Hearts Burst Into Fire

di My Pride
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Questione di luce ***
Capitolo 2: *** Tutta colpa di Bradley ***
Capitolo 3: *** Strano regalo › Follia d'età ***
Capitolo 4: *** L'apparenza inganna ***
Capitolo 5: *** Lezioni ***
Capitolo 6: *** Fotoricordo ***
Capitolo 7: *** Prendere in giro › Ovvero, quando Roy Mustang viene chiamato vecchio ***
Capitolo 8: *** Diamoci... un taglio! ***
Capitolo 9: *** Capelli e stanchezza ***
Capitolo 10: *** [ Special di Halloween ] Dolcetto o scherzetto, Roy? ***
Capitolo 11: *** Milk Shake › Ovvero, come riuscire a far bere un po' di latte... ***
Capitolo 12: *** Tutte a me capitano! › Ovvero, quando Roy Mustang non riesce a... ***
Capitolo 13: *** Play... boy? ***
Capitolo 14: *** [ Flash Contest ] Strange Love Story › Il nostro inizio ***
Capitolo 15: *** [ Special di Natale ] Vigilia di Natale ***
Capitolo 16: *** [ Storia Fuori Serie ] Visita inaspettata ***
Capitolo 17: *** Mai giudicare un libro dalla copertina! ***
Capitolo 18: *** [ Storia Fuori Serie ] La colpa è sempre della tua mamma ***
Capitolo 19: *** [ Storia Fuori Serie ] L'imprevisto porta un nome ***
Capitolo 20: *** [ Flash Contest ] [ Storia Fuori Serie ] Beata Innocenza ***
Capitolo 21: *** [ Storia Fuori Serie ] Tenere pesti › Distrazioni ***
Capitolo 22: *** Sorprendersi › Quando accade l'impensabile! ***
Capitolo 23: *** [ Storia Fuori Serie › Special di Halloween ] Stupidaggini ***
Capitolo 24: *** [ Storia Fuori Serie ] “Scherzi” ***
Capitolo 25: *** [ Storia Fuori Serie › Special di Natale ] Regalo di Natale ***
Capitolo 26: *** [ A contest, a rose and a story ] [ Storia Fuori Serie ] “Rosa Canina” ***
Capitolo 27: *** [ Storia Fuori Serie ] Vecchie conoscenze ***
Capitolo 28: *** [ Storia Fuori Serie ] Letture notturne e rare mattine ***
Capitolo 29: *** [ Storia Fuori Serie ] Scelte e decisioni ***
Capitolo 30: *** [ Evento Roy/Ed Mariage › Missing Moment ] Until the end ***



Capitolo 1
*** Questione di luce ***


Heart burst into fire_Episode 1
[ Terza classificata al «Flash Contest» indetto da Addison89 { 14 / 20 } ]
[ Sesta classificata al «A contest, a rose and a story!» indetto da Roy Mustung sei uno gnocco { 26 } ]


Titolo:
Questione di luce
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 333 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



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EPISODIO 1: QUESTIONE DI LUCE


    V
agando a tentoni nell'oscurità, cercavo di raggiungere il generatore.
    Fuori pioveva a dirotto, e i fulmini e lampi che cadevano di tanto in tanto avevano fatto scattare l'interruttore del contatore principale, facendo così mancare la luce. E a chi toccava andare a ripristinare il tutto? A me, ovvio. Un lampo improvviso illuminò la stanza in cui mi ero ritrovato, facendomi imprecare a denti stretti quando mi resi conto di dove fossi. Perfetto, avevo sbagliato direzione... ero in cucina. Adesso mi sarebbe toccato camminare a ritroso fino al salotto per sbucare all'ingresso, perfetto.
    Feci dietro front ma, dopo nemmeno qualche passo, inciampai nel mobiletto nel bel mezzo del corridoio e sentii un rumore sinistro che non mi piacque per niente, ancor meno quando l'inconfondibile suono di un vaso in frantumi aleggiò per tutta la casa. Imprecando fra i denti e stando attento a dove mettevo i piedi - ci mancava solo che mi ferissi, visto che ero scalzo e non avevo minimamente pensato a quell'incidente di percorso -, portai una mano in avanti per evitare eventuali ostacoli o muri; prima di passare la soglia del soggiorno, però, vidi una luce giallastra accesa nella nostra camera da letto. Che quel fagiolino avesse trovato una torcia?
    Tenendo come punto di riferimento quel fascio di luce, attraversai il corridoio fino ad entrare nella stanza, dove, accesa sul comodino, l'abat-jour illuminava il volto di Edward, che si stava grattando distrattamente una guancia. Boccheggiai e lo indicai, ottenendo in risposta solo una sua breve scrollata di spalle.
    «Beh, scusa tanto se ti ho fatto alzare per andare a controllare il contatore», disse con tranquillità inaudita, per quanto nella sua voce avessi ben udito anche una nota non tanto velata di sarcasmo.
    «Come mai abbiamo la luce?» chiesi, sbattendo le palpebre con fare incredulo mentre mi avvicinavo. Mi ero dovuto alzare... per cosa, esattamente?
    Con non curanza, Edward si allungò per prendere le mutande gettate sul pavimento e poi, guardandomi fintamente dispiaciuto, unì gli indici e abbassò il capo.
«Si era solo fulminata la lampadina».






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Capitolo 2
*** Tutta colpa di Bradley ***


Heart burnst into fire_Episode 2 Titolo: Tutta colpa di Bradley
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 659 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, King Bradley
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



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EPISODIO 2: TUTTA COLPA DI BRADLEY

    Tanto per cambiare, come ogni anno, a casa del Comandante Supremo si sarebbe tenuto uno stupido ballo in maschera a tema, giacché al vecchio Bradley era sempre piaciuta l'idea di pensare ad espedienti sempre nuovi per intrattenere i propri ospiti. Io pensavo solo si divertisse a mettere in ridicolo tutti noi, ma quello era un parere che, per il momento, preferivo tenere per me senza parlarne a terzi.
    Buttai le pratiche appena firmate nel contenitore, sbadigliando annoiato. Fosse stato per me non ci sarei mai andato, ma era utile per avvicinarsi pian piano, un gradino alla volta, ad una possibile promozione che mi avrebbe ulteriormente avvicinato alla carica di Comandante, ed era solo per quel motivo se mi trovavo immischiato in quella storia. L'ultima volta mi era toccato indossare una normalissima maschera nera con un piumino sull'occhio, quindi che cosa mai sarebbe potuto andare storto, a parte la noia?
    Fu un lieve picchiettare alla porta a distrarmi dai miei pensieri, ma, quando alzai lo sguardo, restai sorpreso nel vedere la figura di Edward: indossava una camicia bianca e una gonna a pieghe in tessuto di tartan, e sulla spalla,
assicurato da una spilla d'argento, portava uno scialle della medesima trama; ricadeva in un aggraziato drappeggio interrotto da una cintura borchiata, ma continuava in uno strascico oltre i polpacci fasciati da calze di lana fino agli stivali di pelle. Sul davanti della gonna, inoltre, portava una specie di borsetta di cuoio in pelo, e i capelli li aveva rigorosamente castigati in un'alta coda.
    Sbattei le palpebre, divertito e scioccato al contempo dalla scena che mi si parava davanti.
«E tu vorresti venire conciato così, alla festa?» chiesi, indicandolo.
    Lui mi guardò con
cipiglio corrucciato, poggiandosi le mani sui fianchi. «Cos'ho di strano?»
    «Una gonna, ad esempio?» replicai accigliato.
    «Non è una gonna», borbottò.
    Lo squadrai, inarcando un sopracciglio. «È una gonna», insistetti, divertito dalla sua espressione stizzita.
    «E tu sei un idiota, Colonnello dei miei stivali», sbottò. «Ma ti pare che mi mettevo una gonna?»
    «Beh, è quello che indossi, no?»
    «Questa gonna, come la chiami tu, è un kilt», mi informò, incrociando le braccia al petto. «È un indumento maschile».
    «La indossano i travestiti, allora», buttai lì sarcastico, osservandomi distratto una mano.
    Edward si portò una mano alla fronte, esasperato.
«Non si può ragionare con te».
    «Se ti presenti con una gonna...»
    «È un kilt!» ripeté nervoso. «Ed è il tema di stasera».
    Sbarrai gli occhi e rischiai di cadere dalla sedia per lo stupore, mantenendomi al bordo della scrivania e scuotendo con impeto la testa, sconvolto.
«Io quel kilt o come si chiama non me lo metto nemmeno se mi uccidi!» esclamai, sconcertato anche solo all'idea di immaginarmelo addosso. Io, l'uomo più sexy d'Amestris... con una gonna?! Tanto valeva dichiarare anche che ero omosessuale, a quel punto! Che diavolo di idee malsane venivano in mente, al Comandante Supremo? Senza badare alle mie proteste, Edward mi si avvicinò e mi afferrò per un braccio, trascinandomi tutto divertito fino agli spogliatoi dove aveva già riposto il mio abito da cerimonia. Lo osservai inorridito.
    «Non me lo metto», mi impuntai, deciso.
    «Oh, aye», ghignò, cominciando lui stesso a togliermi la divisa e a sistemarmi il suo stesso vestiario addosso, ignorando deliberatamente i miei sbuffi, le proteste e le lamentele che mi lasciavo sfuggire mentre tentavo di scappare dalla sua morsa - letteralmente - d'acciaio. Mi porse per ultima quella borsetta di pelo che avevo scoperto chiamarsi sporran, e mi sistemò lo scialle sulla spalla. A lavoro ultimato, mi osservò compiaciuto, ravvivandomi i capelli all'indietro.
    «Sei perfetto! Ma manca un'ultima cosa», si grattò una guancia, divertito. «Levati le mutande».
    Corrugai le sopracciglia e incrociai le braccia al petto.
«Eh no, caro mio», sbottai, indignato. «Mi hai conciato così e non ti meriti un assaggio del piccolo Roy».
    «Non farti illusioni», mi rispose a tono, ridendo e poggiandomi le mani sulle spalle. Quando le sue labbra si avvicinarono al mio orecchio e mi sussurrarono quelle parole, rimasi avvilito, scioccato e imbarazzato allo stesso tempo. «Non si portano le mutande sotto il kilt, Roy».






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Capitolo 3
*** Strano regalo › Follia d'età ***


Heart Burst Into Fire_Episode 3 Titolo: Strano regalo (Follia d'età)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 800 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



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EPISODIO 3: STRANO REGALO (FOLLIA D'ETA')

    Odiavo il 27 giugno. Mi ricordava gli anni che, purtroppo, passavano anche per me... compivo 44 anni.
    Affondai di peso sul divano, reclinando la testa all'indietro e fissando con sguardo vacuo il soffitto, sbuffando di continuo. Avevo sempre avuto il terrore di invecchiare e, anno dopo anno, quando si avvicinava l'estate, venivo colto da uno strano senso d'ansia, tanto forte che, nelle prime settimane del mese di giugno che anticipavano quella data, cercavo di tenermi ben lontano dal mio letto... e, in linea più ristretta, da Edward. Temevo un calo di prestazioni, che potevo farci?
    Afferrai un bicchiere e lo riempì di quel poco whisky rimasto nella bottiglia, lasciando che quel bruciante liquido dorato mi scendesse giù per la gola, con quel suo piacevole tepore ad invadermi lo stomaco. Poi, barcollando un po', tornai al mobile bar per recuperare un'altra bottiglia, ma fui bloccato dall'insistente suono del campanello e, seppur di malavoglia, andai ad aprire. Lì, accanto al postino che reggeva tra le mani un blocchetto, c'era un enorme pacco regalo che fissai allibito.
    «Il Signor Mustang?» mi chiese, masticando una gomma. Annuii svogliato, e lui mi passò il blocchetto e la penna. «Firmi qui, grazie».
    Una volta firmato glielo restituii e, salutando, il postino se ne andò, lasciandomi il pacco fuori alla porta. Perfetto, adesso mi sarebbe toccato portarlo in casa da solo, dato che Edward era ancora fuori a fare la spesa. Con un po' di sforzo lo spinsi dentro, riuscendo a trascinarlo fino al salotto tra borbottii vari ed epiteti ben poco cordiali rivolti a chiunque. Ma che diavolo c'era lì dentro?! Pesava un accidente! E di certo non mi faceva bene trascinare oggetti pesanti.
    Restai ad osservarlo per svariati minuti, poi, sbadigliando, senza avere alcuna voglia di sapere chi me lo mandava o ad aprirlo, presi quella cara bottiglia di whisky che mi aspettava nel mobiletto, riempiendomi un bel bicchiere fino all'orlo. Scolatomelo subito, mi apprestai a riempirne un altro quando con la coda dell'occhio vidi il pacco muoversi un po'. Sussultai, guardando meglio. Che fossi già ubriaco?
    Mi riavvicinai, inclinando la testa di lato. Feci per allungare un braccio e toccarlo, quando il pacco si mosse di nuovo e si scoperchiò, mostrandomi la figura di Edward. «Ta-dan! Sorpresa!» esclamò a braccia alzate. Indossava a coprirlo appena, parti intime comprese, un enorme nastro rosso che terminava in un piccolo fiocco dietro alla schiena. I capelli tirati all'indietro erano raccolti nella solita coda alta, e gli occhi ambrati mi osservavano maliziosi.
    Lo guardai allibito. «M-Ma... ma che hai combinato?!» esclamai sconvolto. Che cavolo di idee strane gli venivano in mente?! Trent'anni ed era già uscito di senno? Il mondo stava andando davvero a rotoli, ai miei tempi mica ci si comportava così!
Lo vidi gonfiare le guance e appoggiarsi con i gomiti al bordo del pacco.
    «Visto che ad ogni tuo compleanno sei giù di morale», borbottò, mettendo su un broncio adorabile che lo fece sembrare un bambino. «Isabella mi ha dato involontariamente un'idea per farti riprendere», mi rivolse poi un timido sorriso, girando su se stesso. «Ti piace?»
    Non potei fare a meno di ridere, a quella sua dimostrazione. Certo che mia sorella... una ne pensava, e cento ne faceva! Per far fare una cosa del genere ad Edward, chissà che gli aveva detto. «Non ti vergogni?» sghignazzai, scuotendo la testa per poi osservarlo in tutte le sue forme, compiaciuto a dir poco. Uhm, in fondo non era male...
    «Certo che mi vergogno, cosa credi! Non si dovrebbero fare certe cose a trent'anni!» sventolò una mano in aria, grattandosi la testa con l'altra. «Ma una sorpresa è una sorpresa, e se serve a strapparti un sorriso almeno stavolta...»
    Infatti sorrisi. Io non avrei mai avuto il coraggio di conciarmi in quel modo! «Sarò sincero, allora», sussurrai, chinandomi sulle sue labbra. «La sorpresa è ben gradita».
    Lui ridacchiò, un po' impacciato. Si diede poi un'occhiata, riportando la sua attenzione su di me, con quel suo sorrisino squisitamente imbarazzato che mi piaceva tanto, alludendo al proprio corpo prima di scavalcare il bordo del pacco per uscire dalla scatola; mi poggiò entrambe le mani sulle spalle, baciandomi di sfuggita uno zigomo.
    «Muoviti a scartare il regalo», sussurrò rauco al mio orecchio, mentre la mano scivolava un po' più giù. «Questo nastro fa un po' male, non so se mi sono spiegato».
    Mi trascinò lui stesso fino alla camera da letto, gettandomi sul materasso e mettendosi carponi su di me prima di prendermi le mani per portandosele dietro alla schiena, esattamente sul fiocco. Lo tirai delicatamente, stando al gioco, sciogliendolo per liberarlo in un batter di ciglia da quell'ingombro, così da ritrovarlo completamente nudo davanti ai miei occhi. Le sue labbra si chinarono sul mio collo, saggiandolo languidamente, per poi accarezzarmi con piccoli colpetti vogliosi della lingua la mascella.
«Buon compleanno, Colonnello».
    Avevo detto che odiavo il 27 giugno?
Beh, dopo questo avrei dovuto ricredermi.






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Capitolo 4
*** L'apparenza inganna ***


Heart burst into fire_Episode 4 Titolo: L'apparenza inganna
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 362 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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EPISODIO 4: L'APPARENZA INGANNA

    Mi mossi attentamente per evitare di fargli male come l'ultima volta e, con lentezza, ripresi a muovere le mani, sentendolo trattenere un gemito e la stretta convulsa del suo auto-mail sulla mia spalla. Quando l'avevo fatto, non più di qualche giorno prima, aveva urlato talmente forte che mi ero spaventato, quindi ero un po' restio dal farlo, adesso. 
    Nello stringere più forte gli scappò un lamento, così mi fermai, pur guadagnandoci una sua occhiata.
«Non ti preoccupare, Roy», mugugnò, sforzandosi di sorridere. «Continua».
    Scossi la testa e lo accontentai, riprendendo lento il mio lavoro. Per la concentrazione, la fronte mi si era imperlata di piccole goccioline di sudore che rotolavano giù lungo il viso, costringendomi a detergermela di tanto in tanto per evitare che mi cadessero negli occhi; vidi Edward portarsi una mano alla bocca e serrare le palpebre, con un'espressione così dolorosa che quasi mi si strinse il cuore.
    «Andiamo, Ed... non sono affatto bravo», borbottai. «Non ho esperienza».
    «Tu vai avanti e non preoccuparti».
    Sbuffai, alzando lo sguardo al soffitto. Era inutile discutere con lui, ne sarebbe uscito comunque vincitore anche se avessimo litigato su quella questione per tutta la notte. Così feci scivolare le mani lentamente, sentendo di tanto in tanto qualche suo gemito trattenuto. A lavoro ultimato ripulii il sangue con un asciugamano, gettandolo poi lontano e sedendomi sul materasso accanto ad Edward.
    «È l'ultima volta che lo faccio», gli tenni presente, sventolandogli un dito davanti al viso. «Ti faccio troppo male».
    Lui ridacchiò divertito. Alzò la gamba destra - quella su cui, se non ci fosse stato il bendaggio che la nascondeva, sarebbe svettato uno squarcio che gli prendeva gran parte del polpaccio e della parte anteriore -, poggiandola con delicatezza su un cuscino. Le bende si erano già sporcate di sangue, perfetto. Mi diede una leggera pacca sulla spalla, sorridendo, per poi scoccarmi un piccolo bacio sulle labbra.
«Beh... guarda il lato positivo», la buttò lì con una scrollata di spalle.
    «Non c'è un lato positivo», borbottai imbronciato. Lui si metteva nei guai e poi il lavoro sporco toccava a me. Missioni del genere non gliele avrei più fatte affidare.
    Quel fagiolino testardo sorrise serafico. «Aye, invece... la fasciatura resisterà per un po', no?»






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Capitolo 5
*** Lezioni ***


Heart burst into fire_Episode 5 Titolo: Lezioni
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 671 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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EPISODIO 5: LEZIONI

    «Equitazione?» chiesi incuriosito, abbandonando la lettura e osservando con un sopracciglio inarcato Edward, seduto a gambe incrociate sul tappeto. Ce ne stavamo tranquilli nel salotto del mio appartamento, a sorseggiare del the freddo che, in quella giornata afosa, era un vero toccasana, e lui se ne usciva all'improvviso con quella stramba idea.
    «Aye, portami a cavalcare», mi disse di nuovo, reclinando la testa all'indietro per guardarmi con i suoi stranissimi occhi ambrati. Non potei fare a meno di ridacchiare mentre lui chiudeva il suo libro e lo posava sul pavimento, per prendere poi posto accanto a me sul divano. «Non ridere, dico sul serio».
    «Non ti basto io?» chiesi con un pizzico di ironia e malizia. «Vuoi davvero montare un altro cavallo?»
    «Se ci riesco con un Mustang, che è selvaggio...» buttò lì serafico, prendendomi deliberatamente in giro.
    Scossi la testa, poggiando la schiena contro il divano.
«Dammi un valido motivo, su».
    Lui si rigirò attorno al dito alcune ciocche dei capelli che aveva raccolto in una coda alta a causa del caldo, osservandosi distratto l'altra mano per evitare di guardarmi.
«Ma che ti costa portarmici», si lagnò come un bambino, senza però rispondermi.
    «Mi costa che devo sfacchinare per due ore in macchina», gli tenni presente. Sapevo che, dall'altra parte della città, si trovava un maneggio parecchio frequentato e che per raggiungerlo bisognava armarsi di santa pazienza e affrontare il traffico e le lunghe code, e non mi andava assolutamente. Faceva troppo caldo per infilarsi in auto, per non parlare, poi, dei soldi che avrei dovuto spendere.
    «Suvvia, mo dubh, ci voglio andare solo una volta», mi supplicò, guardandomi con occhi dolci e imploranti da cane bastonato, ma non cedetti affatto. Quella carta funzionava solo una volta al mese, e l'aveva già giocata quando aveva rovinato per sbaglio uno dei miei vestiti preferiti quando aveva provato a lavarlo lui, riuscendo solo a restringerla.
    «Non fare il bambino, Ed», borbottai, sventolando un dito. «E poi, ancora non mi hai detto perché vuoi andarci».
Incrociò le braccia al petto, fissando con finto interesse il pavimento.
«Volevo provare, tutto qui», scrollò le spalle. «Al ha detto che mi sarebbe piaciuto, quindi...»
    Ecco spiegato il perché. Un'idea nata da suo fratello. Maledizione, quando avrei rivisto Alphonse gliene avrei dette quattro!
«Ed, hai ventun anni», cominciai, alzando lo sguardo al soffitto. «Se è solo per questo, puoi benissimo andarci da solo».Certe volte si comportava davvero come un bambino capriccioso che pretendeva sempre di vincere, su qualsiasi cosa. Stavo con lui da quando aveva diciassette anni e non ci facevo più caso se voleva avere la meglio su qualsiasi mia decisione, ma stavolta non l'avrei accontentato. Che pericolo poteva correre se ci fosse andato senza di me?
    «E tu mi lasceresti andare lì senza compagnia?» mi chiese, fingendosi scandalizzato.
    Emisi un flebile lamento. Era una vera peste, senza dubbio.
«Non credo ti serva una scorta per montare a cavallo», feci di rimando, sistemandomi gli occhiali sul naso per riprendere poi, bene o male, la lettura.
    Lui, però, posò la mano d'acciaio sulla pagina, impedendomi di leggere.
«E invece penso proprio di sì, conoscendoti.»
    Sbuffai, sebbene non avessi capito quel che voleva dire. «Ehi», bofonchiai irritato, allontanando la mano. «E' vero che hai un bel faccino, ma non credo che i cavalli ti salteranno addosso».
    «Loro no, ma forse alcuni fantini sì», mi informò divertito, e stavolta mi accigliai, togliendo gli occhiali e sbattendo le palpebre in continuazione.
    «Come sarebbe?» chiesi confuso.
    Per un po' evitò di rispondere, facendo il finto offeso, guardando ogni angolo della stanza come a volerlo ben imprimere nella sua mente, senza prestare attenzione alle mie parole.
Poi riportò piano il suo sguardo su di me. «Ci vado da solo, lascia stare», disse infine, alzandosi.
    Lo afferrai svelto per un braccio prima che potesse allontanarsi.
«Spiegati, adesso», replicai schietto.
    Mi squadrò con un sopracciglio inarcato, poi si sedette sulle mie gambe, giocherellando con i bottoni della mia camicia.
«Beh, sai», cominciò, per poi posare la testa sulla mia spalla. «Alcuni di quelli che lo frequentano...» la mano risalì lenta fino ad accarezzarmi una guancia. «...sono gay».
    Aye, l'avrei accompagnato... e senza alcun dubbio!






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Capitolo 6
*** Fotoricordo ***


Heart burst into fire_Episode 6 Titolo: Fotoricordo
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 863 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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EPISODIO 6: FOTORICORDO

    «Non puoi essere tu!» esclamò Edward, osservando sbigottito il mio album di fotografie.
    Entrambi rintanati sotto al piumone e sdraiati a pancia in giù sul materasso, ci godevamo il calduccio della coperta mentre fuori imperversava un furioso temporale, che metteva ben in chiaro la stagione in cui ci trovavamo. Il freddo non mancava quasi mai, in quel periodo. E se non eravamo impegnati nei nostri giochi, leggevamo o, come in quel momento, sfogliavamo vecchi album della mia infanzia.
    «Aye, invece!» gli risposi impettito, con un sorrisone stampato in volto.
    Poggiò una mano sulla pagina vuota e si girò verso di me con un sopracciglio inarcato, indicando poi con il dito d'acciaio la fotografia, picchiettandola.
«Vuoi forse farmi credere che questo bambino così carino e innocente sei tu?» fece, tornando a guardare la foto, rappresentante me a cinque anni.
    Mi limitai ad annuire, divertito dalla sua aria stupita. Girò poi pagina, e mi ritrovai io stesso a sghignazzare quando vidi la foto che stava osservando quasi con meticolosa attenzione, come se non lo credesse possibile. C'ero io all'età di nove anni in compagnia di Maes, entrambi seduti su una delle panchine nel parco che, a distanza di così tanti anni, da quel che vedevo in quella vecchia foto, era cambiato parecchio. Sorrisi al ricordo. Quel giorno erano appena iniziate le vacanze estive, e io, lui e alcuni nostri amici di scuola ci godevamo il meritato riposo dopo una partita.
    «Guarda qua», dissi ad Edward - che osservava la foto nel tentativo di riconoscere i volti, cosa non molto facile, dato il modo  in cui tutti noi sembravamo cambiati - nell'indicare Maes. «Promosso a scuola, e questo stupido già si credeva chissà chi!» Lui infatti sorrideva, fiero e impettito, con un suo braccio dietro alle mie spalle mentre faceva il segno della vittoria a chi scattava.
    Edward mi fissò per un po', prima di riabbassare gli occhi sull'album.
«Nah, dai, quello è Hughes?» mi chiese, sgranando gli occhi e guardando la foto obliquamente, come se cambiare posizione potesse realmente aiutarlo a capire ciò che stava osservando. «Difficile crederlo, senza barba...» sghignazzò poi, lanciandomi uno sguardo a dir poco divertito.
    «Eh già!» sghignazzai a mia volta, sistemandomi meglio sul materasso prima di indicargli nuovamente la foto. «Pensa che ero più basso di lui!»
    Rise di gusto e girò pagina.
«Ah, aye?» fece ironico. «Non si vede molto!»
    «È perché siamo seduti», dissi con fare ovvio, ridendo con lui. «In piedi mi mancava quasi mezza testa di Maes!»
    «Non ci credo!»
    Gli scompigliai i capelli, coprendo entrambi con il piumone.
«Chiedi a lui, allora», gli consigliai. «Sarà felice di rivangare l'infanzia».
    «Beh, immagino!» esclamò divertito. Continuò a girare pagine su pagine, commentando ogni foto che vedeva, chiedendomi chi erano le persone ritratte insieme a me e quando erano state scattate; si interessava come se stessimo intavolando un discorso sull'alchimia e si faceva più vicino quando si rendeva conto che un argomento più spinoso degli altri mi intristiva, domandando al contempo l'ordine cronologico di ogni fotografia sparsa un po' ovunque e senza didascalia. Quando poi si fermò su una pagina e lo vidi sorridere, mi incuriosii. «Oh-oh! Questa è interessante», disse in tono basso.
    Mi sporsi un po' verso di lui per capire di che parlava, e sgranai gli occhi.
«E' una foto compromettente scattata a tradimento!» esclamai rosso in volto. «Pensavo di averla bruciata!»
    Lui si voltò verso di me con le sopracciglia finemente sollevate, e potei benissimo vedere che si stava trattenendo dal non scoppiare a ridere.
«Quanti anni avevi?» mi chiese invece, e la sua voce suonava così spassosa che sbuffai, poggiando il viso sul palmo della mano.
    «Quasi undici», confessai, provocandogli uno sbuffo divertito e una mezza risata che cercò inutilmente di camuffare con un colpo di tosse.
    «E che cercavi di fare? Tentavi di nascondere le prove?»
    Afflitto, annuii, scrollando sconsolato le spalle.
«Tentavo... ho miseramente fallito, come puoi notare», sospirai mesto. «Ma la cara Isabella per quella foto ha ricevuto una punizione esemplare!» esclamai significativo.
    Stavolta gli provocai una grossa risata e lo fulminai con lo sguardo, anche se lui non parve farci minimamente caso.
«Certo... conoscendo tua sorella, sarà stato il contrario!» prese la foto dall'album, rimirandola ancora un po' con sguardo divertito.
    Gli lancia un'occhiataccia.
«Ti sbagli, e ora dammi quella foto che la brucio!» berciai; mi sporsi verso di lui ma si allontanò, facendomi una linguaccia.
    «Nay, nemmeno per sogno!» 
    «La devo bruciare, dai qua!»
    «Non ci penso proprio!» 
    Scoppiò completamente a ridere, rotolando sul materasso e tenendosi lo stomaco per il troppo ridere, con le lacrime agli occhi. Beh, perfetto. Ero proprio contento che la cosa per lui fosse così esilarante, davvero contento... e la mia era pura e semplice ironia, accidenti. Sbuffai e, prendendo l'album, lo richiusi accuratamente per riporto sul comodino, e fu solo a quel punto che Edward interruppe quel flusso e mi guardò, notando la mia aria irritata.
    «Eddai, è divertente!» lo sentii dire mentre sghignazzava ancora un po', ma io mi sdraiai sul materasso senza dargli corda più di tanto, incrociando le braccia dietro alla testa.
    «Per me non così tanto», borbottai, e lui scattò sull'attenti, sventolando la foto che ritraeva me colto sul fatto e continuando a ridere come uno stupido.
    «Aye, invece!» esclamò tra le risate. «A undici anni bagnavi ancora il letto!»






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Capitolo 7
*** Prendere in giro › Ovvero, quando Roy Mustang viene chiamato vecchio ***


Heart burst into fire_Episode 7 Titolo: Prendere in giro (ovvero, quando Roy Mustang viene chiamato vecchio)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 523 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Arancione
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



EPISODIO 7: PRENDERE IN GIRO (OVVERO, QUANDO ROY MUSTANG VIENE CHIAMATO VECCHIO)

    «Che ne diresti di posare quel libro, adesso?» borbottai d'improvviso, infrangendo il silenzio che aleggiava nel soggiorno da un'ora a quella parte.
    Edward interruppe la lettura quasi a fatica, sbattendo le palpebre come a doverle abituare ad una luce troppo forte, quasi fosse rimasto al buio per troppo tempo, e poi mi guardò interrogativo per un po' prima di sorridere sarcastico.
«Ma è interessante», replicò divertito, portando il segno con un dito per sventolare allegramente il libro in aria. «Ho capito perché ti piace tanto».
    Alzai sconsolato lo sguardo al soffitto, abbandonando le braccia dietro allo schienale del divano e appoggiando un piede sul ginocchio opposto prima di sospirare afflitto.
«Me lo farai odiare se non mi degni d'attenzione per leggerlo», ribattei secco, sentendolo ridacchiare piano.
    Non mi prestò attenzione, guardando nuovamente la copertina del libro.
«Il protagonista si fa i problemiproprio come te», riprese, sempre più divertito, e gli lanciai un'occhiataccia. Si portò una mano alla bocca per soffocare le risate, riaprendo il libro dove si era fermato per guardarmi poi ammiccante; dopo un teatrale colpetto di tosse per far scena, cominciò a leggermi un passo ad alta voce, come se lo divertisse. «Che tristezza!” mormorò Dorian Gray, con gli occhi ancora fissi sul suo ritratto.Che tristezza! Diventerò vecchio, orribile, spaventoso, mentre questo ritratto rimarrà giovane per sempre”». Si interruppe per valutare la mia espressione, e io gli vidi la voglia di scoppiare a ridere impressa in volto, mentre continuava a leggere in tono spassoso, sorridente. «Giovane come in questo preciso giorno di giugno... se soltanto potesse accadere il contrario! Se soltanto fossi io a rimanere giovane e fosse il ritratto a invecchiare!”»
    Lasciò cadere il libro a terra e prese a ridere senza ritegno, battendo un pugno sul divanetto mentre tentava di soffocare le risate con l'altra mano, senza curarsi della mia espressione a dir poco infuriata. Mai chiamarmi vecchio alle undici di sera! Mi alzai in piedi e lo raggiunsi sull'altro divano così in fretta che la risata gli morì in gola quando mi ritrovai praticamente a cavalcioni su di lui, mentre gli bloccavo i polsi sopra la testa. I suoi occhi dorati percorsero il mio corpo e si soffermarono su un punto ben preciso, prima che guizzassero nuovamente sul mio volto per incrociare il mio sguardo. Mi sorrise impudente, passandosi allusivo la lingua sulle labbra.
    «Si invecchia, Roy, si invecchia», sghignazzò, alzando le gambe per cingermi i fianchi mentre tentava di liberare i polsi. «E, prima o poi, avrai bisogno di quella bella pillolina per seguire i miei ritmi o, in alternativa, dovrò fare tutto il lavoro io».
    Gli mollai i polsi e lo fissai con finto sguardo intimidatorio, avvicinandomi
con lentezza micidiale al suo volto per sfiorargli il naso con il mio prima di spostarmi verso l'orecchio; glielo torturai con i denti in un misto di sensuale rudezza e dolcezza e lui mugolò, sospirando forte quando scesi lungo il collo e glielo carezzai allusivo con la punta della lingua. Mi allontanai per guardarlo in volto, sentendo fin troppo bene, un po' più in basso, che quel trattamento era ben gradito. Gliel'avrei dato io il vecchio, adesso!
    «Caro fagiolino, ora sei nei guai!»






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Capitolo 8
*** Diamoci... un taglio! ***


Heart burst into fire_Episode 8 Titolo: Diamoci... un taglio!
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 1815 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Maes Hughes, Jean Havoc
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Arancione
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



EPISODIO 8: DIAMOCI... UN TAGLIO!

    Dire che in quel momento mi annoiavo era un eufemismo.
    Avevo passato la maggior parte della giornata a chiacchierare a telefono con Maes perché Edward non era in casa, e quella era una stranezza bella e buona, visto che di solito, soprattutto al Quartier Generale, tentavo sempre di non imbattermi in lui, onde evitare di farmi coinvolgere in una delle uscite da lui organizzate con Jean. Ora me ne stavo lungo disteso sul divano del salotto, con una pezza umida sulla fronte per calmare il forte mal di testa e una voglia di fare praticamente pari allo zero. 
    Fu lo squillo del telefono a costringermi ad alzarmi e, anche se durante i primi cinque fui tentato di ignorarlo, alla fine, al quindicesimo, mi diressi ciondolante verso l'ingresso per rispondere.
«Pronto?» feci sbadigliando.
     < Abbiamo il tuo uomo. > mi disse una voce, una voce che conoscevo fin troppo bene e con cui avevo parlato fino a poche ore prima, quindi fu quasi di riflesso che inarcai un sopracciglio, tamburellando con le dita sul tavolino dove tenevo il telefono.
    «Maes, perché dici stronzate?» chiesi con una punta di sarcasmo. Dall'altro lato della cornetta, sentii degli sbuffi divertiti e la risata inconfondibile di Edward, prima di avvertire un piccolo crepitio e un'altra voce borbottare «Principiante». Ci fu poi un tonfo e un altro crepitio.
      < Se avessi parlato io ci sarebbe cascato, Generale. > si fece sentire la voce divertita di Havoc. < E un colpo le sarebbe venuto eccome! >
    Al suo tono e alle sue parole non potei fare a meno di ridere.
«Mi volete spiegare cos'è questa storia e perché Edward è lì, chissà dove, con voi?» domandai, sentendo il diretto interessato trattenere una risata e, probabilmente, Maes sbuffare. Adesso che ci facevo caso, inoltre, si sentiva un sommesso chiacchiericcio e una bassa musica, quasi fossero...
      < Siamo da Madame Christmas. > fece prontamente la voce di Jean, confermando la mia teoria. < Venga anche lei, Edward dice di voler festeggiare! >
    Ancor prima che potessi ribattere, riattaccò. Guardai per un po' la cornetta silenziosa con le sopracciglia sollevate, stringendomi nelle spalle prima di riattaccare a mia volta e andare a darmi una sistemata per raggiungerli e vedere cosa stessero architettando quei tre folli. Ventotto, trentasette e quarantatre anni... e si comportavano ancora come dei ragazzini alla festa del liceo! Chi li capiva era bravo... anche se, in realtà, io non ero da meno.
    Non restai a rifletterci oltre, mi chiusi gli ultimi bottoni della camicia e agguantai chiavi e portafoglio, uscendo dal condominio per salire in macchina e raggiungere quei due folli che si erano portati dietro il mio ragazzo - cioè, uomo, visto che odiava che lo si considerasse ancora un ragazzino nonostante fosse ancora abbastanza basso per la sua età - al bar. All'interno c'era un bel calduccio confortevole e venni immediatamente accolto da Vanessa, sorridente e zelante come sempre; mi salutò con un mezzo abbraccio e mi indicò Madame con un cenno del capo, alla quale rivolsi un saluto prima di concedarmi divertito da quell'avvenente cameriera. Dovevo ammetterlo, mi stupivo sempre di come mia zia riuscisse ancora a fare tutti quegli affari in quel posto, e forse era anche grazie alla bella presenza di tutte le ragazze di cui si era circondata.
    Scorsi i miei tre idioti poco lontano dall'entrata, sul lato destro del locale. Da quel che vedevo, avevano ordinato qualcosa da bere anche per me, ma ciò che mi stupì, in quel momento, non fu il fatto che, avendomi visto, mi facevano animatamente cenno di raggiungerli schiamazzando, bensì Edward. Accigliato come non mai, mi avvicinai piano al tavolo, sedendomi senza dire una parola mentre continuavo ad osservarlo, o meglio, ad osservare i suoi capelli.
    «Perché mi guardi in quel modo?» mi chiese, inclinando la testa di lato con un sopracciglio biondo finemente inarcato, ma non risposi, restando a boccheggiare come un idiota. Fu Havoc a farlo per me, e sembrava divertito.
    «Temo che il Generale sia sotto shock», sghignazzò, e sentii la sua mano darmi una bella pacca sulla spalla prima di sentire l'odore della sua sigaretta, appena accesa, giungermi alle narici. Ma non vi prestai attenzione, avevo ancora lo sguardo sui capelli di Ed.
    «Devo averti mozzato il fiato, eh?» ironizzò nel lanciarmi un'occhiata, concentrandosi poi sul suo bicchiere per bere tranquillamente il suo whisky come se nulla fosse, imitato da Maes, che sembrava cercasse di valutare la mia espressione stranita.
    «Non fare quella faccia, amico!» cinguettò, allegro come un fringuello. «Non hai nulla da dire al tuo uomo? Sei senza parole?»
    Mi riscossi solo quando, senza preavviso e senza badare al luogo in cui ci trovavamo, Edward mi afferrò con la mano d'acciaio per il colletto della camicia e mi attirò a sé, stampandomi sulle labbra un bacio passionale. Allontanandosi, mi sorrise in un misto di malizia e sfacciataggine.

