vide congedarsi. A Jeod doveva raccontare tutte le sue avventure, perché non lo rivedeva dal giorno sua partenza, perciò gli volle parlare in privato.
Quando la porta si chiuse dietro i tre, l’uomo esordì, accarezzandosi la cicatrice sulla fronte:-Allora, Eragon, immagino che tu voglia raccontarmi del tuo viaggio... Sono curioso.-
Il ragazzo iniziò a narrare. -Dopo aver abbandonato Hedarth, abbiamo navigato per un mese lungo il fiume Edda. Non abbiamo esplorato il territorio circostante, a dire il vero, perché volevamo procedere più spediti possibile; dopo una settimana siamo entrati in una foresta. Suppongo che sia una propaggine della Du Weldenvarden, perché è costituita interamente da pini, e espandendo la mente ho avvertito qualche filamento di coscienza dell’albero di Menoa.-
L’uomo lo ascoltava, interessato.
-Il viaggio è proseguito così, per altre tre settimane, finché il fiume non si è allargato in un lago grande come quello di Leona, a grandi linee. Il corso proseguiva, ma noi ci siamo fermati lì perché abbiamo visto una collina incantevole,e ci è parso il posto migliore in cui stabilirci. Lì... qui... abbiamo costruito un castello per noi due e gli otto elfi che ci hanno seguito. Due hanno voluto proseguire, esplorare il mondo.-
Jeod non poteva comprendere con quelle poche, sterili parole, il dispiacere che gli aveva provocato la partenza di Blödhgarm e Yaela. Si erano separati il giorno dopo l’attracco definitivo della nave, avvenuto in un tardo pomeriggio estivo. “Blödhgarm, ma perché...”  aveva tentato di dire lui. L’elfo-lupo lo aveva interrotto alzando le spalle con noncuranza. “Ho voglia di nuove avventure, di scoprire nuovi animali... Questa forma di lupo mi sta seriamente cominciando a stancare. Addio, Ammazzaspettri... Ammazzatiranni”, aveva concluso lui, con uno scintillio delle zanne ferine quando gli aveva sorriso. Erano le ultime parole che gli aveva rivolto. Si disse che in seguito avrebbe contattato anche lui.
-Abbiamo impiegato sei mesi per costruire il castello; la zona è ricca di marmo, l’abbiamo estratto dal suolo con la magia e con questa roccia abbiamo costruito gran parte del palazzo. Ti piacerebbe vederlo.-
-Oh sì, dev’essere un vero splendore.- aveva concordato lui, gli occhi sognanti.
-E tre mesi fa è nato il primo drago selvatico, seguito da altri cinquanta nel giro di due mesi.-
Lo sguardo dell’uomo s’illuminò ancor di più. –Davvero!-
-Già. ma da un mese a questa parte non ne nascono più... E noi non ci lamentiamo. Crescerne cinquantuno è già abbastanza faticoso.- Saphira, affianco a sé, borbottò il suo assenso. –Come va la stesura del compendio che volevi scrivere sulle nostre avventure?-
-Bene, l’ho terminato già da un po’... Un giorno mi metterò in viaggio e raggiungerò il monastero, così potrò aggiungerlo al Domia abr Wyrda.-
Per Eragon era un vero onore che il suo nome comparisse nel famoso libro di Heslant il Monaco. Scambiò pochi altri convenevoli con lui e si salutarono.
 Il ragazzo sciolse l’incantesimo e si preparò a riformularlo per divinare, questa volta, Roran. Lo trovò seduto in quella che era la sua “sala del trono”, molto simile a quella di Nasuada. Era una stanza di medie dimensioni, arredata sobriamente: una sedia di noce imbottita dietro ad un tavolo dello stesso tipo di legno, altre sedie uguali alla precedente appoggiate alle pareti, un piccolo tappeto al centro e ritratti e pergamene appesi ai muri. Uno era un fairth che raffigurava lui e suo cugino pochi giorni prima che lasciasse Alagaësia; l’aveva fatto Arya, e lui ne conservava una copia.
