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Autore: The Theory    15/02/2012    6 recensioni
Questa è la mia primissima FanFiction sul pairing Ben/Gwen! Spero sia di vostro gradimento in quanto la mia esperienza relativa a questo cartone è poca...
La vita di Ben subì un poderoso cambiamento quattro anni prima, quando l'Omnitrix si spense. I sentimenti di Ben sono da allora un altalena confusa tra la voglia di recuperare la sua passata natura aliena e l' abbandonare l'impresa. Una corsa contro il tempo, una pericolosa storia d'amore ed un racconto dal sapore dolce di ciliegia, rivisto in chiave allo stesso modo comica e triste, che spero faccia sorridere sul primo grande amore e le follie che per esso si fanno.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ciao ragazzi! Scusate l’ennesimo mese di attesa ma tra articoli su giornale , compiti in classe e stesura del capitolo davvero sono presa malissimo. Nel frattempo, voi non disperate, la Petite verrà conclusa regolarmente, nonostante queste pause tra un mese e l’altro vi assicuro che non la lascerò in sospeso senza un finale. Anche se ce ne vuole, che finisca :D Azzardo a dirvi che mi sono data una scadenza tra un capitolo e l’altro, sicché mal che vada coi tempi, troverete ogni 15 del mese un capitolo nuovo pubblicato. Baci.
 
IMPORTANTE: Per questo capitolo, ho fatto una fatica enorme. Vi devo chiedere di calcare pesante con la criticità nelle recensioni per questo capitolo. Non preoccupatevi assolutamente di dover anche dire che non vi sia piaciuto, mi raccomando, anzi accoglierò le obiezioni di buon grado proprio perché lo ritengo mostruosamente fragile a livello di trama. Questo capitolo necessita della critica sincera del pubblico che supplico di leggere con attenzione (scusatemi, sembro una professoressa frustrata ^^” cappero xD) l’intero scritto ed esporre un’opinione principalmente a livello di gradimento circa il senso. Temo questo capitolo barcolli, mi preoccupa un po’. Vi ringrazio immensamente per stare leggendo la mia storia. Grazie mille :) Al prossimo capitolo.
                                                                                                           
Sienna era uscita dall’appartamento di Kevin Levin subito dopo il risveglio. Quanto aveva trovato era stato solamente un foglietto piegato sul tavolino del salotto. Un biglietto di scuse. Ma la giovane, raccolte le proprie cose, tanto ignorò ogni traccia del ragazzo quanto le sue scuse e la colazione lasciatale già pronta. Si costrinse a fingere di non vedere. Il passato continuava a molestarla, a perseguitarla. E l’etichetta di “una come lei” non esitava ad abbandonarla. Uscita a passo svelto dalla stanza non si guardò indietro, colma di risentimento. Se solo non fosse stato per il luccicare sornione della chiave della porta d’ingresso. Che Sienna si cacciò in tasca. E scomparve.
 
Gwen si scansò piano dalla stretta di Ben e si avvolse le braccia al petto, timorosa e rattrappita, emettendo solo un gemito sommesso di imbarazzo. Dopo quel precedente istante di totale abbandono alle braccia del cugino, non poté che riportarsi alla realtà, riconoscendo con vergogna quanto inopportunamente fosse evolutasi la situazione.
Ben, dal canto suo, non pensò certo al pudore, in quell’istante. E lo fece perché davvero non badò allo stato di seminudità della cugina; affatto. In quel momento non riusciva a provar altro, nonostante davvero si sforzasse, che infinito smarrimento, mescolato a tratti ad un certo desiderio di ritorsione, nato in seguito alla vista di quel pauroso taglio che attraversava indomito il petto della ragazza.
Nel silenzio più tombale prese a riflettere intensamente. Riconobbe d’esser stato duramente colpito da quella visione. Ferito, forse. O ancora, preferì, sbalordito. Per l’appunto,la famiglia di suo zio Frank da sempre era stata presentata al mondo come la perfetta sincronia esistente, un insieme dall’aria ovattata e quieta, nel contesto di una situazione di minuzioso e cavilloso ordine e rigido e severo riguardo. A racchiudersi, tutto sommato, in una cornice di semicerta – ma concreta – amorevolezza. Ed ora Ben aveva la prova lampante che tutto ciò non fosse che un’evidente frottola, una menzogna. La cui realtà sperava durasse da poco.