    «Allora?» mi chiese, poggiando un gomito sul tavolino e far ciondolare l'altro braccio oltre lo schienale della sedia, accavallando con disinvoltura le gambe.
    «Sei...» cominciai, sbattendo le palpebre e continuando a guardarlo perplesso. I capelli che, da quando stavamo insieme e più, aveva sempre portato lunghi, avevano adesso un taglio corto e sbarazzino, quasi simile a quello del fratello, con la sola differenza che non aveva una frangetta laterale ma la fronte scoperta, con giusto qualche ciuffo che vi ricadeva sopra di tanto in tanto quando muoveva la testa. E, essendo abituato a vederglieli sempre legati in una coda o in una treccia, ero rimasto un tantino scioccato e perplesso da quel cambio di look. La sola cosa che era rimasta invariata era la bizzarra anteninna bionda, e di quello, lo ammettevo, ne ero alquanto grato.
    «Ehi, questa è una data da ricordare!» ironizzò Havoc. «L'alchimista di fuoco che non sa cosa dire!»
    «Ordiniamo ancora da bere!» esclamò invece Maes di rimando, e lo vidi passare un braccio intorno alle spalle di Edward.
«Tu te lo fai un altro giro?» gli chiese, e sembrava già pronto ad ordinare anche per lui, che volesse bere o meno, ma Edward annuì, sorridente.
    «Un Vodka Martini», gli disse, prima di avvicinare la sedia a me e cingermi i fianchi dopo avergli lanciato uno sguardo. Riappuntò poi la sua attenzione su di me, sorridendo maggiormente. «Non dovevo tagliarli?» mi domandò in tono vagamente dispiaciuto.
    Non sapendo bene cosa dire, mi grattai dietro al collo con non curanza.
«N-Nay, è che... un po' mi hai sorpreso», confessai, sentendo Havoc ridere.
    «Ha sorpreso anche noi!» replicò, tirando fuori dalla tasca il pacchetto di sigarette per accendersene una nuova. Quando diavolo l'aveva finita, la prima? «Doveva inoltre vedere quanti problemi si faceva!» continuò, ricevendo un'occhiataccia da Edward. «Gli piacerò, non gli piacerò, ho fatto male a tagliarli, e cose simili! Fino a poco fa sembrava una donna in crisi, anche se adesso si atteggia a grand'uomo!»
    Accanto a me, Edward lo fulminò con lo sguardo, facendo lo stesso con me quando mi scappò involontariamente una piccola risata. Poi atteggiò il viso ad un'espressione assolutamente diabolica.
«Attento, Jean», lo ammonì, sorridendo mefistofelico. «So armeggiare molto bene con le pistole, quindi non provocarmi».
    Cogliendo al volo l'allusione, lui scoppiò a ridere, mentre io mi limitai solo a coprirmi il volto con una mano, scuotendo quasi sconsolato la testa.
«Sono lusingato, Ed, ma ho altre tendenze», replicò divertito, lanciandomi un'occhiata. «Infatti ho una bella moglie e un bel figlioletto».
    Lui agitò distratto una mano, facendo finta che io non ci fossi e continuando invece a stuzzicarlo.
«A Riza non dispiacerà che ti rimetta in carreggiata», riprese, ridacchiando per poi stringersi di più a me, poggiandosi contro il mio collo. «Tu che ne dici, Roy? Non ho ragione?» mi chiese in tono spassoso.
    Abbassai lo sguardo per incontrare i suoi occhi dorati che adesso mi osservavano ammiccando, come a volermi far partecipare al gioco, e non potei fare a meno di ridacchiare anch'io.
«Da quel che ho sentito, Jean è un po' scarsetto», lo sbeffeggiai, voltandomi verso di lui e vedendolo con la sigaretta penzoloni fra le labbra leggermente schiuse. «Una ripassatina non può che giovargli, gli farebbe più che bene».
    «Partiamo dal piaffé?» continuò Ed sempre più divertito, mentre vedevo con la coda dell'occhio Havoc boccheggiare. Aveva scherzato con il fuoco, e, se già io da solo ci sapevo fare fin troppo bene - non ero di certo diventato l'alchimista di fuoco per nulla, dopotutto - in due eravamo pericolosi!
    «Io direi un bel passage», replicai ironico, vedendo finalmente Maes tornare con le nostre ordinazioni e, notando il volto sconcertato e sconvolto di Jean, inarcò un sopracciglio.
    «Che avete detto a 'sto poveretto?» ci domandò nel sedersi. Gettandomi un'occhiata divertita e facendo spallucce, Edward prese il suo bicchiere sorseggiando il Vodka Martini come se nulla fosse, mentre io me la ridevo ancora un po', tentando di soffocare inutilmente l'ilarità del momento.
    «Nulla di che», buttai lì sghignazzando.
«Insegnavamo ad Havoc le basi dell'equitazione».
    Dalla sua espressione, Maes sembrò non capire. Così, guardandolo con un sorrisone sornione dipinto in volto, fu Edward a riprendere la parola.
«Saper montare bene un cavallo è alle basi dell'equitazione», fece distrattamente, gettando un'occhiata ad un Havoc sempre più sconvolto che non proferiva ormai più parola, forse per l'essersi immaginato qualcosa che non capivo. «Ci sono le varie andature, e bisogna stare scrupolosamente attenti che non sia il cavallo a guidare, ma il suo fantino...» guardò poi me, sorridendo con una malizia impossibile da definire. «...soprattutto se si tratta di un purosangue, il cui galoppo è molto più difficile del trotto».
    Innocentemente, Maes annuì. Probabilmente, cosa alquanto strana, non aveva capito la sfumatura fra le righe. Colpa del whisky che aveva bevuto e continuava a bere? Possibile. Gli rivolse un sorriso divertito, bevendo un altro sorso.
«Te ne intendi, eh?» replicò, con una vaga punta di divertimento, e altrettanto divertito, Edward fece semplicemente cenno di sì con la testa.
    «Och, naturale», sghignazzò, dando a me una pacca sulla spalla. «E inoltre, per ovvie ragioni, bisogna essere dolci e al contempo decisi con il cavallo, in modo che non si imbizzarrisca e ti disarcioni dalla sella...»
    A quel punto non potei evitarmi di scoppiare a ridere sonoramente, ricevendo delle occhiate sia da Maes che da Edward, che ritornò ben presto ad occuparsi del suo Vodka Martini con non curanza. Hughes invece continuò a fissarmi attraverso gli occhiali con i suoi occhi color smeraldo, prima di bere per l'ennesima volta un lungo sorso del suo whisky.
    «Ho sempre pensato che l'età si facesse sentire, ma non credevo così tanto!» mi prese in giro, e io risi ancora di più, scuotendo la testa.
    «Mai come si sente a te», ribattei, sentendo Havoc tossire appena e concentrarsi nel fumare la sua sigaretta come se non avessimo minimamente aperto bocca.
    Maes inarcò un sopracciglio, senza capire.
«Che c'entro io?» mi chiese.
    Ridacchiai ancora, confermando il fatto che aveva bevuto troppo o quasi.
«Edward diceva ambiguità e tu, da malizioso che sei, non te ne sei reso conto!» esclamai, ridendo ancor di più nel vedere il suo volto atteggiato ad un'espressione più che sorpresa.
    Fu Edward a richiamarci all'ordine, divertito.
«Diamoci un taglio, aye?»






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Capitolo 9
*** Capelli e stanchezza ***


Heart burst into fire_Episode 9 Titolo: Capelli e stanchezza
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 642 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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EPISODIO 9: CAPELLI E STANCHEZZA

    Guardai con un certo disappunto la mia immagine riflessa allo specchio, toccandomi alcuni ciuffi di capelli che erano cresciuti fin troppo.
    Non andavo dal barbiere a far dar loro una spuntatina da secoli, e certe volte ero costretto a legarli in un basso codino che non mi piaceva affatto, sebbene Edward mi avesse ripetuto di trovarmi affascinante conciato in quel modo assurdo. Io mi sentivo tremendamente stupido, soprattutto quando andavo a lavoro e incrociavo gli altri militari che mi osservavano attoniti e divertiti. Più di una volta mi avevano chiesto perché li lasciassi crescere ma, senza aprir bocca, rispondevo sempre con un'alzata di spalle. Purtroppo, essendo stato in missione per due settimane e avendo dovuto firmare documenti arretrati di tre mesi al mio ritorno, non avevo avuto molto tempo per curarmi del mio aspetto. A malapena ero riuscito a farmi la barba come si conveniva, figurarsi quindi se ero riuscito a tagliarmi per bene i capelli.
    Sospirai per l'ennesima volta e sciolsi il codino, inarcando un sopracciglio. I capelli, sebbene fossero ancora molto corti, mi infastidivano fin troppo il collo. Come facesse Edward a portarli lunghi era un mistero per me, ma non sarebbero ancora durati molto: mi sentivo troppo in disordine così combinato, e avrei persino preferito raparmi a zero, piuttosto.
    «Ancora a guardarti allo specchio?» la voce divertita di Acciaio mi riscosse e, quando incrociai il riflesso dei suoi occhi nello specchio, gli feci la linguaccia come una ragazzina.
    «Domani vado a tagliarli, non mi interessa», lo informai, legandoli nuovamente con l'elastico che mi ero fregato in precedenza da quelli che aveva lui. «Mi sento ridicolo così».
    Con un sorriso sornione stampato in volto, mi si avvicinò, cingendomi i fianchi da dietro per strusciarsi contro di me come un gatto. 
«Secondo me sei bellissimo», bofonchiò divertito, assumendo poi un tono di voce caldo e ovattato, quasi sensuale. «Ti trovo terribilmente sexy».
    Sorrisi e mi voltai appena, dandogli un buffetto sul naso.
«Sexy o meno, li taglio», dissi, baciandogli la fronte. «Non mi va proprio di somigliare ad una versione maschile del General Maggiore Armstrong, grazie!»
    «Esagerato!» ridacchiò, sciogliendosi dall'abbraccio per squadrarmi con un cipiglio sarcastico.
    Presi la canotta dal lavandino, infilandomela.
«Va bene, ho esagerato, l'ammetto», feci, prendendolo a braccetto per portarlo con me in camera da letto. «Però, potremo organizzar loro una festicciola d'addio. Che ne dici?»
    La nota maliziosa che trasparì dalla mia voce non gli sfuggì affatto, ma riuscì solo a provocargli una grossa e sonora risata. Lo vidi scuotere la testa, per poi gettarsi sul letto a gambe incrociate.
«Non sei l'unico che lavora, sai?» sghignazzò ironico. «Sono stanco, non penso riuscirei a resistere ai tuoi ritmi!»
    «Andiamo al trotto, dai», mi avvicinai al materasso per inginocchiarmi di fronte a lui, con un'aria da cane bastonato dipinta in volto, ma lui mi scoccò un bacio sulle labbra, poggiandomi il dito d'acciaio sulla punta del naso.
    «Sei peggio di un bambino», borbottò divertito prima di sgranchirsi il collo. «Non sarai come uno di quei trentenni che hanno la sindrome di Peter Pan, vero?»
    «Magari avessi ancora trent'anni!» replicai subito, e lui scoppiò nuovamente a ridere. Poi, con dolcezza, avvicinò le sue labbra al mio collo, sfiorandole appena. Sorrisi quando lo sentii cingermi i fianchi con le braccia, pensando che, dopotutto, non era poi così stanco se mi stuzzicava a quel modo.
    Mi mordicchiò il lobo dell'orecchio e mi gettò 
all'indietro sul letto per bloccarmi i polsi con le mani, e io chiusi gli occhi, già pregustando una bella nottata. Per un po' l'avrei lasciato fare e poi avrei nuovamente preso le redini del gioco, ma mi accigliai un po' quando la presa divenne meno salda e si allentò, tanto che sentii il peso del suo corpo contro il mio. Curioso, alzai piano una palpebra, sbirciando. Vedevo solo la sua chioma bionda.
    «Ed?» lo chiamai. Lo sentii russare e spalancai la bocca, incredulo. Nay... non era possibile! Si era addormentato!






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Capitolo 10
*** [ Special di Halloween ] Dolcetto o scherzetto, Roy? ***


Heart burst into fire_Episode 10 Titolo: Dolcetto o scherzetto, Roy?
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Onne-shot [ 1215 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jean Havoc
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



EPISODIO 10: DOLCETTO O SCHERZETTO, ROY?

    Halloween, la notte del terrore. In special modo per me, che temevo un'altra strana idea da parte del Comandante Supremo, dato che non mi ero ancora ripreso da quando ero stato costretto ad indossare quella gonna chiamata kilt.
    Descrivere il mio stato d'animo e il tremendo imbarazzo che avevo provato, con quel coso addosso, non sarebbe stato possibile nemmeno lontanamente immaginare tutt'ora, e gli sguardi ammiccanti e divertiti che mi aveva scoccato Edward mentre parlava con Havoc o Maes, con il medesimo vestiario addosso, non mi avevano di certo risollevato il morale. Per non parlare poi della battutina ironica che aveva fatto. Passa più aria, aveva detto divertito. E gliel'avevo data io l'aria, dopo!
    Adesso, nei corridoi quasi del tutto in penombra del Quartier Generale, mi guardavo intorno per non essere beccato da qualcuno e non essere costretto ad indossare chissà che vestiario di dubbia moralità. Erano tutti nella sala più grande dell'edificio per sistemare le ultime cose per il party di Halloween e ai piani superiori, probabilmente, c'ero solo io. Gettai un'altra occhiata nervosa intorno, sospirando e abbassando sconsolato la testa prima di poggiarmi una mano sul petto. Lo ribadivo. Dannazione a Bradley e alle sue idee.
    D'improvviso, sentii qualcosa di gelido poggiarsi sulla spalla, poi il contatto con qualcosa di pungente contro il collo e, preso alla sprovvista, mi lasciai involontariamente sfuggire un urlo. Una risata risuonò alle mie spalle, e mi voltai di scatto con uno sguardo così infervorato che l'artefice dello scherzo sussultò, facendomi poi una linguaccia.
    «Mi hai fatto prendere un colpo!» sbraitai, con il cuore che mi batteva impazzito nel petto. Percorsi il suo corpo dall'alto in basso, restando sorpreso di trovarlo così coperto se ripensavo alle geniali idee precedenti di Bradley: aveva indosso un pantalone di seta nero praticamente aderente, esattamente come il panciotto dal quale si intravedeeva una camicia con le maniche orlate di pizzo; un mantello, anch'esso rigorosamente nero, gli cingeva le spalle
, e alle mani - una delle quali aveva portato alla bocca per soffocare le risate - aveva dei guanti bianchi molto fini, all'apparenza anch'essi di seta. I capelli erano come loro solito legati in un'alta coda, e i ciuffi ribelli erano riportati all'indietro in modo da tenere la fronte scoperta. Quando allontanò la mano e mi sorrise, potei scorgere fra le sue labbra delle zanne appuntite e brillanti da vampiro.
    «Chi saresti, il conte Dracula?» chiesi con una punta d'ironia.
    Senza dire una parola, prese un lembo del mantello e si coprì il volto a metà, in modo che vedessi solo i suoi occhi dorati, divertiti. Fece un mezzo inchino, muovendo divertito la mano libera, e poi, aggraziato come non lo era mai stato, lasciò ricadere il mantello, poggiando il suo auto-mail sul mio petto e cominciando a giocherellare con non curanza con i bottoni della giacca della divisa prima di avvicinare il suo volto al mio.
    «Sono il tuo peggiore incubo», sussurrò solo, per poggiare poi le sue labbra sulle mie, e in breve cominciammo a consumare quel bacio, ma dovetti separarmi dai lui ben presto perché, inavvertitamente, sfiorai con la lingua uno di quei canini che credevo finti facendomi male. Lo sentii ridacchiare, prima di vederlo leccarsi le labbra. «Com'è baciare un vampiro?» mi domandò in tono spassoso.
    Con un polpastrello mi sfiorai appena la punta della lingua, gettando un'occhiata a quei canini ben in mostra fra le sue labbra.
«Ma che... sono veri?» feci in risposta, con voce un po' strana.
    Gli strappai un'altra risata, prima che mi afferrasse il volto e mi costringesse ad aprire la bocca, come per valutare eventuali danni.
Appurato che era tutto a posto, annuì. «Diciamo che ho giocherellato un po' con l'alchimia», buttò lì, facendomi un'altra linguaccia prima di allargare le braccia e indicare il proprio corpo. «Anche questo vestito è frutto di abiti in disuso trasmutati alla meno peggio!»
    Mi portai una mano a massaggiarmi la fronte, quasi scoraggiato. Alle serate organizzate dal Comandante Supremo si divertivano tutti. Chi invece veniva preso in giro, puntualmente, ero io.
«Ti ho mai detto quanto sei impossibile?» replicai con un sopracciglio inarcato.
    Lui annuì sempre più divertito e, prima ancora che potessi aggiungere altro, fu la voce di Havoc a distrarmi; voltandomi, non potei fare a meno di assumere un'espressione disperata e lasciarmi sfuggire un lamento. Aveva un paio di soffici - o almeno così mi parvero - orecchie da cane sulla testa, con tanto di coda che sporgeva da un pantalone scuro molto aderente stracciato al ginocchio, mentre il petto era completamente esposto allo sguardo, con gli addominali scolpiti in bella mostra. Alle mani, poi, aveva dei peli che ne ricoprivano il dorso, con tanto di unghie lunghe.
    «Abbiamo anche il lupo cattivo», ironizzai afflitto.
    Lui gettò un'occhiata a me e poi ad Edward, per poi guardare se stesso quasi stranito prima di tornare ad osservare me.
 «In realtà sarei un licantropo», mi spiegò a braccia conserte. «E comunque, pensavo che a quest'ora fosse pronto».
    «È rimasto sconvolto da questo bel pezzo di vampiro che vedi qui», si intromise subito Edward, prima che potessi dire qualcosa in mia difesa.
    Havoc lo guardò divertito, sul punto di scoppiare a ridere. Ignorandomi temporaneamente, si avvicinò a lui e si massaggiò il mento con una mano, girandogli intorno per osservarlo in ogni minimo particolare e annuire compiaciuto. E quasi mi sentii fremere dalla voglia di incenerirlo per come lo guardava! Gli diede poi una pacca sulla spalla, annuendo ancora.
«Mi sa che vincerai tu, Edward!» esclamò divertito, lanciandomi un'occhiata che, per qualche oscura ragione, mi parve alquanto strana. «A meno che il Colonnello non riesca a trovare un costume migliore, ovvio».
    Passato lo stupido momento di gelosia, mi accigliai e mi grattai la testa.
«Non dirmi che c'è anche una gara», feci, molto vicino ad una crisi di nervi. Li vidi annuire entrambi e mi ritrovai a scuotere la testa sconsolato, con le loro risatine divertite che mi facevano sentire ancora peggio. E le loro espressioni e i loro sorrisi, in quel momento, mi apparvero pericolosi, tremendamente pericolosi. Deglutendo, feci istintivamente un passo indietro quando li vidi sfregarsi le mani e avanzare verso di me con quel sorrisino vagamente bastardo stampato in volto. «C-Che avete intenzione di fare?!» squittii nervoso.
    In men che non si dica, mi sentii trascinare via con facilità da Havoc - e in quel momento maledii il fatto che fosse più alto di me e avesse decisamente maggior prestanza fisica -, che mi aveva letteralmente caricato sulle spalle fino agli spogliatoi, quegli stessi spogliatoi che portavano con sé il trauma del kilt, come l'avevo ormai definito io. Edward ci raggiunse subito dopo con qualcosa dietro la schiena, e quel sorriso non mi piaceva affatto.
    Mi si avvicinò piano, a passo cadenzato, senza parlare e senza mostrarmi quel che teneva con così tanta cura nascosto mentre Havoc osservava entrambi, divertito. Che cosa dovevo aspettarmi?
«Il costume l'ho scelto io», mi informò, e, senza che ne sapessi realmente il perché, mi ritrovai a deglutire al solo pensiero di quel che aveva potuto escogitare. E le risate di Havoc confermavano la mia teoria. Facevo bene a terrorizzarmi!
    «E, anche se non c'entra un granché, con Halloween» riprese con un sorriso smagliante, con un cipiglio che mi parve terribilmente mefistofelico mentre si sedeva su una delle panche e mi mostrava ciò che lui aveva definito costume,
«penso che con il perizoma di Tarzan farai un figurone!»






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Capitolo 11
*** Milk Shake › Ovvero, come riuscire a far bere un po' di latte... ***


Heart burst into fire_Episode 11 Titolo: Milk shake (ovvero, come riuscire a far bere un po' di latte ad un certo fagiolino)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Onne-shot [ 1164 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



EPISODIO 11: MILK SHAKE (OVVERO, COME RIUSCIRE A FAR BERE UN PO' DI LATTE AD UN CERTO FAGIOLINO)

    Era ancora buio, fuori, quando mi svegliai.
    Sbirciai appena oltre l'orlo del piumone nel tentativo di focalizzare la lampada e accenderla per vedere l'orario, la luce resa soffusa dal debole watt che usavamo. Me ne tornai ben presto rintanato nel mio bozzolo, abbracciando possessivo il calore del corpo di Edward; se ne stava ancora piacevolmente immerso nel mondo dei sogni, con la bocca leggermente schiusa a ronfare beato, senza però che le labbra avessero abbandonato il sorrisino appagato con cui si era addormentato. Avevo i piedi e la punta del naso completamente gelati perché mi ero accorto che gran parte del piumone se l'era fregato Edward, e cercai di scaldarmi come potei stringendomi addosso a lui, sentendolo mugugnare infastidito al contatto della mia pelle nuda e fredda. Di questi tempi, addormentarsi senza nulla addosso dopo aver fatto l'amore non era di certo la mossa più grandiosa che poteva venirci in mente. E adesso, sveglio, ne pagavo le conseguenze.
    Strusciai il viso fra i suoi capelli nel tentativo di riacquistare almeno in parte la mia temperatura corporea, ma ci rinunciai ben presto quando lo sentii lamentarsi nel sonno e agitare la mano d'acciaio per schiaffarmela poi in faccia, ottenendo in quel modo di aumentare solo il mio gelo. Riluttante, e con un brivido che mi corse lungo la spina dorsale, sgusciai fuori dal piumone alla ricerca dei miei vestiti, e una volta infilato il pigiama presi frenetico a massaggiarmi le mani sulle braccia, dirigendomi a passi mogi e ciondolanti verso la cucina. Avevo intenzione di preparare qualcosa di caldo, visto che non riuscivo a riaddormentarmi a causa del freddo.
    Una volta entrato, accesi la luce e trattenni un sonoro sbadiglio, scavando nella credenza alla ricerca di qualsiasi cosa.
Anche una tisana mi andava bene, in quel momento. Alla fine optai per la cosa più ovvia del mondo, dato che su di me aveva un buon effetto rilassante, peggio di quello che poteva avere su un bambino. Un bel bicchiere di latte caldo. Ancora assonnato presi il bricco e un bollitore dal mobiletto e, con un altro sbadiglio, versai abbondantemente il latte al suo interno.
    Con gli occhi già mezzi chiusi dal sonno - erano le quattro di mattina, al mio posto chiunque sarebbe crollato -, mi apprestai ad accendere il fuoco del fornello e regolare la fiamma, ma l'improvvisa voce impastata di Edward mi fece sussultare e rovesciare tutto sul pavimento, nonché scottare due dita. Ironicamente, il pollice e il medio della sinistra. Un gran bel colpo per l'alchimista di fuoco, eh? Me le portai subito alle labbra e succhiai i polpastrelli, accarezzandoli con la lingua prima di voltarmi verso di lui, che si stava stropicciando come se nulla fosse gli occhi, sbadigliando di tanto in tanto. Indossava la mia vestaglia nera che gli arrivava ben oltre il ginocchio, e che lo teneva ben caldo date le gote leggermente arrossate.
    «Che stavi facendo?» mi chiese, strofinandosi il viso con una mano e avvicinandosi poi a me per alzare il bollitore da terra, contemplando per poco la chiazza di latte. Corrucciato, lo vidi posarlo sul ripiano accanto al lavandino prima di lanciarmi un'occhiata a sua volta ,scuotendo la testa nel vedere la pietosa scena che stavo allestendo; mi prese con ben poco garbo la mano per valutare i danni, dandomi poi un buffetto divertito sul naso. «L'alchimista di fuoco che si scotta accendendo un fuocherello», ironizzò con un sopracciglio inarcato. «Devo temere la catastrofe anche verso i piani inferiori?»
    Sbuffai a quell'offesa alla mia virilità, voltando lo sguardo di lato e notando con la coda dell'occhio Edward cercare qualcosa da applicare sulle dita, anche se non erano ustionate o messe poi tanto male. «Non dovresti avere certi dubbi», lo apostrofai, sobbalzando di sorpresa al contatto con la crema. «Fino a poche ore fa non ti lamentavi affatto».
    Sghignazzò, annuendo però divertito alle mie parole. «Beh, non è mica colpa mia se non riesci a tenere la pistola nella fondina a lungo», buttò lì malizioso, massaggiandomi delicato i polpastrelli con le dita della sinistra.
    Gli scoccai un'occhiata obliqua, sorridendo serafico. «Io invece credo di sì, visto che la tiro fuori per dar battaglia a te», replicai con un tono che sfociava vagamente nel bastardo.
    Lo vidi immusonirsi prima che si sporgesse oltre la credenza e ne tirasse fuori due cerotti, che applicò su entrambe le dita. «A volte mi chiedo come faccio a sopportarti», bofonchiò a denti stretti, mollandomi la mano per cominciare a ripulire almeno in parte il disastro che avevo combinato.
    «Mi sopporti perché sono irresistibilmente sexy», mi vantai con un sorriso, aiutandolo. Ironico e scettico, mi lanciò un'occhiata, e la sua espressione, in quel momento, sembrava voler dire tutto. Sia in positivo sia in negativo.
    «Scendi dal piedistallo», mi disse sarcastico, gettando quasi con una smorfia di disgusto il poco latte rimasto nel bollitore nel lavandino. «E poi si può sapere come fai a bere questa roba a quest'ora?»
    Gli tolsi il bollitore da mano e gli scompigliai con l'altra i capelli, ricevendo da lui un'occhiataccia per come lo trattavo di tanto in tanto, e cioè come se fosse un ragazzino di quindici o sedici anni circa. Beh, ormai ne aveva ventiquattro... ma, in qualche modo, lo trovavo divertente e spassoso. «Questa roba, come la chiami tu, è buonissimo e sanissimo latte», lo informai, vedendolo contrarre il volto in una smorfia. Su quel punto, nonostante gli anni che passavano, non aveva affatto cambiato opinione. Ancora non gli piaceva, bere il latte.
    «Questo non spiega comunque perché sei di qua in cucina con questa roba invece che di là con me», borbottò, facendo il finto offeso. E sapevo bene come tirarlo su di morale, quando faceva così.
    Abbandonai il bollitore e, sorridendogli ammiccante, registrai con la coda dell'occhio il bricco del latte; so
rrisi ancor di più, con una strana idea che mi era balzata nella mente. Cinsi i fianchi di Edward con le braccia, facendo in modo che non vedesse a sua volta il bricco prima di baciargli il collo. «Non riuscivo a dormire», sussurrai, sentendolo a sua volta abbracciarmi attorno ai fianchi per sporgersi verso di me come per aspirare ad un contatto più profondo, chiudendo gli occhi.
    A quel punto me ne approfittai, allungando un braccio verso il latte per bere appena un sorso e baciare subito Edward, più che sicuro che, sebbene non lo vedessi, avesse strabuzzato gli occhi. Consumai quel bacio più in fretta che potei, riuscendo a far assaggiare anche a lui il latte - un po' mi colò anche lungo il mento - e quando ci separammo del tutto lo vidi portarsi frenetico una mano alla bocca, come se non ci credesse.
    «Vedi che in fondo il latte è buono?» sghignazzai, ricevendo da lui un'occhiataccia.
    Mi fulminò con lo sguardo e io iniziai a correre, ridendo, con le sue urla adirate che mi seguivano in ogni dove, infischiandocene entrambi dei possibili reclami che avrebbero potuto fare le persone degli altri appartamenti per gli schiamazzi notturni a cui ci stavamo - anzi, si stava - dedicando con tanta foga. «Questa volta ti castro, parola di Edward Elric!»






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Capitolo 12
*** Tutte a me capitano! › Ovvero, quando Roy Mustang non riesce a... ***


Heart burst into fire_Episode 12 Titolo: Tutte a me capitano! (Ovvero, quando Roy Mustang non riesce a...)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 1046 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



EPISODIO 12: TUTTE A ME CAPITANO! (OVVERO, QUANDO ROY MUSTANG NON RIESCE A...)

    «Ho voglia di una torta di mele», disse di punto in bianco Edward, gettato sul divanetto dall'altro lato della stanza.
    Abbandonai per un po' la lettura del mio giornale per squadrarlo attraverso gli occhiali da vista che indossavo, soppesando con interesse la sua espressione e notandolo con lo sguardo puntato verso uno degli archivi che ingombravano la Break Room in cui ci trovavamo per una piccola pausa.
    Inarcai finemente un sopracciglio e ripresi distratto il giornale, accavallando con disinvoltura le gambe al di sotto del tavolo.
«Devo considerarla una proposta indecente?» gli chiesi con velato sarcasmo, e lui si lasciò sfuggire uno sbuffo innervosito prima di lanciarmi un cuscino che scansai fortunatamente in tempo, vedendolo con la coda dell'occhio schiantarsi contro il vetro della finestra prima di cadere abbandonato sul pavimento.
    «Ma tu vedi perversità anche dove non ci sono?» sbottò, facendomi ridacchiare. Mi ero sempre divertito a fargli perdere le staffe a quel modo.
    «È maleducato rispondere ad una domanda con un'altra domanda», lo informai, trattenendo un sorriso con un tremito divertito nella voce mentre voltavo distrattamente pagina.
    «Sai quanto me ne può fregare di essere maleducato con te», replicò arcigno, nonostante sembrasse sorridere. Gli lanciai quindi un'occhiata di sbieco per valutare la sua espressione, vedendo difatti l'ombra di un sorriso incurvargli appena le labbra.
    «Abbiamo cambiato discorso?» sghignazzai, voltandomi verso di lui anche con la poltrona e posando sul tavolino dietro al quale era seduto il giornale per sorreggermi il volto con il dorso della mano destra. Lo vidi agitare distratto l'auto-mail su cui aveva issato le maniche della giacca e della camicia, come se volesse liquidarmi cordialmente.
    «Meglio tenersi lontani da parole che tu potresti fraintendere», fece quasi con fare ovvio, passandosi poi con fare non curante l'altra mano fra i corti capelli per ravvivarli all'indietro.
    Sorrisi, scuotendo la testa divertito. «Non sono così malato», gli tenni presente, annuendo poi significativo, e lui scoppiò in una grossa e sonora risata.
    «Ci sono persone che lo confermerebbero, invece», ribatté, poggiandosi una mano sulla coscia e piegando l'altra gamba sotto di essa. «Sei malato».
    «Io direi più che mi piace divertirmi», replicai subito, ricevendo da lui un'occhiata di sbieco. Si picchiettò il petto con due dita, inarcando un sopracciglio.
    «A mie spese», disse, facendomi ridacchiare lievemente.
    Alzai entrambe le mani in segno di resa, sollevando un angolo della bocca. «Ehi, anche tu fai la tua parte», mi difesi, e ancora una volta mi guardò male.
    «Quelle rare volte», rispose prontamente, grattandosi dietro al collo.
    «Beh, dettagli», sghignazzai. Lo vidi incrociare le braccia al petto per poi distendersi all'indietro sul piccolo divanetto, poggiando un piede calzato di stivale su di esso per accavallare le gambe e far aderire la schiena ad uno dei braccioli. Mi squadrò sarcastico, per poi sorridere.
    «Tanto lo so che ti piace quando sono io a comandare», buttò lì, vago e distratto, divaricando le gambe come a voler alludere a qualcosa.
    Per un po' lo guardai, accigliato e stranito.
Poi, con un piccolo colpetto di tosse, distolsi lo sguardo, vagamente imbarazzato. Odiavo ammetterlo, ma quella sottospecie di fagiolino ci sapeva fare. Non aveva di certo l'esperienza che avevo io alla sua età, ma anche con i suoi ventott'anni suonati, riusciva a far impazzire uno con la mia fama. Tossicchiai ancora, vedendolo con la coda dell'occhio cambiare posizione. «Ma sai anche che preferisco essere io a dirigere il gioco», mi decisi a ribattere, notandolo mentre faceva spallucce scuotendo la testa.
    «Come hai detto tu, dettagli», mi sbeffeggiò, voltandosi appena per guardarmi.
    Risi falsamente, alzandomi dalla mia postazione. «Ah ah ah, divertente», feci, cominciando a camminare avanti e indietro per la stanza sotto il suo sguardo più che attento.
    «Comunque non ho cambiato idea», mi richiamò, fermando la mia passeggiatina; lo guardai, sbattendo perplesso le palpebre senza capire.
    «Su cosa?» chiesi incuriosito, e lui sorrise, soffiandosi via dal volto alcuni ciuffi di capelli che gli erano ricaduti sugli occhi.
    «Sul fatto che voglio una torta di mele», riprese, e io mi ritrovai a scuotere quasi sconsolato la testa, con una mano sul fianco e l'altra a massaggiarmi una tempia.
    «So cucinare di tutto ma con i dolci sono una frana, lo sai», gli dissi gettandogli appena un'occhiata.
    Edward sorrise con una punta di seduzione. «Vorrà dire che me la comprerai, vero?» concluse, come a voler avere la meglio.
    Mi avvicinai al divano, toccandogli la punta del naso. «Domani, se me ne ricordo, te la comprerò», feci in risposta, vedendolo metter su una falsa espressione imbronciata.
    «Ma io la voglio adesso», si impuntò come una ragazzina, afferrando un altro cuscino per portarselo al petto e abbracciarselo.
    «L'erba voglio cresce solo nel giardino del Re», sghignazzai, scostandogli di poco le gambe per farmi spazio sul divanetto stretto.
    «Non sei spiritoso», ribatté, inclinando la testa di lato per squadrarmi, e io lo guardai a mia volta, con un sorriso malizioso dipinto sulle labbra.
    «E infatti non volevo esserlo», gli tenni presente, sporgendomi un po' verso di lui in modo da fondere i nostri respiri. Si sistemò meglio sul divano senza smettere di abbracciare il cuscino, portandoselo vicino alle labbra per nascondere metà volto.
    «Vecchiaccio», bofonchiò con voce sommessa, facendomi scoppiare a ridere.
    Con un po' di attenzione, mi portai sopra di lui restando sospeso a guardarlo, con le mani poggiate sul divano vicinissime ai suoi fianchi. «Questo vecchiaccio sa ancora toccare i tasti giusti», cominciai malizioso, chinandomi sul suo collo per dargli appena un bacio, scendendo frattanto voglioso con la mano verso il suo basso ventre nel tentativo di volere di più, ma lui mi fermò con la sua d'acciaio, muovendo un dito dell'altra.
    «E non dovrebbe», sghignazzò, abbandonando il cuscino per sottrarsi al mio corpo, senza guardarmi negli occhi.
    «Perché?» chiesi io, vedendolo che osservava qualcosa oltre la mia spalla. Mi voltai verso il punto che fissava, restando avvilito nel vedere i soliti due guastafeste - non era difficile immaginare chi fossero - accompagnati questa volta anche da Riza. E nel vedere la mia espressione, alla loro risata si aggiunse anche quella di Edward.
    «Per non fare scandalo con loro, ovvio!»






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Capitolo 13
*** Play... boy? ***


Heart burst into fire_Episode 13 Titolo: Play... boy?
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash fiction [ 502 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



EPISODIO 13: “PLAY... BOY?”

    Sbadigliai sonoramente e sbattei le palpebre per abituarle alla fioca luce del sole che filtrava attraverso le persiane, dalla cui finestra aperta a metà entrava un lieve venticello gelido che, sebbene mi trovassi avvolto nel piumone, mi fece rabbrividire.
    Avevo un certo fastidio verso i piani bassi ma, assonnato com'ero, non ci feci caso, provando a riaddormentarmi e affondando la testa nel cuscino; u
n altro alito di vento mi fece correre un brivido violento che mi fece tremare e sbattere i denti, e il piumone fu spostato di lato. Mi ritrovai a tremare ancor più forte e, riaprendo gli occhi, registrai la figura di Edward, già vestito con la sua divisa, che mi faceva cenno di alzarmi. Stranamente sembrava trattenersi dal ridere, data la sua espressione corrucciata e il modo in cui si mordeva il labbro inferiore.
    «Forza», disse. «Ha chiamato Riza, siamo...» Non resistette oltre, scoppiando in una sonora risata che lo costrinse a piegarsi a mezzo busto e tenersi il braccio d'acciaio sullo stomaco e una mano sulla bocca per contenere almeno in parte l'ilarità. «Siamo in... ahah! Ritardo!» concluse con le lacrime che avevano cominciato a scorrergli copiosamente lungo le guance per il troppo ridere.
    Ancora mezzo assonnato e, diciamolo, incapace di intendere e di volere date le mie condizioni comatose per il gran sonno, non gli badai molto, grattandomi una guancia mentre mi rimettevo quanto meno in piedi, poggiando i piedi oltre il bordo del materasso. Il fastidio fra le gambe c'era ancora, ma supposi che fosse per il fatto che la sera prima ci eravamo andati giù un po' troppo pesante, sia con il sesso che con il whisky - difatti ero letteralmente crollato, anche se la testa non mi doleva, adesso - quindi anche a quello non feci caso. Edward intanto continuava a ridere, per un motivo che sulle prime, non riuscii a capire. O, almeno, finché non mi ritrovai davanti allo specchio del bagno, e restai talmente sconvolto che non ebbi nemmeno la forza di urlare il mio disappunto. Ero... ero vestito...
    Sentii un tic nervoso all'occhio e all'angolo della bocca mentre facevo scorrere lo sguardo sul mio abbigliamento ben poco ortodosso, soprattutto per un uomo. Avevo solo una vaga idea del perché fossi vestito così invece di indossare il mio pigiama. Forse per lo scherzetto del latte di pochi giorni prima. E poi stavo anche morendo di freddo, con le braccia scoperte in quel modo. Per non parlare del fastidio fra le gambe, che adesso capivo a cosa era dovuto. Calze a rete, una specie di costume nero fin troppo aderente, colletto della camicia con papillon... persino le maniche ai polsi. L'abbigliamento lasciava ben poco spazio all'immaginario collettivo.
    Mi riscossi subito appena lo realizzai pienamente, strappandomi di testa quelle lunghe e ridicole orecchie bianche mentre mi fiondavo alla ricerca di Edward. «Maggiore Edward Elric!» tuonai, avanzando per casa a grandi falcate, almeno per quanto quel vestito me lo consentisse. «Che diavolo ci faccio vestito da coniglietta!?»






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Capitolo 14
*** [ Flash Contest ] Strange Love Story › Il nostro inizio ***


Heart burst into fire_Episode 14 Titolo: Strange love story (Il nostro inizio)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 2224 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ FLASH CONTEST ] EPISODIO 14: STRANGE LOVE STORY (IL NOSTRO INIZIO)