Il cugino e la consorte stavano bevendo un tè, mentre Ismira sgambettava da una parte all’altra della stanza. –Eragon, Saphira! Ciao!- li salutarono i due coniugi. Da loro, Eragon apprese solo che la ricostruzione di Carvahall era quasi stata ultimata e che Ismira aveva iniziato a parlare, ma si trattenne a lungo, godendo della loro compagnia.
In seguito contattò Orik. Sebbene gli sarebbe piaciuto intrattenersi a lungo anche con lui, gli affari di Stato lo chiamavano, quindi lo vide congedarsi frettolosamente dicendo:-Tra pochi minuti inizia il Conclave dei grimstborith, Eragon, e alcuni hanno già il sangue che ribolle nelle vene, senza che lo riscaldi ulteriormente, barzûl... Stammi bene.- Il Cavaliere non avrebbe mai sospettato che il nano fosse tra gli amici che gli sarebbero mancati maggiormente, eppure era così:  forse era per il fatto che lui riusciva a tirargli fuori il lato più umano, quello di cui, in quel momento, sentiva la mancanza. Dopo Murtagh e Roran, era l’amico di cui poteva fidarsi di più.
Quando provò a divinare Blödhgarm e Yaela, con suo disappunto vide solo buio.
Forse hanno lo specchio in uno zaino e non si sono accorti del flusso di magia, suggerì Saphira, allungando il collo per annusare il bordo dello specchio.
Allora come faccio a contattarli?
Semplice, non lo fai. Ci proverai il mese prossimo.

Al Cavaliere dispiacque, ma convenne con lei che era la soluzione migliore: se avessero insistito avrebbero impiegato più tempo cercando di richiamare la loro attenzione che non per parlare.
Quando concluse che era il momento di divinare la persona successiva, nonché l’ultima del suo lungo giro, rimase sovrappensiero per lunghi minuti, fissando il riflesso dell’angolo del letto nello specchio. Se esteriormente apparisse apatico, però, al suo interno ribolliva, come una borraccia di ferro che conteneva faelnirv.
La pioggia tamburellava sul pavimento marmoreo del balcone, accompagnata ogni tanto dal borbottio burbero di un tuono in lontananza. Nell’animo del Cavaliere i suoni esterni riecheggiavano fino ad ingrandirsi a dismisura, come se avessero voluto riempire il vuoto che la separazione da lei gli aveva causato. Parlare una volta al mese per pochi minuti, spesso e volentieri assistiti dai nobili elfici, non gli bastava.
Dai, muoviti, fece Saphira dandogli un colpetto col muso. Ho voglia di rivedere Fìrnen.
Lui sospirò. Era arrivato il momento che più aspettava e temeva. Parlare con Arya.
Gli altri mesi non l’hai fatta così tragica, osservò lei.
Già, ma se non ricordi male l’ultima volta le ho praticamente detto in faccia che si deve affrettare a raggiungermi perché non ce la faccio più!
Quante storie... Lei hai dichiarato amore eterno in faccia e ti disperi per così poco! Secondo me ha esagerato lei, dopotutto sa cosa provi e non si doveva stupire del fatto che non fossi riuscito a contenerti.

Forse, ma resta il fatto che è arrabbiata a morte con me... Ha sciolto l’incantesimo di divinazione subito dopo! Non si è neanche degnata di parlarmi! Eragon rabbrividì al ricordo del suo viso incollerito e del bagliore dello specchio che, una volta scomparso, l’aveva portato a contemplare il proprio riflesso, là dove prima si stagliava la figura dell’elfa.
Chiedile scusa, come...
Ormai si sarà stancata delle mie scuse, 
la interruppe lui.
...come le altre volte e gira pagina. Non puoi fare nient’altro, concluse lei imperterrita.