Non era corretto a dirsi d’esser novizio di tale realtà, dovette ammettere. Ebbe che rettificare, di fatto, ricordando l’episodio risalente alla sera prima; Gwen gli era piombata in casa in preda a certi paurosi spasimi, devastata dalla malattia ma dal disperato bisogno di sfogare l’angoscioso cordoglio cui la vista di un – a sua detta – ennesimo litigio tra i propri genitori l’aveva sottoposta. E per Dio, Ben riscontrò, effettivamente la cosa, evolutasi a tal segno, non sarebbe stata né facile a districarsi né una stolidità di per sé. “Altro che ovatta” si disse sconcertato: piuttosto un contesto generale, date le prove che aveva sottocchio, che andava mano a mano a formare un insieme d’un retrogusto sempre più noir.
Nel tanto mulinare, Ben non aveva badato alla cugina, a pochi centimetri da lui.
Ripresosi, realizzò quindi che sarebbe stato opportuno placare tale turbamento personale al fine di dar valido appoggio alla straziata ragazza. Proprio come era accaduto la sera anteriore.
E così fece, pregando di non innervosirsi.
Il guaio, però, fu il conscio impiccio nel cavarsi di bocca qualche buona frase da sfornare in quell’istante per rincuorare la povera Gwen. Arrovellandosi (e scongiurando di non esser colto da ulteriore vuoto d’idee) non riuscì che a tacere.
 
Gwen, per quanto la riguardasse, non osò quasi respirare, ora visionando a mente fredda l’intera situazione. Non faceva che provare rammarico e vergogna, sconcerto, delusione. Non solo, infatti, la propria relazione con il cugino andava  complicandosi, non solo pativa i resti della malattia, non solo si sentiva divampare per lo stato che in cuor suo definì “spudorato” nel quale si mostrava a Ben in quel momento. Non solo. Come se non fosse abbastanza, invero, sentiva brulicare in corpo una seria preoccupazione per la madre, ora sola in balìa dell’uomo manesco quale s’era rivelato essere suo padre. Allo stesso modo la povera ragazza veniva ferita dalla memoria del serio e violento litigio con il genitore e dalla propria situazione famigliare colante a picco. Non era rimasto più niente del proprio, falsamente perfetto, nucleo famigliare. Eppure non aveva il coraggio di abbandonarsi alla realtà e riconoscerne la schiacciante concretezza.
 
Lo sconcerto di Ben, scervellatosi di maniera disumana, evolse in rabbia sorda. E non tanto per il fatto di essere incapace di venire a capo d’una situazione simile, non tanto per aver perso totalmente la solidità con la quale affrontava alieni e disastri universali ai tempi in cui ancora indossava il maledetto orologio che gli consentiva di tramutarsi in infinitesimali specie di mostrucoli, non tanto nemmeno per il fastidioso rendersi conto di essere in una situazione pericolosa. No. Piuttosto perché, percorrendo con le iridi smeraldo lo squarcio obliquo sul petto di Gwen, aveva realizzato freddamente, ora a mente libera proprio su tale aspetto, che qualunque cosa fosse accaduta alla cugina, qualunque crudeltà le fosse stata fatta, qualunque violenza, l’aveva commessa il padre. Il padre di Gwen, fratello del proprio. Ben ormai era certo,null’altro poteva essere. Rabbrividì.
Come può mai un padre che mette al mondo un figlio ritorcere contro il frutto del proprio sangue e parte d’egli stesso – Ben specificò tra sé – tanta violenza?