    «Si può sapere dove diavolo mi sta portando, Colonnello?» mi chiese Acciaio con fare annoiato, infrangendo il silenzio che regnava ormai da più di quarantacinque minuti nell'abitacolo della mia auto.
    Senza staccare gli occhi dalla strada asfaltata su cui sfrecciavamo, gli scoccai appena una fuggevole occhiata, non ritenendo necessario rispondergli immediatamente.
In quella situazione era meglio concedergli il beneficio del dubbio. Soprattutto perché sarei stato io, dopo, a farne le spese. Ancora mi chiedevo perché mi cacciassi in certi rompicapi che non avrebbero fatto altro che farmi ritrovare, come si suol dire, cornuto e mazziato. Innamorarmi di un ragazzino quasi diciassettenne appena entrato nella sua cosiddetta pubertà. Proprio un bel problema, il mio.
    «Allora? Mi vuole rispondere?» la sua voce improvvisa fu in grado di ridestarmi parzialmente dai miei catastrofici pensieri.
    Spazientito quanto lui, gli lanciai un'altra occhiata, accostando ad un lato della strada prima di spegnere il motore sotto il suo sguardo alquanto confuso. Staccai le mani dal volante e poggiai un gomito al di sopra dello schienale del sediolino, voltandomi con il busto verso di lui in modo da poterlo osservare attentamente in volto. Quell'aria da so tutto io che aveva stampata sul viso si accentuò maggiormente quando sollevò un angolo della bocca, dando vita ad un sorriso ironico e bastardo quanto i miei.
    Deciso più che mai a cancellargliela, mi sporsi un po' verso di lui come se volessi provare ad intimorirlo, gli occhi ridotti a due fessure mentre lui corrugava le sopracciglia.
«Riesci a stare cinque minuti senza fare domande?» gli sbottai contro in tono esasperato, vedendolo aggrottare la fronte.
    Edward si scostò un po' da me indietreggiando sul sedile quasi senza un motivo preciso, incrociando le braccia al petto, non prima di essersi scostato la treccia che gli era ricaduta su una spalla. «Le ho solo chiesto dove andiamo», borbottò con un tono di voce che sfociava tra il sarcastico e l'offeso. «Non mi va di fare la candela se deve rimorchiare, quindi mi sembra doveroso da parte sua mettermi al corrente».
    Non mi andava a genio che mi considerasse anche lui un libertino, ma ormai sembrava che ce l'avessi tatuato in fronte. Sono uno stallone in cerca di giumente, lo dice anche il mio nome. Certo, uno stallone che si ritrovava a girare intorno ad un puledrino, o meglio, un pony. Non ero certo che mi avrebbe creduto se gli avessi detto che provavo qualcosa di speciale per lui. «Non devo rimorchiare nessuna donna», risposi, voltandomi nuovamente per avviare il motore e tornare in strada, con la luce del sole morente che ci accompagnava nella nostra bizzarra traversata verso il nulla. Volevo solo allontanarmi un po' con lui, non avevo una meta precisa.
    Acciaio si sporse verso il cruscotto e poggiò sopra un braccio, così da mantenere in precario equilibrio il volto nel palmo d'acciaio.
«Difficile credere che non sia in giro in cerca di un bel pezzo di figa, caro Colonnello», mi sbeffeggiò con una punta d'ironia e amarezza, come se ciò che lui stava immaginando non gli piacesse affatto.
    Provare a convincerlo che ciò che volevo l'avevo già trovato sarebbe stato come gettare denaro ai porci: i
nutile e infruttuoso. Così non ribattei e continuai a guidare, con quello strano silenzio imbarazzante che era tornato a galleggiare pesantemente fra noi, rendendo quella traversata peggiore di quanto credessi al principio. Non ero affatto abituato a trattare con i ragazzini, e se si aggiungeva il fatto che il ragazzino in questione era Acciaio... porcaccia, perché mi ero ritrovato in quel pasticcio? Con tutti quei pensieri che mi opprimevano le pareti del cervello, mi fermai solo quando il paesaggio intorno a noi si oscurò, attenuando ogni colore circostante. Eravamo nei pressi di un motel fuori città, la nostra auto parzialmente nascosta dalla quasi fittissima vegetazione che lo circondava. Ricevetti da Acciaio uno sguardo spaesato quando sfilai le chiavi dal quadro e le tenni in mano prima di aprire la portiera per scendere.
    Vedendolo ancora immobile, sbuffai, chinandomi a mezzo busto per sbirciare all'interno dell'auto.
«Che vuoi fare, Acciaio, dormire in macchina?» ironizzai, e lui, a quelle mie parole, sbatté perplesso le palpebre, come se non capisse.
    «Vuole affittare una camera?» chiese di rimando decidendosi ad uscire e a chiudere - con tanto di sicura - la portiera, deglutendo a disagio. «In quel posto?» aggiunse, indicando con il dito d'acciaio il motel.
    Mi limitai solo ad annuire risoluto mentre chiudevo a chiave l'auto, incrociando poi le braccia al petto. E seppur riluttante e con una certa agitazione, lui mi seguì restando in silenzio mentre parlavo in fretta e senza giri di parole con il proprietario, che gettava di tanto in tanto qualche sguardo a me e poi a lui. Quando mi consegnò le chiavi accompagnandoci entrambi fuori, in una delle camere adiacenti e poi si congedò, sentii Acciaio emettere un basso lamento, chiudendosi la porta alle spalle. Faceva scorrere come me lo sguardo sull'arredamento, soffermandosi soprattutto sul letto matrimoniale che occupava il centro. Ehi, era già tanto essere riusciti a trovare una stanza... quello del letto era un inconveniente valicabile.
    «Ci dormo io lì, vero?» fece indicandolo, con la testa voltata verso di me.
    Inarcai un sopracciglio, scuotendo la testa. Beh, non era esattamente quello che avevo in mente all'inizio, ma avrei almeno potuto avere un pizzico di intimità con lui. «Il lato di destra è mio», mi limitai a dire, vedendolo di sfuggita restare di stucco; cominciai a togliermi la camicia e mi compiacqui del suo sguardo e delle sue gote leggermente arrossate. Poi mi coricai senza dire una parola disfandomi delle scarpe, sbadigliando sonoramente e incrociando le braccia dietro alla testa.  «Beh? Non vieni?» gli dissi, sbadigliando ancora.
    Il rossore sulle sue guance andò ad intensificarsi. Che fosse un tipo così pudico? Nay, c'era dell'altro. E se anche lui provava qualcosa per me? Era mai possibile quel che stavo pensando? Nah, non dovevo farmi certe illusioni. «Guardi che a me non sembra poi tanto normale dividere il letto con un altro uomo, Colonnello», mi tenne presente, e mi sembrò di vederlo deglutire. «Strano che proprio a lei la cosa non la disturbi». Nonostante l'espressione decisa e saccentemente distaccata che aveva in volto, la sua voce aveva un leggero tremito che lo tradiva. In quel momento non mi dispiaceva affatto ammetterlo. Era adorabile. Benché stesse cercando di fare il duro.
    Con un sorriso, mi rialzai e mi avvicinai ad una spanna da lui, abbassando lo sguardo per poter meglio incontrare i suoi occhi dorati. Non parlammo per niente, ma dopo poco, deglutendo, lui distolse lo sguardo, ritrovandosi ad osservare il mio petto. E non potei non sorridere maggiormente, nel vedere il rossore che gli saliva sempre di più al viso. Seppur avrebbe considerato sfacciato il mio comportamento, mi chinai verso di lui in modo da potergli sfiorare appena un orecchio con le labbra, sentendolo sussultare al tocco. «Io non ci vedo nulla di male a dormire con un uomo», sussurrai, con una voce roca e sensuale che ero solito usare nei momenti d'intimità. «Soprattutto se l'uomo sei tu».
    Da quelle mie parole ambigue e provocatorie, adesso, dipendevano le mie condizioni nei prossimi secondi che sarebbero passati. Mi stavo preparando psicologicamente ad un rifiuto o ad incassare qualche pugno, ma stranamente non ricevetti nessuno dei due. Sentii solo la sua risatina. Infantile e incerta, vero. Ma cristallina. Un suo sguardo dorato e luccicante, subito dopo, mi incatenò completamente al suo volto dai lineamenti morbidi e ancora fanciulleschi.
    «Si è dato alla caccia agli uccelli, a quanto sembra», disse scherzoso ma con voce titubante, forse nel tentativo di alleviare la tensione.
    Non resistetti molto, gli cinsi i fianchi con entrambe le braccia attirandolo verso di me così tanto da farlo quasi aderire al mio petto nudo, nonostante la sua espressione stupita. Gli rubai un bacio, appena uno per assaporare la consistenza delle sue labbra di sfuggita, non volendo approfondire nulla, fra noi. E quando lo guardai nuovamente in quegli occhi d'ambra, erano sì dilatati per la sorpresa, ma con quel velo trasognato d'imbarazzo che quasi mi sembrò sfociare nell'erotico. Ma forse era colpa della mia astinenza da sesso, quel particolare.
    Lui si allontanò un po' da me e mi poggiò le mani sulle clavicole per evitare il petto, deglutendo sonoramente mentre si leccava inconsciamente le labbra.
Per non far sparire la sua solita aria, Acciaio cercò di sollevare le labbra in un sorriso sardonico ma, non riuscendoci, diede invece vita ad un sorriso così dolce che stentavo a credere gli appartenesse. «Lo scapolo d'oro d'Amestris che bacia un uomo», sghignazzò, ma con imbarazzo. «Immagino che questo spezzerà il cuore di molte donne».
    Mi lasciai andare ad una risata liberatoria, non sentendo più quella strana aria di pesantezza ad opprimerci e avvolgerci come un lenzuolo. «E a te la cosa sta bene?» replicai solo, con un enorme sorriso stampato in volto e che vedevo riflesso nei suoi grandi occhi dorati.
    Annuì e sorrise a sua volta, abbassando le braccia lungo i fianchi. «Finché sta bene a lei, perché non dovrebbe star bene a me», fece, distogliendo appena lo sguardo senza però abbandonare il sorriso. «E lo confesso, non potevo sperare di meglio, in realtà».
    «Stessa cosa vale per me», ribattei mormorando dolce, arrischiandomi a prendergli le mani fra le mie prima di baciarne delicato i dorsi, portandolo poi verso il letto. E quella sua aria d'audacia sfumò del tutto. Si agitò un po', provando a farmi mollare la presa, ma provai a rassicurarlo, stringendogliele ancor più forte per calmarlo. «Non ti preoccupare, non ti tocco», sussurrai, ben sapendo quale fosse il suo timore, in quel momento, dopo quel mio gesto. Roy Mustang più letto... uguale sesso. Equazione molto semplice per chiunque. Nonostante la mia rassicurazione quindi, mi costrinse a lasciarlo sfruttando la forza del suo braccio d'acciaio, allontanandosi un po' da me.
    «Me lo giura?» mi chiese, con un rossore che non gli avevo mai visto.
    Con decisione, annuii energico, portandomi una mano alla fronte come per fare il saluto militare. «Parola di soldato», dissi sicuro, vedendolo ancora tentennare. «Non sono così depravato da sedurre un minorenne e portarmelo a letto», soggiunsi a mo' di rassicurazione ancor più risoluta.
    Anche se non era del tutto convinto dei miei principi morali, si riavvicinò un po' scrutandomi ancora insicuro prima di sedersi sul bordo del materasso.
Restando con quella sua solita maglietta a giro maniche nera, si tolse solo la giacca del medesimo colore poggiandola sul comodino, sfilandosi poi gli stivali. Aggraziato ai miei occhi, si tolse anche l'elastico rosso che contrastava con il colore dorato dei suoi capelli cominciando a sciogliersi la treccia, e quei fili di grano gli ricaddero in un'onda morbida e ambrata sulle spalle. Restai a guardarlo quasi estasiato, ricevendo una sua occhiata perplessa. Il biondo sopracciglio inarcato d'altronde, non faceva che accentuare la sua espressione scettica.
    «Perché mi guarda in quel modo?» mi domandò, sollevando maggiormente il sopracciglio.
    Sorrisi, stringendomi nelle spalle. Mica potevo dirgli che mi piaceva un casino con i capelli sciolti, no? «Nulla di che», mi limitai quindi a dire, facendo nuovamente spallucce. «Pensavo che in quasi quattro anni è la prima volta che ti vedo con i capelli sciolti».
    Sbuffò impercettibilmente, passandosi le dita fra quella chioma dorata che stavo rimirando e elogiando mentalmente. «Scusi se lo dico, ma lei è proprio idiota, Taisa», rispose semplicemente senza aggiungere altro, sdraiandosi accanto a me quando lo feci anch'io. Evitò accuratamente il minimo contatto fra noi, tenendosi le coperte fin sotto al naso e lanciandomi di tanto in tanto delle occhiate come per controllare che tenessi le mani a posto. Ne intercettai una, sorridendogli. E senza che lui potesse dire nulla lo attirai a me facendo in modo di abbracciarlo da dietro, non approfondendo però il contatto fra i nostri corpi. Non volevo si agitasse; ma sussultò comunque, voltando appena la testa verso di me. «Tenga a cuccia Fido, mi raccomando», mi ammonì, tra il severo, l'ironico e l'imbarazzato. «Non vorrei avere sorprese che premono quando mi sveglio, grazie».
    Ridacchiando, mi avvicinai una mano al viso e ne baciai due dita delicatamente, portandomele poi al petto con grazia. «Ho un perfetto auto-controllo», garantii, posando il mento sulla sua spalla prima di chiudere gli occhi con un sorriso. «Fidati».
    Forse troppo stanco per ribattere, lui si limitò ad annuire. Come se fosse naturale farlo, lo cullai fra le mie braccia finché non si addormentò beatamente sul mio petto, i capelli biondi e morbidi che vedevo per la prima volta sciolti mi solleticavano appena la pelle, una sensazione piacevole e serena.
    In quel momento, nel nostro abbraccio, non c'era nulla di erotico.
E non ero abituato a quella strana... purezza che sentivo. Con quel nostro bizzarro modo di fare ci eravamo bene o male confessati il nostro amore, e la cosa mi andava bene anche così. Avevo la certezza che, quella, fosse solo una delle tante notti che avremmo passato insieme. Restai così a godermi ogni singolo respiro che sfuggiva dalle sue labbra rosee e il calore del suo corpo contro il mio, ispirando il profumo dei suoi capelli con bramosia.
    Quella gemma imperfetta ma preziosa era mia, e non l'avrei mai più lasciata andare.






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Capitolo 15
*** [ Special di Natale ] Vigilia di Natale ***


Heart burst into fire_Episode 15 Titolo: Vigilia di Natale
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash fiction [ 2600 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Famiglia Hughes
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ SPECIAL DI NATALE ] EPISODIO 15: VIGILIA DI NATALE

    Aprendo piano gli occhi, scoprii che la mia vista era coperta da qualcosa che ricordava vagamente l'oro, sfocata com'era. Focalizzando meglio l'immagine e sbattendo ripetutamente le palpebre per scacciare la patina della sonnolenza, riconobbi i capelli biondi di Edward. Lo sentii muoversi appena e il suo intero corpo strusciò contro il mio, facendomi rabbrividire di piacere insieme all'aria gelida che filtrava attraverso le fessure della finestra. Lui alzò la testa e mi guardò con un luccichio malizioso negli occhi dorati e, passandosi allusivo la lingua sulle labbra, capii le sue intenzioni non appena la sua mano sinistra cominciò a giocherellare con il mio inquilino al piano di sotto. Soffocai un gemito quando concluse, sentendo qualche istante dopo il peso della sua testa sul mio petto mentre la mano vagava distratta lungo un fianco.
    «Buona vigilia di Natale», sussurrò, e colsi una nota divertita nella sua voce bassa. «Sei più sveglio, adesso?»
    Gli carezzai la schiena con un sorrisetto soddisfatto sulle labbra. «Sveglissimo, direi», mormorai, e lo sentii ridacchiare. «Auguri anche a te», soggiunsi poi, e lui avvicinò il volto per posarmi sulle labbra un piccolo bacio.
    «Se sei sveglio, allora...» fece con un sorriso, cominciando a far vagare distrattamente due dita sul mio petto nudo. «...che ne dici di alzarti e andare a fare la spesa per il cenone?» Mi lasciai sfuggire un lamento, voltando la testa di lato e affondando una guancia sul cuscino, mentre sentivo il suo corpo scosso da risatine incontrollate. «Andiamo, mo dubh, lo sai che saremo in tanti stasera, no?» riprese nel sedersi a cavalcioni su di me, e mi trattenni dal sospirare di piacere al leggero contatto tra noi. «E Hughes ci ha chiesto il favore di fargli la spesa! Non puoi voltare le spalle ad un amico in difficoltà!»
    Continuò la sua tiritera melodrammatica per un buon quarto d'ora, finché non mi decisi a voltare nuovamente la testa verso di lui per guardarlo, con un'espressione che, ne ero sicuro, sembrava più irritata che sconsolata.
«Dovrei abbandonare il mio bozzolo di calore per andare a gelarmi le chiappe là fuori?» gli chiesi con ovvietà, inarcando un sopracciglio. Categorico e senza dire una parola, lui annuì, e io alzai lo sguardo al soffitto, sospirando. «Guarda che se esco tornerò stile ghiacciolo», gli tenni presente, e lo sentii ridere sonoramente.
    «A me piacciono i ghiaccioli», sghignazzò, posandomi poi un bacio sul naso. «Soprattutto quelli al limone».
    Avevo deviato quel ragazzo in una maniera bestiale. Non riuscivo quasi a credere di averlo reso così malizioso. «Mi spiace tanto per Maes, ma dovranno accontentarsi con quello che hanno in frigo», mi impuntai, scuotendo la testa sul cuscino. «Io non esco a fare la spesa la Vigilia di Natale».
    «Generale Mustang, da lei non me lo aspettavo!» esclamò, scostandosi da me per inginocchiarsi sul materasso. «Dov'è finito il suo spirito natalizio? E soprattutto... come le viene in mente di abbandonare un soldato in difficoltà! In tanti anni della mia onorata carriera, non avevo mai visto nulla di simile!»
    Mi sfregai una mano sulla fronte, ridacchiando alla sua drammaticità da attore shakespeariano. Girandomi su un fianco, mi ressi il volto sul palmo della mano, osservandolo e sorridendo ironico. «Ehm...» lo richiamai con un colpetto di tosse. «...quali anni di onorata carriera, mio caro Tenente Colonnello Elric?» ghignai, vedendolo interrompere di botto la sua solfa. «Non sei mica un veterano!»
    Lui mi squadrò con un sopracciglio inarcato. «Guarda che, anche se ho solo ventotto anni, sto nell'esercito da molto più di te», fece ovvio, annuendo a se stesso mentre alzava l'indice d'acciaio.
    Mi ritrovai a ridere, a quella sua constatazione. Undici anni che stavamo insieme, e questo ragazzo - o meglio, uomo - continuava a stupirmi! «Questi ventotto anni non li vedo da nessuna parte», replicai divertito, vedendolo assottigliare con fare minaccioso gli occhi dorati. «Mi ricordi un ragazzino quindicenne che conoscevo tanti anni fa», continuai, prendendolo in giro. «Aveva sempre una ridicola treccina e un ancor più ridicolo cappotto rosso che lo faceva somigliare ad un fagiolo d'Azuki».
    Edward mi tirò il naso con ben poco garbo, facendomi mugolare di dolore poiché usò la mano destra per farlo. I suoi occhi, atteggiati ad un'espressione arcigna, mi scrutarono per un po', prima che le labbra gli si stirassero in un sorriso mefistofelico. «Visto che mi hai preso in giro, ti tocca alzarti, adesso», disse divertito, ravvivandosi distrattamente i corti capelli biondi all'indietro, distogliendo come se nulla fosse lo sguardo.
    Sorrisi anch'io, stiracchiandomi sul materasso. «E se mi rifiutassi?» chiesi prontamente.
    Mi sorrise ancor di più, sfacciato. E quel sorriso lo conoscevo fin troppo bene. «Sai, uno dei miei buoni propositi per l'anno nuovo potrebbe essere quello di prendermi una specie di... periodo di pausa», si guardò appena, quasi svogliato, la mano d'acciaio. «Niente carezze, niente baci... niente sesso».
    Rimasi sbigottito, spalancando la bocca. «E no, eh!» mi lagnai, drizzandomi a sedere. «Non puoi farmi questo!»
    Allungò il braccio meccanico poggiandomi un dito sulle labbra, divertito. «E chi me lo proibisce?» replicò spassoso, e io gli scansai la mano, attirandolo verso di me.
    «Io, logico!» ribattei, ma gli provocai una sonora risata.
    «Ehi, a quarantadue anni dovresti darti una regolata. Io lo faccio solo per te». A quel suo dire gli diedi un pizzicotto e lui, lamentandosi, si massaggiò la guancia con fare offeso. «Non ho detto nulla di male», borbottò. «Non sei più giovane come una volta, in fondo, mi preoccupo».
    Inarcai un sopracciglio. Odiavo quando si parlava della mia età. Soprattutto durante le vacanze natalizie. «Su queste cose sono ancora agile come un giovanotto, lo sai», gli tenni presente, vedendolo gettarmi un'occhiata sarcastica; poi un sorrisone sornione gli si dipinse in volto e si sporse verso di me per scoccarmi un bacio a timbro sulle labbra.
    «E che giovanotto», fece sensuale, accarezzandomi lascivo il collo. «Ma abbiamo ancora una questione in sospeso, ti ricordo», si allontanò da me per alzarsi in piedi. «Si va a fare spese!» Prima ancora che me ne rendessi conto, mi afferrò saldamente per un braccio e, sfruttando la sua forza, mi costrinse ad alzarmi dal materasso.
    Rabbrividii al contatto con l'aria gelida mentre sorpassava il piccolo alberello addobbato che avevamo in corridoio e mi trascinava, fischiettando allegro un motivetto natalizio e seguito a ruota da Sam - appena sbucata dal salotto -, in bagno; a
prì il getto caldo della doccia e mi ci buttò sotto, voltandosi verso la nostra cucciolotta per farla stare fuori prima di seguirmi svelto e bagnarsi la testa. Restai immobile sotto l'acqua che scrosciava sulle nostre teste con un sopracciglio inarcato, mentre lo vedevo arraffare lo shampoo e strofinarselo fra i corti capelli, gettandomi appena uno sguardo più che divertito.
    «Beh? Per caso devo lavarti io, vecchietto?» sghignazzò, notando che non mi ero ancora mosso a causa della confusione. «Ti accompagno, non ti basta?»
    Alzai stupidamente lo sguardo, ritrovandomi il viso completamente investito dal getto d'acqua; Edward trattenne a stento le risate, poi la sua mano afferrò la mia, passandomi il sapone. Scossi la testa, arrendendomi ormai all'evidenza. Dovevamo uscire. Passammo però più di venti minuti a giocare sotto la doccia, schizzandoci addosso l'acqua come dei bambini nonostante fossimo entrambi uomini fatti e cresciuti, tra bolle di sapone e risatine divertite, giocando persino con Sam, che era riuscita ad aprire la porta e si era infilata nella doccia insieme a noi, abbaiando allegra. E poi, pronti e incappottati, salutammo la nostra figlioletta e cominciammo a vagare fra le strade di Central City con il freddo che si insinuava attraverso il nostro vestiario, mentre sorpassavamo persone che, ritardatari come noi, compravano le ultime cose per la serata. Ci dirigemmo così, senza fretta, a procurarci tutto il necessario per il cenone a casa di Maes, cercando di riscaldarci come potevamo nei nostri cappotti. Certo che, con tutte le persone che Hughes aveva invitato, poteva benissimo risparmiarci quella passeggiata a Briggs!
    Girovagammo per i negozi del centro per quasi tutta la giornata, prima di riuscire a trovare quel che ci serviva e, alle 19:00 in punto, eravamo già davanti casa Hughes, con le buste della spesa ben strette fra le braccia. Venne ad aprirci Glacier, con indosso un grembiule. Ci sorrise appena ci vide e ci salutò, aprendo completamente la porta. «Coraggio, entrate! Non vorrete restare al gelo, vero?» esclamò gioviale, spostandosi di lato per farci accomodare in casa, al calduccio. La vidi di sfuggita aiutare Edward con le buste per alleggerirgli il carico.
    «Grazie, Glacier», fece lui, gettandomi un'occhiata. «Questo vecchietto non poteva portare da solo tutte queste buste!»
    Lei rise divertita, sistemandosi meglio la spesa. «Hai fatto bene ad aiutarlo!» gli diede manforte, ed entrambi mi osservarono di sottecchi, come se si aspettassero che rispondessi a tono. Invece, chinando il capo come un galantuomo, oltrepassai il corridoio e mi diressi in cucina, seguito appena dalle loro flebili risate, poggiando poi le buste che reggevo io sul tavolo. Lì aleggiava un profumino così delizioso e un tepore così piacevole, che quasi quasi sarei rimasto, fregandomi magari qualche biscotto allo zenzero che vedevo su un vassoio poco lontano, dove c'era anche un bel piattone di struffoli strapieni di miele. Mi leccai le labbra, già sentendone il dolce sapore nel palato. Ma prima che potessi anche solo provarci, la voce di Glacier mi ammonì.
    «Mi spiace tanto, Roy, ma quelli per adesso sono per i bambini», mi informò divertita, e voltandomi, la vidi entrare in cucina con Edward, che stava posando le buste accanto alle mie.
    «Ma oltre a Jake e ad Elicia non ci sono bambini», protestai, ben sapendo però che definire bambina Elicia era un eufemismo bello e buono. Forse il figlio di Havoc lo era, ma lei no.
    Glacier ridacchiò, sistemandosi meglio il grembiule. «Maes e Jean non li conti?» sghignazzò, cominciando a svuotare le buste, aiutato da Edward che, stranamente, aveva lanciato a me uno sguardo divertito.
    «Allora anche Roy entra benissimo nella categoria, Glacier!» esclamò difatti, avvicinandosi a me per afferrarmi un braccio e spingermi fuori dalla cucina. «Vai a ciondolare da un'altra parte, qui ti mangeresti solo tutto!»
    Mi ritrovai a fare spallucce pensando stupidamente che la mattina stessa non aveva fatto altro che chiamarmi vecchio, e adesso invece mi dava del bambino. Sospirando, mi diressi a passo mogio verso il salotto, dove trovai Maes ad Elicia completamente sommersi dalle decorazioni, tra palline rosse e blu e tra rose color oro che spuntavano fra il verde degli aghi dell'albero. Sorrisi alla scena. Io e Edward c'eravamo limitati a quello striminzito alberello che avevamo nel corridoio - che puntualmente Sam faceva cadere per divertimento - e a mettere la scritta Buone Feste contornata dal pungitopo. Maes, invece, aveva pensato persino al vischio. Avevamo poco spirito natalizio, forse...
    Ridendo divertiti come dei bambini, finirono di addobbare l'albero, prima di accorgersi della mia presenza nel bel mezzo del salotto. Appena mi vide, Elicia mi sorrise gioviale, gettandomi le braccia al collo. «Auguri, zio!» esclamò, dandomi un bacio sulla guancia.
    Le scompigliai i capelli con una mano, sapendo fin troppo bene che quel gesto la mandava in bestia, vedendo con la coda dell'occhio Maes riporre le decorazioni inutilizzate nello scatolo posto sul lato destro della stanza. Si sistemò gli occhiali sul naso voltandosi verso di me, gli occhi smeraldo sembravano sorridere.
    «Eli, meglio se vai a dare una mano alla mamma», disse alla figlia, guardandola mentre cercava si sistemarsi i capelli che io le avevo scompigliato.
    Lei lo guardò a sua volta, sorridendo. «Dovete parlare di cose da uomini?» chiese innocente, e vidi Maes trattenere una risata. Annuì divertito, e sentii lo sguardo di Elicia puntato su di me. «Zio Ed?» mi domandò prontamente. Più la guardavo, e più non potevo fare a meno di pensare che il tempo passava troppo velocemente. Quasi non riuscivo a credere che avesse sedici anni!
    «È anche lui in cucina», mi decisi a risponderle, e annuendo con fare significativo, atteggiandosi a gran donna, ci lasciò ai nostri cosiddetti discorsi da uomini, sorridendo e ridacchiando divertita mentre spariva alla volta della cucina.
    Maes ridacchiò e mi lanciò uno sguardo divertito, facendomi poi cenno di seguirlo verso il divano, dove ci gettammo sopra a peso morto. «È il decimo o l'undicesimo anno, che venite a festeggiare qui?» mi chiese, con un sorriso dipinto sulle labbra.
  Sorrisi a mia volta, reclinando la testa all'indietro sullo schienale del divano, concentrandomi con fin troppo interesse sul vischio appeso al lampadario. «L'undicesimo, Maes, l'undicesimo», mormorai con inconsapevole dolcezza, chiudendo gli occhi. Quelli erano stati gli anni migliori della mia vita, i più pieni di gioia che avessi mai passato. Non riuscivo nemmeno ad immaginarmi come avrei potuto passarli, se al mio fianco non ci fosse stato Edward. Mi aveva letteralmente riempito la vita, con la sua presenza.
    «Undici anni di natali insieme», mormorò a sua volta, e mi parve dalla voce che stesse continuando a sorridere. «Che gli regali, stavolta?» mi chiese divertito.
    «Se ti dicessi che è una cosa che non si può dire?» replicai, abbassando lo sguardo per osservare il suo volto, atteggiato ad una maschera di curiosità.
    «Devo supporre che sia qualcosa per i vostri giochini?» fece, con un sopracciglio inarcato, sistemandosi meglio gli occhiali sul naso.
Scoppiai a ridere, scuotendo divertito la testa.
    «Perché mi credete tutti così pervertito?» domandai io, facendo finta di nulla, e ci guadagnai un'occhiata sarcastica. Più che sarcastica, mi corressi.
    «È maleducato rispondere ad una domanda con un'altra domanda, Roy», sghignazzò, dandomi una pacca sulla spalla. «E comunque sì, tu sei più che pervertito».
    Con non curanza, non mi presi la briga di rispondere, mentre facevo distrattamente scorrere lo sguardo per il salotto, soffermandomi sorridente sull'albero addobbato. «Devo farti i complimenti, Maes», dissi, cambiando discorso, alzandomi dal divano per guardare l'albero più da vicino. «Tu ed Elicia avete fatto proprio un lavoro con i fiocchi».
    «Modestie a parte», fece, passandomi un braccio dietro alle spalle. «Siamo stati veramente bravi».
    Sghignazzai, divertito. Era tutta la mattina che ridevo per un nonnulla, forse era colpa di quel giorno di festa, chissà. «Ma sentitelo il papà!» esclamai. «Non ti montare la testa!»
    «Ma chi? Io?» ridacchiò, portandosi teatralmente una mano al petto, squadrandomi. «Non mi chiamo mica Roy Mustang!» Gli assestai una bella pacca sulla spalla, facendolo barcollare appena in avanti. Si sistemò gli occhiali sul naso, allontanando il braccio per farli ricadere entrambi lungo i fianchi. «Dai, che scherzavo», bofonchiò con un cipiglio sarcastico.
    Ricominciammo parlare del più e del meno, ricordando persino gli anni in cui eravamo dei ragazzini per chissà quanto tempo, andando di tanto in tanto in cucina per vedere cosa combinavano ai fornelli le nostre donne e beccandoci puntualmente - soprattutto da Edward che, con un coltello in mano, faceva tremendamente paura - una sgridata. Restammo in salotto a chiacchierare finché non arrivarono anche gli altri, e ci riunimmo tutti in sala da pranzo quando la cena fu pronta.
    L'atmosfera era calma, serena, straordinariamente famigliare mentre, tra risate e battibecchi, consumavamo tutto ciò che Glacier metteva in tavola, brindando.
Io gettavo sguardi ai volti di ognuno, godendomi come ogni anno i loro sorrisi, la loro gioia, e non potevo fare a meno di sorridere a mia volta ogni volta che incrociavo lo sguardo felice di Edward, che parlava animatamente con il fratello.
    Il calore di una famiglia gli era sempre mancato, e
d ero più che felice di riuscirglielo a dare. Almeno nel mio piccolo.







_Note inconcludenti dell'autrice
We wish you a merry Christmas, We wish you a merry Christmas, We wish you a merry Christmas, and happy new year! Buon natale a tutti! Cioè, buona vigilia! 
Una mezza cosa su questa festa sono riuscita a scriverla anche io e a postarla prima di domani, e anche se non è un granché, viene dritta dritta dal cuore, e spero passiate un bel Natale in compagnia. E tantissim auguri a
Red Robin che diventa un anno più vecchio/a! Augurissimi, cara alter ego mio!
Spieghiamo una cosa veloce veloce prima di sparire: Sam (O meglio, Samantha) verrà presentata un po' più avanti, anche se qui ho accennato la sua presenza con i due alchimisti.
Io vi saluto e vi do' ancora gli auguri, vado a rimpizzarmi di cibo, dolci e panettone!
Mianntan!




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Capitolo 16
*** [ Storia Fuori Serie ] Visita inaspettata ***


Heart burst into fire_Episode 16 Titolo: Visita inaspettata
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist
Tipologia: Flash fiction [ 3207 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



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[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 16: VISITA INASPETTATA

    Era una serata come tante. Avevamo appena finito di cenare e adesso ci trovavamo entrambi seduti su uno dei divani del soggiorno, a leggere e a bere whisky. Quella sera saremmo dovuti uscire, ma, a causa della pioggia battente che aveva cominciato a scrosciare, parecchie strade si erano allagate e, dato che la mia auto era un bel po' vecchiotta, la batteria, in giornate del genere, ci abbandonava. Quindi avevamo rimandato a quando il tempo ce l’avesse permesso, decidendo di passare una normale e tranquillissima serata a casa.
    Cercai di concentrarmi come potevo sul mio libro, gettando di tanto in tanto occhiate interessate ad Edward, immerso completamente nella lettura.
Non mi stava minimamente calcolando... lo odiavo, quando faceva così. Con non curanza, mantenni il tomo con una mano, allungando l’altro braccio verso di lui per cingergli le spalle e attirarlo un po' a me. Ricevetti un suo sguardo divertito, prima che abbandonasse il libro sulle ginocchia e si ravvivasse all’indietro i corti capelli.
    «Suppongo tu ti stia annoiando, vero?» ironizzò, dando vita ad uno di quei sorrisi maliziosi che mi mandavano in delirio ancora adesso nonostante il passar degli anni.
    Mi avvicinai maggiormente e gli scansai la mano occupata, in modo che cadesse sul divanetto, facendolo sedere su di me a cavalcioni. «Un pochino sì, lo confesso», sghignazzai, rubandogli un bacio; il suo sorriso si incurvò contro le mie labbra e mi poggiò le mani sui fianchi, allontanandosi dal mio viso per scendere lungo il collo, che sfiorò appena con la punta del naso, scansando il maglione a collo alto che indossavo.
    «Una pausa serve anche a me», rise contro la mia pelle, facendomi scorrere un piacevole brivido lungo la schiena.
    Di sottofondo alle risatine soffocate e ai mugolii che ci lasciavamo sfuggire ad ogni bacio, c’era il ticchettio della pioggia contro i vetri e qualche rombo di tuono che solcava il cielo, ma d’improvviso, a sovrastare tutto e a fermarci, fu qualcosa che cadeva nel corridoio al di fuori dell'appartamento, poi il rumore di qualcuno che sembrava volesse cercare di forzare la serratura. Io e Edward ci scambiammo un’occhiata, annuendo impercettibilmente. Se quello era un ladro, aveva sbagliato indirizzo. Non tutti avrebbero avuto le palle di derubare due alchimisti di stato famosi come lo eravamo noi.
    Lanciandomi un altro fuggevole sguardo, Edward si alzò allontanandosi da me con un movimento furtivo, avvicinandosi al comodino adiacente al divano per aprire il cassetto a doppio fondo, dove tenevamo nascoste le 9mm. Impugnò la sua con la sinistra e la tenne contro il petto, sentendo i rumori provenienti dall’ingresso divenire più netti. Senza fiatare, mi alzai altrettanto silenziosamente, prima che Edward mi passasse anche la mia pistola; poiché avrebbe fatto troppo rumore non aveva trasmutato il braccio, e vedevo il disappunto con cui impugnava la sua arma mentre ci avvicinavamo alla soglia del soggiorno.
    Con un cenno della testa, gli indicai il lato sinistro e, annuendo, lui si accostò al muro facendovi aderire la schiena, con la pistola ben salda nella mano.
Lo imitai, tendendo l’orecchio. I rumori erano cessati. Sentii però il cigolio della porta che ruotava sui cardini e mi tenni pronto, con il dito sul grilletto, sentendo dei passi che si addentravano nell’ingresso; quando l’ombra dello sconosciuto si parò sulla soglia, uscimmo entrambi dal nostro nascondiglio, puntando le pistole al suo petto prima ancora che lui potesse fare qualcosa o avvicinarsi maggiormente per esporsi alla luce del soggiorno.
    «Whoa!» esclamò la voce, e avanzò con le mani alzate, osservando le bocche delle pistole anziché i nostri volti. «Con quanta premura accogliete vostro figlio!»
    Mi venne voglia di sparargli sul serio, a quel cretino. Abbassai la pistola in simultanea con Edward, che era rimasto spiazzato quanto me da quell’ospite inatteso. «Jaz, ti rendi conto che ci hai fatto prendere un colpo?» disse, portandosi una mano al petto e traendo un lungo sospiro, come se volesse calmarsi.
    «Scusa, Oto-san», borbottò lui, abbandonando le braccia lungo i fianchi prima di lanciarmi un’occhiata. «Non intendevo spaventarvi, ‘Ka-san», soggiunse rivolto a me, enfatizzando soprattutto l’ultima parola. Ecco, adesso mi prudevano le mani per non aver premuto il grilletto. Davvero perfetto.
    «Quante volte ti ho detto che non devi più chiamarmi così?» lo ammonii, vedendolo sorridere.
    «Quand’ero piccolo non facevi tante storie», bofonchiò divertito, quasi sembrava potesse scoppiare a ridere da un momento all’altro, data la sua espressione.
    Inarcai un sopracciglio, ironico. «Avevi tre anni», dissi a mo’ di spiegazione.
    Sempre con quel sorriso spudorato dipinto in volto, si ravvivò all’indietro i capelli mori, dal taglio sbarazzino che gli accentuava i lineamenti decisi ma al contempo delicati del viso e gli angoli degli occhi cerulei; prima che potesse dire qualcos’altro in sua difesa, fu Edward a precederlo. Aveva poggiato la pistola sul ripiano dei libri, e adesso sorrideva rivolto ad entrambi.
    «Non sgridarlo appena arrivato, Roy», mi richiamò in tono spassoso, facendo sorridere maggiormente il nostro caro figlioletto. «Venite, su, beviamo qualcosa».
    Accanto a me, Jaz ridacchiò. «In teoria non potrei bere, Oto-san», gli disse, cominciando però ad avviarsi verso il divano e vedendo Edward riempire i bicchieri con non curanza.
    «Certo che puoi bere», replicò lui, porgendoglielo. «Sei una recluta, mica un monaco!» esclamò, facendolo scoppiare a ridere.
    Intanto io assistevo al loro scambio di battute, impugnando ancora la pistola, impalato accanto alla soglia del soggiorno. Mi veniva da ridere e non sapevo il perché. Forse perché era da tanto che non vedevamo nostro figlio. L’avevamo adottato quando aveva la tenera età di tre anni, e, diventato più grande, aveva deciso di diventare anche lui un alchimista di stato, arruolandosi nell’esercito. Era sempre stato bravo nell’uso dell’alchimia, non lo negavo; già da bambino aveva dimostrato interesse e capacità. Un piccolo genio, insomma. Più che normale, quindi, che decidesse di seguire le nostre orme.
    Mi unii a loro, sedendomi sul divano di fronte a quello su cui erano accomodati loro. Accavallai disinvolto le gambe, poggiando il gomito sul bracciolo. «Come mai non hai semplicemente bussato, invece di provare a fare lo scassinatore?» gli chiesi, osservandolo mentre beveva tranquillo un lungo sorso del whisky che Edward gli aveva messo nel bicchiere poco prima. Lo tenne con entrambe le mani, facendo subito dopo spallucce, come se la questione fosse di poco conto.
    «Beh, pensavo foste impegnati come vostro solito», buttò lì con un velo di imbarazzo, provocando a Edward una sonora risata per l’aver capito l’allusione.
    Io mi limitai a sbuffare appena, divertito. «Lo sai che ci saremmo comunque alzati per andare ad aprire», gli tenni presente, con un sorrisino dipinto in volto.
    «Anche se ti sarebbe toccato aspettare un po'», soggiunse Edward con il medesimo sorriso, mentre sorseggiava di tanto in tanto il suo whisky.
    Jason scoccò un’occhiata prima a lui e poi a me, dando a sua volta vita ad un sorriso bastardo che ricordava vagamente uno dei miei. «Allora ho fatto bene ad attuare le cosiddette fiabe di ‘ka-san su ciò che facevano lui e lo zio Maes all’Accademia», ribatté in tono ironico, guardando Edward che cercava di non ridere. Non misi dito nella questione, facendo finta di guardare altrove mentre fischiettavo disinvolto. In fondo non erano stati così inutili, quei racconti... anche se la tecnica andava perfezionata, eh già.
    «Comunque, come mai qui?» chiese Ed, e lo guardai appena con la coda dell'occhio. «Di solito, in questo periodo, i cadetti sono impegnati con gli studi del trimestre».
    Jason si stiracchiò, grattandosi divertito il collo. «Diciamo che avevo bisogno d’aria», fu la sua scusante.
    «Jaz...» insistette Edward, a braccia conserte.
    «Davvero, ‘to-san!» ribadì, annuendo fin troppo energicamente per essere credibile fino in fondo.
    «Dimmi la vera ragione», si ostinò, assottigliando gli occhi dorati.
    Jason mi lanciò uno sguardo supplicante.
«‘Ka-san...» mi richiamò con un lamento, ma io scossi la testa, incrociando a mia volta le braccia al petto per guardarlo seriamente in volto.
    «Avanti, parla», ordinai, vedendo l’espressione compiaciuta di Edward. E questo perché di solito tenevo le parti di Jason viziandolo, dandogliela vinta quasi su tutto... ma non quella volta. Ero curioso anche io.
  Borbottando, lui incassò la testa nelle spalle, sistemandosi appena e con svogliatezza il colletto del lungo e pesante cappotto nero che indossava, imbronciandosi esattamente come quando era bambino.
«Ho troppe ragazze che mi corrono dietro», sbottò, e non resistemmo. Io e Edward scoppiammo a ridere incontrollati; non tanto per ciò che aveva detto, in fondo l’avevamo dato per scontato il fatto che le donne avrebbero fatto la fila per uno come lui. Lo dimostrava il fatto che a soli tre anni, aveva fatto strage di cuori tra le bambine. Più che altro era per il tono e la sua espressione che ridevamo.
    «E non sei felice?» gli chiese Edward fra le risate, e io lo vidi imbronciarsi maggiormente a quelle parole.
    «Tu non lo saresti, ‘to-san, sapendo che i ragazzi invece vogliono farti il culo», replicò, con un’espressione così comica dipinta in volto che veniva voglia di ridere ancora, ma non lo feci. Ridiventai serio a poco a poco, calmandomi. Nonostante qualche spruzzo d’ilarità che minacciava di tanto in tanto di far scoppiare sia me che lui a ridere ancora una volta. Guardai Jason con un pizzico di divertimento.
    «Io lo dicevo che avresti fatto impazzire anche gli uomini», ridacchiai, ricevendo subito un’occhiataccia da entrambi. Edward aveva sempre patteggiato per la parte etero di Jason. Gli sarebbe piaciuto che, invece di fare il libertino come lo ero stato io alla sua età, si sposasse e avesse figli suoi. E anche io ero di quel parere, certo, ma l’attrazione era attrazione. Se c’era, c’era e basta. Altrimenti io non mi sarei di certo ritrovato in sua compagnia.
    «‘Ka-san», mi richiamò Jason, con voce neutra.
    Esasperato dal fatto che a diciotto anni mi chiamasse ancora così dopo che si era fatto un’idea del mondo, sbuffai, cambiando disinvolto gamba. «Ti ho detto di non chiamarmi così», lo ammonii ancora.
    Lui corrugò le sopracciglia. «‘Ka. San», ripeté in un sibilo, e io lo guardai male ma, prima che potessi rispondere, Edward impose una tregua sventolando distrattamente una mano davanti al mio e al suo volto.
    «Non litigate, per cortesia», ci interruppe, prima che potesse nascere una discussione accesa come nostro solito. «Jaz, che volevi chiedere?» soggiunse rivolto a lui, che mi guardava ancora con aria di sfida.
    Jason abbandonò subito l'espressione ostile, sorridendo ironico e amaro. «In realtà nulla», disse ad entrambi, facendo spallucce. «Però dovresti smetterla di dire che faccio impazzire gli uomini, Oka-san. Non prendetevela a male, ma non ci vado poi così fiero, anche se so che non c’è nulla di sbagliato», evitò di guardarci, con un velo triste nella voce. Beh... era giovane ed era stato cresciuto da due uomini. Lui la considerava, come noi o quasi, una cosa normale, ma i ragazzi che frequentava no. Non volevo nemmeno immaginare come l’avrebbero trattato, se fossero venuti a conoscenza di tale situazione.
    «Va bene, va bene. Scusa», feci, alzando entrambe le mani per imporre una tregua, nel tentativo anche di interrompere quel momento che sentivo opprimente e imbarazzante per tutti e tre. «Dovrei riflettere, prima di parlare».
    «È una delle cose che non fa mai, purtroppo», si intromise Edward, e quando gli lanciai un’occhiataccia sollevò sarcastico un sopracciglio come a volermi sbeffeggiare.
    «Questo lo so anch’io, ‘To-san», ridacchiò Jason, anche se quel velo di tristezza non aveva ancora abbandonato i suoi occhi azzurri.
    Dal canto mio, non provai nemmeno a ribattere.
Con quei due sarebbe stato inutile. Erano davvero tremendi, quando ci si mettevano. Così allungai tranquillo una mano verso il mio bicchiere, che giaceva abbandonato sul tavolino al centro, e ne versai all’interno un bel po' di whisky, sentendoli intanto continuare a chiacchierare allegramente, prendendomi spesso in giro. E anche a quello ero abituato. Se ne andarono, supposi, ben quarantacinque minuti tra chiacchiere e liquore. Erano mezzanotte passata,e il sonno si fece sentire simultaneamente su tutti e tre, sbadigliando all’unisono.
    Mi alzai e mi stiracchiai, grattandomi dietro al collo.
«Vado a prenderti una coperta e un cuscino, Jaz», dissi tra uno sbadiglio e l’altro, ma, prima che potessi muovere un passo, ricevetti da entrambi delle occhiate così intense che non mi piacquero affatto.
    «Non vorrai mica far dormire nostro figlio sul divano, vero?» fece ironico, alzandosi a sua volta per avvicinarsi e squadrarmi seriamente, con il suo scarso metro e sessant’otto che mi arrivava al petto. Jason intanto assisteva sorridente alla scena, come se già sapesse chi avrebbe avuto la meglio su quella scelta. E avrei scommesso che il favorito non ero io.
    «Dovrei dormirci io?» chiesi scettico, vedendolo sollevare pian piano un angolo della bocca, come per sbeffeggiarmi. Vidi frattanto Jason sbadigliare sonoramente a sua volta, portandosi una mano alla bocca per educazione, gli occhi cerulei velati di lacrime per il gran sonno. Ricevetti una sua occhiata divertita, mentre si passava con non curanza il dorso della mano su una guancia.
    «Dai, ‘Ka-san, per questa sera non imbuchi, dormi sul divano», diede man forte ad Edward, facendomi accigliare e non poco.
    Mi poggiai una mano sul fianco destro, gettandogli un’occhiataccia. «Fa’ poco lo spiritoso», borbottai, e il sorriso che si era dipinto sulle sue labbra rosee e sottili si accentuò ancora di più, divenendo bastardo.
    «È colpa tua se ci ritroviamo in questa situazione», mi disse, annuendo quasi rivolto a se stesso, con un cipiglio da so tutto io sul viso. «Hai smantellato la mia stanzetta».
    «Su questo gli do’ ragione», aggiunse Edward, a braccia conserte. Si erano entrambi coalizzati contro di me, quei due. Non avrei avuto nessuna chance di vittoria. Ma si sa com’è, c’è sempre la voglia della rivalsa. Quindi, sicuro di me, alzai il mento con un’espressione saccente dipinta in volto, lo sguardo che vagava su entrambi squadrandoli quasi minuziosamente.
    «Prima di tutto, quello una volta era il mio studio», tenni loro presente, vedendoli fischiettare disinvolti con lo sguardo altrove. «E tu almeno, potresti avvertire, quando decidi di fuggire dalle tue spasimanti rifugiandoti qui», soggiunsi, puntando il dito contro Jason che, dopo essersi guardato intorno e aver poi gettato un’occhiata a Edward, si indicò a sua volta.
    «Chi, io?» mi chiese, e c'era un’inconfutabile traccia di sarcasmo, nella sua voce.
    «Nay, guarda, quello dell’appartamento a fianco», ironizzai, ma lui si concesse il lusso di un sorriso.
    «Ah... allora va bene, pensavo ce l’avessi con me ‘Ka-san», mi prese in giro, provocando un’altra piccola risata ad Edward, che quasi lo osservava compiaciuto. Chissà perché, eh? Semplice: era lui che, una volta compiuta un’età accettabile, l’aveva istruito a sbeffeggiarmi. Lo trovavano divertente ed esilarante.
    Sbuffai pesantemente, portandomi una mano alla testa ed alzando lo sguardo al soffitto. «Vorrei davvero capire dove la trovi una ragazza che ti sopporta», borbottai sottovoce fra me e me, ma sentendomi comunque, Jason fece un piccolo colpetto di tosse come per schiarirsi la gola, non prima di aver sbadigliato sonoramente. Abbassai lo sguardo, vedendolo portarsi pensoso un dito alle labbra, gettando ad Edward un’occhiata divertita che fece scivolare svelto verso di me.
    «C’è Megan, la ragazza della mensa», cominciò, atteggiando il viso ad un’espressione pensosa. «Poi Alice, che frequenta un paio di corsi con me... per non parlare di Marianne, Josephine, Elisabeth, Agathe, Carol, Christine, Catherine, Monique, Gabrielle...» se le contò sulle dita, come se stesse controllando di non averne dimenticata qualcuna. «...loro non fanno altro che ronzarmi intorno da quando mi sono iscritto». Sia io sia Edward ci guardammo con tanto d’occhi, sbigottiti. Jason intanto continuava la sua lista, tranquillo. «Jane ha qualche anno in più a me e lavora nel bar poco lontano dall’Accademia, Sophie e Anita escono con alcuni ragazzi che stanno nel mio stesso dormitorio ma dicono che sono stufe di loro, Beatrix e Serena invece...»
    Prima che potesse andare oltre, gettando un’occhiata al volto un tantino scombussolato di Ed, imposi a Jason una tregua ponendo entrambe le mani avanti. Si sarebbe fatta l’alba se avesse continuato, c’era qualcosa che me ne dava la certezza. «Ho capito l’antifona, Jaz», bofonchiai, grattandomi la testa.
    «Hai una fila di donne che stravedono per te», concluse a mia vece Edward, ridacchiando. «Cerca solo di non fare la fine della tua mamma», soggiunse indicandomi con il pollice d’acciaio, l’altra mano nella tasca. «Non cambiarne una ogni sera come se fossero camicie».
    Sinceramente scandalizzato, Jason strabuzzò gli occhi, poggiandosi una mano sul petto. Farfugliando qualcosa, forse imbarazzato, lui evitò di guardarci per una frazione di secondo prima di riportare la sua attenzione su Edward. «Non me lo sognerei nemmeno di farlo, ‘To-san!» esclamò, un guizzo di vergogna solcò come un lampo nei suoi occhi azzurri. «Cosa credi, sto aspettando quella giusta!»
    Con un sorriso che andava da un orecchio all’altro, Edward gli si riavvicinò, dandogli una bella pacca sulla spalla, come per incoraggiarlo. «Bravo, sono fiero di te!» esclamò a sua volta, lanciandomi uno sguardo che voleva dire tutto, e nei suoi occhi ambrati scorsi un pizzico di disappunto, forse nel ripensare al mio comportamento sconsiderato quando avevo poco più dell’età di Jason.
    «Andiamocene a dormire», disse, sgranchendosi il collo. «Domani studi qui, te lo concedo».
    Rivolgendogli un sorriso, Jason ubbidì, seguendolo verso la soglia del soggiorno, e io sbattei le palpebre perplesso, senza capire. «Ehi, voi due...» li richiamai, ricevendo da loro un’occhiata incuriosita. Mi avvicinai a loro a braccia conserte, con un sopracciglio sollevato. «Vi ho detto che io non ci dormo sul divano», dissi arcigno, guadagnandoci solo due sorrisi.
    Prendendo tranquillamente Jason a braccetto - superava la sua zazzera bionda di un paio di centimetri buoni - Edward allungò il suo auto-mail per darmi una leggera pacca sulla spalla. «Meglio se ci dormi, invece», mi consigliò, accentuando il sorriso. «Passerai una sola notte in bianco invece di molte, no?»
    Restai allibito, spalancando la bocca. Mi stava minacciando, per caso? «Non di nuovo la scusa del niente sesso, vorrei sperare», mi lasciai sfuggire, sentendo subito dopo lo sguardo azzurro di Jason puntato su di me.
    Lui si portò teatralmente una mano alla fronte, scuotendo sconsolato la testa. «Ah, povero, povero te, ‘Ka-san!» fece, fingendosi afflitto. «Allora è vero che ormai il fuoco è stato sottomesso all'acciaio!»
    Lo guardai imbestialito. «Semmai prenderai il titolo d’alchimista sicuramente ti chiamerai L’Alchimista Rompicaz...»
    «Roy!» mi ammonì Edward prima che potessi completare la frase.
    Sbuffai, distogliendo lo sguardo mentre sentivo Jaz ridacchiare. Mi sentivo preso in giro, non lo negavo, ma non negavo nemmeno che stava venendo da ridere anche a me. Era quello il nostro modo di dimostrare che ci volevamo bene, in fondo. Ricominciammo intanto a discutere sul chi dovesse o non dovesse dormire sul divano, continuando a prenderci in giro mentre il tempo passava sempre più.
    Mi impuntai, certo.
Mi lamentai come un bambino dicendo che non era giusto, ma alla fine chi si era ritrovato rannicchiato sul divano avvolto da una coperta, non erano stati di certo Edward o Jason. Provate un po' ad indovinare il nome dello scemo che si gelava il culo? Esatto. Io, purtroppo.