Eragon sospirò ancora una volta, sentendo quasi l’anima che lo abbandonava fuggendo attraverso le labbra, poi raddrizzò le spalle e disse: Hai ragione. Compiangersi non serve a nulla. Mi guadagnerò il suo perdono.
Bravo, così ti voglio. Ma ora muoviti.

Il ragazzo si alzò in piedi, pronunciò le parole magiche e dopo qualche istante si ritrovò a fissare i rami fronzuti di un pino del palazzo di Tialdarì. Al contrario di quello degli altri reggenti, lo specchio di Arya non si trovava in una sala, bensì in una angolo del giardino del palazzo reale. Un elfo che passava di lì notò la luce, si avvicinò e salutò il drago e il Cavaliere con la consueta formula, cui i due risposero. Poi andò a cercare Arya.
Passarono una decina di minuti, minuti in cui Eragon non poté impedirsi di pensare alla bella elfa, anche se gli faceva male. Si sentì il cuore martellare nel petto come se si trovasse in una gabbia di artigli di drago e lottasse per uscire. Percepiva ancora la soggezione in cui lo metteva il suo sguardo smeraldino fisso, le dita affusolate che cercavano le sue o gli accarezzavano la guancia, il profumo di aghi di pino quelle poche volte che lo aveva abbracciato, rendendolo l’uomo più felice di tutta Alagaësia, le labbra che gli avevano sfiorato la fronte in un ultimo saluto, un anno prima. Nonostante sapesse quanto l’equilibrio fra di loro fosse fragile come il filo di una ragnatela, e quanto lei tenesse ancora a Faölin, ancora troppo per potersi dedicare a qualcun altro, l’ultima volta non aveva saputo trattenersi e le aveva rivolto quella domanda imbarazzante. Gli sembrava di essere tornato ai tempi dell’addestramento con Oromis, quando il suo fairth l’aveva sconvolta. Non avrebbe mai voluto essere la causa di tanto gelo e rabbia repressa sul suo volto.
Se lui stava male per Arya, però, Saphira nascondeva una disperazione maggiore per la separazione da Fìrnen: riusciva a celare il suo dolore solo grazie alla sua grande forza di volontà e all’orgoglio che le impediva di manifestare lo scoramento. Eragon se ne accorse solo mesi dopo la loro partenza, e quando lo scoprì si sentì debole ed egoista per aver pensato che lei riusciva a nascondere perfettamente tanto dolore mentre lui si lamentava di continuo. Come era successo a Linnëa, il destino le “aveva dato un assaggio della pienezza della vita, per poi negargliela”, usando le parole di Arya: Saphira si era sempre creduta l’unica femmina di una specie destinata all’estinzione, aveva trovato il compagno adatto e prima di poterne gioire era stata costretta  ad abbandonarlo. C’era una differenza tra lei e l’elfa, però: lei era ricambiata e sperava prima o poi di rivedere Fìrnen. Era strano, pensò il Cavaliere, che i due fossero così legati; i draghi cambiavano più volte compagno nella loro vita e senza troppi preamboli, ma sentiva che se anche la dragonessa in futuro avesse avuto uno stuolo di corteggiatori, li avrebbe rifiutati a uno a uno in favore del drago verde.
Uno scalpiccio proveniente dallo specchio lo distolse dalle sue constatazioni: finalmente apparve Arya. Indossava una tunica ruggine, nascosta in parte da un corpetto color sabbia. Una sottile cintura di cuoio dei nani, in cui era infilato un pugnale di fattura elfica, le cingeva i fianchi. I capelli sciolti accentuavano la luminosità degli occhi verdi.
Non parlò: voleva che la onorasse iniziando lui il saluto, comprese.
-Atra esternì ono thelduin, Arya Dröttning- fece lui portandosi indice e medio alle labbra.
-Un du evarìnya ono varda, Eragon-vodhr- rispose lei ripetendo il gesto. Il sopracciglio inarcato e gli occhi che sprizzavano scintille erano segnale palese che era ancora arrabbiata con lui.