Socchiuse gli occhi e lasciò uscire dai polmoni tutto il fiato nato dall’angoscioso sfociargli in capo di ipotetiche immagini dell’accaduto. Provò ad immaginare che fosse stato il proprio, di padre, a giocargli tale brutto tiro – se con tali parole s’avesse avuto modo di definirlo, ovviamente. Ed allora sì, riuscitosi a calare una volta e per davvero nei panni della cugina, che il furore si spianò la strada verso un canale di sfogo, strattonandogli le membra.
Ben poggiò il palmo destro alla spalla della cugina, afferrandola saldamente ma con tocco tanto sicuro da convertirne un’eventuale sfocio di dolore in infusione di supporto: – Voglio che tu mi dica cos’è successo.
Indurì la voce tanto sottilmente da far congelare il sangue nelle vene alla ragazza che gli giaceva dinanzi. Precedentemente privo di checché fosse da dire, sentì nascere un inaspettato ed inquietante fiume di interpellanze. Ma poi tacque, preferendo attendere la risposta di Gwen.
Dopo uno straziante silenzio, la ragazza si decise a mormorare: – Non è affar tuo.
Doveva estraniare Ben dai propri dilemmi. Doveva escluderlo addirittura da sé. Era solo uno stupido parente, uno zero. Non seppe quale genereo quale razza di pensieri le fossero nati in capo causa l’assillante tambureggiare delle parole della madre (che aveva considerato e percepito forse più profondamente del dovuto), era certa solo del fatto che non le sarebbe rimasto che distaccarsi da Ben, poiché sentiva germogliarsi in cuore un molesto e poliedrico sentore. Che percepì come pericoloso.
Ben, tormentato figliolo, decise al contrario di prendere iniziativa; lasciò la cugina senza parole puntandole l’indice nel mezzo delle clavicole. Doveva sfogare la propria sete di giustizia. E non vide altra più facile maniera di inveire contro Gwen, che aveva subìto, per quanto Ben immaginava, percosse non decisamente lievi. Ed, ahi lui, non si contenne.
– Pensi non si vedano?!
A Gwen non restò che far l’indifferente:– Cosa?
Ben sentì la rabbia montare e premette sulla pelle calcando pesantemente il tocco: – hai anche il coraggio di chiedere cosa?! Gwen, sei sfigurata da un taglio quasi inguardabile e macchiata da segni violacei tutt’intorno al collo, cosa credi, che tutto questo sia normale?!
– Stai delirando. Io non vedo niente – fu la risposta.
Gwen chiuse gli occhi con forza. Lo scopo di tanta, finta indifferenza non era la profonda volontà di dimenticare. Provando così, una volta tanto in vita sua, a farsi del bene. Se però fosse “bene” ignorare della violenza, non seppe.  Ma d’altronde, ricordare le faceva più male delle dolore fisico. Sicché.
– Gwen, Cristo, non abusare della mia pazienza. Dimmi cos’è successo. Per l’ultima volta.
Gli occhi della ragazza si ingigantirono al pronunciarsi di tali parole; – Non usare questolinguaggio, ti prego – chiese flebilmente accennando ad uno scatto di tremore.
Ben inarcò un sopracciglio corrugando la fronte:– Quale linguaggio? Ti sto solo chiedendo…!
Non…! – l’interruppe la ragazza raccogliendosi in sé stessa solo portandosi dinanzi un braccio, come a far segno a Ben di non muoversi.
Calò il silenzio, mentre Gwen abbassò il capo avvicinandosi le mani alle orecchie.
Ben sospirò esasperato.
– Cos’è successo? Te lo chiederò ancora, fino a che non mi scomparirà la voce.
Gwen scosse la testa, ostinandosi a fingere con la disperazione di chi non riesce a cavarsi di bocca quanto dovrebbe ma non voglia. – Quando…?
Ben inspirò profondamente.
– Lo sai benissimo, quando.
– Cos’è successo? – ripeté.
– Non ti capisco, Ben. No entiendo, je ne comprends pas.
Ben raggiunse il limite.
– Piantala, Gwen!
L’urlo dal timbro profondo e incavato del ragazzo fece scendere lungo i loro corpi e nei dintorni un mutismo sconvolto e timoroso, pesante come un masso.