_Note inconcludenti dell'autrice
Storia fuori serie dedicata a Red Robin, visto che sa come si svolgono gli eventi precedenti chissà quanti anni a questi qui raccontati! Per essere padre, non basta fare un figlio! Ricordiamo la pubblicità della Barilla!
*Si informano i gentili lettori che l'autrice ha detto addio alle ultime briciole della sua sanità mentale e che non satà possibile contattarla per ulteriori informazioni fino a data da destinarsi*
Scleri a parte, se poi farete un salto nel nostro account in comune 
Red Robin_ My Pride uno di quei mesi, troverete anche una presentazione molto più accurata di Jason, che qui ho solo accennato. E se andrete invece qui, Life in three, troverete la raccolta di Red Robin dedicata a loro.
Alla prossima e buon anno! 

_My Pride_


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Farai felice milioni di scrittori.

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Capitolo 17
*** Mai giudicare un libro dalla copertina! ***


Heart burst into fire_Episode 17 Titolo: Mai giudicare un libro dalla copertina!
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 1627 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



EPISODIO 17: MAI GIUDICARE UN LIBRO DALLA COPERTINA!

    Non c'era niente di più appagante di un bagno caldo, specialmente dopo una stremante giornata passata a firmare e a controfirmare documenti senza nemmeno poter fare due passi per sgranchirmi le gambe. E la vasca stracolma di schiuma e l'acqua che mi lambiva i fianchi erano un'efficace panacea contro la tensione accumulata.
    Mi godevo appieno quei momenti, le braccia abbandonate oltre il bordo e la testa reclinata all'indietro, con gli occhi chiusi e il piacevole tepore del vapore che mi saliva al viso. Ero anche riuscito, dopo ore di estenuanti discussioni, a convincere quel tappo di sughero di Acciaio a venire a mangiare un boccone da me, anche se non aveva mancato di punzecchiarmi con le sue battutine da quattro soldi per tutta la durata della cena. E adesso, probabilmente in salotto a leggere qualcuno dei miei libri, attendeva di poter usufruire a sua volta del bagno. Era strano come il tempo passasse in un lampo. Poco più di quattro mesi prima, mi arrovellavo il cervello per cercare un buon modo per confessargli i miei sentimenti, e invece adesso stavamo in un certo senso insieme. Ancora mi chiedevo come fosse possibile quella situazione. Con l'età che mi ritrovavo, come minimo potevo quasi essere suo padre...
    A distrarmi fu il lieve ed esitante bussare alla porta, poi la voce di Acciaio.
«Potrei entrare, Colonnello?» mi chiese. «Sa, avrei un certo bisogno di andare in bagno».
    Soffocai una risata e affondai la testa nell'acqua, soffiando via un bel po' di schiuma e creando mille bollicine. Mille, mille bolle blu... chissà perché mi veniva in mente quella vecchia canzone. Forse per non pensare a quella situazione che - stupidamente e non poco, c'era da aggiungere - trovavo estremamente esilarante. Mi raddrizzai per darmi un contegno, facendo un piccolo colpetto di tosse prima di rispondergli.
«Fa' pure. Comportati come se fossi a casa tua».
    Con incertezza, la porta si aprì, e quando voltai la testa incrociando lo sguardo ambrato di Acciaio, quest'ultimo lo distolse subito, forse nell'aver notato che me ne stavo ancora tranquillamente a mollo nella vasca. Sentendolo borbottare fra i denti un
«Casa mia un corno», seguii con gli occhi la sua figura che, sempre evitando di guardarmi, si avvicinava al water con passo alquanto insicuro. Poi, prima che si sbottonasse la patta dei pantaloni, mi lanciò un'occhiata quasi arcigna, fulminandomi con lo sguardo. «Le dispiace?» fece ironico, vedendo che ancora lo fissavo. «Non ci riesco se qualcuno mi guarda».
    Alzai le braccia, gocciolanti e ricoperte di schiuma, in segno di resa, voltando divertito la testa con un piccolo ghignetto dipinto sulle labbra. Era lodevole questo suo imporsi e mostrarsi sicuro in mia presenza, nonostante quel velo d'imbarazzo che scorgevo spesso nei suoi occhi dorati.
«Resti qui a dormire?» gli domandai, ma lui non mi rispose finché non ebbe finito, e lo vidi con la coda dell'occhio rialzarsi la zip prima di lavarsi le mani nel lavandino lì accanto.
    «Alphonse si preoccuperà, se non torno in albergo», mi informò pacatamente, prendendo un asciugamano. «E non vorrei che stavolta decidesse di accantonare il fatto che sono minorenne e approfittarne».
    Scoppiai a ridere senza che potessi farne a meno. Affondai mani e braccia nell'acqua così d'improvviso e con velocità per il gran ridere che quasi straripò oltre i bordi, bagnando le piastrelle del pavimento.
«E' davvero romantico sapere che mi consideri un pedofilo depravato!» esclamai più che sarcastico, tra sbuffi di risa. «Altroché, se è romantico!»
    Acciaio ignorò la mia ironia, incrociando le braccia al petto senza voltarsi.
«Non mi impietosisce affatto, Colonnello», sbottò, anche se tranquillo. «Se vuole del romanticismo si cerchi qualche libro rosa, sono gli unici che mancano nella sua biblioteca».
    Ridacchiai ancora, ma solo per poco.
«Sei davvero sicuro che non ce ne siano?» gli chiesi divertito, drizzandomi ancora un po' nel tentativo di incrociare il riflesso dei suoi attraverso lo specchio appeso al muro.
    «Conosco la sua biblioteca da cima a fondo», mi tenne presente, e percepii una sfumatura spassosa, nella sua voce. «Ha parecchi saggi, libri di medicina e d'alchimia, thriller e gialli, per non parlare poi di alcuni fantasy, risalenti forse a quand'era ragazzo».
    Applaudii, facendo un piccolo fischio, ma non per sbeffeggiarlo. Era raro che qualcuno dei miei ospiti gettasse un'occhiata ai libri stipati in biblioteca o perdesse persino tempo a catalogarli.
«E te ne ricordi qualcuno, di questi testi?» sghignazzai, poggiando i gomiti sul bordo della vasca.
    Gettandomi appena un'occhiata prima di voltarsi nuovamente, lui abbassò la tavoletta e il coperchio del water, sedendosi di spalle.
«Certo che sì», mi disse, drizzando impettito la schiena. «“Il fantasma di Canterville”, ad esempio. Oppure “La ballata del carcere di Reading”, persino “Ragione e Sentimento” o “Cime Tempestose”, che personalmente adoro».
    Esilarante discutere di libri in bagno. Non dissi quel mio pensiero ad alta voce, ma ero certo che stesse riflettendo sulla stessa e identica cosa anche lui. Mi scrollai l'acqua dai capelli, poggiando poi il mento sulle braccia.
«Trovo davvero bello il fatto che tu mi renda partecipe di ciò che ti piace leggere», dissi, non potendo però fare a meno di sorridere. «Ma mi piacerebbe molto di più parlare con te, non con la tua schiena», soggiunsi, sorridendo ancor di più nel vederlo trasalire. Con la mano d'acciaio si grattò distratto la testa, spostandosi poi verso una guancia, ma ancora non accennava a voltarsi.«Oh, andiamo...» cominciai serafico. «Non dirmi che ti vergogni!»
    Un altro suo lieve sussulto confermò la mia teoria. Uomini entrambi o meno, per lui il fatto che ero nudo in una vasca piena d'acqua e schiuma era una situazione imbarazzante. Ma si arrischiò comunque a lanciarmi un'altra rapida occhiata, accavallando quasi disinvolto le gambe, a braccia conserte.
«Chi, io?» fece, sforzandosi di sembrare ironico e indifferente. «Tsk, e perché pensa che dovrei vergognarmi».
    «Perché eviti di guardarmi, mentre parli», gli tenni presente divertito, e ricevetti da lui un altro piccolo sbuffo.
    «Solo perché a differenza sua rispetto la privacy», disse, vagando con lo sguardo ad osservare il soffitto con finto interesse.
    Risi ancora, sdraiandomi tranquillo nella vasca.
«Va bene, Acciaio», sghignazzai divertito, tornando a rilassarmi completamente. «In fondo è vero, siamo nati entrambi con la stessa attrezzatura. Non c'è nulla di cui vergognarsi». Aye, ero un tantino bastardo a prenderlo in giro, ma che potevo farci, era più forte di me perché sapevo che si imbarazzava. E difatti, a frase pronunciata, lui si alzò, avviandosi alla porta mentre scuoteva debolmente la testa e borbottava tra sé e sé. Nel far questo passò abbastanza vicino alla vasca, tanto che sarebbe bastato allungare abbastanza il braccio per bloccarlo. Cosa che feci, trascinandolo verso di me. «Dai, piccoletto, non innervosirti», lo presi in giro, mentre mi mettevo in ginocchio nella vasca in modo da poter prendere l'accappatoio, attendendo frattanto una sua sfuriata che non tardò ad arrivare.
    Si voltò di scatto adirato, con gli occhi in fiamme.
«Chi sarebbe talmente minuscolo che anc-...!» la voce gli morì in gola non appena mi alzai gocciolando, sbadigliando per l'esser rimasto a mollo troppo a lungo. Mi stavo apprestando ad infilare una manica dell'accappatoio mentre scavalcavo il bordo della vasca quando incontrai il suo sguardo, sgranato e allibito al tempo stesso, le guance di solito diafane tendevano vagamente allo scarlatto. Si voltò immediatamente, le braccia distese lungo i fianchi con le mani che sembravano tremargli. «Poteva avvisarmi che si stava alzando», borbottò, la rabbia per l'appellativo con cui l'avevo chiamato era sbollita. Si avvertiva solo un inconfutabile imbarazzo, nel timbro della sua voce.
    Sistemandomi del tutto l'accappatoio legandomelo alla vita, sghignazzai, dandogli appena una pacca sulla spalla come a dirgli di seguirmi.
«Stavi esibendo la tua voce da tenore, come potevo...» buttai lì divertito, passandomi una mano fra i capelli mentre uscivo dal bagno, sentendo frattanto lo scalpiccio dei suoi stivali che seguivano le impronte bagnate dei miei piedi nudi.
    «Le sue battute diventano più pessime ogni giorno che passa», mi disse in tono piatto, svoltando con me in corridoio verso il salotto.
    Ridacchiando ancora una volta, mi diressi alla biblioteca per recuperargli qualche libro per fargli passare il tempo mentre mi sarei vestito dando poi anche a lui qualche abito per cambiarsi. Con due dita vagai sui titoli dei tomi, scartando quelli che sapevo aveva già letto. Optai per uno che sicuramente gli era sfuggito e non avrebbe e non avrebbe mai letto di sua iniziativa, sghignazzando incontrollato come non mai. Dopo quella clamorosa figura nel bagno, quel libro era la ciliegina sulla torta! Come minimo avrei dovuto nascondermi in camera mia appena gliel'avessi consegnato, se volevo vedere il sole sorgere il giorno dopo. Okay, okay... era esagerato pensarla così.  
    Presi il libro in questione e ritornai in salotto per consegnarglielo, con un gran sorriso sornione a trentadue denti dipinto in volto.
«Ecco qua, mentre aspetti», gli dissi, senza abbandonare il sorriso.
    Dubbioso, Acciaio lo prese rigirandoselo fra le mani, osservando la copertina completamente nera e le lettere dorate del titolo con una delle bionde sopracciglia ironicamente inarcate.
«“Una torrida passione”?» lesse scettico, lanciandomi un'occhiata.
    Sempre più divertito, pregustando frattanto il momento di un altro suo scoppio, annuii, osservandolo mentre si sedeva sul divano girando distratto giusto qualche pagina, prima che mi decidessi a sgattaiolare via di gran carriera verso la mia camera. Mi chiusi dentro, dando sfogo alle mie risatine incontrollate. Uno, due...
    «Colonnello! Lei è un pervertito!» Si fece sentire tonante la sua voce, ancor prima che arrivassi al tre. E a fargli eco subito dopo, furono i suoi pesanti passi nel corridoio. «Questo è un romanzo erotico!»
    Beh, in fondo il titolo diceva tutto, no? Mai giudicare un libro dalla copertina!







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Capitolo 18
*** [ Storia Fuori Serie ] La colpa è sempre della tua mamma ***


Heart burst into fire_Episode 18 Titolo: La colpa è sempre della tua mamma!
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 2128 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 18: LA COLPA É SEMPRE DELLA TUA “MAMMA”

    Non avevo fatto altro che pensare alla serata che ci aspettava.
    Sebbene fossi stato costretto a firmare documenti arretrati dal Tenente Hawkeye - che non mi aveva nemmeno concesso il lusso d’un buon caffè nonostante fossi appena rientrato -, non avevo potuto fare a meno di pensarci. Dopo tanto tempo in astinenza, avrei forse potuto godere d’una bella nottata da solo, e in tutti i sensi possibili ed immaginabili, con Edward. Cenetta romantica, un po' di champagne, fragole zuccherate e... sesso. O almeno il piano era quello, se Jason ce l’avesse permesso. Se si fosse addormentato ben dopo mezzanotte, la serata sarebbe andata a farsi benedire per l’ennesima volta.
    Ero davanti ad una libreria, adesso, indeciso su quale libro d’alchimia comprare al mio caro figlioletto mentre reggevo distratto un bouquet per Edward.
A causa di una missione un po' spinosa, ero mancato da casa per quasi tre settimane, non avendo potuto festeggiare con loro l’undicesimo compleanno di Jaz. Poi, rientrato stanchissimo, li avevo salutati appena prima di crollare addormentato come un sasso. E quando avevo aperto gli occhi, ero subito dovuto correre al Quartier Generale per rimettermi in pari con il lavoro, riuscendo a malapena a trovarli svegli. In poche parole, ero a Central da meno di ventiquattr’ore e avevo appena finito di sgobbare sulle scartoffie lasciate ad ammuffire da troppo tempo. Ma, naturalmente, non era quello il mio primo pensiero, ora come ora.
    Rimiravo ancora gli scaffali, in piedi come un idiota appena mollato dalla propria donna e che non aveva nemmeno avuto la decenza di far sparire i fiori che le aveva comprato. Ci passai ben dieci minuti, finché non mi decisi finalmente a prenderne uno d’alchimia avanzata - sicuro al 100% che Jaz l’avrebbe letto come fosse stato un libro per bambini - e andare dal commesso per pagarlo, chiedendogli gentilmente il favore d’incartarlo. E mi ero portato dietro quei piccoli fardelli per tre isolati, prima che salissi di corsa le scale nonostante il caldo asfissiante e tirassi fuori le chiavi dalle tasche per fiondarmi dentro.
    Trovai entrambi i miei uomini in cucina.
Edward, che indossava una canotta nera per l’afa, stava preparando la cena e lanciava di tanto in tanto qualche occhiata a Jaz, che scarabocchiava su qualche foglio mentre girava distrattamente le pagine di Introduzione all’Alchimia.  Era da parecchio che lo studiava da solo, e aveva fatto notevoli progressi. Diavolo, aveva ragione Maes. Crescevano troppo in fretta. «Siete tanto assorti da non notarmi?» sghignazzai, e mentre Edward, con un sopracciglio inarcato, fissava perplesso i fiori, Jason lasciò subito perdere i suoi appunti per corrermi incontro, cingendomi i fianchi per abbracciarmi.
    «Bentornato, ‘Ka-san!» esclamò, lo sguardo puntato in alto per poter meglio incontrare i miei occhi.
    Gli sorrisi e gli scompigliai la zazzera mora nonostante avesse corrugato le sopracciglia, tirando fuori dalla busta di plastica che reggevo il libro che gli avevo comprato. «Auguri in ritardo», dissi, porgendolo quando mi lasciò andare.
    Per un po' restò a guardare la carta regalo come se fosse confuso, prima che un sorriso irradiasse anche il suo volto e cominciasse a scartarlo, rivelando sì la copertina un po' consunta, ma un libro di tutto rispetto in campo alchemico. Gli brillarono gli occhi quando lesse il titolo. «Grazie, ‘Ka-san!» cinguettò allegro prima di abbracciarmi ancora una volta tutto contento, scansandosi per cominciare a voltare qualche pagina, già concentrato. Aveva preso proprio da Edward, su quel punto.
    «Un nuovo libro d’alchimia, eh?» commentò proprio lui, divertito, asciugandosi le mani per avvicinarsi a noi, o meglio a me, visto che Jason si era già fiondato al tavolo per consultare il libro in pace e in maniera molto più approfondita.
    Mi limitai solo a scrollare le spalle e a rivolgergli un sorriso furbo, porgendogli galantemente il mazzo di rose. «Delle belle rose per un bell’uomo», mormorai allusivo, facendo un piccolo inchino.
    Lui sollevò ironicamente entrambe le sopracciglia, poi mi tolse il bouquet di mano, scuotendo la testa, esasperato. «Credevo si dicesse Delle belle rose per una bella donna», replicò per prendermi in giro, dandomi un buffetto sul naso. «Trattami da uomo, lo sai che detesto essere scambiato per la donna, mamma».
    «Non ti si può nemmeno fare una sorpresa...» mi lagnai e, ignorando deliberatamente il modo in cui mi aveva chiamato, mi chinai verso il suo viso per aspirare almeno ad un bacio; ma lui mi tappò la bocca con la mano d’acciaio, agitando distratto l’indice dell’altra.
    «C'è Jaz», disse, come se la cosa spiegasse tutto. Anche la serata che avevo così elegantemente immaginato era ormai un lontano ricordo.
    «Quante storie», borbottai una volta che ebbe allontanato la mano, e prima che potesse tornarsene anche lui accanto al tavolo per dare a sua volta una sbirciatina al libro e posare i fiori in un vaso, gli afferrai il braccio d’acciaio per attirarlo stretto a me, petto contro petto, labbra contro labbra. Cercò di divincolarsi, ma dopo un po' lasciò perdere, gettandomi le braccia al collo e allentando la presa, cosicché il bouquet cadde a terra con un fruscio.
    «Bleah...» fu il commento di Jason, e io lo guardai con la coda dell’occhio, vedendo una smorfia di disappunto dipinta sul suo volto, tipica dei bambini della sua età. Quando Ed sfuggì alle mie grinfie per recuperare il mazzo di fiori e riporlo in un vaso, mi voltai definitivamente con un sopracciglio sollevato.
    «Non si guarda quando i grandi fanno queste cose», gli dissi in tono fintamente arrabbiato e accusatorio, vedendolo gonfiare le guance mentre sentivo la risatina che si era lasciato sfuggire Edward.
    «Anche io sono grande», replicò, nell’ormai consacrato tono che aveva reso celebre il mio caro Alchimista d’Acciaio. «Mica starai dicendo che sono piccolo quanto una formica che si può vedere solo al microscopio, eh, ‘Ka-san?!» Il timbro della voce aveva assunto una sfumatura alterata degna di qualsiasi sfuriata a cui Edward avrebbe potuto dare vita.
    «Och, nay», cambiai prontamente discorso. «Allora, ti piace il libro?» chiesi, così da sviare completamente tutto.
    Anche se un tantino corrucciato, Jason si lasciò andare ad un sorriso e annuì, gettando un occhio alle pagine quasi ingiallite e antiche. «Ci sono cerchi molto più complessi», mi informò, accarezzando lievemente i fogli come se avesse paura che potessero sgretolarsi. «Mi servirà il tuo aiuto, ‘To-san», soggiunse, alzando lo sguardo per localizzare la figura di Edward, appena tornato ai fornelli.
    «Non posso aiutarti io?» domandai, poggiando i gomiti sul tavolo.
    Mi lanciò un’occhiata come se fosse rammaricato, chiudendo il libro prima di guardare ancora una volta Ed, gli occhioni azzurri avevano al loro interno un velato divertimento. «‘To-san ha detto che sei pericoloso con l’alchimia», buttò lì semplicemente, scrollando le spalle come se nulla fosse. «Non vuole rischiare che dai accidentalmente fuoco alla casa».
    «Ed!» lo richiamai, risentito, ma lui si limitò a sghignazzare, dando ad entrambi le spalle per girare la carne in padella.
    «Ho detto solo la verità», si difese, prendendo qualche spicchio d’aglio. «E poi, dato che i tuoi turni sono maggiori da quando sei Generale, non potresti insegnargliela comunque, se non di sera. E Jason non può restare alzato fino a notte fonda».
    «Sì che posso, ‘To-san», replicò il diretto interessato, mascherando un piccolo sbadiglio.
    «Ecco, questa è la prova che non puoi», ribatté ancora Edward, sghignazzando e riconcentrandosi sulla cena senza che nessuno di noi due fiatasse più. Quando fu pronto, portò tutto a tavola, accomodandosi a sua volta armato di coltello e forchetta.  «Mangia e vai a dormire, okay?» disse a Jaz, con un tono che non ammetteva repliche. «Se vuoi uscire con Glacier ed Elicia devi svegliarti presto».
    «Non pensavo conoscessi il significato della parola presto», replicai io sarcastico, subentrando nel discorso mentre ero impegnato a tagliare distrattamente, ma disinvolto, la carne nel mio piatto. Mi fece astenere dall’aggiungere altro un calcio d’acciaio allo stinco.
    «Ma io voglio leggere un po', ‘To-san», si fece sentire lamentosa la voce del popolo, gli occhioni grandi e azzurri sembravano quasi supplichevoli.
    «Jaz, se Oto-san ha detto che devi andare a dormire, non discutere», dissi, naturalmente con un secondo fine ben stampato in testa. Con la dovuta cautela, avrei potuto godere anche di pochi attimi d’intimità con Edward.
    «Non anche tu, ‘Ka-san!» si lagnò ancora, abbandonando il cozzetto di pane nel sugo della carne per provare a dissuadere me con il suo sguardo da cane bastonato. Ma quella sera fui irremovibile, dato che gliela davo sempre vinta. Quando poi, dopo varie lotte, vide che non crollammo e non cambiammo decisione, finì di mangiare e diede il bacio della buonanotte ad entrambi, prima di fiondarsi verso il bagno per sciacquarsi, mettersi il pigiama, lavarsi i denti e filare a letto.
    Una volta soli in salotto, provai a dar vita alla mia espressione da seduttore nato.
Stranamente, ma con mia grande soddisfazione, Edward mi lasciò tranquillamente libero di fare quello che mi andava, limitandosi solo ad intrecciare le dita fra i miei capelli quando mi chinai verso il suo collo per creargli un succhiotto. Mugolò tutto il suo assenso, piacevolmente, con una vaga conformità d’erotismo dipinta sul volto diafano; socchiuse gli occhi mentre mi apprestavo a volere di più, le mani erano ormai diventati arti che avevano una vita propria e non seguivano più i comandi della mia mente. Ne feci scivolare una lungo il suo fianco sinistro, scendendo rapido a massaggiargli la coscia, poi più giù, verso la gamba e il polpaccio d’acciaio. Mi gettò le braccia al collo quando, al di sopra del pantalone dalla stoffa leggera, risalii per far danzare distrattamente due dita sul punto in cui il ginocchio si legava con la carne, proprio dove c’erano le cicatrici.
    «Dai, smettila», fece flebile, mugugnando ancora una volta quando riuscii a far scivolare una mano al di sotto della canotta che indossava, sfiorandogli fugace il petto e un capezzolo.
    «Lo sai che non la smetto, inutile dirlo», mormorai in risposta, i polpastrelli dell'indice e del medio della mia mano avevano cominciato a disegnare invisibili cerchi sul suo torace.
    «E tu sai che posso farti smettere quando voglio», replicò, ma non sembrava intenzionato a rendere veritiere le sue parole. Si abbandonò completamente sul divano, divaricando di poco le gambe per permettermi di starne al centro, ormai succube di quelle mie carezze che facevo diventare sempre più insistenti. Ma quando provai a varcare le porte dell’Olimpo con una mano, lui mi bloccò, con un biondo sopracciglio inarcato, come a voler indicare un inconfutabile scetticismo. «Sei rozzo, se dopo tanto vuoi farlo sul divano», mi prese in giro sarcastico, poggiandomi una mano sul petto per scansarmi con poca gentilezza. Rimessosi a sedere, si sistemò distratto la maglietta e mi gettò un’occhiata in tralice come se fosse arrabbiato per qualcosa, liquidandomi con un piccolo Tsk prima di voltarsi saccente e alzarsi in piedi.
    Scombussolato, se non sconvolto, seguì con lo sguardo la sua figura che si defilava svelta nel corridoio, verso la nostra camera da letto. Rimasi per un po' lì in salotto, a boccheggiare come un idiota. Ancora incapace di credere che io, il Generale Roy Mustang, l’Eroe d'Ishvar, nonché Alchimista di Fuoco, fossi stato piantato in asso in quel modo, mi drizzai in piedi di scatto, raggiungendo la nostra stanza in poche falcate solo per trovare Edward accanto al comodino; mi avventai su di lui come una volpe avrebbe potuto avventarsi su una lepre, sentendo appena la sua esclamazione sorpresa mentre rotolavamo sul pavimento, avvinghiati l’uno all’altro, tra risatine soffocate e, spesso, parole campate per aria e senza significato alcuno.
    Non me ne accorsi subito che avevamo uno spettatore.
Fu Edward a farmelo notare, quando ci ritrovammo l’uno sopra l’altro, quasi accanto alla soglia della camera. Jason, con indosso solo una canottiera larga che gli faceva da pigiama, fasciandogli il corpo mingherlino e nascondendo alla vista i boxer, ci guardava con disappunto, atteggiandosi a grand’uomo. Non sembrava né sconcertato né sconvolto, ma in fondo viveva con noi da otto anni, quelle piccole pazzie in cui io e Edward ci gettavamo ogni tanto erano ormai diventate d'ordinaria amministrazione. Soprattutto per lui che ci beccava quando capitava.
    «‘To-san, ‘Ka-san», ci richiamò, vagamente stizzito. «Non posso dormire se continuate a fare tutto questo chiasso».
    Beh, e come dargli torto. Ma mi limitai solo a guardarlo, come se avesse parlato un’altra lingua. Edward fu invece più svelto di me, scansandomi con così tanto garbo che mi ritrovai con il culo per terra. Guardò lui e poi me, senza dire una parola, ma sia io che Jason sapevamo fin troppo bene cosa significasse quello sguardo.
    La colpa è della tua mamma, Jaz.
La colpa è sempre della tua mamma!






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Capitolo 19
*** [ Storia Fuori Serie ] L'imprevisto porta un nome ***


Heart burst into fire_Episode 19 Titolo: L'imprevisto porta un nome
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 2334 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 19: L’ IMPREVISTO PORTA UN NOME

    Ci trovavamo sul divano del soggiorno, ormai divenuto il nostro tacito osservatore in serate come quella, quando sfruttavamo lui anziché il morbido materasso.
    Da meno di poche ore, eravamo tornati dal gelido Quartier Generale del Nord, dove molti di noi avevano dovuto compiere, sotto diretto ordine del Comandante Supremo, una specie di giro d'ispezione che era durato una settimana. Una settimana passata in balia della neve, tutti stipati in una grande stanza con brandine dove non avevo nemmeno potuto godere di un po' di intimità con Edward, che aveva dormito al lato opposto della stanza da dove mi ero ritrovato io. Fortuna almeno che, in quel momento, potevamo permetterci qualche minuto di svago dopo una cena consumata al volo, godendomi frattanto il mio dolce tranquillamente disteso sul divano.
    In quel silenzio rotto solo dai mugolii d'assenso che sia io, che lui, ci lasciavamo sfuggire, le mani e le labbra si muovevano e si cercavano da sole, seguendo il ritmo di quella passione che andava crescendo man mano. Giusto un attimo dopo, fui sul punto di ansimare nel sentire la sua mano fra le mie gambe, al di sopra della stoffa dei pantaloni. L’allontanò subito, chinandosi verso di me per darmi un bacio sulle labbra, girandosi di schiena per sdraiarsi su di me, con i suoi lunghi capelli che mi solleticavano il petto nudo.
    Non fiatai e cominciai a lisciargli quella chioma bionda, alzando le gambe per poggiare i piedi sul divano, in modo che lui potesse meglio stendersi fra di esse. Un contatto piacevole, senza dubbio, dopo l’astinenza che avevo dovuto - anzi, avevamo entrambi dovuto - sopportare in quella settimana bianca. Con la coda dell'occhio, vidi Edward giocherellare con i miei occhiali da vista che, fortunatamente, non erano rimasti coinvolti nella nostra lotta di supremazia avvenuta sul divano pochi minuti prima, rigirandoseli fra le mani e rimirandoli distrattamente, come per voler perder tempo.
    Mi scappò una risata e, togliendoglieli dalle mani, gli presi un dito d'acciaio per baciarglielo con devozione
, accarezzandolo con la punta della lingua, allusivo e sensuale, nonostante fosse freddo; gli cinsi i fianchi con le braccia qualche attimo dopo, così da poterlo attirare verso di me. «Che ne diresti se sfruttassimo un po’ di questo tempo da soli, ora che possiamo?» gli chiesi, sperando in una sua risposta affermativa. Dato che Jason era uscito, magari avremmo potuto godere di qualche carezza negata.
    Edward fece scorrere il suo sguardo dorato per tutto il mio corpo, soppesando il mio petto prima di scendere interessato verso il basso ventre, ritornando a guardare i miei occhi. L’ombra di un sorriso gli illuminò il volto, mentre si chinava verso di me per gettarmi le braccia al collo. «Och, beh... è da tanto che non lo facciamo», sghignazzò, stuzzicandomi appena il lobo dell’orecchio. «Direi che si può benissimo fare... ma ad una condizione», soggiunse, sciogliendo la presa delle sue braccia e costringendomi a fare lo stesso con le mie.
    «E quale sarebbe la condizione?» chiesi, vedendo che non accennava ancora a porla, ma si limitava solo a catturarsi fra le dita la mia frangetta, quasi distratto. Abbandonato il suo passatempo mi sorrise, ammiccando malizioso.
    «Beh, sai...» mormorò, prendendomi le mani per farmele poggiare sulle sue spalle, come se volesse che gli sfilassi la camicia. «Stavo giusto pensando di comandare io anche stavolta».
    Sbattei le palpebre, perplesso. Erano rare le occasioni in cui voleva essere la parte attiva del nostro rapporto, o almeno per quanto ricordassi. Senza sapere cosa dire, provai ad aprire la bocca ma, prima ancora che potessi, mi posò un dito sulle labbra con un sorriso bastardo, imponendomi silenzio.
    «Non accetto un no», continuò divertito, scostandosi i capelli dal viso. «Non lo facciamo da tanto e, adesso che Jaz è fuori, voglio giocare un po’ con te».
Ancora più perplesso, fui quasi tentato di alzarmi e lasciar perdere, ma qualcos’altro sembrò non avere lo stesso parere quando Edward vi poggiò sopra una mano. «Lo considero un sì?» sghignazzò al mio orecchio quando si chinò, scendendo poi piano con le labbra per saggiare la pelle della mia gola. Me la stuzzicò con i denti, catturandone delicato i lembi, e a quel trattamento non potei evitare di lasciarmi sfuggire un gemito languido. L’esperienza si acquisiva davvero con gli anni, non c’era nulla da fare. «Non hai nulla da dire, mammina?» mi prese in giro, rendendo la voce ancor più bassa e suadente.
    In risposta al suo quesito, mugolai ancora una volta. La sua risata vibrò come un diapason contro la mia carne, il suo corpo si strusciò lentamente contro il mio quando scese per lambire la pelle del mio petto, accarezzando con la lingua una delle tante, bianche e piccole, cicatrici di guerra. Una sua mano scivolò lungo il mio fianco e carezzò anche quella causata da un proiettile un po' di anni prima, sfiorando di sfuggita una coscia quando scese ancora.
    Seppur sentissi offeso il mio ruolo di dominante, non volevo che smettesse. Era eccitante, sentire tutta quell’esperienza sprizzare in quel corpo ancora un tantino minuto nonostante gli anni passati. Mi sfuggì un altro gemito e incassai la testa nelle spalle, voltandola un po’ di lato. Così facendo, però, gli diedi ancor di più libero arbitrio. Con piccoli colpetti decisi della lingua, mi accarezzò la mascella, poi dietro l’orecchio.
    «Sei troppo accondiscendente, stasera», lo sentii sghignazzare ironico, mentre poggiava le mani sulle mie spalle, come se volesse tenermi fermo, sotto di lui.
    Chiusi gli occhi e poi li riaprii, perdendomi in quel color whisky che amavo. «Preferiresti che facessi resistenza?» domandai sarcastico, regalandogli un sorriso.
    Rise nuovamente, scuotendo piano la testa, lasciando che i capelli si muovessero fluenti. «Renderebbe tutto molto più eccitante, non lo nego», replicò, sfiorandomi la punta del naso con il suo. «Ma sarebbe infruttuoso per me, dato che posso averti facilmente e senza sforzo...»
    «Sei troppo sicuro di te», ribattei, senza riuscire a nascondere un sorriso.
    «Posso permettermelo, in fondo».
    Frustrato, richiusi gli occhi con forza, passandomi poi velocemente una mano fra i capelli. «Zitto e muoviti, non posso aspettare ancora», evitai di esclamare, vedendo un sorriso quando riaprii gli occhi.
    «Quanto siamo impazienti», ridacchiò, appropriandosi delle mie labbra.
    Unito in quel bacio, mi limitai solo ad annuire. Lasciai a lui il completo comando del gioco, godendo di ogni minima attenzione che quel giorno sembrava donarmi. Mugolai di nuovo quando mi creò un succhiotto, proprio dove chiunque avrebbe potuto vederlo anche se indossavo la divisa. Ridacchiò contro la mia pelle e, inconsciamente, lo attirai maggiormente a me, intensificando il contatto fra i nostri corpi nudi a metà; gli feci scorrere le mani lungo la spina dorsale e le fermai a coppa sulle sue natiche, sentendo il suo volto affondato nell’incavo del mio collo.
    Le sue mani scesero lungo i miei fianchi, posandosi stabili sul mio bacino, mentre le labbra cercavano bramose le mie nel tentativo di far durare quegli attimi per un tempo indefinito. Ma, anche lui per impazienza, non resistette un minuto di più, liberandosi dei pantaloni e restando in mutande, a cavalcioni sopra di me, ancora quasi vestito. Si arrischiò a lanciarmi uno sguardo divertito, forse per valutare la mia espressione. «Oh... qui qualcuno si è svegliato», scherzò, soffermandosi su un punto ben preciso.
    Non potei non sorridere, portandogli le mani alla mia cintola. Volevo i fatti, in quel momento, non le parole. E non ero il solo, da quel che riuscivo a scorgere.
    Con un sorriso impudente dipinto a sua volta sulle labbra, cominciò ad abbassare piano la zip, guardandomi ancora una volta per sporgersi verso di me e baciarmi a lungo. Stava cominciando a sfilarmi i calzoni quando sentimmo un rumore. Lui mi guardò, sbattendo perplesso le palpebre senza capire cosa fosse stato. O, almeno, finché non lo capimmo entrambi.
    «‘Ka-san, ho dimentica- oh...» Jason, appena entrato nel salotto, ci guardava allibito e accigliato, gli occhi azzurri increduli e fissi sulla scena che gli stavamo offrendo. Aveva le guance completamente imporporate di rosso, mentre immobile ci fissava. Anche Edward e io ci irrigidimmo, deglutendo all’unisono. Lui era ancora cavalcioni sopra di me, io avevo i calzoni calati sulle cosce e... beh... meglio sorvolare sul resto.
    Jason avvampò ancora più violentemente, riuscendo finalmente a darci le spalle. «Non volevo interrompere nulla e non ho visto nulla!» esclamò un tantino isterico, una mano poggiata sullo stipite della porta mentre l’altra l’agitava frenetica in aria. Edward si allontanò più veloce che poté e recuperò i calzoni, infilandoseli svelto prima di darmi un pugno sulla spalla, alzarsi la zip alla svelta e avvicinarsi a Jason; proprio lui, scorgendolo con la coda dell’occhio, si grattò dietro al collo. «Ero... ero tornato per prendere il portafoglio», gli disse, ancora un tantino a disagio.
    Edward mi lanciò uno sguardo d’avvertimento, e capii subito al volo cosa voleva dirmi. Alza le chiappe e rivestiti, semplice da capire. Massaggiandomi il punto colpito mi drizzai a sedere, avendo l’accortezza di alzarmi a mia volta i pantaloni per nascondere i boxer.
    «Se penso che stava per salire anche un mio compagno di camerata...» riprese Jaz, avvampando nuovamente quando si voltò verso di me per osservare l’espressione che mi si era dipinta in volto. A dir poco sconvolta, bisognava aggiungere. Un conto era che lui, che aveva vissuto tanto con noi e conosceva il rapporto che ci legava, ci avesse beccati a fare cose non tanto caste e pure in salotto quando piombava all'improvviso in casa con il suo migliore amico... un altro, invece, era che avevamo rischiato che ci vedesse un estraneo.
    «Beh, stavolta è colpa mia», replicò tranquillamente Edward, dando vita ad una delle sue solite scrollate di spalle che potevano significare tutto o niente, dando poi una pacca sulla schiena a Jaz utilizzando piano la sua mano d’acciaio.
    «Faccio a meno dei dettagli», ribatté lui, facendo un piccolo colpetto di tosse. Forse per disperdere l’imbarazzo che ancora gli colorava le guance.
    Chiusa la patta, mi sistemai il colletto della camicia ancora sbottonata.
«E non te li avremmo nemmeno dati», feci, guadagnandoci un’occhiataccia da entrambi. Jason alzò lo sguardo al soffitto senza dire niente, come se ribattere sarebbe stato praticamente inutile e infruttuoso, e agitò pacatamente entrambe le mani, facendo qualche passo verso il disimpegno. Ma, prima che potesse dileguarsi, lo richiamai. «Le chiavi», feci schietto, e i suoi occhi azzurri si soffermarono sul mio volto.
    Aggrottò la fronte, portandosi sospettoso una mano sulla tasca dei pantaloni. «Perché?» La sua non suonò come una domanda, bensì come un’affermazione vagamente accusatoria.
    Incrociai le braccia al petto, cercando di essere il più saccente possibile. «Non voglio rischiare che piombi in casa in momenti inopportuni», replicai, piegando il palmo verso di lui in modo che mi consegnasse le chiavi. «Ormai per te e il tuo amichetto Cedric è diventata quasi una routine romperci le uova nel paniere».
    «Ma se è successo solo una volta», ribatté pacato, atteggiando il volto ad un’espressione che la diceva abbastanza lunga. «E stavolta Ced non c'entra nulla».
    Avremmo sicuramente cominciato a polemizzare, se Edward non avesse fermato entrambi, sbuffando sonoramente. Sapeva troppo bene, in effetti, quanto diventavamo testardi e cocciuti quando cominciavamo a sproloquiare in questioni assolutamente futili. «Se cominciate ancora una volta con i vostri battibecchi, sapete quali sono le punizioni», sbottò, incrociando le braccia al petto.
    Alzammo le mani sulla difensiva, prima che puntassi nuovamente il mio sguardo su Jason. «Coraggio, consegnami le chiavi», ripetei imperativo.
    Seppur tentennasse ancora, dopo aver lanciato un’occhiata al volto di Edward, Jason sbuffò, infilandosi svogliato le mani in tasca; ne tirò fuori il suo mazzo di chiavi e si avvicinò a me per lasciarlo cadere non curante nel mio palmo aperto, seguendole con lo sguardo quando le chiusi in un cassetto accanto al divano. «Tanto appena abbassi la guardia me le riprendo», mi disse con fare minaccioso, impuntandosi capricciosamente.
    Lo guardai con un sorriso vagamente bastardo, grattandomi non curante il collo. «E tu credi davvero che le lascerò lì?» domandai, muovendo cadenzato la mano destra.
    Jaz borbottò fra se e se qualcosa, forse scimmiottandomi perché di sfuggita sentii un “lascerò”. Mi guardò con quei suoi occhi d’un azzurro iridescente, con quel pizzico di sfida che non glieli abbandonava mai. «A costo di ispezionare l’intera casa, le ritroverò», ripeté, annuendo a se stesso. «O al limite scassinerò la serratura». Detto ciò, si risistemò la frangetta scura sulla fronte, ancor più saccente di me. Quando si dileguò nel corridoio e tornare subito dopo con il portafoglio fra le mani, ci salutò velocemente e si fiondò all’ingresso, richiudendosi la porta alle spalle con un sonoro tonfo.
    Guardai Edward che ridacchiava, ancora in piedi nel bel mezzo del salotto. Mi lanciò un’occhiata, con un sorriso sornione dipinto sulle labbra; si riavvicinò prima di lanciarsi divertito su di me, facendomi ricadere all’indietro sul materasso. Un tantino confuso, l’osservai sbattendo le palpebre, vedendolo allargare il sorriso. «Abbiamo un piccolo conticino in sospeso, mi sembra», mormorò, cominciando a far vagare due dita della destra sul mio collo scoperto.
    Trassi un lungo sospiro, ormai trepidante. Adesso che Jason si era dileguato nuovamente, non volevo essere ulteriormente disturbato. Così gli sorrisi a mia volta, scostandomi di poco la camicia, come se volessi invitarlo. «Sono pronto a pagare il debito», replicai malizioso, vedendo entrambe le sue bionde sopracciglia sollevate in un’espressione maniacale.
    Ci mettemmo poco a ritrovare l’intimità iniziale che avevamo perduto. Il gioco riprese normalmente, mentre ormai non aspettavamo altro che portarlo una volta per tutte a compimento. Entrambi solo in intimo, non ci curammo nemmeno del flebile gelo che si espandeva di tanto in tanto dalle fessure delle finestre, ma poi, quando giungemmo al punto cruciale, a rompere l’atmosfera fu il prolungato suono del campanello e poi la cara e vivace voce di nostro figlio. «‘To-san! Stavolta ho dimenticato le chiavi della macchina!»
    Era vero: l’imprevisto porta un nome... Jason Mustang!