Prima che potesse iniziare a parlare, però, la anticipò: -Arya, perdonami, non ho saputo controllarmi. Sai come sono, e quanto sia difficile per me contenermi, ma ti prometto che non accadrà più.-
-Mi avevi già promesso che avresti frenato i tuoi sentimenti... Evidentemente non sei un uomo di parola.-
-Io ho cercato, però...-
-Però la prossima volta riuscirai.- Il suo sguardo si posò su Saphira e il suo atteggiamento si addolcì: -Ciao. È bello rivederti.
Dille che anch’io sono felice di rivederla, e che ti meriti il suo perdono.
Lui la fissò incredulo. Non credi che così penserebbe che te l’ho fatto dire io?
Arya sa che non sono un cagnolino ai tuoi comandi.

-Dice che anche  lei è felice di rivederti... e...- prese fiato-vuole anche lei che mi perdoni.-
L’elfa chiuse gli occhi per pochi secondi, un sospiro malcelato che le dilatò le narici. Quando li riaprì, la collera era scomparsa;  rimaneva solo la sua austerità formale. –L’ho già fatto.-
Un sollievo indescrivibile pervase il Cavaliere e lo fece sentire leggero come un soffio di vento. -Grazie, Arya.-
Lei rispose con un lento cenno del capo, ma soprattutto con un sorriso: sulle sue labbra Eragon vide splendere dolcezza pura, e solo lui poteva vederlo. –Nasuada ti avrà già parlato della mia... della nostra.... intenzione di raggiungerti, qualche volta. Io e Fìrnen non siamo esperti come pensi, non conosciamo tutti i segreti dei Cavalieri... Prima di poter addestrare, dovremo essere noi i primi ad essere addestrati. Ma vorrei prima aspettare che si schiuda almeno un uovo.-
A lui andava benissimo. –Capisco.-
Saphira s’intromise tra i due con l’enorme testa. Avete già cianciato abbastanza, posso rivedere Fìrnen?
Eragon rimase colpito dalla schiettezza di Saphira. Ripeté le sue parole ad Arya.
-Certo. Eragon, parleremo più approfonditamente un’altra volta.- Senza aspettare una risposta,  si scostò e al suo posto comparve la testa del drago verde. La dragonessa azzurra prese a sua volta il posto del Cavaliere, e i due si guardarono negli occhi e comunicarono così, in un colloquio muto e intenso. Nei loro sguardi luminosi si riflettevano l’affetto e lo struggimento condivisi e la speranza di rivedersi. In quei pochi minuti sfogavano ciò che erano riusciti a nascondere in un mese intero. Avevano chiarito sin dall’inizio che non volevano che i loro Cavalieri trasmettessero oralmente i loro pensieri; piuttosto si sarebbero solo guardati pochi minuti al mese per anni.
Eragon aveva intuito che era uno stratagemma dei due draghi per mascherare i loro sentimenti, perché era di certo considerato imbarazzante manifestarli spudoratamente. Né lui o Arya si sarebbero sentiti a loro agio nel proferire frasi più importanti dei soliti convenevoli, se non provenivano dai loro pensieri. Dopo lunghissimi minuti, per un tacito accordo i due si scostarono.
-Ciao, Eragon- fece Arya, facendo capolino sul bordo d’argento cesellato dello specchio. Con grande stupore del Cavaliere, l’elfa posò una mano sulla superficie riflettente, all’altezza della spalla. Quasi automaticamente, vi sovrappose la propria, poi la guardò negli occhi e lesse in quegli smeraldi tutta la nostalgia che non era stata capace di esprimere a parole, e che aveva nascosto sotto l’aria rigida.
-Ciao, Arya-, fece in tempo a dire, prima che lei sciogliesse l’incantesimo. La superficie dello specchio tornò a riflettere la sua immagine.
   
 
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