L’espressione furente del giovane si piegò istintivamente in pietà. Abbassando il capo, riponendo alla cugina una mano sulla spalla mormorò: – dimmi cos’è successo…Gwen.
Per quanto le si stringesse il cuore, alla vista del cugino torto su sé stesso ed ora sinceramente impensierito, ebbe che proseguire la propria politica di falsità. Ma ora con un certo tatto accondiscendente.
– Nulla. Credimi.
Ben, sempre più certo dei propri sospetti, si massaggiò la fronte con stizza. Abbandonò la preoccupazione e, alzato il volto, la pregò: – voglio da te la verità.
A chinarsi, ora, fu invece la ragazza. 
– Che faresti…
Gwen sentì germinare un certo fastidio in sé.
–  Che faresti se anche ti dicessi cos’è successo?
– Potresti cancellare quel che è stato?… o magari togliermi di dosso questi assurdi segni che diventano minuto dopo minuto più neri…?
Ben tacque. E provò ad immaginare nuovamente quanto fosse accaduto.
– Bada, Tennyson. Non è per te che ho indossato quel dannato foulard.
Gwen mentì per parte,ebbe che riconoscerlo; sentì un forte rimbombo in cuore nel pronunciare il maledetto appellativo.
Il ragazzo puntualizzò:– Non l’ho mai pensato.
– Se l’ho fatto, è stato per me – specificò Gwen ignorandolo.
Ben sospirò: – quello che fa le cose per sé sono io, dovresti pagarmi i diritti d’autore, Gwen.
– Non ce la faccio a ridere, Ben. Dico davvero.
– Non avevo intenzione di farti ridere. Perché ti comprendo.
– Come fai a comprendere quanto non sai?
– Possediamo lo stesso sangue. Lo dimentichi.
Gwen sentì il cuore smettere di battere.
Il sangue. Già.
 
Lily Tennyson, al fianco del marito Frank mosse i primi passi nella grande e maestosa Madrid, addobbata per le Feste, dopo uno straziante viaggio in aereo. I suoi occhi dolci di fanciulla, costretti nel volto di una quasi cinquantenne s’ingigantirono estasiati alla vista del paesaggio circostante che le si apriva intorno con la maestosità sottile d’un elegante (e consapevole) padrone di casa ad accogliere nuovi ospiti.
Nel percorrere il centro della meravigliosa città la donna non poté contenere un’espressione immensamente incantata, rapita alla vista di tanto fascino. Ma ebbe velocemente che riprendersi. 
– Lily.
La donna si voltò, sentitasi chiamare dalla voce fredda del coniuge. Ed, al solito, si limitò a fare un segno accorto e tacito, appena movendo il capo in sua direzione.
Frank rimase un attimo in silenzio, rispolverando tra sé le immagini della serata precedente che sin d’ora aveva oscurato per ribrezzo. Abbassando lo sguardo serio raccolse le dita in pugni morbidi dentro le tasche ampie del giaccone invernale che da tanti anni ormai lo accompagnava nella stagione fredda. Non si mosse più.
– Mi chiedo in cos’abbia sbagliato.
Lily rimase spiazzata.
Dopo anni, il marito le si apriva, sebbene di quel poco. Mogio, scuro, dall’aria rabbiosa e contrita,raccolto in sé e nella propria insoddisfazione.
La donna non ebbe modo di parlare, priva di qualsiasi cosa da rispondere. Non esisteva soddisfacente rivalsa verbale in quell’istante di blocco che la costringeva all'immobilità. Non esisteva nemmeno un sentimento provabile, forse appena una punta di pietà;
Frank riprese a camminare.
– Se ho sbagliato…è stato con chi ho di più caro. E la vergogna non mi basta più.
Lily rimase in silenzio ancora ed ancora. Anche se la pena le faceva stringere il cuore, nonostante tutto, non riuscì a perdonarlo.
 
Ben riportò le dita al petto della cugina facendole scendere lungo il taglio, una seconda volta. E tacque, calmatosi lievemente. Gwen si sentì percorrere la pelle dolcemente ed in modo lento.