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Capitolo 20
*** [ Flash Contest ] [ Storia Fuori Serie ] Beata Innocenza ***


Heart burst into fire_Episode 20 Titolo: Beata innocenza
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 2890 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ FLASH CONTEST ][ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 20: “BEATA INNOCENZA”

    «‘Ka-san?» Jason mi chiamò, la vocina ovattata dall’acqua che scrosciava.
    Mi trovavo sotto la doccia, costretto ad essermi svegliato presto per andare a lavoro anche se, per prima cosa, avrei dovuto accompagnare Jaz a scuola. Sciacquatomi un occhio in cui era finita un po’ di schiuma, chiusi l’acqua e, ravvivandomi i capelli all’indietro per evitare che si incollassero alla fronte, arraffai il primo asciugamano che trovai e me lo legai alla vita, uscendo dalla doccia per andare dritto dritto ad aprire la porta. Non ebbi nemmeno il tempo di farlo che un tornado in pigiama mi si catapultò addosso.
    «Ehi, ehi, così ti bagni», lo ammonii divertito, allontanandolo un po’ da me per issarlo sotto le braccia, così da poterlo vedere meglio in viso. Aveva un’espressione imbronciata e il musetto ancora sporco di marmellata alle ciliegie. «Che c’è, Jaz?» gli chiesi, riuscendo solo a farlo imbronciare di più.
    Si strofinò il viso con una manina per ripulirselo alla bell’e meglio, ma riuscì solo ad allargare la macchia. «La vecchia signora che sta di là ha detto una brutta cosa», cominciò, cercando di gettarmi le braccia al collo per avvicinarsi di più a me.
    Non glielo permisi subito per evitare che si bagnasse però, vedendo il suo viso intristirsi, fui io stesso a portarmelo al petto. Mugugnò un po’ il suo disappunto al contatto con la pelle umida, ma poi ci strofinò contro il viso, portandosi le braccine al petto per poggiare le mani sul mio. «Che ti ha detto la signora, Jaz?» provai a farlo parlare, visto che l’espressione era sempre più triste. Di solito gliela vedevo solo quando c’entrava Edward: in quelle rare occasioni in cui veniva a trovarci e poi doveva di nuovo scappare a Central.
    Cominciando a giocare con le goccioline d’acqua sul mio petto, Jaz chinò il capo, lasciando che la frangetta mora gli nascondesse gli occhi. «Mi ha chiesto dov’era la mia mamma», spiegò, percorrendo con un dito un rivoletto. «Ho detto subito che sei tu, ma lei ha detto di no». Gli occhietti azzurri si alzarono per incontrare i miei, tristi, e anche le sopracciglia erano corrugate. «Ha detto che tu non sei la mia mamma», concluse con una nota di dolore.
    Fui io, però, ad addolorarmi. Quello era proprio un brutto discorso da affrontare. Con Jaz tra le braccia, uscii dal bagno e mi fermai nel corridoio vicino alla cucina, dove avrei potuto essere sentito senza il rischio d’esser visto. «Può andare, signora Arman, grazie per aver badato a Jaz», feci, sentendo lei fare un po’ di rumore con i piatti usati per la colazione. «Scusi se non l’accompagno alla porta, ma non sono presentabile».
    Sentii distintamente il suono d’una risatina, quasi maliziosa. Proprio una vecchietta arzilla, non c’era che dire. «Oh, non si preoccupi, signor Mustang», rispose civettuola. «É un piacere occuparmi di quell’angioletto, chiami pure quando occorre». Stavolta la sentii posare gli ultimi piatti per sbucare nell’altro corridoio, collegato all’ingresso.
    Chiusa finalmente la porta quando fu uscita, mi arrischiai ad entrare in cucina, con Jason ancora fra le braccia e i capelli che pian piano si asciugavano da soli. Misi il mio figlioletto in piedi su una delle sedie, in modo che io potessi guardare lui e viceversa. L’espressione triste, però, non aveva abbandonato il suo musetto. «Jaz, ti ricordi il discorso delle ‘Ka-san maschietto e delle ‘Ka-san femminucce?» cominciai, vedendolo annuire piano a sguardo chino. Sospirai, poggiandogli le mani sulle spalle esili non prima d’essermi sistemato l’asciugamano. «Tu la mamma ce l’hai, solo che per gli altri è un papà», provai a spiegarmi con parole semplici, vedendolo corrugare un po’ le fini sopracciglia scure. Da come mi guardò, capii che ero stato tutt’altro che chiaro.
    «Ma perché se sei la mia ‘Ka-san, gli altri credono che sei il mio ‘To-san?» mi chiese difatti, gonfiando un po’ le guance paffutelle. Ecco che mi stavo nuovamente impelagando in milioni di domande. Era un po’ troppo curioso per essere un bambino di cinque anni, secondo i miei modesti canoni.
    Adocchiai l’orologio, sperando che fosse almeno quello a salvarmi, purtroppo per me, però, anche il tempo sembrava non essere dalla mia parte. Mancava ancora più d’un’ora prima dell’inizio della scuola e quasi due dall’inizio del mio turno. In poche parole, ero fottuto.
    «Allora, ‘Ka-san?» mi richiamò, tirandomi una ciocca di capelli e, lagnandomi, gli feci lasciare la presa.
    «Jaz, questa è una cosa che per adesso non posso spiegarti», mi giocai quella carta, sperando che almeno per quel giorno accantonasse il discorso. Speranza vana, in realtà.
    «Ma perché no?»
    Alzai lo sguardo al soffitto,
esasperato. «Perché non posso, Jaz, sei ancora troppo piccolo», mi lasciai sfuggire, e non l’avessi mai detto. Dovetti subirmi una lamentela alla Edward Elric.
    «Io non sono piccolo, ‘Ka-san!» esclamò, agitando le braccine e rischiando di cadere, ma per fortuna lo trattenni svelto, poggiandogli un dito sulle labbra.
    «Sei grande, sei grande», mi affrettai a dire. «Ma non posso spiegartelo lo stesso».
    Jaz si imbronciò nuovamente e incrociò le braccia al petto, fissando i suoi occhi azzurri in giù. Mi ricordò quasi dolorosamente me da bambino, con quell’espressione da cane bastonato. «Non mi dici mai niente», riattaccò, distraendomi dai miei pensieri.
    «Ti dirò tutto quello che vorrai quando sarai cresciuto», gli promisi nello scompigliargli i capelli, appuntandomi di non fargli nessun discorso sul sesso. Quello l’avrei malignamente lasciato fare ad Edward se fossimo tornati in tempo a Central.
    Anche se non del tutto convinto, alla fin fine Jaz annuì, cosicché potei finalmente portarlo fino in camera per prendere dei vestiti per me e per lui prima di dirigermi in bagno. Lottai non poco per farlo entrare nella vasca, ritrovandomi a fare l’ennesima doccia fuori programma. E fortuna che non mi ero ancora vestito, eh. Ormai fradicio, mi scompigliai i capelli per liberarli dall’acqua in eccesso, voltandomi un po’ per cercare dell’altro shampoo e la saponetta.
    Una domanda di Jaz, però, mi lasciò con entrambi i prodotti a mezz’aria una volta trovati. «Ma tu e ‘To-san fate il bagno insieme, ‘Ka-san?» Da dove nascevano certi quesiti? Mi voltai come un automa, ancora una volta senza risposte. Era vero, certo, quando Edward veniva a trovarci facevamo il bagno insieme... e non solo per lavarci. Ma questo non spiegava di certo il perché della domanda, tanto che mi ritrovai a chiederglielo. Peggio d’un bambino anche io. «Gli altri bambini a scuola dicevano che i ‘To-san e le ‘Ka-san fanno il bagno assieme», rispose, come se quello spiegasse tutto. «Anche tu e ‘To-san?»
    I bambini non sono più quelli di una volta, quella fu l’unica cosa razionale che riuscii a pensare. Già a cinque anni a chiedersi certe cose. Come cambiavano i tempi! Mio malgrado, quindi, mi ritrovai ad arrossire. Maledetto il mio ventenne che si trovava fuori dai guai, adesso! «Jaz, lo sai che queste cose non si chiedono?» feci, sperando che mi prendesse in parola. Mi sarei imbarazzato troppo a rispondere, affermativamente o negativamente che fosse.
    Jaz corrucciò il visino, giocando distratto con la schiuma che lambiva la vasca. «Che ho chiesto di brutto?» mi domandò ancora, mandandomi all’esasperazione. Non ce l’avrei mai fatta a vincere contro di lui e i suoi occhioni azzurri, inutilmente vero.
    «Non hai chiesto nulla di brutto, ma è una cosa che...» mi interruppi, cercando le parole adatte. «É una cosa che devono sapere solo gli Oto-san e le Oka-san». E non avevo tutti i torti, anche se lui si imbronciò maggiormente, corrugando le sopracciglia.
    «Ma se lo devono sapere solo le ‘Ka-san e i ‘To-san, perché gli altri bambini lo sanno?» chiese.
    Ecco, ad una logica simile non avrei saputo rispondere. Mi grattai il collo, ormai senza sapere come poter sfuggire a quella situazione. Perché diavolo se n’era uscito con certi quesiti, quella mattina? «Stammi a sentire, Jaz», cominciai, arrampicandomi ormai sugli specchi. «Sono solo le ‘Ka-san femminucce che fanno il bagno con i ‘To-san maschietti, capito?» Provai a mettergliela su quel piano, sempre con la speranza che la smettesse di fare domande e si lasciasse lavare i capelli in tranquillità.
    «E perché?» fu invece la sua risposta alla mia affermazione.
    Mi lasciai cadere sul pavimento bagnato con un lamento, girandomi di schiena per adagiarmi alla vasca e reclinare la testa all’indietro, in modo che potessi guardarlo bene senza perderlo quindi di vista. I miei capelli sfioravano appena il pelo dell’acqua su cui galleggiava la schiuma. «Questo lo capirai tra un paio d’anni», me ne uscii, vedendo il suo faccino atteggiarsi ad un’espressione vagamente perplessa e incuriosita. «Quando avrai la mia età o quella del tuo Oto-san, scoprirai che è molto divertente fare il bagno con una femminuccia».
    «E non lo posso scoprire adesso?»
    Sorrisi un po’ a quella sua constatazione. Ah, beata innocenza. «Adesso no, più in là», dissi, e lui si fece pensoso.
    «Quindi, se è divertente, le ‘Ka-san e i ‘To-san giocano?» mi chiese ancora, e se non avesse avuto soltanto cinque anni avrei detto che la sua era malizia.
    Mi ritrovai a ridacchiare, alzando un braccio per scompigliargli i capelli bagnati e far schizzare appena qualche gocciolina d’acqua da tutte le parti. «Una cosa del genere», feci, sentendo le sue manine fra i miei, di capelli.
    «E come giocano?» cominciò a passare le dita fra ogni ciocca, prendendo di tanto in tanto la schiuma per buttarcela sopra insieme all’acqua. «Giocano come quando tu giochi con me e i miei pupazzetti, ‘Ka-san?»
    Eh, aye... proprio una beata innocenza. Tirandomi su con i capelli ormai nuovamente bagnati, mi apprestai a fare lo stesso con i suoi, vedendolo socchiudere gli occhi infastidito quando gli massaggiai la cute con le dita. «Diciamo di sì, Jaz», esordii tranquillamente, sebbene di tanto in tanto mi scappasse qualche risatina per la mia bugia a fin di bene che lui cercava di capire.
    Jason diede finalmente tregua alle sue domande, permettendomi di fargli lo shampoo; gli passai il sapone, così che potesse cominciare a lavarsi almeno un po’ per benino, anche se dopo poco cominciò a giocare con la schiuma, coinvolgendomi quasi senza che me ne accorgessi. Più bambino di lui, ne presi una bella manciata e me la passai in viso, soffiando via il restante incitato dalle sue risate divertite e le sue mani che battevano a pelo d’acqua.
    «Come sei buffo, ‘Ka-san!» esclamò giocoso, allungando le braccia per togliermi la schiuma dal naso e passando di nuovo le dita fra i capelli, dove ne era caduta un po’. Ridacchiando, riempii anche lui di schiuma, vedendolo arricciare il nasino prima di strofinarsi la faccia nel tentativo di pulirsela.
    Il resto del tempo se ne andò più o meno così, tra nuvole di schiuma e risate. E, beh... e l’acqua sul pavimento. Fu quasi con rammarico che dovetti tornare alla realtà, ricordandomi di scuola e lavoro. Sciacquai Jason da tutta la schiuma che avevamo creato e di cui si era praticamente vestito, tirandolo fuori dalla vasca per avvolgerlo nel suo accappatoio. A misura di bambino, ma comunque grande. Ed era lui a sembrare buffo, adesso. Buffo, aye, ma terribilmente dolce.
    Cominciai a tamponargli i capelli con un asciugamano, liberandoli dall’acqua in eccesso prima di passare ad asciugarlo completamente senza che si muovesse come suo solito. Aveva il visino rilassato, come quando era pronto per il suo pisolino. «Ehi... hai sonno?» gli chiesi, mentre gli infilavo la maglietta.
    Con una manica sì e una no, lui annuì, strofinandosi un occhio con il braccio libero. Mi intenerii alla vista della sua boccuccia all’ingiù, espressione che adottava solo quand’era stanco; risi e continuai a vestirlo, passando presto a me mentre lui se ne stava seduto sulla tavoletta del water, a sbadigliare di tanto in tanto. Infilati i boxer, cercai il mio pantalone, fermandolo alla vita con la cintura una volta indossato. Mi stavo apprestando a chiudere la camicia quando Jaz mi richiamò di nuovo.
    «Lo voglio anche io, ‘Ka-san», mormorò, con la vocina ammorbidita dal sonno.
    Lo guardai senza capire, chiudendo gli ultimi bottoni. «Che cosa, Jaz?» chiesi, riprendendolo in braccio, e lui si sporse un po’ oltre la mia spalla, indicando un punto dietro di me. Quando mi voltai, non potei evitarmi di ridere divertito, recuperando il mio orologio d’argento dal lavandino. «Ti piace?» chiesi ancora, porgendoglielo.
    Jaz cominciò a cincischiarci e lo caricò, premendo il pulsante sopra di esso per aprire il coperchio e sbirciare al suo interno prima di chiuderlo con uno scatto e aprirlo di nuovo. «Mi piace tanto tanto», ammise, alzando gli occhi azzurri verso di me. «Me lo regali?» Lo disse con un tono così speranzoso che mi dispiacque dovergli negare quella richiesta.
    «Non posso, Jaz», gli risposi, corrugando un po’ le sopracciglia. «Non è di Oka-san».
    Con il visino imbronciato, lui tornò a studiarselo, passando un dito sull’incisione dell’araldica del Comandante Supremo. «E di chi è?» mi domandò mesto.
    Mi incamminai verso la porta con lui in braccio, sospirando. «É del posto dove lavoro, mi serve», gli spiegai con parole semplici, sentendo nuovamente i suoi occhi su di me. «Senza quello Oka-san non può andarci». Gliela buttai sul facile, vedendolo annuire mogio. Si attorcigliò la catenella intorno ad un dito, riporgendomelo subito dopo.
    «‘Ka-san...» chiamò ancora, concentrandosi sui bottoni della mia camicia. «Ma se non ci vai una volta a lavoro... ti sgridano?»
    Mi guardò con i suoi occhioni azzurri e non potei resistere. Lo abbracciai più stretto, baciandogli con dolcezza la chioma nera mentre sentivo un sorriso andare ad incurvare le mie labbra. Ero io quello che non voleva avere figli una volta, eh? «A dire il vero non lo so, Jaz», semplificai il tutto, sentendo le sue manine aggrapparsi alla stoffa, come se non volesse lasciarmi.
    «Vuoi stare con me?» mi chiese con voce morbida.
    Come avrei potuto resistere ad una simile richiesta fatta con quel tono? Se ci fosse stato Edward, avrebbe sicuramente detto che lo viziavo troppo. «E come fai per la scuola?» feci invece io, anche se sentivo benissimo che, se l’avesse chiesto, non l’avrei portato per restare quel giorno con lui. Dovevo essere una madre più presente, in fondo. Almeno quando potevo. Un giorno o due a casa da lavoro e scuola non avrebbe di certo fatto crollare il mondo.
    «Non posso restare a casa con te?» ed ecco la domanda che aspettavo.
    Gli sorrisi raggiante, come se volessi rassicurarlo. Se quel giorno non mi sarei presentato, il Quartier Generale non sarebbe andato a rotoli, no? La mia presenza non era poi così essenziale o di vitale importanza, visto che scaldavo una sedia e riempivo scartoffie quando mi andava. Nemmeno in missione mi mandavano più, quindi figurarsi. «Sai che facciamo, Jaz?» gli dissi, dirigendomi con lui all’ingresso. «Visto che siamo vestiti, ce ne andiamo al parco, ti va?»
    Il suo viso, a quelle mie parole, si illuminò di un sorriso. «Sì!» esultò felice, gettandomi con impeto le braccia al collo e scoccandomi un sonoro bacio sulla guancia. «Grazie, ‘Ka-san!»
    Vedere quegli sprazzi di allegria e gioia mi scaldava il cuore. Lo distraeva, almeno in parte, dalla situazione che stavamo affrontando, dato che vivevamo separati da Edward, in un posto a parecchie ore di distanza. Uscimmo dal palazzo, lasciandoci andare entrambi a risatine divertite, uno più bambino dell’altro. La giornata era una delle più belle e assolate che avessi mai visto nell’afosa South City, ideale per una passeggiata nel parco fra il verde della natura. Mi meravigliai non poco a vedere quante coppie fossero lì presenti già dal primo mattino, persino genitori seduti sulle panchine ad osservare i figli che giocavano poco distanti. Avevano fatto tutti la mia stessa pensata, a quanto sembrava.
    «Mettimi giù, ‘Ka-san, voglio andare sullo scivolo!» esclamò Jaz, attirando anche l’attenzione di una coppia che stava passando lì vicino. E fui sicuro che quello che mi lanciarono fu uno sguardo stranito...
    Mi chinai per permettere a Jason di poggiare i piedini a terra, mettendogli le mani sulle spalle prima di puntellarmi sulle ginocchia, così da poterlo guardare meglio in viso. «Jaz, come ti ho detto che devi chiamarmi fuori casa?» lo ammonii, ma non in tono severo.
    Abbassò lo sguardo sui ciottoli bianchi, portandosi le braccia dietro alla schiena. «‘To-san», rispose, tornando a fondere il suo cielo con la mia antracite. «Però... perché?»
    Oh, no... rieccolo con le domande. Gli accarezzai la testa amorevolmente, sorridendogli. «Te lo spiegherò poi», mi risolsi a dire. «Ora vai a giocare, coraggio».
    Con quelle paroline magiche, riuscii ad evitarmi un’altra conversazione fatta solo di quesiti. Quando gli venivano certe curiosità non sapevo proprio dove sbattere la testa. Seguii Jason con lo sguardo mentre lo vedevo raggiungere le giostrine, avvicinandomi a mia volta al piccolo spazio gioco prima di lasciarmi cadere seduto sulla panchina. Come al solito fu subito attorniato dalle bambine lì presenti, e quasi mi sembrò che se lo litigassero. Difficile non sorridere, a quella vista. E quasi fui sul punto di scoppiare a ridere e di farmi guardare male dalla donna che si era appena seduta quando fu lui stesso a scegliere, prendendo - guarda caso - la mano di una biondina.
    Beata innocenza avevo detto, eh?







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Capitolo 21
*** [ Storia Fuori Serie ] Tenere pesti › Distrazioni ***


Heart burst into fire_Episode 21 Titolo: Tenere pesti (Distrazioni)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 2415 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang & Figli
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 21: TENERI PESTI (DISTRAZIONI)

    Dinanzi a me si prospettavano quattro giorni d’Inferno.
    Edward era a Reesembool, per la manutenzione del suo auto-mail, mentre io ero stato incastrato da nostro figlio di controllargli i bambini per un po’. Aye, i bambini. Quattro adorabili pesti frutto di tre notti di fuoco. Almeno non aveva lasciato le cose a metà, riconoscendoli tutti come suoi nonostante non si fosse deciso a sposare nessuna di quelle povere donne che aveva messo incinta. Se non fossi stato certo e stracerto che fosse adottato, avrei pensato che avesse davvero i geni Mustang, nelle vene. Non riusciva proprio a tenere il fratellino nei pantaloni. C’era da dire, però, che aveva fatto delle ottime scelte. Non significava certo che approvavo quel suo modo di fare, persino io avevo sempre fatto minuziosamente attenzione quando si era trattato di donne... e per fortuna, c’era da aggiungere. Chi l’avrebbe sentito a Edward, altrimenti! Certe volte veniva persino il dubbio che Jason fosse frutto d’una mia notte passata con una donna, tanta era la somiglianza e il modo di fare. Ma non era ciò a cui pensavo, in quel momento.
    Comodamente adagiato sul fondo della vasca, con l’acqua che mi lambiva i fianchi, riflettevo su come avrei potuto cavarmela con i miei nipoti. Solo, senza l’aiuto di Edward. Aveva scelto proprio un bel giorno per andare dalla sua cara meccanica, quel fagiolino! Sbuffando via un po’ di schiuma, mi portai le braccia dietro la testa, distendendomi meglio e lasciando che un piede fuori uscisse dall’acqua mentre abbassavo di più il capo per far sì che il calore ammorbidisse le cicatrici. Chiusi l’occhio e mi concentrai sul flebile scrosciare contro il bordo della vasca ai miei lievi movimenti, con il pensiero che vagava alla bottiglia di whisky adagiata sul pavimento.
    Quel momento di pace, però, fu infranto in poco. Un insistente bussare alla porta ruppe l’attimo e, riluttante, dovetti abbandonare quel bagno di tepore, arraffando l’accappatoio per asciugarmi alla bell’e meglio prima di passare ai vestiti e alla benda. Ancora umido, ci misi un po’ di più per infilare intimo e pantaloni, indossando la camicia sulla pelle ancora fumante e appiccicosa. Pensai ai primi bottoni strada facendo, mentre l’ospite inatteso continuava a bussare. «Arrivo, arrivo», borbottai, dirigendomi all’ingresso.
    Una volta aperta la porta, fui letteralmente investito da un tornado di colori e stature che portava svariati nomi. Eccole lì, le mie adorabili pesti. Seguite a ruota dal caro papà. «Ciao, ‘Ka-san», mi salutò, con quel sorriso strafottente su quella faccia da prendere a schiaffi. «Su bambini, salutate la nonna».
    Tutti avvinghiati a me, alzarono lo sguardo verso il mio occhio in contemporanea. «Ciao, nonna Roy!» esclamarono all’unisono, con lo stesso sorriso del padre. Inutile dire quanto quella situazione mi stressasse. Già in passato ero stato scambiato per una nonnina, esserlo davvero, adesso, era un altro paio di maniche. Stavo invecchiando sul serio, purtroppo.
    Mi piegai sulle ginocchia, abbracciandoli uno ad uno, soprattutto le mie gemelle preferite e anche l’unico ometto di casa, che sembrava un po’ contrariato.
    «Niente dolci prima delle sette ‘Ka-san», mi informò Jason, entrando con una sacca più grande di lui. «Chi le sente alle mie mogli, poi!»
    Ridacchiai, non riuscendo a farne a meno mentre seguivo la sua figura. Stava posando la sacca accanto al mobile, seguito dal figlio e da una delle figlie. «Me la vedo io, non preoccuparti», lo rassicurai, incontrando i suoi occhi azzurri.
    «Appunto per questo ti avverto», scherzò, scompigliando i capelli della maggiore delle figlie, che non tardò a far sentire le sue proteste.
    «Sono grande, papi, smettila!» esclamò, cercando invano di sistemarseli. Un morso di bambina e già si atteggiava ad adulta! Aveva proprio preso il gene Elric, non c’erano dubbi. Da poco aveva compiuto i sei anni, ed era, se la si voleva mettere in quei termini, la secondogenita. Era la figlia della figlia di Alphonse, ed era stato arduo calmare il caro fratellino del mio compagno, quando aveva saputo che Jaz aveva messo incinta la sua bambina.
    «Lo so che sei grande, Beth, ma resti sempre la mia piccina», fece Jason, prendendola in braccio e strofinando il naso contro il suo; l’altro si imbronciò e gli strattonò il pantalone, così lui abbassò lo sguardo, sorridendo. «Non fare il geloso, Will», disse, ricavandoci solo un altro colossale broncio. William, sette anni: stranamente alto per la sua età, era il gallo del pollaio e spettava a lui occuparsi delle sorelline. Capelli scuri, occhi azzurri... sputato al padre.
    «Mica sono geloso», replicò, ma la sua espressione diceva il contrario, così Jason sorrise di nuovo, passandogli un braccio dietro alla schiena in perfetto stile padre premuroso. La scena mi fece sorridere, ma non potei osservarla oltre che fui richiamato da due manine che mi tiravano la camicia. Mi voltai, incontrando gli occhi delle gemelle.
    «Dopo ci racconti una ‘toria, nonnina?» mi chiesero all’unisono, con quel dolce faccino.
    Come avrei potuto dire di no? Amber e Sarah, quattro anni: capelli lunghi, castani, avevano preso dalla madre. Solo gli occhi erano quelli di Jason. Me le abbracciai entrambe, issandomele subito dopo in braccio. «Tutte le storie che volete», concessi, venendo subito richiamato dal padre.
    «So quali sono le tue storie, ‘Ka-san, me le traumatizzi», sghignazzò, ritornando sui suoi passi per darmi una leggera pacca sulla spalla. «E cercate di non fare tardi la notte».
    «Alle otto i miei due angioletti saranno già a letto, promesso», dissi, nonostante le proteste che subito si lasciarono sfuggire le dirette interessate.
    Jason, invece, sollevò divertito un angolo della bocca. «Io non lo dicevo per loro, ma per te», ribatté sarcastico. «Sessant’anni sono sessant’anni».
    Storsi la bocca in una smorfia, quasi fossi stato pugnalato. «Non mi piace sentire la mia età, lo sai» mi lagnai come un bambino capriccioso. E quelli erano gli unici momenti in cui potevo ancora sentirmi tale.
    Jason rise, dandomi un’altra pacca sulla spalla. «Dai, dovresti farci i conti prima o poi», sghignazzò, sollevando ammiccante un sopracciglio prima di avvicinarsi maggiormente a me, più precisamente al mio orecchio. «Ma penso che te lo faccia già notare ‘To-san quando in quei rari momenti andate a letto, vero?»
    «Siamo entrambi in forma smagliante, quando si tratta di quello», replicai, sentendolo sghignazzare ancora un po’, troppo divertito.
    «Io non volevo insinuare nulla», ridacchiò, passandomi distrattamente due dita sul mento per accarezzare la barba che mi stavo facendo crescere. «Questa faresti bene ad eliminarla, però», constatò pensoso, e io gli scoccai un’occhiataccia.
    «Volevo farmi crescere i baffi», ironizzai, guadagnandoci un’occhiata stranita.
    «Staresti peggio!» esclamò divertito, agitando distrattamente una mano, dando un bacio alle gemelle prima di premurarsi di fare lo stesso con Elisabeth e William. «Fate i bravi», raccomandò, salutando poi anche me. «Ci vediamo sabato, ‘Ka-san», mi informò, e con quel solito sorriso se ne andò, agitando divertito la mano. Non era cambiato affatto, anche a trent’anni restava tale. Avrei affermato con certezza che si trattasse di una cosa di famiglia.
    Solo con i miei nipoti, adesso, non mi toccava altro che trovar loro qualcosa da fare. Mancavano tre orette all’ora del sonnellino, quindi potevo intrattenerli con la tanto agognata fiaba che avevano richiesto le gemelle. «Che ne dite di un bel gelato?» chiesi subito, richiamando presto la loro attenzione.
    William mi osservò, un po’ scettico. «La mamma non me lo fa prendere se non mangio», mi disse, guardandomi con quegli stessi occhioni azzurri che, tanti anni orsono, mi avevano catturato.
    Sorrisi, però, nel vedere invece l’espressione indecisa sul suo volto. «La mamma non c’è, no?» feci in risposta, facendo cenno ai maggiori di seguirmi in cucina, con le gemelle ancora avvinghiate al mio collo.
    Elisabeth e William mi trotterellarono dietro, la mia nipotina sembrava ansiosa di gustarsi un bel gelato fuori orario. «A me crema al limone, nonnina», mi informò, aspettando che aprissi il frigorifero. Mi evitai di ridacchiare, e lo feci solo perché poi si intromise anche William.
    «Io lo voglio al cioccolato», fece invece lui, infischiandosene in un lampo delle regole della madre. Dovetti chinarmi per far poggiare i piedi a terra a Sarah e Amber, che mi si aggrapparono invece ai pantaloni.
    «Dai, nonnina, muoviti!» si lamentarono, sempre in coro.
    «Un momento, un momento», replicai con un sorriso.
    Pronti i gelati per tutti, ci accomodammo in salotto, con un libro d’alchimia sottobraccio e un bicchiere di whisky sul tavolino. Ciotole di gelato alla fragola, al cioccolato, al limone e alla stracciatella si paravano lì accanto, con una bella spruzzata di panna e cialde. Avidi, i miei nipotini cominciarono a consumarle, e le più piccole non tardarono ad inzaccherarsi.
    «Voglio sentire la storia sui fratelli che cercano la pietra filosofale», incalzò Elisabeth, tirandomi la camicia per farmi cedere a quella richiesta. Già, le mie storie si basavano quasi sempre su avvenimenti realmente accaduti. Quella era nata così, per caso. Nemmeno ricordavo esattamente come. Un piccolo litigio con Edward su chissà cosa, ed ecco che mi ero ritrovato a raccontare la sua vita come una fiaba da tramandare ai nipoti. E non gli era affatto dispiaciuto, anzi.
    «Racconta quella dei due amici che rubavano negli armadietti dei capitani!» fece in risposta William, guadagnandoci un’occhiataccia dalla sorella. Anche quella era una storia di vecchia data. Molto vecchia, per essere precisi. Nata la prima notte che avevamo passato con Jason, la ricordo bene. Non sapendo su che specchi arrampicarmi, mi ero ritrovato a raccontargli di quando io e Maes, ai tempi dell’Accademia, scassinammo l’armadietto del nostro capitano e ci avevo rimediato anche una ramanzina da Edward. Proprio lui, poi, aveva attaccato con l’alchimia. La stessa alchimia che tanto era piaciuta a Jason, ora alchimista di stato come noi. Fiero anche di dire che ero stato io
a sottoporlo all’esame e a consegnargli di persona quella carica, iinvestendolo di quelle alte onorificenze. Aye, proprio io, il nuovo Comandante Supremo!
    A distrarmi dai miei pensieri di gloria, fu il battibecco fra William ed Elisabeth che stavano bisticciando su chi avesse ragione, praticamente ignorati da Amber e da Sarah che si godevano, a differenza loro, il gelato. Una delle due mi gettò un’occhiata, con il musetto sporco di panna. «Nonnina, perché non ci leggi il libro d’acchimia?» mi chiese, angelica come non mai. Ed era strano, visto che insieme alla sorellina era una vera e propria miniera di caos. Ne combinavano sempre una più del Diavolo. Solo in rare occasioni erano calme, giusto quando si avvicinava il momento del riposino. Il giorno dopo, invece, mi sarei ritrovato a fare i conti con due pesti scatenate!
    Sorridendo alla mia cara, quanto pestifera Amber, allungai di poco il braccio per prendere il libro, interrompendo così il litigio tra i due maggiori.
    «Ma no nonnina!» si lagnarono, non appena lo videro.
    «‘Ti, invece!» rincarò la dose Sarah, accoccolandosi contro di me con la faccia sporca di gelato alla fragola.
    Glielo ripulii, troppo divertito. Mi sembrava di essere tornato ai tempi in cui era Jason quello che si sporcava sempre. Ai miei cari, vecchi, trent’anni... scossi la testa, preparandomi ad una bella e profonda lettura.
    «Leggi nonnina, leggi!» mi scosse Amber, ancora in ginocchio sul divanetto.
    Risi tra me e me, felice per quel loro interesse. Sarebbero diventate alchimiste provette, un giorno. Ci avrei messo la mano sul fuoco. Mi sistemai meglio sul morbido divano, attirandoli tutti a me prima di cominciare a sfogliare le prime pagine alla ricerca di un argomento non troppo pesante prima di apprestarmi a leggere, con i loro sguardi puntati su di me. Domande varie non mancarono, così come alcuni sbuffi da parte di Will o Beth. Le uniche davvero interessate erano le mie gemelline, e non lo trovavo affatto strano. Finché una di loro non sbadigliò sonoramente, interrompendo la mia lettura.
    Guardai i volti assonnati delle mie piccine e allungai distratto un braccio per afferrare l’orologio sul comodino, controllando così l’ora e restandone stupito. Erano quasi le dieci. Il tempo era davvero volato e non avevamo nemmeno mangiato qualcosa... se si escludeva il gelato, ovviamente. Chiusi il libro con uno schianto secco, sbadigliando a mia volta senza ritegno prima di guardarli ad uno ad uno.
    «Ce la fate a restare svegli mentre preparo da mangiare?» chiesi, ricevendo sguardi e sbadigli. William annuì, così come Elisabeth, anche se lei sembrava più addormentata. Amber e Sarah, invece, si limitarono solo a spalancare la bocca in un ennesimo sbadiglio. Scompigliai i capelli del maggiore alzandomi, stiracchiandomi poi. «Bada a loro, Will, okay?» mi premurai, sgranchendomi il collo.
    Sorridendomi, lui si alzò un po’ e, calandosi nell’imitazione d’un soldato, fece il saluto militare. Tutti quella strada in famiglia, eh? «Ci penso io, nonna. Anzi, no, Eccellenza», disse, atteggiandosi già a grand’uomo.
    Stavolta non potei evitarmi di ridacchiare e mi diressi in cucina per preparare un pasto leggero, tenendo conto sia dell’ora che della loro età. Chi l’avrebbe sentito Jason, altrimenti! Ci misi non più di dieci minuti e, quando li chiamai, si presentò solo William. «Le tue sorelle?» gli chiesi perplesso, seguendolo con lo sguardo e mettendogli poi il piatto davanti.
    Lui si strinse nelle spalle, tranquillo. «Dormono», rispose semplicemente, avventandosi subito dopo sul cibo, famelico.
    Andai a dare un’occhiata alle altre e, trovandole tutte accucciate sul divano, mi intenerii alla scena. Decisi di prenderle in braccio ad una ad una, portandole almeno nel letto. Non ebbi il cuore di svegliarle. Dormivano troppo saporitamente. Me ne tornai quindi da William, consumando la cena con lui finché non fu tempo anche per noi di coricarci accanto alle sorelle. Attesi che crollasse anche lui nel mondo dei sogni, vegliando sul loro sonno.
    Mi accorsi di essermi addormentato anche io solo quando qualcosa di caldo e morbido si posò su di me, ridestandomi pian piano. Schiusi lentamente la palpebra e, con l’occhio ancora assonnato, mi parve di scorgere gli occhi di Edward che luccicavano appena nella penombra. Che ci faceva lui a casa? Che stessi ancora sognando? Lo diedi per scontato e sbadigliai, tornando a chiudere l’occhio mentre sentivo stretti a me i corpi e le braccia dei miei nipoti.
    Nelle orecchie mi risuonò una vaga risatina divertita, prima che delle labbra morbide e piene mi sfiorassero appena il viso. Un respiro sul collo, nell’orecchio. Il suono delle giunture di quell’auto-mail che tanto avevo imparato a riconoscere... poi la sua voce, come un’eco sussurrato in un sogno. «Dormite bene».







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Capitolo 22
*** Sorprendersi › Quando accade l'impensabile! ***


Heart burst into fire_Episode 22
Titolo: Sorprendersi (Quando accade l'impensabile!)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: Flash Fiction [ 549 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



EPISODIO 22: SORPRENDERSI (QUANDO ACCADE L'IMPENSABILE!)