L’agonia, però, prese a farsi nuovamente – e violentemente – materiale. Il vorticare claudicante che le cingeva il capo andava a smorzarle prepotentemente la vista, riducendole la visuale ad uno spiraglio imperfetto, insicuro, sfocato un po’ dall’emozioni un po’ dalla malattia che, per l’appunto, stava riapparendosene. Gwen ebbe sicché da chiuder gli occhi; non avrebbe voluto farlo, ma ne fu obbligata.
Dopo un breve istante di silenzio, Ben, senza staccare né dita né occhi dal petto di Gwen sussurrò: – è…deterrente…
La ragazza, turbata all’avvertir senza l’uso della vista lo scorrere lieve della mano del cugino, lottò contro sé stessa per cancellare le tracce di quei pensieri malati che le avevano guastato quell’inizio di permanenza congiunta e persistevano nell’esacerbarla.
Ben osservò attentamente la pelle ferita della poveretta che andava via via gualcendosi formando una fenditura agra e scura. Senza pensare alle proprie azioni, proseguì facendo salire le dita al collo caldo della cugina.
Gwen tremò per un istante e chiuse gli occhi, avvertendo, peraltro, un fremere furioso da parte delle labbra.
Ben la stava percorrendo senza tanto interpellarsi. E Gwen non si mosse. Colta dal terrore, realizzò che seppur tentasse di non ripensare a quanto di terribilmente inadeguato le occupava la mente causa il dialogo avuto con la madre veniva costantemente riportata alla concezione personale ricavatane. Totalmente al di fuori del contesto nel quale (e del quale) la povera Lily badava di metterla in guardia.
E, per giunta,Ben cadde in fallo; nell’ispezionare il taglio, ebbe la stolta pensata di esaminarne pure il terminare. Cui lasciamo al nostro lettore l’individuarne la collocazione.
Gwen stava mano a mano scivolando nella coltre della pazzia, stimolata dalle rimembranze torbide del colloquio con la genitrice ed aiutata dalle granulose e scivolose pareti che costituivano la bolla di frustrazione nella quale veniva da sé stessa rinchiusa.
La ragazza scostò con uno scatto il capo, attraversata all’improvviso, o meglio,  nuovamente, dalle parole della madre. “Spesso…a frenarsi non basta sapere di essere imparentati”. Frenarsi. Frenarsi da cosa? Oh, Gwen sapeva. Ed ora immaginava, in una spirare disperata di vergogna e paranoia, macchiata dal pensiero dell’indicibile, che grazie al bel discorsetto della madre ora la perseguitava. “…insomma…non divertitevi a quel modo”. Gwen non faceva che rielaborare con una continuità narcotizzata le dannate parole. Sentì di voler dimenarsi, percuotersi, per scacciarsi di mente e di corpo tali spudorati pensieri. Eppure no, non riusciva nemmeno in quanto, a scatti bloccata da un improvviso pudore dinanzi il cugino quanto pure da una strana involontarietà nell’acconsentire ad un qualsiasi scostamento. Agonia. Null’altro stesse provando, la feriva e perseguitava a tal modo. “…a frenarsi non basta…”. Gwen strinse i denti senza osare guardare Ben che, quasi senza accorgersi dell’accadente persisteva nella propria, ingenua, analisi.  “ … a quel modo…”, “siete pur sempre due adolescenti…”. Gwen si morse il labbro inferiore colta dal panico. “Da soli”, “non lo davo certo per scontato!”.
Ben fece risalire le dita. E Gwen continuò a rammentare, unendo ora alle parole della madre anche quelle del padre, che la sera prima l’aveva disgraziatamente e violentemente picchiata proprio a causa della sua disubbidienza. “Che diavolo facevi da Ben?”.
– Nulla! Nulla! – pianse Gwen ora ad alta voce.
Ben si fermò all’improvviso.
Gwen, senza accorgersene, era entrata in uno stato di incosciente soliloquio, rivivendo sin troppo realisticamente, in capo suo, l’accaduto che di pugno firmava le violenze subite.