    «Che ore sono?» mi chiese distrattamente Edward con uno sbadiglio, mentre la sua mano d'acciaio mi accarezzava una guancia per scendere lenta lungo il collo, facendomi rabbrividire per il freddo che mi aveva trasmesso.
    Sbadigliai anch'io, stiracchiandomi stanco.
«Quasi le tre», lo informai, stropicciandomi gli occhi.
    Lui emise un fischio acuto e prolungato, e solo in seguito, quando lo guardai di sfuggita, mi accorsi dell'espressione sarcastica che si era dipinta sul suo volto.
«Abbiamo superato il nostro record, allora», borbottò divertito. «O meglio, il tuo», si corresse prontamente, con un sorriso smagliante ad illuminargli il viso. «Di solito non resisti più di cinque minuti!»
    Risi di gusto a quella sua constatazione, sgranchendomi il collo. Aveva pienamente ragione, quella volta!
«Invece, adesso, addirittura due ore!» esclamai, fiero e impettito. «Sono o non sono bravo?»
    La sua risata cristallina si aggiunse presto alla mia, e mi appioppò una bella pacca sulla spalla, alzando divertito un pollice in segno di okay.
«Aye, sei il mio impeccabile Colonnello!» ironizzò.
    «E non dimentichiamoci affascinante», soggiunsi io per lui, ammiccando malizioso.
    Sollevò sarcastico una delle bionde sopracciglia, spostandosi con non curanza i capelli che gli erano ricaduti davanti al viso.
«Non vantarti troppo, adesso», ribatté, senza però abbandonare quel sorriso che mi era sempre piaciuto e che mi aveva colpito, otto anni prima.
    «Oh, mai non mi vanto mai», replicai ironico, inclinando amorevolmente la testa di lato. «Dovresti ben saperlo, mame-chan».
    Edward allungò la mano verso il mio volto e mi tirò il naso senza badare al lamento che mi lasciai scappare, scuotendo piano la testa come a volermi ammonire.
«Nay, caro Colonnello. Non si fa», disse, muovendo avanti e indietro l'indice d'acciaio. «Non mi deve dare del fagiolino».
    A quel suo tono, fui sul punto di scoppiare a ridere come un cretino. Mi ero sempre divertito a chiamarlo mame-chan, soprattutto nei primi tempi del nostro rapporto, in cui ancora reagiva con delle sfuriate che mi facevano sempre morire dalle risate. Adesso, invece, quel bel venticinquenne che avevo davanti ci aveva ormai fatto l'abitudine, sebbene mi sgridasse di tanto in tanto giusto per far scena che per altro.
«Era affettuoso...» sghignazzai, ricevendo una mezza occhiata.
    Incrociò le braccia al petto, inarcando le sopracciglia.
«Certo, affettuoso il mio caz...» si interruppe nel vedere che avevo aperto la bocca e stavo per ribattere usando una parolina che a lui piaceva tanto. «Nay, non diciamolo», si affrettò ad aggiungere, scuotendo la testa. «Fraintenderesti».
    Stavolta non mi trattenni, scoppiando a ridere. Era esilarante pensare che volesse mantenere il suo linguaggio, di solito fin troppo scurrile in certe situazioni, casto e puro. Chinandomi sul suo volto, gli scoccai un bacio a timbro sulle labbra.
«Beh, allora immagina a come resteranno sorpresi gli altri nel sapere che ho resistito per tutto questo tempo», avevo prontamente cambiato discorso, e lo sentii ridere ancora una volta, prima che si alzasse dalla poltrona su cui era seduto e recuperasse tutti i fascicoli e le documentazioni presenti sulla scrivania del mio ufficio, dove avevo stranamente passato la maggior parte del mio tempo morendo di freddo a causa del riscaldamento fuori uso.
    Edward picchiettò la mano destra sulla pila di fogli, sorridendo.
«Lo sarei anch'io, sapendo che hai compilato tutti questi documenti!»






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Capitolo 23
*** [ Storia Fuori Serie › Special di Halloween ] Stupidaggini ***


Heart burst into fire_Episode 23 Titolo: Stupidaggini (Ovvero, quando Roy Mustang può essere considerato un vero idiota)
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 4549 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



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[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 23: STUPIDAGGINI (OVVERO, QUANDO ROY MUSTANG PUO' ESSERE CONSIDERATO UN VERO IDIOTA)

    Assurdo, praticamente assurdo.
    Era ciò che mi ripetevo mezzo nudo davanti allo specchio. Non facevo altro che far scorrere gli occhi sulla mia immagine, passando poi su tutto ciò che il mio compagno aveva gentilmente preparato per me sul ripiano del bagno. Reprimevo lamenti da quasi un’ora, senza però decidere di darmi una benedetta sistemata. Ma chi l’avrebbe fatto, se fosse stato al mio posto? Quale uomo sano di mente si sarebbe messo quella roba? Ed era tutta colpa di quel disgraziato di mio figlio. Già, proprio così. Ne aveva combinata un’altra delle sue con quello scorfano della sua prof di matematica.
    Un po’ lo capivo e non lo biasimavo affatto, ma... se mi ritrovavo ancora una volta a guardare - con profondo orrore - il modo in cui avrei dovuto conciarmi, la mia compassione svaniva del tutto, lasciando posto solo ad una profonda stizza. Anzi, forse era ancora troppo poco definirla così. Un incontro genitore-insegnante, certo. Parlare da adulto ad adulto, come no. Da donna a donna... ecco, qui c’era una nota che stonava. Ed era questa la causa dei miei problemi.
    Intelligentemente, Jason aveva avuto la brillante idea di dirle, in preda ai suoi soliti sproloqui alla Edward Elric, che era - tanto per cambiare, sia chiaro - colpa di sua madre se si comportava così. Giustamente, quel mostro che si ritrovava aveva chiesto di parlare con la donna che gli dava certi insegnamenti a dir poco immorali. Avevo pensato di costringere Edward ad andarci, in principio, ma con la solita minaccia mi aveva messo subito a tacere. “Mandami lì vestito da donna e il sesso lo farai in bagno da solo.” Come avrei potuto contestare contro quella logica così schiacciante? Non mi andava assolutamente di passare il resto dei miei giorni a praticare il Fai da te. Non se potevo evitarlo, che diamine! Così, avevo messo da parte quel briciolo d’orgoglio virile che mi restava e avevo acconsentito a quella follia, ma continuavo a guardare avvilito quel vestiario. Mi ero seduto sul bordo della vasca, con le mani abbandonate sulle cosce. Dannazione a quel fagiolino e anche a mio figlio!
    «Roy, sei pronto?» mi richiamò, guarda caso, la voce di Edward. «Non vorrai fare tardi, spero! La professoressa ancora non ti conosce e già ti tiene sotto mira, sai?»
    Il suo tono sarcastico mi fece imbestialire. Ringhiai contro la porta in perfetto stile “Cane dell’esercito”. Me ne sarei stato volentieri lì dentro tutto il giorno, se non avessi pensato al sesso. Uccide, ed era proprio vero. Maledettamente vero! Trassi un lungo sospiro, decidendomi infine ad alzarmi. Angosciato e non poco, con una smorfia in viso, mi avvicinai afflitto al primo abbigliamento che avrei dovuto indossare e per primo presi proprio il reggiseno. Non me ne ritrovavo uno per casa da secoli, in realtà, e il fatto che dovessi indossarlo io non mi piaceva affatto. Era soffice, certo. Morbido, con i ferretti e le coppette a reggere le rotondità del seno e fasciarlo con grazie ed eleganza. Sarebbe stato perfetto, indossato da una giovane donna. Ma non addosso a me, porcaccia!
    Lanciai un’occhiata anche all’imbottitura, la quale era un tantino esagerata, in realtà. Semplice capire chi avesse fatto tale scelta. Io no di certo. Ci persi non più di cinque secondi, ad indossarlo. Nello sfilarli avevo fatto pratica per anni, ma, adesso che mi guardavo allo specchio, la cosa mi faceva un tantino... ribrezzo? Aye, probabilmente era quello il termine adatto. Insomma, un po’ di buon senso! D’accordo che, prima di stare con Edward, avevo visto milioni e milioni di donne in intimo, con seni prosperosi che avrebbero fatto girare la testa ad ogni uomo; d’accordo anche che mi piaceva da pazzi assaporarne la pienezza nei palmi e non solo... ma, diamine, io ero un uomo!
    Mi girai a mezzo busto per controllarne il profilo. Cazzo, erano perfetti, certo, ma... repressi l’istinto di dare capocciate contro il muro, mentre sentivo le lamentele dei miei inquilini giungere fin qui dalla cucina. Mi gridavano di muovermi, come se fosse facile! Ci volle tutta la mia forza di volontà per entrare nel vestito. Stretto - forse troppo, avrei aggiunto - e aderente, mi fasciava praticamente tutto il corpo fino a metà coscia, e aveva una scollatura a V che lasciava ben poco all’immaginazione. C’era un particolare da nascondere, ora che mi osservavo meglio. Ma, naturalmente, il mio biondino aveva pensato anche a quello. Aveva già preparato una pelliccia, nera anch’essa.
    Un po’ sulle mie, allungai una mano verso la trousse che Edward si era fatto prestare da non volevo nemmeno sapere chi, cominciando, nonostante l’espressione a dir poco sconvolta del mio stesso volto, a truccarmi. Ombretto chiaro sulle palpebre, correttore sul viso prima di stemperarci su un po’ di fard; qua mi fermai, squadrando il rossetto con aria malevola. Non volevo metterlo, ma Edward era stato chiaro. Mi feci coraggio e, mettendone appena un accenno, passai in seguito agli occhi in uno stato di catalessi. Non riuscivo a guardarmi allo specchio, e la cosa peggiore era che mi veniva da ridere! Ma non perché trovassi quella situazione divertente... era per non frignare come un moccioso!
    Con lentezza e attenzione, cominciai a passare l’eye-liner sugli occhi, rendendo ancor più a mandorla il loro taglio. Non ebbi il coraggio di guardarmi oltre. Pensai che fosse meglio concentrarmi sulla parrucca che Edward aveva premurosamente trasmutato appositamente per me. Capelli neri, lunghi e un po’ ondulati alle punte. La infilai, certo, ma anche stavolta non ebbi la forza di osservare la mia immagine riflessa. Cosa non si arrivava a fare, per non essere condannati ad una vita senza sesso! Ben presto, mi sedetti sul water, infilando, con una certa difficoltà, il reggicalze. Poi le scarpe... con i tacchi. ovviamente. Dannato fagiolino, me l'avrebbe pagata molto cara!
    Mi alzai e uscii solo tempo dopo, con la pelliccia sottobraccio, e fu con imbarazzo e orrore che li raggiunsi in cucina. Alla mia comparsa, abbandonarono le loro occupazioni per osservarmi. A Edward quasi cadde la tazza di caffè di mano per il gran ridere, mentre Jason lasciò nel piatto il toast con la marmellata che stava mangiando, strabuzzando gli occhi azzurri e spalancando la bocca. Non seppi dire se fosse perché facevo bella figura o meno. Forse solo perché era sconvolto quanto me. «Non una parola», intimai, rivolto al mio compagno che stava già per aprire bocca, ma ben si sapeva che Edward Elric faceva ciò che voleva.
    Scoppiò fragorosamente a ridere, cercando di soffocare le risate come meglio poteva mentre si avvicinava a me, a grandi passi. «Sei... mpf!» mi diede continue pacche su una spalla, ridendo a crepapelle. «Non... ce la faccio, sei... fantastico! Mpf!»
    Non gli diedi peso, attraversando a grandi falcate - tacchi permettendo, ovvio - la cucina, con gli occhi stralunati di Jaz che ancora mi fissavano. Gli si sarebbe bloccata ancora di più la crescita, perfetto. E come dargli torto? Persino io ero sconvolto! Con un leggero tremolio alla mano destra, allungai il braccio per prendere la caffettiera, in modo da riempirmi una bella tazza fumante per sbollire almeno un po’ l’incazzatura. Ma le risate di Edward non lo permettevano affatto, così lo fulminai con lo sguardo, lasciando perdere il caffè per indossare svelto la pelliccia e coprire almeno in parte l’abito che indossavo. «Datti una mossa, Jaz», gli ordinai, palesemente innervosito.
    Era ancora sconcertato, e si mosse quindi come una marionetta. O, almeno, finché non gli comparve il solito ghigno di sempre. «Sai che stai bene così, ‘Ka-san?» mi disse, anche se ancora un po’ scombussolato. «Ti da un’aria molto più... femminile», aggiunse, e sbottò a ridere anche lui.
    Che diavolo avevo fatto di male per meritarmi quei due? Ah, già. Mi ero innamorato di uno e volevo bene all’altro. Mi sbattei una mano sulla fronte, sistemando un’ultima volta i capelli che mi fungevano da parrucca per gettarli un po’ in avanti. «Muoviamoci», ripetei, incamminandomi verso l’uscio, ma mi bloccò nuovamente Edward, che cercava di trattenersi dal ridere; mi batté la mano d’acciaio sulla spalla, accarezzandomi, stranamente lascivo, i capelli... ops, la parrucca.
    «Vorrei darti due consigli, anche se dovresti sapere certe cose meglio di me», mi disse, con quell’aria da so tutto io mentre guardava Jason, che stava mettendo lo zaino in spalla. «Il primo: cerca di camminare in modo più sensuale. No che non lo sia, ma devi sembrare una donna, non un uomo che cerca di abbordare», continuò in fretta, vedendo che stavo per ribattere... e parecchio sgarbatamente. «Il secondo: rendi la voce più femminile... non vorrai farti sgamare immediatamente, no?»
    «Io non vorrei proprio farmi vedere, in realtà!» esclamai immediatamente, riuscendo solo a provocargli un’altra sonora risata.
    Più per ironia che per altro, mi passò sensualmente un braccio intorno ai fianchi, nella bizzarra imitazione d’un uomo che vuole attirare a sé la propria donna o una tipa conosciuta da poco. Perfetto, ci mancava solo che gasasse il suo orgoglio virile! «Dai che sei favolosa», scherzò con bislacco divertimento. «E con i capelli intorno al viso non si vede nemmeno tanto che sei un uomo... ti rende i lineamenti più morbidi».
    La risata, stavolta, giunse da dietro alle mie spalle. Mi voltai di poco, scorgendo Jason che tentava di soffocarle come meglio poteva. Ma che diavolo ci trovavano, di divertente? Io consideravo quella situazione imbarazzantissima! «É vero, è vero», confermò lui con scherno. «Sicuramente sembrerai più donna tu che la mia insegnante di matematica!»
    «Sai che la cosa non mi rallegra affatto?» sbottai, subendomi per l’ennesima volta le loro risate. Decisi ben presto di porre fine alla questione, sciogliendo Edward dal suo abbraccio possessivo per incamminarmi sulla soglia della cucina, diretto all’ingresso. E anche le risatine mi seguirono
    «Ci vediamo più tardi, ‘To-san!» sentii esclamare Jaz, prima che mi raggiungesse.
    «D’accordo, bada alla mamma!» fece in risposta lui, lasciando che un’ultima sua risata ci seguisse fin giù alla tromba delle scale.
    A passo svelto, mi avvicinai alla macchina, salendo al posto di guida. Prima che potessi mettere in moto, però, Jaz mi raggiunse, poggiandosi al finestrino che avevo appena abbassato. Lo guardai, sollevando ironicamente un sopracciglio. Continuava ad osservarmi, come a volermi chiedere qualcosa.
    «Non è meglio che guidi io?» mi chiese, con quel fare da bambino che vuole un giocattolo.
    Scossi categoricamente la testa, inserendo le chiavi nel quadro d’accensione. «Sali», gli intimai schietto, vedendolo gonfiare le guance.
    Sembrava volesse averla vinta lui, ma dopo avergli scoccato un’occhiata ammonitrice, alla fine decise che fosse meglio assecondarmi alla svelta, forse perché la mia aria adirata era visibile anche da iarde di distanza. Si accomodò sul sedile del passeggero, abbandonando lo zaino sulle cosce e incrociando le braccia, lanciandomi di tanto in tanto qualche sguardo. E mentre partivamo alla volta della scuola, vidi che non aveva abbandonato l’aria divertita. Che cosa mi toccava fare, maledizione?! Ci impiegammo, stranamente, meno di una quindicina di minuti, a raggiungere la scuola. Mi fermai nel parcheggio, facendo aderire la schiena al sediolino.
    «Ora la prova più difficile», dissi, forse più rivolto a me stesso che a lui. Non continuai, e mi guardò curioso. Si era intanto ricaricato lo zaino in spalla, pronto a scendere.
    «Non ti mangia mica, quel demonio!» sghignazzò poi, dandomi una pacca sulla spalla per confortarmi.
    «Non è di questo che mi preoccupavo», replicai, lanciandogli uno sguardo obliquo.
    «E a cosa allora?»
    «Devo cercare di rendere la voce femminile».
    A questa mia spiegazione, scoppiò, tanto per cambiare, a ridere e si batté una mano sulla coscia, soffocando l’ilarità come meglio poteva. Ci mise un po’ per riprendersi, traendo un profondo sospiro per riuscirci ancor di più. «Prova a dire “Buongiorno, sono la madre di Jason, Angelica Mustang”».
    «E perché dovrei usare il nome di mia madre?» domandai subito, giusto per divulgare quell’inutile conversazione ancora un po’ e ritardare così l’incontro con l’arpia.
    Jason gonfiò le guance, aggrottando la fronte. «Basta che lo dici, ‘Ka-san! Che ti importa!» replicò, forse innervosito. Eppure avrei dovuto esserlo io! Mica era lui quello con indosso un abito succinto e tutto il resto!
    Borbottai fra me e me prima di provarci e, naturalmente, non sortii l’effetto sperato. Jason rise, tanto per cambiare. Continuammo a fare prove per una buona ventina di minuti, finché, ormai sull’orlo di una crisi di nervi, riuscii a fare la voce un tantino femminile. Non perfetta, ma era abbastanza. Che diamine, va bene che avevo la voce sensuale, ma non esageriamo! E adesso ci trovavamo lì, in sala professori. Era quasi del tutto vuota a causa dell’orario delle lezioni, se ci escludevamo noi due e quello scorfano mal riuscito della sua professoressa di matematica.
    Ormai mi squadrava da un bel paio di minuti, senza accennare a dire nulla. Io, d’altro canto, avevo drizzato la schiena e sistemato meglio il mio soprabito, in modo che coprisse il basso ma lasciasse almeno un po’ scoperto il petto... ehm, il seno. Avevo persino accavallato le gambe per quanto concessomi dalla mia anatomia, abbandonando garbatamente le mani precedentemente guantate in grembo, perfettamente immobili. Cosa non avevo imparato frequentando tutte quelle donne! E anche se ad ogni occhiata Jason rischiava di ridersela bella grossa e pisciarsi praticamente sotto, aveva avuto il buon senso di trattenersi, stavolta. Finalmente, quell’armadio che di donna aveva solo il nome smise di soppesarmi con lo sguardo, accavallando a sua volta le gambe al di sotto del tavolino.
    «Quindi lei è la Signora Mustang», mi disse con quella vocetta stridula. Persino mia madre risultava più gradevole, e avevo detto tutto.
    Sorrisi, un lieve stiramento di labbra che lasciava intendere cortesia. «Aye, sono io». Non volli nemmeno ascoltare il mio tono. «Sono davvero dispiaciuta per il comportamento disdicevole che ha adottato mio figlio nei vostri confronti». Sentii una risata malamente soffocata, e allungai un piede di lato per colpire quell’idiota allo stinco, facendolo zittire all’istante.
    «In verità, vostro figlio sostiene di aver appreso tali metodi da lei».
    «Oh, ma che sciocchino!» Ecco, adesso volevo scavarmi la fossa da solo. «Non vi è mai stato nessuno nella nostra famiglia che abbia agito in cotal modo». Ma come diavolo stavo parlando?
    «Ciò può comportare dunque una ricerca del problema nel ramo paterno?» chiese ancora, falsamente cordiale e mielosa.
    Nel ramo paterno, certo... gira e rigira la colpa era comunque mia, visto che il preside mi conosceva! Scoccai un’occhiataccia a Jason, che se la rideva sotto i baffi che ancora non gli erano cresciuti. E mai lo avrebbero fatto, se avesse continuato a ridere! «Credo piuttosto che sia dovuto alla modalità d’insegnamento», dissi invece, allargando piano il sorriso come se volessi sbeffeggiarla.
    Un po’ sorpresa, la professoressa sollevò un sopracciglio. «Sta per caso scaricando la colpa su di me, Signora Mustang?» chiese, perplessa.
    Evitando di ridere sguaiatamente - cosa che avrebbe immediatamente fatto saltare la mia copertura -, mi lasciai andare appena ad uno sbuffo d’ilarità, leggero e silenzioso. «Beh, fino ad un po’ di tempo fa, portava almeno un voto decente, a casa», le tenni presente, vedendola quasi spalancare la bocca.
    «Questo perché, mia cara signora», calcò spietatamente il termine. «Il ragazzo aveva la cattiva abitudine di sedurre la collega di cui ho preso il posto».
    «Sedurre, che brutta parola!» pigolai, fingendomi più innocente che mai. «Direi piuttosto che voleva richiamare la sua simpatia».
    «Un sorriso seducente non cattura solo la simpatia, Signora Mustang». Il suo tono da so tutto io la diceva lunga. Così come le sue parole. E le veniva a dire a me, l’uomo che si era fatto mezza Amestris prima di diventare omosessuale!
    «Oh, indubbiamente», replicai, tremendamente cordiale. «Anche mio marito diceva sempre la stessa cosa, prima che gli facessi mettere la testa a posto». Ero marito di me stesso... non l’avrei mai creduto possibile.
    «Quindi avevo ragione a ricercare il problema nel ramo paterno», disse ancora, come se volesse averla vinta lei. «Suo marito... il Generale Mustang, nevvero?»
    «Avete colto nel segno».
    «Ecco spiegata la sporadicità del ragazzo», riprese, gettando una veloce occhiata a Jason. «Con genitori simili, non mi meraviglio che adotti tali subdoli trucchi».
    Che diavolo voleva dire, quella vecchia racchia? Che Jason era un maleducato? Che era stato tirato su nel modo sbagliato? Era davvero troppo, anche per me! Abbandonai la maschera di compostezza che mi ero creato, quasi assottigliando lo sguardo. «Peccato che con una vecchia come lei non funzionino», feci, come se volessi tenerglielo presente. Forse mi ero calato un po’ troppo nei panni della donna. Mi stavo comportando come una gatta che affila le unghie.
    A quelle mie parole, l'insegnante spalancò gli occhi, rimanendo spiazzata. Persino Jason si era voltato verso di me, con uno scuro sopracciglio sollevato. Il modo in cui mi guardava, somigliava vagamente ad un “Sei impazzito?” «Come si permette!» esclamò indignata, portandosi una mano al seno in un gesto teatralmente comico.
    «Mi permetto, cara la mia signora, perché voi state offendendo l’educazione che io e mio marito abbiamo impartito a nostro figlio», replicai tranquillo.
    Non potei continuare che mi sentii strattonare una manica del soprabito. Mi voltai, vedendo Jason che mi fissava. «Che diavolo stai combinando?» mi chiese in un sussurro, quando si avvicinò un po’. «Così la fai incazzare di più!» Ma il tono con cui l’aveva detto sembrava vagamente ironico, come se volesse davvero vederla incazzata. Non gli badai assolutamente, tornando ad osservare la sua insegnante, il cui volto era sempre più indignato nonostante io non proferissi parola. Poi d’un tratto s’alzò, sbattendo entrambe le mani sul bordo della scrivania.
    «Ne parlerò al consiglio, il ragazzo verrà bocciato», esordì, assottigliando gli occhi. «E farò in modo che anche gli altri insegnanti prendano in considerazione quest’alternativa».
    A Jason sfuggì un lamento. Farsi bocciare, per lui equivaleva a doversela vedere con Edward. E se ero io la causa, anche peggio. A me sarebbe toccato fare astinenza per un periodo indeterminato, poi. Mi alzai a mia volta, squadrandola quasi dall’alto dei miei stivaletti col tacco. «Non può bocciarlo, dati i voti nelle altre materie», tenni presente in tono acido, incrociando le braccia. «É solo una questione tra voi due, no? Perché coinvolgere anche altri insegnanti?»
    Lei assottigliò lo sguardo, come una tigre pronta ad un balzo. «Ha voluto scherzare un po’ troppo con il fuoco, signora, ecco perché», constatò, e mi evitai di ridere a quelle sue parole. In famiglia, ormai, scherzavamo tutti, con il fuoco. Non era poi una così grande novità. La squadrai per un po’, forse cercando di capire qualcosa che mi sfuggiva. Poi, d’un tratto, ebbi l’illuminazione. Era questo allora - forse! - che non andava!
    «Adesso capisco», esordii trionfante. «Lei è una di quelle donne che, poiché il marito non tira fuori dai pantaloni il fratellino, se la prende con il primo che le capita a tiro». L’occhiata che mi lanciò Jason non mi sfuggì affatto, ma la ignorai. Cosa che invece non feci con quella dell’insegnante.
    «Come scusi?»
    «Ha capito bene», feci significativo. «Se la prende con i suoi alunni perché vostro marito non fa assaggiare il ghiacciolo, eh?»
    Punta forse nel vivo, spalancò gli occhi e la bocca. Avevo colpito e affondato. «Ma brutta...!» sbraitò ancor più indignata, prima di fulminare con un’occhiataccia Jason. «Tu! Sei sospeso a tempo indeterminato! E lei!» tornò a guardare me, palesemente infuriata. «Meglio che non si presenti alle riunioni di classe quando ci sono io!»
    «Ah, nay, credo sia il contrario», replicai, serrando un pugno lungo un fianco per additarla con l’altra mano. «É lei che non dev’esserci quando vengo convocata!»
    «Mamma, andiamo!» si intromise subito Jason, tirandomi per un braccio. Sembrava nervoso, come se la situazione non gli piacesse affatto. E in molti gli avrebbero dato ragione, in fondo. Non era poi una così gran bella situazione, quella che era venuta a crearsi. Però lo ignorai nuovamente, strattonando il braccio dalla sua presa quando la sua insegnante riprese a parlare... o meglio, ad urlare, tanto forte che vidi di sfuggita anche altri insegnanti affacciarsi. Li sentii appena borbottare tra loro, come per chiedersi cosa stava succedendo. Glielo avrei spiegato io cosa stava succedendo! Quella specie di donna sarebbe presto diventata un arrosto, se non avesse abbassato la voce!
    «Aspettate che lo sappia il preside, ah!» riprese lei, sicura di sé. «Sarà un miracolo se non deciderà di espellerlo dalla scuola!»
    Fui io ad agitarmi, stavolta. Espellerlo? Ma nemmeno per sogno! «E che direbbe il preside se sapesse che prende di mira gli alunni?» replicai acido, evitando di alzare troppo la voce per non tradirmi da solo. Avevo difatti sentito una nota vagamente mascolina, nel mio tono. Fortuna che, troppo arrabbiata com’era, non se ne accorse. O forse sì, ma non parve comunque farci caso. Stava per ribattere, quando fece il suo trionfale ingresso l’insegnante di filosofia, seguito a ruota da quello di latino.
    «Suvvia, signore, calmatevi», si intromise, frapponendosi fra noi due. «Non state dando un buon esempio comportandovi così, coraggio».
    Nel vedere il volto di Jason, però, non sembrava poi tanto sconvolto da quel modo di fare, anzi. Sembrava si stesse divertendo come un matto. Il perché? Semplice. Si erano inseriti nella discussione anche gli altri due insegnanti, cercando di calmare i nostri bollenti spiriti e di sedare quella che sarebbe presto sfociata in una battaglia.
    Tornammo a casa solo una mezz’oretta dopo. Tornammo, già, perché Jason... beh, grazie alla mia sparata, era stato sospeso quel giorno stesso. E per fortuna solo quello! Fatto stava che, quando aprii la porta di casa, trovai Edward nell’ingresso, intento a sistemarsi in fretta e furia la giacca della divisa. Fra i denti, reggeva un toast da consumare al volo. Tanto per cambiare, sembrava aver fatto tardi, visto che aveva persino uno stivale slacciato.
    «E hui cosha shi fa gui?» biascicò non appena ci vide entrambi, togliendosi di bocca il toast per parlare meglio. «Aveva scuola».
    Entrando prima di me, Jason si stiracchiò, lasciando lo zaino accanto al mobiletto in cui Edward teneva spazzole ed elastici. «‘Ka-san ha avuto la brillante idea di inimicarsi la prof», spiegò semplicemente, chinandosi per slacciarsi le scarpe e abbandonare anch’esse su un lato del mobile.
    Sentii, subito dopo, lo sguardo dorato di Edward indugiare su di me. Rimasi immobile, grattandomi non curante una guancia. «Che diavolo hai fatto». Non suonò propriamente come una domanda, ma mi intimorì lo stesso il tono con cui la pose.
    Un po’ sulla difensiva, mi tolsi il soprabito, dando sfoggio al mio abbigliamento. «Diciamo che... ci sono andato un po’ giù pesante, con le parole», dissi, anche se quella non era una vera e propria spiegazione.
    Difatti, abbandonò il toast per avvicinarsi a me e tirarmi un orecchio. «Cioè?» mi chiese, tirando più forte.
    «Mi fai male!» mi lagnai, cercando di fargli allontanare inutilmente la mano.
    «Non frignare», borbottò, assottigliando lo sguardo. «Spiegami piuttosto cos’è successo».
    «Mi hanno sospeso», prese parte alla conversazione Jason, tranquillissimo come non mai, come se gli avesse appena detto che aveva preso un bel voto a scuola. «La professoressa si è sentita insultata nei suoi metodi d’insegnamento, ma forse se l’è presa perché ‘Ka-san gli ha detto che è una vecchia stronza che si sfoga sugli alunni perché il marito non inzuppa il biscotto».
    A quelle parole, Edward mi osservò con uno sguardo che, sono sicurissimo di dirlo, avrebbe potuto incenerire chiunque, persino me, l'alchimista di fuoco. «Nay, aspetta, fammi capire...» cominciò, squadrandomi attentamente. «Tu hai detto alla professoressa di Jason che è una vecchia stronza e tutto il resto?»
    Non curante, mi grattai dietro il collo, scansando quella detestabile parrucca. Che dovevo fare, rispondere? Tanto sapevo già come sarebbe andata a finire! La solita scusa, la solita tortura, la solita notte passata in bianco. «Ma lei aveva insultato il modo in cui lo educhiamo», cercai di far leva sul suo orgoglio paterno, sperando che almeno quello fosse un buon motivo per lui quanto lo era stato per me.
    Edward si voltò verso Jason, come a chiedere conferma. «É vero?» domandò difatti, allentando di poco la presa sull’orecchio.
    Sbadigliando sonoramente, il mio figlioletto ebbe almeno la decenza di annuire. «Ha detto una cosa del genere, aye», mi appoggiò, e per una volta, c’era da aggiungere.
    Presto, l’attenzione di Edward ritornò su di me. Mi regalò, con mia grande sorpresa, un sorriso. «
É davvero una cosa dolce il fatto che fai certe cose per difendere tuo figlio e il modo in cui l’abbiamo cresciuto», disse, con una strana cadenza smielata. «Ma ciò non toglie che sei stato stupido a dire cose del genere ad un insegnante». Ecco, mi era parso troppo bello, per essere vero. Non poteva mancare la cazziata. «É già la seconda volta che lo sospendono, un po’ di buon senso, Roy Mustang!» continuò la sua tiritera, sventolandomi un dito d’acciaio dinanzi al viso. «Sei davvero un caso disperato!»
    Stavo per ribattere ed interromperlo, quando ci fermò entrambi lo squillo del telefono. Più svelto di noi, prese la chiamata Jaz, portandosi il ricevitore all’orecchio. «Casa Mustang», fece tranquillo, masticando una merendina che aveva probabilmente tirato fuori dal suo zaino. Lo osservammo, sbattendo entrambi le palpebre. O almeno finché non allontanò il ricevitore passandolo ad Edward. «Ti cercano, ‘To-san», disse semplicemente, inghiottendo. Provai a toglierglielo di mano e parlare con il misterioso chiamante, ma lui mi allontanò un po’, poggiandomi una mano sul seno fittizio.
    «Pronto?» chiese, guardandomi di sottecchi. «Ah, aye, mi scusi, Hawkeye, stavo giusto uscendo». Ascoltai quella conversazione a senso unico, allontanandogli la mano sgarbatamente. «Aye, aye, Roy è tornato adesso dalla sua missione», riprese, sorridendomi. «Aye, sarò lì in un paio di minuti, giusto il tempo di sistemare un po’ di cose. A dopo». Riattaccò, osservandomi con un sorrisetto malevolo. Decidendo che fosse ora di sparire, Jason ci salutò frettoloso, augurando a Ed buon lavoro. Provai a seguirlo per cambiarmi, ma una mano d’acciaio mi afferrò per il braccio. Guardai Edward dall’alto in basso, come per capire che gli fosse preso, e lui sorrise ancora di più. «Vieni, stiamo facendo tardi a lavoro», mi disse, con voce tremendamente sarcastica. «Riza si è premurata di trovarci una piccola scusa, ma dobbiamo andare lì in fretta».
    Arricciando le labbra, feci un segno di diniego. «Ma oggi era il mio giorno libero», provai, ma ci ricavai solo un sorriso ancor più smagliante.
    «Lo so. Questa è la tua punizione fuori dalle regole», mi informò, prendendomi a braccetto prima di afferrare il mio soprabito dall’attaccapanni. «Invece di vietarti il sesso, visto che a volte sono proprio io a porre fine alla tua punizione, ho deciso di farti venire a lavoro con me... conciato così».
    Lo fissai con tanto d’occhi, chiedendomi se stesse scherzando o meno, ma dovetti ricredermi quando ci ritrovammo ai gradini del Quartier Generale, senza nemmeno che me ne fossi accorto tanto che strepitavo e mi lagnavo. E adesso camminavo accanto al mio fagiolino, subendomi da un bel paio di militari occhiatine malate e perverse a cui non volevo dare un nome.
    Avrei preferito l’astinenza... e senza nemmeno pensarci due volte!








_Note inconcludenti dell'autrice
Se siete arrivati a leggere fin qui...
Arrivati a questo punto, credo che in molti siano scioccati. Ebbene sì, Roy vestito da donna! Si legge sempre di Edward, e ho pensato di rompere un po' a lui, visto che non può essere sempre quel povero fagiolino a subire le angherie delle fan writer, quando si tratta di queste cose... e poi, ammettiamolo, con quegli occhi a mandorla, Roy un pochino per donna potrebbe passare.
Nah, scusate, oggi sono un po' fuori fase e sclero, lasciatemi perdere che è molto meglio così.

Se siete attaccati alla vostra sanità mentale non cliccate qui { HALLOWEEN GIFT FOR ROYED FUN } se invece non ve ne frega nulla e siete curiosi, lasciate ogni speranza, voi che entrate! [Cit!] E da notare il numero della shot... 

Ricordiamo:
SPECIAL DI HALLOWEEN { IN ANTICIPO! }
Comunque, come dice lo stacchetto in grassetto qui sopra, ho deciso di postare questa shot oggi come regalo di Halloween per voi! (Per voi che siete sopravvissuti anche all'immagine) Non c'entra molto, lo so, ma sono felice di aver passato questo secondo Halloween con tutte/i voi, che mi avete sostenuta fino a questo momento. Quindi, cari lettori vecchi e nuovi, cari fan dell'ormai fandom quasi abbandonato a se stesso, vi auguro una felice notte piena di dolci e terrore! A___A *in modalità vampiro/sclero mode on* A presto!


_My Pride_


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Capitolo 24
*** [ Storia Fuori Serie ] “Scherzi” ***


Heart burst into fire_Episode 24 Titolo: Scherzi
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 1838 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 24: “SCHERZI”

    Solita mattina afosa a South City. La frescura era poca, così come la voglia di andare a lavoro, e ormai dormivo solo in boxer a causa del caldo, nemmeno lontanamente paragonabile a quello che soffocava Central durante il mese di luglio. L’unica cosa che mi recava sollievo era starmene sotto la doccia fredda, anche se, purtroppo, non durava in eterno.
    Mi guardavo allo specchio, adesso, tranquillamente indaffarato e intento a radermi; appena ebbi finito, però, un insignificante dettaglio catturò la mia attenzione e, invece di raccattare i miei vestiti o almeno infilarmi i boxer, restai con l’asciugamano legato alla vita a specchiarmi minuziosamente, incrociando il mio riflesso che mi osservava un tantino corrucciato. Poggiai le mani sul bordo del lavandino e mi feci ancor più attento, sgranando gli occhi con fare incredulo e... beh, terrorizzato. Neanche lo scalpiccio nel corridoio mi distrasse.
    «‘Ka-san?» mi chiese Jason, fermo davanti alla porta. «Che stai facendo?»
    Fissando il suo riflesso attraverso lo specchio, senza voltarmi e senza dire una parola, gli feci cenno di avvicinarsi, vedendolo con lo spazzolino abbandonato all’angolo della bocca. Lo costrinsi ad avvicinarsi di più, indicando la mia capigliatura. «Cos’è questo?» chiesi isterico.
    Lui, perplesso, si sporse un po’ per squadrarmi, tornando poi tranquillo a spazzolarsi i denti. Quando incontrai i suoi occhi azzurri, vi scorsi un guizzo d’ironia e divertimento. «Un capello bianco», rispose, come se fosse naturale.
    «Stai scherzando, vero?!» esclamai, sebbene sapessi che negare la realtà era inutile, e lui scosse la testa, perfettamente calmo.
   
«Nay, si vede».
    Ritornai ad osservare la mia immagine come un automa. Non poteva essere un capello bianco, non era assolutamente possibile... e allora perché diavolo spiccava così tanto, fra la mia chioma nera?!
    «Stai invecchiando, ‘Ka-san», disse Jason, dandomi una leggera pacca sulla spalla. «Mi sa che tra un po’ dovremo subirci la tua crisi di mezza età».
    Quanto mi voleva bene mio figlio. Mi portai una mano fra i capelli, resistendo per un pelo alla tentazione di estirpare alla radice quel dannatissimo difetto. Se l'avessi fatto ne sarebbero spuntati altri, e non ci tenevo proprio a ritrovarmi con uno stuolo di capelli bianchi che spuntavano fra tutto quello scuro. Guardai mio figlio con un velo di panico. «Dici che Ed lo noterà?» domandai, sperando in una risposta negativa.
    Chinandosi un po’ per sputare e sciacquarsi abbondantemente la bocca, Jaz si limitò semplicemente a fare spallucce. «Chi lo sa», fece semplicemente. «C’è da dire che non passa inosservato».
    «Tu sì che sai come tirar su di morale le persone...» ironizzai.
    «Capita...» replicò divertito.
    Afflitto, mi allontanai dal lavandino, cercando frattanto di sistemarmi i capelli in modo che quell’orribile difetto non si notasse. Me li ravvivai quindi all’indietro, avendo almeno l’effetto sperato. «Potresti almeno cercare di rassicurarmi un po’», borbottai offeso, ravvivandoli ancora.
    «Mica sono ‘To-san!» ribattè Jaz, ridacchiando incontrollato., e io gli scoccai un’occhiataccia.
    «E pensare che ho preso questa settimana di licenza da Central per farti incontrare i tuoi vecchi amici...» Mi giocai quella carta con la speranza di far breccia nel suo cuore, peccato che non ci guadagnai nulla. Difatti rise, abbandonando lo spazzolino nel contenitore accanto al mio, e poi prese non curante il pettine, rigirandoselo distratto fra le mani prima di passarselo fra i capelli scuri con delicatezza, sicurissimo che volesse prendermi in giro.
    «Io, fossi in te, mi sbrigherei ad andare a lavoro, ‘Ka-san», disse, gettandomi un’occhiata. «Prima ti muovi, prima potrai metterti tutto in ghingheri per l’arrivo di ‘To-san».
    Dalle mie labbra sfuggì un lamento. «Mi metti in ansia...» mi lagnai, nervoso già di primo mattino dopo quella scoperta. Un’altra risata, però, fece compagnia alla mia disperazione.
    Jaz si diede un’ultima sistemata, prima di baciarmi per ripicca una guancia e scompigliarmi i capelli ancora un po’ bagnati che poco prima avevo con tanta cura ravvivato.
«Torno per l’orario di ‘To-san. Vado a pavoneggiarmi un po’ con le mie tante ragazze», gongolò, sorridendo. «Amano i miei capelli mori e fluenti», soggiunse, enfatizzando troppo le parole, e, prima che potessi davvero mettergli le mani addosso, schizzò via come un lampo, salutandomi velocemente e fiondandosi fuori dall’appartamento, sbattendo la porta quando la chiuse.
    Sospirai, ancor più afflitto. Quasi diciassette anni ed era ancora indisciplinato. Quella cavolo di Scuola Militare non serviva ad un bel niente, nemmeno a potermene stare con Edward, visto che più di una volta l’aveva marinata con il suo miglior amico. I tempi erano cambiati, purtroppo, e questo stava a significare che... stavo invecchiando sul serio. Scossi con impeto la testa per allontanare quel pensiero. Se avessi continuato a rifletterci su, ci sarebbe sicuramente stato un altro problema da risolvere e non volevo, dato che ero più che intenzionato a concludere la serata come dicevo io. Mi affrettai quindi ad asciugarmi e a vestirmi, ravvivandomi nuovamente i capelli all’indietro per nascondere ad occhi indiscreti quell’oscenità con cui stavo facendo i conti.
    Persino quando giunsi alla mia postazione cercai di farmi vedere il meno possibile. Era esagerato, lo sapevo. A South City non avrei dovuto nemmeno restarci molto, ma per me era una questione di principio. Principio e orgoglio. Paranoico, anche quando andavo in bagno, passavo più ore davanti allo specchio che nel gabinetto di per sé. E continuai quell’andirivieni finché non finì il mio turno, tornandomene a casa più mesto che mai.
    In cucina, trovai Edward seduto al tavolo a sorseggiare un caffè; vedendomi, mi sorrise e accennò all’altra tazzina, ma sbattei le palpebre con fare perplesso, avvicinandomi piano. «Non avevi detto che saresti arrivato per le otto?» gli chiesi, però lui sorrise maggiormente, alzandosi per essere ad una spanna da me.
    «Ho fatto presto, non sei felice?» mi domandò in risposta, facendo vagare due dita sul mio petto con lasciva lentezza. «Ho pensato che potevamo fare gli straordinari, così...» rese il tono basso e gorgogliante, erotico come tanto piaceva a me, e mi provocò una bella scossa, dovetti ammetterlo.
    Senza aspettare che parlassi, si spinse contro di me, attirandomi alle sue labbra e guidando quel bacio, stranamente impaziente. Mi lasciai andare nonostante fossi ancora un po’ intontito, concentrandomi solo sulla sensazione che quel semplice contatto sapeva darmi; ma l’incanto si ruppe quando, sicure, le sue mani vagarono come al solito verso i miei capelli. Lo scansai terrorizzato, vedendo così la sua faccia sconcertata.
    «Che diavolo ti è preso?» mi chiese, vagamente innervosito per quel brusco distacco. Se non se n’era accorto, non volevo dirgli della mia scoperta.
    Accampai quindi la prima scusa che la mia mente malata e contorta aveva formulato, prendendolo in braccio prima che potesse persino rendersene pienamente conto. «Abbiamo solo un’ora per gli straordinari», dissi nella speranza che non facesse domande, e non le fece, nonostante gli strepiti che si lasciava sfuggire ora in corridoio.
    «Mettimi giù, non sono un poppante!» sbraitò, facendo leva sul peso dei suoi auto-mail per farsi ubbidire. «Ci arrivo anche da solo in camera! Roy!»
    Sapevo che odiava quando facevo così, ma, almeno, lo avrebbe distratto. In camera, lo lasciai cadere sul materasso, rubandogli svelto un bacio prima che potesse contestare ancora; anche se cercava di farlo, tempestandomi frattanto la schiena di pugni, si arrese be presto, gettandomi le braccia al collo. Il dopo fu molto più facile del previsto. I vestiti erano praticamente volati via, e non solo per il caldo. Ora eravamo ricaduti entrambi stanchi, una gamba dell’uno intrappolata in quello dell’altro. Avevo la testa affondata nel cuscino, mentre con una mano accarezzavo distratto la zazzera bionda del mio compagno. Lui, invece, se ne stava beatamente appoggiato al mio petto, l’auto-mail saliva e scendeva senza soffermarsi su un punto in particolare. Il tempo che ci concedevamo era già poco da un bel po’ di tempo, quindi era piacevole che, quei rari momenti, riuscissimo davvero a goderceli come meritavano d’esser goduti.
    «Peccato che debba sempre finire così presto», borbottò di punto in bianco Ed nello sfiorarmi con il ginocchio d’acciaio, e io a quella constatazione non potei evitarmi di ridere, accarezzandogli anche la schiena e stringendolo protettivo.
    «Sono un uomo, mica un cavallo», scherzai, ricevendo un buffetto sul naso.
    «Hai la criniera spettinata, mio bel mustang...» disse nell'allungare la mano verso di me, e andai nel panico quando mi sfiorò i capelli. Prima che potesse anche solo toccarli di più, mi accinsi io stesso a dar loro una sistemata, ravvivandoli come al solito all’indietro. Mi guardò un po’ perplesso, ma anche stavolta non chiese nulla, poiché a distrarci fu la porta aperta nell’ingresso e poi i passi nel corridoio.
    «‘Ka-san! Sono tornato!» esclamò Jason dall’altra parte. «‘To-san è venuto?»
    Cercai di soffocare una risata per il terribile doppio senso che avevo colto e ci guadagnai un’occhiataccia da Edward, che si drizzò ben presto a sedere.
    «Aye, sono qui!» fece di rimando, afferrando i boxer. «Aspettaci in cucina, veniamo subito!»
    «Consideralo già fatto!» mi intromisi, giusto per rincarare la dose. Così facendo, però, non feci altro che far arrabbiare maggiormente Ed, il quale si rivestì in un lampo, gettandomi i miei abiti.
    «Comincia a fare pratica con il “Fai da Te”», disse in tono severo. «Dopo certe battute, ti sei giocato il secondo round». asserì e, prima che potessi ribattere, se ne andò, lasciandomi lì da solo come un idiota.
    Sconsolato, mi rivestii mogio anche io, senza curarmi di cambiare le lenzuola. Ci avrei pensato poi, ora non ne avevo granché voglia. Quando li raggiunsi, li trovai entrambi seduti al tavolo a consumare un pasto leggero, nulla più che un panino e del prosciutto. Anche se, ad essere sincero, il sorriso che Edward mi rivolse non prometteva nulla di buono, così come quello di Jaz. Si alzarono entrambi tranquilli, e vidi che Ed reggeva qualcosa dietro alla schiena, come se volesse assolutamente tenermelo nascosto.
    «‘To-san ha portato una cosa», disse Jaz, senza abbandonare il sorriso. «Ti piacerà di sicuro».
    Girandomi intorno con un cipiglio bambinesco, il mio biondino mi consegnò prima una scatola di cioccolatini - che chissà dove aveva nascosto - per poi gettare uno sguardo a Jason. Quasi d’intesa, avrei aggiunto, e quelle occhiate non mi piacquero affatto, esattamente come la risata che si lasciarono sfuggire quando Ed mi mostrò la seconda sorpresa.
    «Questo è il miglior Horror che abbia mai visto!» esclamò, trascinandomi via dalla cucina, senza badare alla mia aria sconvolta, verso il salotto dove avevamo uno di quei piccoli televisori in bianco e nero che giravano ormai da un paio di mesi. Cercai inutilmente di farmi mollare prima che mi gettasse sul divano, ma non potei nemmeno scappare, visto che Jason si avvinghiò al mio braccio.
    «Vedrai che ti piacerà, ‘Ka-san», disse ilare, e per lui, divertito a sua volta, concluse Edward. Anche se, forse, con una punta di perfidia e malizia che mi fece pensare che i miei tentativi di nascondergli un particolare fossero stati vani.
    «É roba da farti venire i capelli bianchi!» 