“ Proibisco lo scempio!”.
– No! Nessuno scempio! – sofferse Gwen portandosi le mani alle orecchie e scotendo con violenza il capo.
– Gwen? Cosa…?! – balbettò Ben sconcertato.
– Basta! Basta per carità! Nessuno scempio!
– Gwen, calmati! Quale scempio?!
“Proibisco gitarelle notturne!”…“ frenarsi non basta… a quel modo…da soli… divertitevi...”. Gwen si cinse impietosa il capo, dibattendolo ora selvaggiamente.
“ Proibisco…!” “non dico questo!” “Da soli” “gitarelle…notturne!” “Notturne!” “divertitevi”.
– No! No, mai!
Le mani le tremavano, seguite dal rigarsi imperterrito del viso, scosso in “no” fisici senza pietà nei propri confronti.
Battito cardiaco. Folle, battito cardiaco. Leggendo disperata tra le frasi vorticanti colse quanto non avrebbe dovuto, dopo una quasi drogata elaborazione delle singole parole. Eppure erano pur questo, quanto aveva udito. Fu un attimo;
“Divertitevi…a quel modo, da soli…non basta…non basta…!”
Gwen aprì gli occhi macchiati dall’angoscia. Aveva visto.
– Gwen…? – balbettò Ben nel silenzio.
Portò una mano a quelle della cugina al fine di capire quanto fosse accaduto.
Gwen si scansò immediatamente, come fosse stata punta. Ritornò in sé percorrendo con occhi spaventati i dintorni ed il corpo di Ben.
Ben non capiva.
– …è perché ti ho toccata?
Gwen ansimò: – Basta. Basta…!
– Basta che?!
– Basta! Non fai che…!
Cosa?
Gwen esitò.
– Non fai che dar loro ragione!
– Penso proprio di non capire – ammise Ben con cinismo.
Gwen allontanò le mani del ragazzo con una spinta e portò le proprie, madide e palpitanti, al capo rannicchiandosi tra sé e prendendo sommessamente a tremare, ancora.
– Che vorrebbe dire, Gwen?!
Non udendo che silenzio Ben insistette: – Gwen!
Gwen urlò:– Non continui?!
Ben, sconcertato domandò:– cosa dovrei…?!
Il resto della frase gli morì in gola, claudicante ed incerto, ostacolato da quella vista sconfortante che gli si mostrava dinanzi.
– Che fai, concludi così?!
Ben sbarrò gli occhi. Riformulò la domanda postagli dalla ragazza tra sé a velocità supersonica, quelle credé fossero migliaia di volte.
Sicché balbettò:– Cosa vorresti dire?
– Non eri un ragazzo? Non venivi forse anche tu indotto al peccato come tutti gli altri?!
La ragazza si portò le mani alle orecchie, improvvisamente incosciente di quanto le stesse accadendo e totalmente fuori controllo. Solo si sentì uscir di bocca, legate a formar un nastro interminabile, tutte le cose che non sarebbe mai riuscita ad ammettere circa quel suddetto scempio.
– Non dovremmo scivolare man mano nel baratro dell’oscenità?! È quello che ci hanno predetto! Non è forse così?! Non dovresti proseguire, approfondire quanto non s’abbia di fare e arrivare a dar loro ragione sì tanto io ancora abbia perso contro chi predice male di me?! Non t’auguri anche tu, forse, come loro, che si evolva il tutto in qualcosa di pericoloso?! Sono forse io l’unica a tremare di vergogna?!
Ben rimase zitto. Scioccato.
– Non capisco cosa tu intenda.
– Idiota…! Idiota!
– Gwen.
– Taci! – gridò la ragazza raccogliendosi instabile per la centesima volta il capo tra le mani.
Calò il silenzio.
Nessuno più parlò. Ad udirsi, solo gli spasmi di timbro decrescente della giovane.
Gwen non riuscì a proferir parola e rimase, a voce mozzata, con le labbra appena schiuse in un’espressione di sincera afflizione, tra il rinvenimento e la vergogna. Lasciò scivolare in avanti il capo, chinandolo sommessamente mentre una cascata di lunghi capelli glielo nascose, tanto sufficientemente da andare ad occultare il debole affiorar del pianto che prendeva a lambirle gl’occhi, ora più delicatamente.
Si domandò febbrilmente che fosse accaduto, rielaborò – seppur invano – tutte le frasi dette provando convulsamente a cavarne un senso, in un modo od in un altro, chiedendosi impietosa verso i propri nervi cosa l’avesse spinta a confessarsi tanto apertamente a Ben. Si vergognò di sé stessa come pure dei propri pensieri, non osò alzar lo sguardo né tanto meno provar a dirigerlo verso Ben. Sarebbe morta d’imbarazzo.
Ben, intanto, rifletté. Tirate a grandi linee le proprie somme, sussurrò:– calmati.
– Se ci riuscissi credi non lo farei?!
– Calmati.
– Sta zitto, sta zitto Ben!
– Gwen, Cristo, calmati! – urlò il ragazzo prendendola per i polsi.
La pazienza gli scivolò di dosso. La compassione si tramutò in cinismo, disprezzo, fastidio, repellenza. Odiava vedere quella maledetta insicurezza nella spavalda Gwen, la Gwen sprezzante che lo beffava da quanto era al mondo, che lo derideva e decantava la propria superiorità. Ben volle tentare tutto,quanto e non,in suo potere.
La ragazza si bloccò improvvisamente.
– Non muoverti. Sta ferma, calmati, respira.
Gwen scosse il capo:– non fare il buon samaritano, Ben! Non ti spingi oltre?! Non li soddisfi?! Non TI soddisfi?!
Ben perse ogni clemenza (ed ogni preghiera di mantenimento della quale) dopo aver udito tali, sole parole.
– Adesso basta! Non capisco, non capisco, miseria! Invece di pensare che tutto il male sia rivolto sempre e solo contro di te perché non provi almeno a chiedere aiuto?! Non pretenderò addirittura che consideri anche gli altri e i loro sentimenti, certo, figurarsi, l’ho già fatto e per te è risultato impossibile,bene, ma ora…almeno…parla.
– Non è con te che desidero parlare!
– E allora che vuoi da me?! – urlò il giovane.
Ben si portò cavalcioni sopra la cugina costretta a terra e bloccata ai polsi.
– Cosa vuoi Gwen? – mormorò freddamente chinandosi su di lei.
La ragazza sentì il cuore smettere di battere. Immaginò.  E quanto ella volesse, sì, sapeva.
Non riuscì che ad ansimare, avvertendo il corpo del cugino farsi via via più attiguo al proprio: – Ben…!
Il giovane proseguì ignorandola e stringendo la presa: – sei così…perversa…da pensare che ti salti addosso? Che…ti tocchi…– Ben fece salire un palmo gelido lungo il ventre della ragazza – ...? Che abusi di te…?
Gwen tremò. Invocò aiuto tra sé con tutte le proprie forze, incapace di gridare. Mentre il respiro del cugino le lambiva il collo, scendeva sottile e caldo alle sue orecchie scivolando sino alle clavicole.
Gwen, terrorizzata e atterrita prese a piangere più intensamente soffocando i gemiti. Aiuto,aiuto, null’altro supplicasse. E non un filo di voce ad uscirle di bocca. Ecco a realizzarsi la sua terrificante paura.
– Non volevi questo? Non insisti…non batti sempre su questo chiodo?
– Ben…! Smettila…smettila, ti scongiuro…!
Il tono di voce di Ben si fece tagliente e superiore: – Non ero forse io la bestia che si faceva prendere da istinti animali? Se ti impunti tanto…sono qui…mi vedi? Mi senti…?
– …!
Gwen, sconvolta, distrutta e con un fiume di lacrime in viso a scenderle giù, giù fino al collo perse a dimenarsi selvaggiamente. Dibattendosi, piangendo e stringendo le mani in pugni pregò Ben di lasciarla andare.