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Capitolo 25
*** [ Storia Fuori Serie › Special di Natale ] Regalo di Natale ***


Heart burst into fire_Episode 25 Titolo: Regalo di Natale
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 4322 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 25: “REGALO” DI NATALE

    Era il giorno della vigilia di Natale, precisamente le dieci del mattino.
    Andavo avanti e indietro per casa seguito da Jason, che mi sgambettava dietro vivace come suo solito nonostante non fosse passata nemmeno mezz’ora del suo risveglio. Eravamo entrambi in pigiama, ma avevo messo lui qualcosa di pesante indosso per evitare che prendesse freddo. Non che a South City, durante l'inverno, fosse eccessivo come nelle altre zone di Amestris, però era sempre meglio prevenire che curare in seguito.
    Sbadigliavo di continuo mentre entravo ed uscivo dalle stanze, sprangando finestre e compagnia bella il più in fretta possibile. La valigia l’avevo preparata la sera addietro, mettendo i vestiti che ci sarebbero potuti servire per quella settimana di vacanza a Central City. Esatto, Central City. Almeno quell’anno, avevo intenzione di passare il Natale con il mio fagiolino. Ci vedevamo raramente e, quelle poche volte che era lui a farci visita, cercavamo di stare insieme in tutti i sensi. Ma saremmo andati noi lì, stavolta. C’era solo il piccolo inconveniente che ci eravamo svegliati tardi e non eravamo ancora pronti, per non parlare del fatto che il treno sarebbe partito tra meno di due ore.
    Terminai solo una decina di minuti dopo, adocchiando di sfuggita Jaz quando ci ritrovammo entrambi in cucina per una colazione veloce. Stringeva fra le braccia il suo solito coniglietto, quello che Edward gli aveva regalato un anno addietro, e sembrava vispo e arzillo come non mai, come se tutto quel mio daffare lo divertisse. Infatti s’imbronciò quando lo presi in braccio, costringendolo a star fermo sulla sedia per dirigermi in fretta e furia al frigorifero per prendere il latte. Con altrettanta rapidità, mi voltai e cercai il bollitore per scaldarlo, ma quando aprii il mobiletto mi caddero un paio di cose, facendomi imprecare. Maledetta fretta e maledetto me che avevo avuto la bella pensata di riaddormentarmi alle otto!
    «‘Ka-san, ma perché vai così veloce?» mi chiese Jaz e, voltandomi mentre accendevo il fuoco, lo vidi con il mento poggiato sulla tavola e le braccia penzoloni. Mi astenni dal richiamarlo; non avevo abbastanza tempo nemmeno per quello.
    «Perché se vuoi vedere Oto-san dobbiamo fare in fretta», gli risposi semplicemente, riempiendo il pentolino di latte prima di metterlo a bollire. Mentre aspettavo, aprii l’altra credenza alla ricerca dei biscotti, tirando fuori dal cassetto una tovaglietta per andare a stenderla sul tavolino. «Alza la testa, Jaz», dovetti richiamarlo, sistemando la stessa e poggiando lì accanto anche il pacco di biscotti.
    Con il pupazzetto in grembo, lui si sporse per afferrarli, cominciando come suo solito a sezionare quelli ancora interi. «Ma perché dobbiamo fare in fretta?» mi chiese ancora, ripetendo le mie parole mentre mangiava qualche biscotto e mi guardava. «‘To-san non ci aspetta?»
    Magari fosse stato così semplice. Anche quello, però, lo tenni per me, andando a controllare il latte. Non lo scaldavo mai completamente. «Dobbiamo prendere il treno, Jaz, lo sai», dissi, portandogli una tazza fumante qualche minuto dopo, e lui vi soffiò sopra, prendendola con entrambe le manine e bevendo piano il contenuto fino a svuotarla del tutto. Quando la posò nuovamente sul tavolo, aveva la bocca sporca di latte.
    Ridacchiai un po’, permettendomi almeno il lusso di fare colazione anch’io. «Pulisciti la bocca, Jaz», feci.
    «‘Ka-san...» si lagnò in risposta, guardandomi con quegli occhioni azzurri.
    Io, che mi ero riempito a mia volta una tazza di latte e me l’ero portata alle labbra per bere un sorso, ricambiai l’occhiata con un enorme sorriso quando l’allontanai. «Fai così», mi evitai di ridacchiare, leccandomi le labbra.
    Anche se incerto - ben ricordando l’ammonimento di Ed, quello di non imitarmi -, alla fine se ne infischiò e si leccò a sua volta le labbra, sporgendosi per prendere un altro biscotto. Se l’avesse saputo il mio fagiolino, il sesso l’avrei visto solo con un binocolo, quindi era meglio tenere la bocca chiusa.
    Finimmo la colazione una buona manciata di minuti dopo e, mentre io mi occupavo delle tazze, Jaz cercava di aiutarmi come poteva prendendo il pacco di biscotti e togliendo la tovaglietta. Scese dalla sedia e sgambettò verso di me con quelle due cose fra le mani, porgendomele tutto pimpante per essere stato utile. Gli sorrisi, scompigliandogli i capelli quando mi asciugai le mani, ma lo vidi comunque arricciare il naso, dato che l’odiava.
    Usciti dalla cucina, ci fiondammo nella sua stanzetta, facendo passare quella fretta per un gioco.
Pensai prima ai suoi vestiti, prendendo quelli più pesanti che trovai. A Central il freddo non sarebbe stato così mite, e aveva quindi bisogno d’indossare qualcosa di molto caldo, all’andata, per evitare così che prendesse freddo dopo. Raggruppato il tutto, presi Jaz per mano vedendolo dare i primi cenni di stanchezza con uno sbadiglio, sebbene sembrasse più sveglio lui che io. Ci dirigemmo infine nella mia stanza e, lasciatolo andare per dirigermi all’armadio, lo vidi buttarsi sul piumone e arraffare il mio orologio d’argento che stanziava sul comodino, tutto senza abbandonare il suo coniglietto.
    Mi venne da ridere nel ricordare quanto quel mio riconoscimento come Alchimista di Stato gli piacesse, decidendo infine di passare anche al mio vestiario. Secondo i canoni di South City, quella mattina era più fredda delle altre, quindi avrei fatto bene ad optare per qualcosa di ben più pesante del solito anche per me. Una volta che ebbi pensato anche ai miei abiti, mi scaldai entrambe le mani mentre mettevo tutto sottobraccio. Guardando Jaz, poi, non potei non sorridere. Con quel maglione più grande di lui a tenerlo caldo, era buffo e d’una dolcezza unica al tempo stesso. Più lo guardavo, più mi sembrava ieri che l’avevamo adottato.
    Sentendosi probabilmente osservato, abbandonò lo studio dell’orologio alzando il visino verso di me, intrappolandomi inesorabilmente con quei suoi occhi celesti. Ancora mi stupivo che avessero una presa del genere, e non solo con me, ma con chiunque li guardasse. Prima di dimenticarmene, comunque, andai all’armadio alla ricerca del mio giaccone e del cappotto di Jaz, attento allo scorrere del tempo.
    «Che ore sono, Jaz?» gli chiesi, scansando i cappotti più leggeri per prenderne uno pesante per lui e il solito per me.
    Jaz ci mise un po’ a rispondermi, dapprima cincischiando con il coperchietto per leggere, anche se forse poco convinto, l’ora. «La grande sta sul sei», disse infine, e sentii subito dopo lo scatto e il rumore della catenella dell’orologio sul legno. Erano le dieci e mezza, quindi. Avevamo perso mezz’ora ed eravamo ancora in pigiama. Davvero perfetto! Ed il mio era puro sarcasmo. Stavo per dirigermi alla porta e chiamare Jaz, quando quest’ultimo mi anticipò e si aggrappò ai calzoni, strattonandomi come ad impormi di darmi una mossa. «Svelto ‘Ka-san, voglio andare da ‘To-san!» esclamò difatti, tutto pimpante come prima, agitando nel contempo il coniglietto.
    Mi ritrovai a ridacchiare, offrendogli ancora una volta una mano prima di dirigerci entrambi in bagno. Lì faceva più freddo delle altre stanze, tanto che dovetti tornare in corridoio per prendere la stufetta e portarla lì. Andai quindi alla doccia, scansando la tenda che la separava dal resto del bagno per far scorrere l’acqua calda, squadrato da un attento Jaz che si crogiolava al calore della stufa. E mentre facevo questo, mi ritrovai stupidamente a pensare che quella mattina della vigilia di Natale, di magico, non aveva proprio niente. Quelle erano cose che facevamo tutti i santi giorni e per me, come data, indicava solo la nascita del mio compagno. Dovetti scuotere la testa per scacciare quei pensieri e muovermi, se non volevamo tardare ancora. Con lo scrosciare dell’acqua nelle orecchie, tornai da Jaz, lottando con lui nel tentativo di fargli togliere il pigiama.
    «Fa freddo, ‘Ka-san!» si lagnò, sfuggendomi con il pupazzetto fra le braccia.
    Sospirai, già esasperato. Era una vera e propria condanna. «Jaz, devi lavarti e vestirti», lo ammonii, cercando di riacciuffarlo. «Andiamo, su, anche Oka-san deve lavarsi!»
    «E allora lavati!» ribatté, sgusciando via proprio quando credetti d’averlo preso. Quel bambino era terribile, davvero. Una mina vagante, una calamità naturale.
    «Jaz, vuoi o non vuoi andare da Oto-san?» feci, provando a spronarlo in quel modo e a farmi finalmente ascoltare. Aye, lo sapevo: era un colpo basso.
    «Ci voglio andare, ma fa freddo!» replicò subito, facendo sfumare ogni mio possibile piano. A quanto sembrava, non aveva affatto funzionato.
    «Ma non puoi restare in pigiama e non lavarti!» cercai di farlo ragionare, tentando ancora una volta di acchiapparlo, ma mi sfuggì da sotto le gambe, avvicinandosi alla porta.
    «Sì, invece!» ribatté per l’ennesima volta, facendomi esasperare ancor più di quanto già non fossi.
    Alla fine, dopo un tira e molla generale, avevo passato una ventina di minuti buoni a rincorrerlo per il bagno e per casa, riuscendo ad acciuffarlo soltanto per pura fortuna. Fatto stava, però, che avevo perso un mucchio di tempo ad inseguirlo e, tanto per cambiare, indossavamo ancora il pigiama. Una mattina di Vigilia davvero movimentata, e non erano ancora le undici!
    «Fa freddo!» si lagnò ancora quando, finalmente, riuscii a togliergli la parte superiore del pigiama. Cercava ancora di scappare, incredibile.
    «Ho acceso la stufa apposta, Jaz, non fa così freddo!» ribattei, mettendoci ancora un’altra manciata di minuti infernali prima di riuscire a levargli del tutto i vestiti e a fargli fare quella benedetta doccia. Purtroppo la vasca era fuori uso a causa dei rubinetti da cambiare, quindi bisognava accontentarsi. Cercare di farlo stare fermo e nel contempo lavargli i capelli, però, fu un’altra terribile lotta che vide me perdente. Non solo mi aveva inzuppato il pigiama da capo a piedi ma, approfittando del fatto che mi ero allungato un po’ oltre la doccia per prendere il sapone, se l’era data letteralmente a gambe. Quando lo riagguantai, dovetti gettarmi anch’io sotto la doccia per evitare che fuggisse ancora e per tentare di guadagnare un po’ di tempo. Era quello che era, purtroppo, e rischiavamo di far tardi.
    Abbandonai il mio pigiama zuppo nel cesto dei panni, tornando ad occuparmi di Jason e, soprattutto, dei suoi capelli pieni di schiuma. Dovetti persino tenerlo fermo per sciacquarlo da quella montagna bianca che sembrava neve. «Jaz, collabora un po’, dai!» fu il mio turno, stavolta, di lagnarmi come un poppante. Ero sicuro che le undici fossero belle che passate, sebbene non ne avessi la certezza. Ed io ero ancora con i capelli mezzi asciutti e il corpo insaponato a chiazze. Che era preso a Jaz proprio non lo sapevo, poiché di solito era tranquillo quando si trattava di lavarsi. Anzi, spesso e volentieri giocavamo pure quando faceva il bagno, solo con mia madre si comporta-...
    Fu a quel pensiero che interruppi il flusso dei miei ragionamenti, non continuando la frase che la mia mente stava formulando. Natale voleva dire festa a Central City; Central City voleva dire vedere Edward e festeggiare con lui anche il suo compleanno in compagnia d’amici ma, soprattutto, Central City voleva dire mia madre. Sicuramente si sarebbe auto-invitata come suo solito, e volli dare ragione a Jaz per quel suo modo di comportarsi, anche se forse lo stava facendo inconsciamente.
    Ci vollero ancora una decina di minuti buoni prima che riuscissi a lavarlo e a fare lo stesso con me. Avevo chiuso l’acqua della doccia e avvolto lui nell’accappatoio, portandolo accanto alla stufa mentre, alla ricerca del mio, rabbrividivo per il freddo. Dovetti persino subirmi le occhiate imbronciate del mio moretto per tutto il tempo, anche quando, una volta trovato ciò che cercavo, mi avvicinai a lui con un asciugamano per passarglielo fra i capelli e liberarli dall’acqua in eccesso. Provò a scansarmi più volte senza successo, decidendo di lasciar perdere e poggiare anche le sue manine sulle mie come per aiutarmi. E meno male che aveva deciso di collaborare... alla buon’ora!
    Ben asciutto, passai al suo vestiario. Tra sciarpa, guanti e quant’altro, tutto imbacuccato era ancor più buffo di prima. Mi scappò solo un piccolo sbuffo ilare, ma fu abbastanza per richiamare la sua attenzione. «Perché ridi, ‘Ka-san?» mi domandò, gonfiando le guance mentre strofinava le manine fra loro.
    Scossi la testa, limitandomi a sorridergli in risposta e a finire di abbigliarlo. «Niente, piccolo», risposi, facendolo imbronciare maggiormente.
    «Non sono piccolo!» cantilenò, stupendomi non più di tanto. Era una cosa che capitava come minimo dieci volte su dieci quando mi sfuggiva quell’aggettivo. In senso affettivo, sia chiaro. Mica lo chiamavo così perché mi divertivo! O forse sì, dato che mi ricordava il mio fagiolino... ma era meglio non dirlo, aye?
    Dopo un altro bel po’ di tempo, riuscito a vestirmi a mia volta, sistemare quanto potevo in giro e preso la valigia, ci trovammo finalmente ad avventurarci alla volta della stazione. Nemmeno arrivati, ci toccò fare una corsa per riuscire a prendere il treno. Le undici precise. Quel treno aveva davvero spaccato il minuto con la sua puntualità, diavolo! Di solito bisognava aspettare svariato tempo prima di vederlo sfrecciare sulle rotaie.
    Il viaggio fu movimentato quanto la mattinata passata a casa: Jaz, che da quando l’avevamo preso la prima volta era diventato insofferente a viaggiare in treno, non la smetteva di lamentarsi o scappare via, costringendomi a fare avanti e indietro fra le varie carrozze per rincorrerlo. Fu una manna dal cielo quando, finalmente, sentii annunciare la nostra destinazione. Raccattai la valigia e presi Jaz per mano, così da evitare che fuggisse ancora una volta chissà dove; tra il via vai di persone presenti alla stazione, cercai quella che interessava me, dovendo faticare non poco per tener fermo il mio moretto quando anche lui la notò.
    «‘To-san!» lo chiamò a gran voce, non riuscendo a sovrastare il chiacchiericcio presente, ma con voce abbastanza alta e chiara per essere udito.
    Edward ci vide e si diresse verso di noi, facendo slalom fra i presenti e, dopo amorevoli saluti e abbracci con Jaz - noi, purtroppo, ci accontentammo di una stretta di mano che il nostro piccolo adocchiò stranito -, ci dirigemmo tutti e tre alla macchina che ci attendeva; a
prii la portiera dal lato del passeggero, accomodandomi sul sedile con Jaz per passare alla cintura di sicurezza che lui prendeva nervoso, come se cercasse di togliersela. Edward, invece, una volta preso posto a sua volta, inserì le chiavi nel quadro e partì alla volta del nostro appartamento. Chiacchierammo per tutto il tragitto, parlando di tutto ciò che, in quel piacevole momento, poteva venirci in mente. Se avessimo continuato così, non avremmo avuto più argomenti per il resto della settimana.
    Quando arrivammo, e mi ritrovai ad osservare ogni minimo particolare di casa, mi sentii il sorriso solcare le labbra.
Non solo perché mi era mancata ogni singola cosa lì presente, bensì perché Edward aveva anche addobbato casa, persino il salotto; Jaz si agitò un po’ fra le mie braccia, sgusciando via per sgambettare verso il grande albero di Natale posto all’angolo della stanza. Sembrava guardarlo estasiato e divertito. Si stancò ben presto, ma solo per correre in corridoio e tornare con i suoi pupazzetti, trovati chissà dove. Oltre il solito coniglietto, che non aveva categoricamente voluto lasciare per tutto il viaggio, aveva con sé anche un orsacchiotto e qualche soldatino di piombo, piccole miniature che risalivano quasi alla mia infanzia. Si sedette poi accanto all’albero, cominciando a giocare felice mentre le luci colorate danzavano allegre sul suo visino.
    Edward ridacchiò sereno e io gli lanciai un’occhiata, vedendo il sorriso che si era dipinto sulle sue labbra. Sorrisi anch’io, adocchiando Jaz prima di tornare ad osservare, forse troppo interessato, il mio compagno. Posai una mano sul suo braccio e intrecciai le dita intorno ad esso, richiamando la sua attenzione e facendolo sbattere le palpebre con fare perplesso.
    «Devo parlarti un attimo», risposi con semplicità.
    «Parlarmi, eh?» ripeté ironico, ma mi limitai ad annuire senza rispondergli, gettando un’altra occhiata a Jason prima di trascinarmi Ed nel corridoio, fino in camera. Forse intuendo il mio voler parlare, incrociò le braccia al petto mentre s’accomodava sul letto, arcuando un sopracciglio. «Beh, parla. Ti ascolto». mi disse, sarcastico come non mai. Si era già mangiato la foglia, purtroppo per me.
    Alzai entrambe le mani in segno di resa, avvicinandomi a lui per chinarmi verso il suo viso. Non cercai nessun contatto, mi limitai solo a respirare il suo profumo. Una leggera essenza di sapone, nessuna acqua di colonia. Quando gli poggiai le mani sulle spalle, però, cercando di avvicinare il mio volto al suo, mi posò un dito sulle labbra, guardandomi male.
    «Roy... c’è Jaz», mi ammonì con un tono che non ammetteva repliche, e a quel dire mi imbronciai come un bambino.
    «Solo un bacio, davvero», insistetti dopo aver allontanato il suo dito, facendo scivolare le mani lungo le sue braccia.
    «So fin dove arrivano i tuoi baci», replicò, anche a ragione. Ogni volta che dicevo “Solo un bacio” o parole simili, si finiva sempre per andare un po’ oltre.
    «Non questa volta, sul serio», ribattei ancora una volta, facendo pressione con le mani sulle sue braccia nonostante provasse ad opporsi. Lo distesi sul letto, vedendolo dilatare gli occhi dorati mentre li fondeva con i miei. Senza nemmeno accorgermene, mi ritrovai a cavalcioni su di lui, e tanti cari saluti al “Solo un bacio”.
    «Ho detto di no, Roy», mi smontò immediatamente, facendomi vacillare un po’, ma mi chinai comunque verso il suo volto, tanto che, se mi fossi sporto ancora, avrei potuto sfiorargli le labbra.
    «Non voglio fare quello che pensi, dico davvero», provai a farmi ascoltare ma, quando ci trovammo con le labbra quasi unite, sentimmo una voce proveniente dal corridoio. Subito dopo, un piccolo tornado si gettò sul letto, costringendomi ad allontanarmi. Ancor prima che potessi realizzarlo, fu proprio Jason ad appropriarsi del mio posto, stringendosi ad Edward con quel suo solito e innocente sorriso dipinto sulle labbra.
    Ed sorrise prima di passargli una mano fra i capelli per scombinarglieli, e risero entrambi con fare divertito, come dimentichi di me. Dovetti ammetterlo. In quel momento, nel vederli, ero geloso di mio figlio. Borbottai fra me e me con il chiaro intento d’andarmene e concentrarmi sulla cena ma, prima ancora che potessi alzarmi, Jason si lanciò sulla mia schiena appendendosi ad essa, cingendomi il collo con le braccia.
    «Dove vai, ‘Ka-san?» mi chiese, poggiando la testolina mora contro la mia.
    Mi diedi dello stupido per quella mia gelosia, ritrovandomi a sorridere mentre mi voltavo un po’ verso di lui per incrociare i suoi occhi. Anche Edward s’era messo a sedere sul materasso, e mi guardava con un cipiglio ironico dipinto in volto. «Che ne dite se ce ne andiamo in cucina?» suggerì lui, aggirando il letto per rimettersi in piedi e porgere a me una mano.
    La guardai scettico, sollevando un sopracciglio mentre m’alzavo a mia volta. Portai le braccia dietro alla schiena per sorreggere Jaz, tenendolo per le ginocchia, e lui strinse automaticamente la stretta intorno al mio collo. «Ehi, così mi soffochi...!» lo richiamai, mezzo divertito.
    Lui rise, allentando la presa per poggiare il capo sulla mia schiena e sbadigliare, anche se sembrava ben lungi dall’addormentarsi. Vidi Edward lanciargli una rapida occhiata per accertarsene, intercettando il suo sorriso mentre mi faceva cenno di seguirlo fuori dalla camera. Pazienza, mi ritrovai a pensare, riguardo al nostro piccolo “discorso”. La giornata non era ancora finita, avevo tempo per riprovarci.
    Tra risate, schiamazzi e qualche discorso senza capo né coda, cominciammo a preparare il cenone e ad abbellire la cucina. Mentre Edward si occupava della cena, io e Jaz ci spostammo in salotto, dove passammo il tempo tra gli scatoloni mezzi pieni in cui erano rimasti ancora degli addobbi da appendere in giro. Ci eravamo seduti entrambi sul grande tappeto, uno più bambino dell’altro mentre, ridendo e borbottando fra noi - esattamente come dei bambini, ma lui a differenza mia poteva permetterselo -, scartavamo quelli che sembravano a prima vista i più mal ridotti e tiravamo invece fuori festoni rossi e dorati. Trovammo persino del pungitopo e un paio di piccoli babbo natali di stoffa, uno dei quali Jaz, alzatosi, andò a mettere su un ramo dell’albero per sgambettare poi verso l’ingresso, forse per posare l’altro sul ripiano del telefono. Ritornò subito dopo tutto soddisfatto, avvicinandosi ad uno scatolone per scavare ancora al suo interno, quasi cadendoci dentro visto che era più grosso di lui.
    Mi rialzai dal tappeto con un sorriso, andando ad aiutarlo per evitare che finisse davvero lì dentro. Nel far questo, però, trovai qualcosa che richiamò la mia attenzione. E fu con un altro sorriso che mi chinai per prenderlo, sentendo su di me lo sguardo azzurro di Jason. Fece vagare gli occhi sull’oggetto che reggevo al mio volto, portandosi un ditino alle labbra.
    «Che cos’è quello, ‘Ka-san?» mi domandò curioso, ma gli feci cenno di non dire niente mentre m’allontanavo un po’, con i pensieri diretti alla cucina. O, più precisamente, ad un biondino lì presente.
    «Jaz, Oka-san torna subito», gli dissi semplicemente, anche se il mio tono non prometteva nulla di buono. «Non ti muovere, mi raccomando».
    «E perché, ‘Ka-san?» replicò ancora una volta, però gli ripetei nuovamente quella raccomandazione prima di filare in cucina. Per mia fortuna, Edward era girato di schiena. Un’occasione più che perfetta, quella.
    Mi avvicinai a passo felpato, tenendo ben stretto fra le dita quello che per me, in quel momento, rappresentava quasi un prezioso tesoro.
Quando giunsi dietro al mio caro compagno, però, alzando quell’oggetto oltre la sua testa e avvicinandomi al contempo per bramare un bacio, due fredde dita d’acciaio mi sfiorarono al di sotto del mento, facendomi deglutire. Un paio d’occhi d’ambra, subito dopo, si fusero inesorabilmente con i miei.
    «Bella prova, genio», disse ironicamente. «Sapevo che ci avresti provato non appena avresti trovato quel vischio. Ti conosco fin troppo bene».
    Che scopa torta. Eppure ero sicuro di riuscirci, stavolta. Fu tranquillamente che tornò a preparare la cena, senza degnarmi più d’uno sguardo o d’una parola. E a me, a quel punto, non toccò fare altro che dirigermi nuovamente in soggiorno, dove trovai Jaz a giocare con i festoni rimasti. Non potei evitarmi di sorridere, a quella scena. Almeno c’era lui a mettermi di buon umore.
    Il resto del pomeriggio lo passammo così, ad addobbare casa e ad aiutare occasionalmente Edward con i preparativi della cena o del tavolo su cui l’avremmo consumata. Solo verso le otto e mezza si presentarono tutti gli altri, allegri e spensierati; c’era chi aveva portato dolci allo zenzero e champagne, chi un panettone per completare il quadro. Subito dopo arrivò, proprio come aveva immaginato, mia madre in compagnia d’un uomo che non avevo mai visto, subito seguita da mio padre che sembrava un cane bastonato. Non volli dire nulla, limitandomi solo a salutarli e a farli entrare. Tra schiamazzi e risate, litigate dei miei e la colpa di tutto che veniva scaricata come sempre su di me, il mettersi in mezzo del compagno di mia madre per provare a calmare le acque e qualche battuta fuori luogo da parte di Maes, giunse ben presto il momento di consumare dolcetti e liquore, contornato persino dall’arrivo improvviso di Armstrong che, quasi come ogni anno, non mancò di spaventare i bambini con la sua mole massiccia di muscoli.
    Fu quando la serata finalmente si concluse e tutti tornarono alle proprie case che potei sentirmi un po’ sollevato, stiracchiandomi tranquillo prima di mettermi a letto.
Edward si era già infilato sotto le coperte dopo aver pensato a Jaz, e si voltò appena verso di me quando sentì il mio peso posarsi sul materasso. Mi augurò buonanotte e mi baciò fuggevolmente, e io mi allungai verso il comodino per spegnere l’abat-jour prima di coprirmi bene con il piumone.
    Sbadigliai sonoramente, già pronto ad assopirmi, quando un pensiero mi folgorò facendomi aprire nuovamente gli occhi. «Stavo quasi per dimenticarmene», feci, sentendo appena un suo mugugno infastidito; non gli badai e mi sporsi verso di lui, puntellandomi su un gomito in modo da riuscire a sfiorargli le labbra con le mie in un casto bacio. Nella penombra, lo vidi sbattere un po’ le palpebre, come sorpreso, prima che fondesse i suoi occhi dorati con i miei. Gli sorrisi, sistemandomi fra le coltri mentre stringevo il suo corpo nel mio abbraccio. «Mi spiace non avere un regalo, dovrai accontentarti di questo abbraccio», gli mormorai, strofinando il viso fra i suoi capelli, e lo sentii arretrare maggiormente per far aderire la sua schiena al mio petto.
    «A me basta la presenza delle persone, dovresti saperlo», ribatté lui fra uno sbadiglio e l’altro.
    Ridacchiai, poi mi sporsi per prendere l’orologio dal comodino. Non era ancora mezzanotte, bene. Mancavano giusto pochi minuti, ero ancora in tempo. Tornai abbracciato a lui, beandomi del suo corpo contro il mio. «Ma io non parlavo del regalo di Natale», replicai ancora una volta, stringendolo sempre più possessivo a me.
    Edward sbadigliò ancora e scrollò le spalle, almeno per quanto la posizione in cui era glielo permettesse. «E di cosa, allora?» chiese, più nel mondo dei sogni che davvero lucido.
    Mi lasciai sfuggire un altro sbuffo ilare, anche se un tantino incredulo. Come poteva essersene dimenticato? Beh, ci avrei pensato io, allora, a ricordarglielo. «Buon compleanno, Ed», dissi con dolcezza, vedendolo finalmente voltare il capo nella mia direzione e, dall’espressione che gli vedevo in volto, sembrava essersi davvero dimenticato del suo compleanno. Ma si riprese subito e mi sorrise, girandosi del tutto verso di me per affondare il viso nel mio petto e bearsi del calore che, pian piano, stava avvolgendo entrambi in quella sera d’inverno mentre i minuti passavano, facendo scoccare del tutto la mezzanotte e il nuovo giorno.
    Forse, adesso, avevo capito. Stare insieme l’uno con l’altro, festeggiare quel giorno con nostro figlio e gli amici... che fosse quella la magia del Natale?








_Note inconcludenti dell'autrice
Che emozione, ragazzi/e, che emozione!
La seconda vigilia che passiamo tutti insieme, e proprio come l'anno scorso vi regalo questo piccolo dono per augurarvi un buon Natale in compagnia di famiglia e amici!
Questo capitolo è dedicato al mio alter ego Red Robin per il suo compleanno ♥
E voi, mi raccomando, passate una bella vigilia di natale e cercate di divertirvi, che anche se viene una volta ogni anno il natale va passato in famiglia e bisogna mangiare il più possibile! *e ti pareva che andava sempre a finire sul cibo, lol*
 
Ricordiamo inoltre
:
Adesso, con un nuovo augurio a voi e a RR, vi saluto!
Mianntan!




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Capitolo 26
*** [ A contest, a rose and a story ] [ Storia Fuori Serie ] “Rosa Canina” ***


Heart burst into fire_Episode 26
Titolo: Rosa canina
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 5114 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ A CONTEST, A ROSE AND A STORY ][ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 26: “ROSA CANINA”

Originariamente le rose erano tutte bianche ma un giorno la dea Venere,
mentre correva incontro ad uno dei suoi innamorati,
mise un piede su un cespuglio di tali fiori e le spine la punsero.
Le rose, bagnate dal suo sangue, per la vergogna arrossirono all’istante
e rimasero di tale colore per sempre.