“ Divertitevi”…”Da soli”…”Due adolescenti”.
Gwen maledisse per un istante la madre, o forse sé stessa.Ben le si premette indosso senza pena.
E la cugina, stremata e sfibrata dal lottare ossesso perse ogni forza e, abbandonandosi al ragazzo, si lasciò cadere a terra sentendo che sarebbe presto stata la fine.
Ben allora, sollevando il volto, mormorò: – sta tranquilla, Gwen.
– Non voglio fare niente di tutto questo.
Serio e contrito si levò sulle ginocchia.
– Basta pagliacciate. Noi siamo legati da del sangue, Gwen: non montarti né riempirti la testa di queste perverse stronzate.
La ragazza, a terra, smise di respirare.
Una finta.
Era stata una finta.
Una stupida finta.
Rimase spiazzata, muta, senza riuscire più a partorire un singolo pensiero.
Per la vergogna,si raccolse su sé stessa levandosi a sedere.
Ben esordì spezzando quel dilaniante silenzio: – E sappi…
In quell’istante la ragazza immaginò stesse per sentirsene di tutti i colori, ricordando bene quanto a Ben facesse divertire appiopparle soprannomi, rifilarle idiote battute di (poco) spirito e cominciare liti di aspro cinismo. Dando il via a liti infinite.
Ben continuò con voce dura: –…che non me ne importa niente.
Gwen rabbrividì, intirizzendosi ancor di più. Ma non parlò, incapace di farlo. Nonostante fosse rimasta prepotentemente ferita.
– Non posso che considerare questo cumulo di scemenze come pura immondizia mentale.
Gwen si sentì morire.
–  Non è per violarti che mi ritrovo obbligato qui. Arrivaci. Se avessi voluto farlo non avrei aspettato certo una tua simile uscita, credi.
La cugina si morse un labbro sprofondando in una nuova spirale di raccapriccio e vergogna, macchiati da chiazze d’odio. Avrebbe voluto morire.
– Ora, Gwen. Dimmidov’è.
La ragazza alzò gli occhi e balbettò: –…che?
– Prima di pensare a come mi eccito, ti ricordo, dovresti concentrarti sul fatto che sei stata evidentemente picchiata. Prima ricordavi. Ho congiunto i fatti: quando urlavi rammentavi di ieri sera. Non mentire. Voglio sapere, per l’ultima volta, cos’è accaduto.
– Non è tuo impiccio. Non immischiarti in quanto non ti riguardi.
Ben ringhiò: – e tu non fai forse lo stesso?!
– Non ho mai fatto…nulla di simile.
Ben non ebbe più parole. Sentì crescere la furia. E, come accadeva ogni volta, nonostante si facesse mille promesse, non fu in grado di mantenere la calma che, accumulandosi alla sete di vendetta verso il proprio zio, divenne ingigantendosi mostruosa collera. Ben si alzò e gridò:– Ora basta! Dov’è?!
Gwen, seguendo imperterrita la propria politica d’esclusione mugugnò: – Chi?
Dov’è?!
Ben assunse un’espressione tanto spaventevole da far morire a Gwen l’ultime parole in gola.
Così gli si aggrappò alle gambe: – non fare un passo, Ben. Ti scongiuro.
Sua cugina era la contraddizione fatta a persona.
E per questo la odiò. Il ragazzo portò lo sguardo al soffitto supplicando la Provvidenza di non mettersi ancora a sbraitare.
– Non difendere chi ti ha fatto del male, deficiente!
Gwen gli puntò indosso un occhiata selvaggia: – non sto proteggendo nessuno, sto solo escludendo dai miei affari chi non ha il diritto di mettervi becco!
Ben fissò la cugina con occhi di fiera.
– Mi chiedo se tu sia umana.
Gwen non rispose, contrita e raccolta timidamente in sé.
– Ben…
– Che vuoi ora?!
–…non lasciarmi...
Ben rimase zitto, poi scosse il capo in segno di diniego.
– Ora basta.
E, prendendo il cappotto, scomparve dalla porta.
 
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