    Quella che era sorta si sarebbe potuta definire una giornata normale. Un giorno di routine, insomma; una di quelle classiche mattinate che cominciavano sempre uguali, come tutte le altre. Mancavano ancora un paio d’ore all’inizio del mio turno di lavoro e, almeno per una volta, avevo tutta l’intenzione di prendermela comoda. Ed era proprio per quel motivo che mi trovavo a letto, avvolto nel mite tepore che il piumone, le lenzuola e il corpo del mio compagno mi donavano.
    Lui sonnecchiava ancora piacevolmente, mugugnando solo di tanto in tanto frasi sconnesse nel dormiveglia; tutto a causa dell’accenno di barba che avevo e che gli pungeva il viso, specialmente quando mi strofinavo contro la sua pelle. Proprio la sera addietro avevamo fatto un bel ripasso dell’ABC, sebbene mi fosse risultato abbastanza difficile far capitolare Edward. Siccome in casa con noi c’era anche Jason, spesso e volentieri era molto difficile poter restare un po’ per conto nostro per coccolarci come si conveniva ad una coppia; sfruttare quei rari momenti era quasi diventata un’arte, se contavamo soprattutto il mio continuo via vai da Central a South City.
    Scossi il capo, avvicinandomi maggiormente al corpo di Edward per riscaldarmi; l’attirai a me e gli cinsi i fianchi, anche se ci guadagnai un ennesimo mugolio infastidito.
    «Roy, pungi», borbottò con voce impastata dal sonno, agitando con fare svogliato una mano per scacciarmi, ma per tutta risposta l’abbracciai più forte, affondando il viso fra i suoi capelli mentre facevo scivolare con lentezza una mano. Gli sfiorai i fianchi e scesi ancora, arrivando a carezzare quella delicata peluria dorata che aveva sulle cosce. Fu quando osai volere di più, però, che una mano d’acciaio mi colpì scherzosamente una guancia. «Vai a farti la barba», m’ordinò categorico, senza però trattenere un sonoro sbadiglio quando pronunciò quelle parole.
    Lo ignorai, limitandomi solo a massaggiarmi il punto colpito prima d’issarmi a mezzo busto. «Non sai che barba e baffi sono il simbolo del vero uomo?» filosofai sarcastico, riuscendo solo a strappargli una risatina divertita.
    Si sciolse senza alcun garbo dal mio abbraccio, raccattando un paio di mutande dal cassetto della biancheria posto accanto al letto. Issandosi a sedere, mi lanciò un’occhiata tutt’altro che accondiscendente. «E dove saresti uomo, cara Oka-san?» mi prese in giro, stiracchiandosi come se nulla fosse.
    Non divenni volgare nel rispondere, lo guardai solo con un sopracciglio inarcato prima di scostare svogliato le lenzuola. «La mia argomentazione è tutta lì», ribattei, alludendo malizioso ad un punto poco al di sotto del mio basso ventre, e Edward sbuffò ilare, facendovi guizzare gli occhi per andare a recuperare la divisa.
    «Non prova nulla», replicò, schioccando la lingua sul palato per provocarmi. «Ed ora, se madame permette, usufruisco per primo del bagno, visto che non sembra intenzionata».
    Presi la prima cosa che mi capitò sotto mano e gliela tirai addosso, imitando alla meno peggio una di quelle scenate da moglie incazzata o gelosa; ma ciò che ottenni fu solo farlo ridere maggiormente quando evitò quella che altro non era che una pantofola, portandosi vicino alla soglia del bagno.
    «Vedi piuttosto di metterti qualcosa addosso, che con l’età che ti ritrovi rischi di buscarti un’influenza», profetizzò in tono di scherno, facendomi una linguaccia come un bambino quando mi vide pronto a prendere anche l’altra pantofola. «Ah, già che ci sei, prepara anche la colazione a Jaz e poi vai a svegliarlo». Detto ciò, si chiuse la porta alle spalle, lasciandomi con quella ciabatta sospesa a mezz’aria come un vero e proprio fesso.
    Borbottai fra me e me per quel suo modo di fare, facendo cadere la pantofola sul pavimento con un tonfo sordo prima di tornare sdraiato; allungai un braccio fuori da quel piumone solo per tastare il comodino dal mio lato del letto, cercando l’orologio d’argento per sbirciare l’orario. Aperto il coperchietto, mi ritrovai a sbuffare sonoramente prima di richiuderlo e abbandonarlo nuovamente là sopra. Non era né troppo presto né troppo tardi, certo, ma la voglia d’alzarmi era diventata pari allo zero. E me ne sarei volentieri tornato a dormire sul serio se uno scalpiccio non avesse richiamato la mia attenzione, facendomi trasalire. Avevo difatti abbassato le palpebre senza nemmeno essermene reso conto, tanto che le riaprii di scatto solo per vedere la figura sfocata di Jason tutta allegra e pimpante. Perché era già vestito se mancavano come minimo ancora due ore alle nove?
    «‘Ka-san, svegliati!» mi richiamò, scuotendomi. «‘To-san ha detto che farete tardi se non ti alzi!»
    Tardi? Ma che diavolo...? Mi puntellai sui gomiti e mi strofinai gli occhi, stando attento che il piumone non scivolasse via.     Un po’ per il freddo, un po’ per amor di decenza. «Jaz, ma che stai dicendo?», gli chiesi, bofonchiando assonnato. Riuscita finalmente a mettere a fuoco la sua immagine, vidi che indossava un pantaloncino nero con tanto di bretelle, e portava una camicia taglia bambino color panna. Intravedevo persino dei calzettoni di lana ai piedi, mentre di scarpe neanche l’ombra visto che era scalzo.
    «Sono le otto», dichiarò in tono solenne, con quelle finte arie da grand’uomo vissuto che stava acquisendo già da un po’. Guardandolo, nessuno gli avrebbe dato sette anni, data la sua scarsa altezza. Ma, se si intratteneva con lui una conversazione su un qualsiasi argomento, sapeva davvero stupire nonostante la sua giovane età.
    Interruppi il flusso di quei miei sproloqui mentali solo quando la mia mente ancora addormentata registrò l’orario; cosa voleva dire che erano le otto?! Mi ero forse riaddormentato sul serio senza neanche accorgermene? «Porcaccia!» masticai fra i denti, sporgendomi oltre il bordo del materasso per rovistare fra la mia biancheria sotto lo sguardo incuriosito del mio moretto. «Jaz, prendimi una divisa dall’armadio, per favore», soggiunsi velocemente, prendendo quel che mi serviva prima d’arraffare il lenzuolo per legarmelo intorno alla vita. Ci mancava soltanto questo.
    Con la coda dell’occhio, mentre mi alzavo, vidi quel piccolo soldo di cacio saltare per tirar via la divisa dalla cruccia, portandomela tutto gongolante quando ci riuscì. Lo ringraziai svelto, avviandomi verso il bagno mentre sentivo i brividi lungo la schiena. Cavoli se faceva freddo, quella mattina!
    «‘Ka-san, stai tremando», appuntò Jaz, con quell’innocente cipiglio bambinesco. «Perché dormi nudo se hai freddo?»
    Lo sapevo che sarebbe andata a finire così. Me lo sentivo. Mi voltai solo di poco, sorridendogli ironico. «Perché Oka-san è un perfetto idiota», replicai semplicemente, guadagnandoci un’occhiata stranita prima che lo invitassi a raggiungere il suo papà per chiudermi in bagno. Non lo sentii protestare né altro; mi giunsero alle orecchie solo i suoi passi che s’allontanavano mentre mi liberavo degli ingombri e mi gettavo sotto la doccia calda.
    Dopo tutto quell’andirivieni, finalmente, ci trovammo alla nostra postazione di lavoro, ognuno dei due nel proprio ufficio. Ciò che mi aveva stupito, però, era il fatto che Edward avesse deciso di portare Jason con noi, ricevendo il suo allegro consenso. Li avevo visti sparire entrambi verso il mio vecchio ufficio, dov’ero sicuro si trovassero tutt’ora insieme alla restante brigata.
    La maggior parte del tempo l’avevo passata a chiedermi cosa stessero facendo - e soprattutto a malmenarmi il cervello sul perché della decisione di Edward -, firmando sì e no un documento su dieci. E dovevo ritenermi fortunato dell’assenza di Occhi di Falco in quell’ufficio; se ci fosse stata lei, di certo non avrei perso tempo a pensare o a non far nulla. Mi ero persino concesso il lusso di sonnecchiare un po’, risvegliandomi solo un bel paio d’orette dopo. In poche parole, quel giorno l’avevo passato dormendo.
    A distrarmi, fu un bussare alla porta e quindi il successivo arrivo di Maes che, come suo solito, non attese nemmeno che l’invitassi ad entrare. Aveva una strana aria divertita dipinta in volto, tanto che non potei fare a meno di chiedermi cosa gli fosse successo di così bello per far assumere al suo viso quell’espressione. Non espressi ad alta voce quel mio pensiero, limitandomi solo ad indicargli d’accomodarsi sulla poltrona dinnanzi alla mia scrivania; invito che, prontamente, ignorò. Ciò che fece, fu stiracchiarsi tranquillamente e gettare un veloce sguardo alle scartoffie, come se stesse soppesando quante ne avessi realmente firmate, e poi guardò me con un sorriso.
    «Vedo che ti dai da fare come al solito», sghignazzò, alludendo a quei pochi fascicoli che si trovavano nel contenitore della posta in uscita.
    Feci finta di nulla, giocherellando distrattamente con la stilografica prima di lanciargli un’occhiata. «Qualcuno deve pur firmare tutti questi documenti, non ti pare?» ribattei sarcastico, alzando appena un angolo della bocca con fare scettico. Se fosse stato davvero per me, in realtà, tutte quelle scartoffie sarebbero rimaste ad ammuffire per chissà quanto tempo prima d’esser prese e firmate.
    Hughes si lasciò sfuggire una sonora risata, scansando infine la poltrona per accomodarsi come l’avevo invitato a fare in precedenza. Giocherellò a sua volta con una stilografica quando la prese, poi, guardando ancora una volta la pila che occupava il lato sinistro della mia scrivania. «Ti conviene muoverti e firmarle sul serio, se non vuoi che te le filtrino a South City», mi tenne presente in tono divertito, allungandosi per batterci una mano sopra. «E lì non ci sarà nessuno a pararti il culo per possibili ritardi».
    Emisi un piccolo sbuffo ilare; seppur non volessi ammetterlo a me stesso, Maes aveva maledettamente ragione. Bene o male ero sempre stato salvato in calcio d’angolo dalla diligente Hawkeye, che trovava qualche scusa anche quando non ne serviva una vera. Lì, invece, ai confini del nulla, dovevo cavarmela da solo. Persino Edward non poteva aiutarmi falsificando la mia firma. «Se sei venuto a dirmi questo, torna a fare il tuo lavoro», gli sbottai contro, anche se con la sua stessa sfumatura nella voce. «Sono già indietro, altre distrazioni non mi servono».
    Maes alzò le mani in segno di resa, abbandonando la stilografica al suo posto prima d’alzarsi. «D’accordo, d’accordo», disse, fingendosi offeso. «Non si può nemmeno salutare un amico».
    Scossi il capo, divertito. Non cambiava mai. Mi fece appena un cenno di saluto con il capo, sgranchendosi in un secondo momento il collo per avviarsi alla porta.
    «Ah, quasi dimenticavo», fece poi, fermandosi proprio accanto alla soglia prima di voltarsi tutto sorridente verso di me. «Auguri».
    «Non è mica il mio compleanno», replicai immediatamente, sollevando scettico un sopracciglio.
    Stavolta, però, non rispose, ma si limitò a rivolgermi un altro sorriso indulgente prima d’agitare con fare divertito una mano, lasciandomi infine nuovamente solo nell’ufficio. Ma che diavolo era preso a tutti? Proprio non riuscivo a capire cosa passasse nelle loro teste.
    Non ci pensai oltre, altrimenti sarei diventato pazzo insieme al loro; mi concentrai invece sul lavoro che avevo da svolgere, tentando di terminarlo il prima possibile. Purtroppo, per l’ennesima volta in quella giornata, fu un insistente bussare a farmi alzare nuovamente il capo. Fulminai la porta con lo sguardo, tamburellando con le dita sulla scrivania. Sarei mai riuscito a lavorare seriamente per una volta? Ne dubitavo altamente. «Avanti», borbottai mezzo insonnolito, attendendo che quell’ennesimo scocciatore si facesse vedere. Restai basito, però, quando una figurina bassa e dalla zazzera mora si fece avanti come se nulla fosse, richiudendosi la porta alle spalle. «Jaz, che ci fai qui?» chiesi immediatamente, tra il severo e il divertito. «Non puoi girare da solo per il Quartier Generale, lo sai».
    Lui si strinse un po’ nelle spalle, tranquillo. «‘To-san mi ha detto di portarti questa», rispose semplicemente, ignorando praticamente le mie parole mentre agitava una busta e s’avvicinava. L’abbandonò sulla scrivania anche se, per farlo, dovette arrampicarsi sulla poltrona per riuscire a posarlo nel suo esatto centro; poi alzò il visino paffutello e mi sorrise, senza aggiungere altro e senza darmi spiegazioni.
    Inarcai finemente un sopracciglio. Che diavolo significava tutta quella storia? Squadrai lui e poi quella busta, afferrandola circospetto. Sul lato a destra, precisamente in basso, c’era la piccola stilizzazione di quella che sembrava una Meillandina. L’espressione scettica che aveva di sicuro segnato il mio viso divenne maggiore. Perché quella rosa, adesso? Aprii la busta con attenzione, quasi temessi di vederla esplodere fra le mie mani; non si poteva mai sapere, conoscendo quel fagiolino di nome Edward Elric. Presi poi quel foglio piegato, aprendolo per rivelare la scrittura del mio compagno. «“Caro Roy”», cominciai a leggere tra me e me, e già da come quella lettera iniziava avrei dovuto diffidare del resto «“Scommetto che adesso ti starai chiedendo il perché di questa lettera anziché l’ovvio uso del telefono”». E certo, chi sano di mente non se lo sarebbe chiesto, visto che ci trovavamo anche nello stesso edificio «“e immagino che starai anche pensando perché ho perso tempo a scriverla e a fartela consegnare da Jaz invece di venire direttamente lì”». Anche questa, in effetti, era una domanda che mi stavo ponendo. «“La vera risposta la conoscerai stasera, questo era solo un espediente per vedere se stavi lavorando o facevi il lavativo. A seconda di quel che mi dirà Jaz, la serata prenderà due ‘pieghe diverse’...”»
    Oh, porca. Smisi di leggere e chiusi la lettera, alzando il viso per guardare in quei profondi e intensi occhioni azzurri il mio moretto. Non poteva essere cattivo con la sua Oka-san, no? Non poteva assolutamente esserlo, vero? «Jaz... che ti ha detto di fare Oto-san, oltre a consegnarmi la lettera?» domandai sulle mie nel temere la risposta, e quel mio timore non tardò ad avere conferma, dato il nuovo sorriso che si era dipinto sulle piccole labbra di Jason.
    Non mi rispose subito, prendendosi il tempo di scendere attento dalla poltrona. Mossa che mi mise maggiormente sull’attenti. «Se Oka-san non lavora vieni subito a dirmelo», iniziò, citando probabilmente a memoria le parole del mio biondino. Ciò che mi mise più in guardia, però, non fu quella sua frase, bensì il fatto che stesse indietreggiando a piccoli passettini, con quel sorriso ancora dipinto sulle labbra. Sorriso quasi bastardo, avrei osato dire. «Che stavolta stasera non gioca», concluse, lasciandosi scappare una risatina ingenua mentre si voltava del tutto e sgambettava verso la porta, veloce come non mai.
    In un primo momento, restai a guardarlo uscire, allibito; poi, quando la mia mente registrò esattamente ciò che aveva detto, scattai immediatamente in piedi ed aggirai la scrivania, rischiando di farmi male e far cadere una montagna di documenti da firmare. «Jason, torna qui!» provai a richiamarlo, anche se sembrava ignorare le mie grida disperate. «Non puoi fare questo alla tua Oka-san!»
    Poco mi importava che, passando per quei corridoi quasi del tutto deserti, qualcuno negli uffici adiacenti potesse sentirmi. Il mio unico pensiero, in quel momento, era il voler acciuffare quel birbante che correva allegro davanti a me e che si voltava solo di tanto in tanto, quasi si divertisse a vedere come mi affannavo inutilmente per raggiungerlo.
    Mi fermai solo quando lo vidi svoltare l’angolo, non avendo più la forza di stargli dietro. La resistenza non era più quella di una volta, dovevo ammetterlo. Giunti a quel punto, comunque, potevo considerarmi fregato. Jason avrebbe spifferato tutto ad Edward e, fino al mio rientro a South City, potevo anche considerare il sesso come una lontana utopia. Potevo provare a salvarmi in calcio d’angolo, vero, ma il risultato non era comunque garantito. E continuai a formulare assurde ipotesi anche mentre mi incamminavo mogio verso l’ufficio di Edward, luogo in cui si era sicuramente rifugiato quel mascalzone di Jason. Quando lo raggiunsi, posai una mano sulla maniglia, tentennando un po’ prima di farmi coraggio.
    «Auguri!» sentii esclamare in coro a quei pochi presenti che riuscii a scorgere non appena aprii la porta, lasciandomi basito sulla soglia a sbattere le palpebre. E pensare che ero pronto a giustificarmi con il mio compagno chissà come! Lanciando un attento sguardo all’interno, potei benissimo scorgere qualcosa che non quadrava affatto; perché c’era una bottiglia di champagne, sulla scrivania di Edward? Vidi una mano afferrare per il collo proprio quella bottiglia che stavo osservando, riconoscendo soltanto dopo quella di Havoc. La stappò riempiendo dei bicchieri, offrendone a tutti prima d’avvicinarsi a me.
    «Alla salute, Generale!» ridacchiò, bevendo il suo tutto d’un sorso.
    Se fossi stato meno sorpreso, avrei sicuramente ammonito i presenti del fatto di star bevendo in servizio. Però, vedendo anche Jason bere qualcosa che mi parve del succo d’arancia, decisi di chiudere un occhio; che si divertissero pure, se proprio ci tenevano. Ma che mi spiegassero almeno il motivo! «Cos’è tutta questa pagliacciata?» domandai, forse più rivolto a Maes - anch’egli lì presente a non fare un emerito niente - che al mio caro compagno.
    Fu proprio Edward a rispondere, però, bevendo appena un sorso del suo champagne prima di sorridermi, invitante e sensuale. «Ma come, è la festa per il tuo compleanno!» replicò tranquillo, senza dar peso alle risatine degli altri e alla mia aria scettica. Ci si metteva anche lui con quell’idiozia, adesso?
    «Oggi non è il mio compleanno», ribadii ancora una volta, ma nessuno volle prendere in considerazione le mie parole. Persino Jason sembrava essere contro di me, in quel momento.
    In tutta quella baraonda, comunque, nemmeno mi resi conto della mancanza di due ospiti, là dentro; solo in un secondo momento - quando Maes la finì di fare l’idiota e Havoc di darmi divertite pacche sulla spalla tracannando chissà cosa - mi accorsi che all’appello mancavano proprio i due artefici di quella festa-presa in giro. Mi limitai solo a scuotere la testa, tornando ad occuparmi del problema che mi si poneva adesso: quello di interrompere quegl’insensati festeggiamenti prima dell’arrivo dei superiori. Tanto avrei dovuto aspettarmelo, da quel fagiolino. Sicuramente, adesso, o erano diretti verso casa o si trovavano già lì da un bel po’. Dissipato quel casino che si era venuto a creare, altro non mi toccò da fare che tornare nel mio ufficio; e lì tentai di lavorare, sebbene mi fossi sorpreso più volte da solo a sbadigliare senza accorgermene.
    Quando il mio turno terminò, finalmente, fu con rinnovata energia che uscii e andai alla macchina, con l’unico pensiero in testa di tornare a casa e finire quella stramaledetta giornata. Al mio arrivo, però, il resto della famiglia non sembrò dello stesso avviso: non appena infilai le chiavi nella toppa e aprii la porta, venni immediatamente investito da un piccolo tornado in pigiama che portava il nome di Jason. Vidi che reggeva in una mano il piccolo bocciolo d’una rosa bianca, mentre con l’altra si teneva ai miei pantaloni, strattonandoli.
    «Questa è da parte mia, ‘Ka-san», disse con vocina allegra, costringendomi praticamente a chinarmi alla sua altezza per scoccarmi un bacino sulla guancia.
    Dire che ero allibito era poco. Già quella festa per il mio finto compleanno mi aveva destato un qualche sospetto, ma non riuscivo a capire come quegli eventi potessero essere collegati fra loro. Ebbi giusto il tempo di accettare quel piccolo dono che sentii una manina di Jaz afferrare la mia, tirandomi con prepotente innocenza verso la sala da pranzo. E fu lì che restai letteralmente a bocca aperta: al centro esatto del tavolo, costeggiato da qualche piccolo rametto di giunco e da rosei e bianchi fiori di pesco, era esposta la più bizzarra composizione floreale che avessi mai visto. Anche se, dovetti ammetterlo, non ero poi così sicuro di averne realmente mai vista una. Tra la moltitudine di colori e specie di rose lì presenti, si trovavano - attorcigliate a quelle che mi parvero piante rampicanti d’un verde brillante, tenute su chissà come - quello stesso tipo di rose che avevo visto stilizzato sulla busta. Erano tre, forse quattro, d’un rosso paragonabile solo a quello d’una fragola o della mela più succosa; ma restava sempre quel primo interrogativo... a che pro, tutto ciò?
    Abbagliato com’ero da quella vista, mi accorsi solo in un secondo momento che Edward era seduto lì, anch’egli con delle rose in mano. Sembrava un piccolo bouquet di Meillandina, composto da dodici rose rosse e una bianca. Mi guardò con un sorriso, giocando distrattamente con uno dei delicati petali di velluto.
    «É la prima composizione seria che faccio, dovrai accontentarti», mi disse, stringendosi nelle spalle come se volesse scusarsi. «Abbiamo provato a renderla più bella possibile, dopo». Accennò verso di me con il capo, indicando però la figura di Jason. Ecco spiegato almeno il perché della sua aria soddisfatta. Il resto, adesso, sarebbe stato gradito. Edward Elric, però, era Edward Elric, e si limitò quindi ad alzarsi semplicemente; ma non per avvicinarsi a me, bensì per vagare come se nulla fosse accanto a quella creazione artistica, carezzando ogni rosa con finto interesse. Jaz intanto si era stretto alle mie gambe, quasi volesse abbracciarmi o impedirmi di muovermi.
    «Volete dirmi che cavolo sta succedendo?» mi decisi a domandare, sull’orlo di una crisi di nervi. Non ne potevo davvero più, quel giorno. In risposta, però, mi giunsero ben due risate: una di Edward, che aveva cominciato a sistemare ancora un po’ rose e rampicanti; e l’altra di Jason, che si staccò da me solo per allontanarsi e tornare poco dopo con un foglietto colorato. Chiesi mentalmente pietà. Non volevo più saperne di lettere e rose. Solo in seguito mi accorsi che reggeva anche qualcos’altro, un piccolo vaso da fiori decorato e dalla forma tondeggiante. Difficile dire se fosse stato fatto interamente a mano o sfruttando un po’ di sana alchimia.
    «Buona festa della mamma, ‘Ka-san», disse con semplicità, e stavolta dire che ero allibito sarebbe stato un eufemismo. Anzi, feci fatica a credere alle mie orecchie, tanto che mi scappò una piccola risatina che quasi sfociò nell’isterico.
    «State scherzando, vero?» chiesi per l’ennesima volta, quasi sentendo un tic all’angolo della bocca. Non era possibile, mi stavano sicuramente prendendo in giro. Tutto quel da fare era esagerato, c’era qualcosa sotto. Ma quando vidi Jason imbronciarsi ed Edward voltarsi verso di me infastidito, dovetti ricredermi e scartare quell’ipotesi. Stavano facendo sul serio.
    «Sei cattivo, ‘Ka-san», borbottò il mio moretto, avvicinandosi offeso al tavolo per posare lì quegli oggettini che aveva portato, avvinghiandosi ad un braccio di Edward. Adesso mi sentivo in colpa, proprio come un perfetto idiota. E tutto quel profumo mi stava anche dando alla testa. Che cosa avevo fatto di male per meritarmi tutto ciò? E pensare che, proprio quel mattino stesso, avevo definito quella una giornata di routine. Non l’avessi mai fatto, allora!
    Aggrottai la fronte, vedendo Edward confabulare con Jason a bassa voce, in modo che non potessi sentire nessuno dei due. In realtà non volevo minimamente sapere cosa si stessero dicendo, visto le pieghe che, pian piano, stava prendendo quella serata. Se avevo fatto qualcosa di male, comunque, sapevo già come sarebbe andata a finire: quella spaventosa premonizione che avevo avuto in ufficio, quando Jaz era corso via, sarebbe ben presto diventata una realtà. Ci avrei messo la mano sul fuoco. Dovevo fare buon viso a cattivo gioco, allora. Quindi mi avvicinai ad entrambi, tentando di dar sfoggio ad uno dei miei miglior sorrisi. «Mi hai fatto un bel regalo, Jaz», provai ad ingraziarmelo, non ottenendo però l’effetto sperato.
    Difatti mi guardò giusto un attimo, alzando il viso verso il suo papà prima di farmi una linguaccia, nascondendosi poi dietro ad Edward con fare piccato. «Non stai dicendo sul serio», rimbeccò, e sentii il mio biondino soffocare una risata. Almeno qualcuno si divertiva, lì! Io trovavo quella situazione estremamente irritante, più che ilare.
    «Davvero complimenti, genio», mi sfotté ironico lui, vedendolo sollevare un angolo della bocca in un sorriso più che sarcastico. «E pensare che ci abbiamo messo mezza giornata per farti questa piccola sorpresa».
    I sensi di colpa aumentavano, perfetto. Quel fagiolino sapeva toccare esattamente i tasti giusti. Gli scoccai un’occhiataccia, facendolo soltanto sorridere maggiormente; non gli badai più di tanto, puntellandomi sulle ginocchia per essere quasi alla stessa altezza del mio moretto, semi-nascosto dietro al mio compagno. «Mi ha fatto piacere questo regalo, dico davvero», tentai, ancora una volta, di farmi ascoltare. «Ma non credevo di certo che avresti fatto qualcosa per la festa della mamma, quest’anno». Un bel paio d’anni fa, infatti, era rimasto parecchio confuso a causa della sua maestra d’asilo riguardo questa stessa festa.
    Jaz borbottò qualcosa, per nulla concorde, ma alzò ancora una volta il capo per fissare negli occhi Edward, come se volesse chiedere il suo consenso per chissà cosa. Il mio parere non valeva un bel niente, in quella casa. «Coraggio, dai», gli disse, rassicurandolo. «Ad Oka-san sono piaciuti il regalo e la sorpresa».
    Anche se non sembrò ancora convinto, Jason si allontanò da lui per gettarmi le braccia al collo, affondando il visino nella mia spalla. «Però non devi più dire che scherziamo, ‘Ka-san», bofonchiò, tornando ad assumere quel cipiglio bambinesco che l’aveva caratterizzato sin dalla tenera età.
    Alla mia risatina, si aggiunse anche quella di Edward, che si chinò a sua volta per carezzargli la schiena e abbracciare poi entrambi. «Vi coccolerete dopo voi due, la cena si fredda», ci ammonì divertito, rialzandosi per posare lontano quella gran cesta di rose in cui avevano sistemato la loro composizione floreale. Ne avevano di inventiva, però, bisognava farne atto ad entrambi.
    Adocchiai  la sua figura che preparava i piatti e ci guardava di tanto in tanto, come ad invitarci ad accomodarci. Strinsi ancora un po’ a me il mio moretto, scompigliandogli la zazzera mora nonostante sapessi quanto odiava quel modo di fare. «La prima rosa che metterò nel vaso sarà il tuo bocciolo, d’accordo?» gli sussurrai in tono confidenziale ad un orecchio, spassoso. «Non diciamolo ad Oto-san, però».
    Jason s’allontanò un po’ da me per alzare poi il visino e guardarmi negli occhi, lanciando una rapida occhiata ad Edward che aveva cominciato ora a mettere da bere a tavola. Tornò a guardare me, ritrovando il sorriso prima di portarsi un ditino alle labbra.
    Ricambiai e mi alzai, prendendo finalmente posto a tavola con lui. Me l’ero cavata abbastanza bene, dovevo ammetterlo. E messo poi a dormire Jason, il nuovo sorriso che Edward mi rivolse mi lasciò con una bella scossa d’eccitazione; e non attraversò solo la schiena, quel brivido.
    Mi prese una mano per trascinarmi in camera, non prima di avermi solleticato con fare erotico il palmo con le dita. La serata stava prendendo una piega che mi piaceva, adesso. Dopo avermi fatto sedere sul bordo del letto, posò appena un bacio sulla mia fronte, sfiorandomi le palpebre che lui stesso si era premurato di farmi abbassare; ma potei notare che anche lì, nella nostra stanza, c’era un piacevole odore che riempiva l’aria. Qualcosa di vellutato, poi, mi carezzò la bocca, ma non potei aprire gli occhi per sbirciare perché lui mi ammonì con un “Shhh”.
    Quel piacevole tocco continuò su tutta la curva delle mie labbra, spostandosi su una delle mie gote fino a scendere lungo il petto. Lì si fermò, ma sentii una delle mani di Edward giocherellare con i bottoni della camicia quando mi liberò della fastidiosa giacca che indossavo; riprese poi a far vagare quel qualcosa sulla mia pelle, passandola sul pomo d’Adamo prima di scivolare lungo il petto. Mi ritrovai inconsciamente a sorridere, soprattutto quando, rimasto con il busto nudo, sentii il velluto vezzeggiarmi il capezzolo destro. L’altro, invece, era sotto l’esperta tortura d’uno dei suoi pollici. Fu a quel punto che decisi di infischiarmene del suo divieto e di aprire gli occhi, vedendolo con una delle rose che, in principio, avevano composto il suo bouquet. Allargai il sorriso, reclinando di poco la testa all’indietro quando sentii il mio biondino avvicinare anche le labbra; leccò appena l’aureola con la punta della lingua, alzando poi lo sguardo per fondere i suoi occhi con i miei. Si mise a cavalcioni su di me, subito dopo, tornando a far scivolare sul mio viso quel delicato fiore.
    «Rossa significa passione, se non sbaglio... giusto?» mi domandò, quasi volesse ricevere conferma.
    Mi limitai ad annuire, cingendogli i fianchi per strofinare il naso fra i suoi capelli. «Rossa è passione, esatto», risposi, beandomi di quel dolce contatto che stava sapientemente portando avanti. Tornò a far scivolare la rosa e i suoi petali sulla mia pelle, provocandomi nuove scosse d’eccitazione ogni qual volta ne carezzava un nuovo lembo. Mi fece allontanare in modo da guardarmi in viso e se la portò poi alle labbra, baciandone il centro con fare quasi sensuale; l’afferrò con i denti, subito dopo, chinando il viso verso di me come per invitarmi a prenderla con la mia, di bocca.
    Feci attenzione a non pungermi con le spine mentre ricambiavo quella bizzarra forma d’erotismo, facendo scivolare pian piano le mani alla base della sua schiena. Volevo una standing ovation per me, adesso. Nonostante la situazione mi offrisse qualsiasi cosa su un piatto d’argento, ancora non avevo fatto nulla di troppo spinto, e lui sembrò valutare la stessa cosa, visto che si lasciò sfuggire una piccola risata. Mi toccò la punta del naso e allungò appena una mano verso la lampada sul comodino, creando un’intima luce soffusa quando l’attenuò di poco. Potei notare solo in quel momento che aveva agghindato anche la nostra camera di rose, sebbene fossero in netta minoranza rispetto a quelle della composizione floreale in sala da pranzo. Era un unico tipo, stavolta, esattamente come quello che ancora reggevo fra i denti.
    «E non dire che poi non ti coccolo», bisbigliò, togliendomi finalmente quella rosa dalla bocca per lasciarla sul letto per avvicinarsi al mio viso. Ma, anziché baciarmi, s’alzò e poggiò una mano sul mio petto, facendo in modo che cadessi all’indietro sul materasso.
    Alzai il viso per guardarlo tra lo scettico e il curioso; aveva iniziato a giocherellare per l’ennesima volta con i petali dei fiori presenti in ogni dove, e solo di tanto in tanto mi lanciava una bislacca occhiata. Sorrideva, certo, ma non sembrava intenzionato a finire quel che aveva cominciato con me. Mi puntellai sui gomiti, sorreggendo il mio peso prima di corrugare le sopracciglia. «Beh, che fai?» lo richiamai, provando ad avere la sua attenzione. «Ti fermi qui?»
    Edward mi lanciò un’occhiata, allargando, se possibile, maggiormente il sorriso. Sbadigliava distratto, come se la cosa per lui contasse poco o niente. «Non posso mica esagerare, mammina», replicò, lasciandosi sfuggire una sonora risata. Avrei dovuto immaginarlo che si trattava di uno scherzo. Fare sesso con Jaz in casa per due sere di fila era troppo, per lui.
    Ogni rosa aveva le sue spine, in fondo, e quella canina sembrava non fare eccezione. Peccato che quella che avevo scioccamente raccolto io, avesse anche le zanne e una gran voglia di prendere in giro. Buona festa della mamma avevano detto, eh?








_Note inconcludenti dell'autrice
Quella di oggi è una storia un po' speciale, poiché nata per il contest “A contest, a rose and a story!” indetto da RoyXEd 4ever [Roy Mustung sei uno gnocco], e che si è piazzata sesta classificata nonostante l'avessi io stessa considerata da ultimo posto. Infatti non è una delle migliori che abbia mai scritto, lo ammetto... ma, siccome vi è la presenza di un caro frugoletto che alcuni di voi hanno imparato ad amare, anziché postarla come una shot a parte ho deciso di inserirla qui, in questa raccolta, accumulando le esperienze.
Qual giorno migliore per postare questa storia, se non il giorno di San Valentino anche se c'entra ben poco con la festa in questione? Ma l'amore è amore tutti i giorni, no? Comunque sia, per questa festa ho fatto qualcosa, anche se non è una storia, e si tratta di questo disegno [Happy Valentine's Day?] per un contest su DeviantART. Originariamente quel piccolo sketch sarebbe dovuto essere una one-shot, ma non avrebbe reso esattamente l'idea, secondo me. Quindi, se gli darete un'occhiata, sarò ancor più felice.
Qui di seguito alcune piccole spiegazioni e il commento della giudice:

Commento:
Ti dirò, quando ho letto il titolo sono rimasta un po’ confusa: credevo che tu avessi toppato sull’elemento roseoso, credendo che ti fossi concentrata sulla rosa Canina. Poi ho capito! Il finale mi è piaciuto molto, proprio perché hai spiegato la motivazione della rosa. Ma andiamo con ordine. La storia, sinceramente, mi è piaciuta, ma d’altronde da te non mi potevo aspettare altro. Tuttavia ci sono delle cose che non ho apprezzato granché e, te lo devo dire, non è uno dei tuoi lavori migliori. Perché ho notato troppe ripetizioni. Troppe volte hai scritto “quel giorno?”. Poi ho notato che nei punti in cui ci sarebbero dovuti essere i due punti, c'erano i punti e virgola. Non se siano errori di battitura, dato che il punto e virgola e i due punti sulla tastiera sono vicini, ma credo di no, visto che l'errore è ripetuto molte volte. Per il resto, errori grammaticali o di sintassi non ce ne sono più. Pensandoci non sono riuscito molto bene a capire come fosse la composizione, ma molto probabilmente è colpa mia. L'elemento roseoso è buono, alla fine è proprio la Meillandina - la nostra adorata Meillandina xD - che accarezza la pelle di Roy. Te l'ho detto: una bella storia, come al solito, ma non so perché sono convinta che tu avresti potuto fare di meglio. Grazie mille per la tua partecipazione, è sempre un piacere leggere e valutare le tue storie. Spero tanto che parteciperai al mio prossimo contest. ^^

- 9 punti alla grammatica;
- 8,8 punti all'originalità;
- 9,5 punti per lo stile;
- 8 punti per l'utilizzo dell'elemento roseoso;
- 4 punti al giudizio personale.


NOTE SULLE ROSE:
1. Canina _ Indipendenza, poesia, delicatezza e piacere, sofferenza e dolore
2. Bianca _ Silenzio, purezza, amore spirituale, reverenza, segretezza, innocenza e fedeltà
3. Rossa _ Passione e amore, rispetto e coraggio
4. Bouquet con rose rosse e bianche
_ Regalate insieme significano unità

A presto!



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Farai felice milioni di scrittori.

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Capitolo 27
*** [ Storia Fuori Serie ] Vecchie conoscenze ***


Heart burst into fire_Episode 27 Titolo: Vecchie conoscenze
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 4086 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



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[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 27: VECCHIE CONOSCENZE

    La lieve e piacevole brezza primaverile rinfrescava il parco in cui mi trovavo.
    Seduto su una delle tante panche di legno presenti, osservavo il mio piccolo cinquenne che giocava allegro sulle giostrine insieme agli altri bambini, con quel sorriso tipico dell’infanzia disegnato sulle labbra rosee. Sorridevo anch’io a quel suo buon umore, controllando di tanto in tanto il quadrante dell’orologio senza perderlo d’occhio.
    Erano quasi le quattro del pomeriggio.
Mancava più d’un’ora e mezza all’arrivo di Edward, quindi potevo lasciar giocare Jason ancora un po’ senza interromperlo. Minuto di più, minuto di meno, non avrebbe comportato così gravi conseguenze. Al massimo il mio bel biondino avrebbe atteso solo in casa per un po’ o sarebbe venuto a scontrarci. Inspirai a pieni polmoni il bel profumo di fresco che si disperdeva nell’aria e la fragranza dei fiori, incrociando le braccia al petto per sedermi meglio sulla panchina a gambe accavallate. Non c’era niente di meglio d’una giornata in libertà, dovevo ammetterlo.
    «Roy-kun?» mi richiamò una voce femminile, vagamente familiare.
    Accigliato, mi voltai nella direzione da cui proveniva, focalizzando la figura d’una donna un po’ minuta. I capelli ricci, d’un colore quasi ramato, le ricadevano in boccoli sulle spalle, in gran contrasto con la camicetta azzurra che indossava e che metteva ben in risalto le sue forme. Portava un paio di calzoni bianchi che s’abbinavano al colore delle sue scarpe. Aveva un non so che di familiare, ma... dove l’avevo già vista? Ci spesi non più d’una manciata di secondi a pensarci su, ricordando in un lampo. A prima vista non l’avevo riconosciuta, tanto era cambiata. «Evelyn?» domandai in risposta nell'alzarmi d’istinto, vedendola stirare le labbra carnose in un sorriso divertito.
    Diavolo, quant’era piccolo il mondo! Non avrei mai pensato d’incontrare una delle mie ex a South City. Era da quasi quattordici anni che non la vedevo. Avevamo frequentato per un po’ l’Accademia Militare insieme, prima che decidesse d’abbandonarla per intraprendere una strada verso un lavoro in cui era più portata. Uscivamo qualche volta insieme a quei tempi, giovani diciottenni con la voglia di divertirsi. Anche una veloce scappatella ci aveva visti uniti, alla fine. Poi, ognuno per la sua strada facendo finta che non fosse successo nulla. Sorrisi un po’ a quei pensieri di scellerato adolescente che pensava più con altro che con il cervello, scuotendo la testa per schiarirla prima di indicare ad Evelyn la panca, come ad invitarla ad accomodarsi.
    Lei non se lo fece ripetere due volte, sedendosi accanto a me quando lo feci anch’io. «Ti trovo in forma», mi disse con quella voce dolce che, negli anni, non era cambiata. «Sei sempre lo stesso identico presuntuoso d’anni fa?»
    Quella sua domanda-affermazione mi strappò una piccola risata. In effetti aveva pienamente ragione, ero ancora il solito. «Adesso ho una variante», ribattei semplicemente. «Sono anche spocchioso».
    «Oh, quello lo sei sempre stato!» esclamò divertita, agitando non curante una mano.
    Mi faceva un certo effetto ritrovarmi a parlare con lei, poiché di solito le donne che avevo frequentato non le rivedevo più. Chiacchierammo del più e del meno per svariati minuti prima che ad interromperci fosse la vocina morbida di Jason che, stancatosi delle giostre, corse sgambettando verso di noi chiamandomi a gran voce. Mi tirò i calzoni, forse per farsi prendere in braccio. Dimentico per un attimo della presenza di Evelyn, concentrai tutta la mia completa attenzione sul mio bambino, facendolo sedere sulle mie cosce e cercando di pulirgli in qualche modo il visino sporco di terra, mentre tentava di allontanarmi un po’ la mano. Fu più difficile di quanto pensassi, dato che non guardava me, ma Evelyn.
    «Ciao!» la salutò infine.
    Vidi Evelyn sorridere a sua volta prima che si chinasse un po’ verso di lui per carezzargli amorevolmente i capelli e toccargli appena la punta del naso. «Ciao a te, ometto», disse lei, e la guardai un pochino di sottecchi. Ero pronto a scommettere che avesse dei figli, anche perché avevo adocchiato la fede. O era semplicemente una dote delle donne quella di dimostrarsi premurose e materne? «Ti somiglia proprio, Roy-kun», soggiunse ancora, vagamente divertita. «Non pensavo che un dongiovanni come te avrebbe messo la testa a posto».
    «Che vuol dire “la testa a posto”?» subito chiese la voce del popolo, con quel tono che era solito usare quando era avido di sapere. In quel momento volli maledire Ivy, che se la rideva per una qualche strana ragione. Ah, le donne... non le avrei mai capite.
    «Che bambino curioso che sei», disse lei in tono spassoso, facendo imbronciare un po’ Jaz.
    «Non sono un bambino, ho già cinque anni!» asserì orgoglioso, segnando i numeri sulla punta delle dita della destra prima di mostrargliele bene, forse a scopo dimostrativo.
    Evelyn rise ancora, con garbo. «Ma allora è vero che sei un ometto!»
    Jason gongolò tutto fiero, cominciando a cincischiare con i bottoni della mia camicia senza calcolarci poi più di tanto. Guardai lui e poi Evelyn, scuotendo un po’ la testa con fare divertito. «Mi verrebbe da chiedere se hai figli», le confessai semplicemente, vedendola sorridere ancora; si sistemò distratta qualche ciocca di capelli, accomodandosi meglio.
    «Perché, è così evidente?» ribatté, e stavolta fui io a ridacchiare. «I miei due gemellini sono a casa con il papà, stavo giusto tornando».
    «Non sapevo abitassi qui a South City».
    «Ci abitano i miei genitori», mi spiegò con rinnovata allegria, guardando ancora una volta Jason. Si era accoccolato sul mio petto e aveva cominciatro a strofinarci contro il visino, come se fosse stanco, ma lo vedevo muovere ancora la mano, stavolta catturando fra le dita la catenella dell’orologio d’argento che sporgeva dal taschino. «Chi è la gran donna che è riuscita ad accalappiarti?» sentii dire da Evelyn, e riportai la mia attenzione su di lei sorridendo ancora un po’. Tra tutte le donne che avevo avuto, sicuramente lei era stata la migliore. Non era mai stata una di quelle che avrei definito galline, era sempre uscita dagli schemi. Un po’ come Riza, se dovevo fare un paragone. Buon per l’uomo che l’aveva sposata, doveva ritenersi fortunato.
    «Una bella biondina tutto pepe», risposi, con il pensiero che ormai volava sulle forme del mio fagiolino. Messo a letto Jason, mi sarei divertito, quella sera. E non volevo sentir ragioni, ero in astinenza da troppo.
    Evelyn rise, quella classica risata giocosa e maliziosa delle donne. «Deve avere proprio il pugno di ferro se è riuscita a domarti!» esclamò in tono spassoso, e a quella sua innocente espressione non potei davvero fare a meno di scoppiare a ridere a mia volta, divertito a dir poco. Aveva centrato in pieno il punto: un bel pugno d’acciaio era quello che rimediavo ogni qual volta facevo l’idiota.
    «Oh aye, si può dire che in casa comandi lei», dovetti convenire, senza smettere di sorridere. Ero sicuro che, se fosse stato lì, Edward se la sarebbe sì presa perché gli stavo dando della donna, ma avrebbe anche fatto una faccia soddisfatta. Stavo ammettendo che era lui il capo in casa, quindi...
    Sentii una piacevole risata provenire nuovamente da Evelyn, e la vidi osservare ancora una volta Jason senza fare commenti o altro. «L’ho sempre detto che avresti trovato pane per i tuoi denti», commentò, ricevendo da Jaz uno sguardo e un sorriso prima che lui allungasse una manina verso di lei. Curioso quanto Ivy, lo guardai, notando che aveva adocchiato la catenina d’argento appesa al suo collo. Era un ciondolo a forma di cuore, vicino al quale era accostato anche un anello. Forse quello di fidanzamento o altro, non avrei saputo dirlo. Mi ritrovai però ad arrossire un po’ quando l’occhio mi cadde sul suo seno e, facendoci caso, sentii lei ridere ancora una volta. «Ehi, stallone, non sei cambiato affatto, eh?» mi prese in giro, facendomi imporporare più del dovuto e distogliere in fretta e furia lo sguardo.
    Anche Jason mi guardò, posandosi un dito sulle labbra. «Perché sei rosso, ‘Ka-san?» mi chiese, dimenticandosi per l’ennesima volta di chiamarmi papà quand’eravamo in giro. Richiamò così l’attenzione sconcertata di Evelyn, ma mi evitò almeno di rispondere alla sua domanda fuori luogo.
    «‘Ka-san?» ripeté lei, come se non se ne capacitasse.
    Mi grattai la testa voltandola altrove per non guardarla, cercando di trovare una scusa plausibile per il modo in cui ero stato chiamato, ma non me ne veniva in mente nessuna. «Ecco, vedi...» cominciai, ma venni interrotto da Jaz che, come un fulmine, mi aveva strattonato la camicia ed aveva poggiato i piedi a terra per correre via. Mi alzai di scatto per inseguirlo ma, poi, lo vidi.
    «‘To-san!» esclamò tutto contento il mio moretto, saltandogli in braccio. Io, invece, adocchiata la persona che era con il mio compagno, ne approfittai per scappare e diedi le spalle ad Evelyn, muovendo qualche passo.
    «Fermo lì, Roy Mustang!» mi bloccò una voce, e non era quella di Edward.
    Mi voltai come un automa, non riuscendo a sostenere gli sguardi di nessuno dei tre. Persino Jason mi osservava con quel solito ditino sulle labbra. Figlio traditore! Ridacchiando nervoso e come un ebete, ritornai sui miei passi, venendo immediatamente fulminato da due sguardi penetranti. Edward sembrava vagamente incazzato e gettava occhiatacce ad Evelyn, che sbatteva perplessa le ciglia come se non capisse la situazione. Ero pronto a scommettere che, se avesse potuto, il mio biondino l’avrebbe incenerita. Lo sguardo peggiore, però, me lo stava rivolgendo mia madre. Aye, esattamente... mia madre. Aveva gli occhi infuocati, l’avevo vista così soltanto quand’ero poco più d’un bambino di nove anni ed aveva litigato di brutto con uno dei suoi amanti. «Mamma, Edward...» feci con un tic nervoso all’occhio, deglutendo.
    Gli sguardi non cambiarono di una virgola, anzi, si intensificarono. A passo di marcia, mia madre si avvicinò, pungolandomi il petto con il solito dito tempestato di brillanti anelli. «Figlio degenere!» esclamò. «Una povera donna come me passa a trovarti e cosa vengo a sapere?! Che ti hanno trasferito in questo sputo di città?!»
    Ecco, ti pareva... l’avevo anche annotato che avrei dovuto chiamarla per avvertirla, e a lei quand’è che veniva in mente di andare dal figlio? Semplice: dopo due anni di trasferimento. Gettai un’occhiata ad Edward, ancora in silenzio con Jaz tra le braccia, e poi ad Evelyn. Che cazzo di giornata, quella! Non me ne potevo andare a lavoro come ogni mattina, no... doveva venirmi la brillante idea di passare un po’ di tempo con Jason al parco giochi. Maledizione a me e alla mia stupidità...
    Prima che potessi provare in qualche modo a replicare, mia madre parve finalmente accorgersi della presenza di Evelyn - rimasta a sua volta in silenzio nonostante avesse cercato di dire qualcosa - e, con occhio critico, la squadrò, lasciando poi che un’espressione sorpresa le si dipingesse sul viso perfettamente truccato. «Evelyn, cara!» esclamò tutta pimpante, dimentica di me. «Non ti avevo proprio riconosciuta! Sono anni che non ti vedo, tesorino! Stai benissimo!»
    Resistetti all’impulso di ficcarmi un dito in gola e vomitare. Quando faceva così, utilizzando quella voce, diventava stomachevole, e a giudicare dal viso di Edward, avrei giurato che stesse pensando la stessa cosa.
    Ivy sorrise, inclinando un po’ la testa di lato. «Anche lei, signora Angelica, ha sempre il bell’aspetto d’una volta», ribatté cordiale, e dovemmo assistere a quello scambio di convenevoli tra donne per ancora parecchio tempo. Poi, ciarliera e divertita, mia madre s’allontanò da noi e si portò via anche Evelyn, accomodandosi con lei e ricominciando a chiacchierare come due vecchie amiche.
    Io rimasi solo con Jason ed Edward. Quel suo sguardo dorato sembrava ardere, e nel vero senso della parola! «Chi è quella?» mi chiese con voce esageratamente pacata, ed era quando aveva quella sfumatura che dovevo cominciare a preoccuparmi sul serio.
    Mi grattati una guancia, sforzandomi di sorridere nonostante quegli occhi infuocati. Jason faceva saettare la sua attenzione da me a Edward, come se cercasse di capire quello che stava succedendo fra noi. «Ehm... una vecchia compagna d’Accademia», me ne uscii, vedendo il suo sguardo assottigliarsi.
    S’issò meglio fra le braccia Jaz, assumendo un cipiglio a dir poco sarcastico. «Solo?» chiese, ignorando la manina del nostro moretto che cominciava a giocherellare con i suoi capelli.
  Ancora più a disagio, indietreggiai un po’. Meglio tenersi fuori dal suo raggio d’azione. «Una... amica?» provai, rendendo la mia affermazione una domanda. Lo sguardo di Edward si intensificò maggiormente mentre una mano allontanava quella di Jason, che vidi subito dopo imbronciarsi per quel modo di fare. Non c’era scampo, mi toccava rispondere nonostante mi immaginassi già la reazione. Addio serata bollente fra le candide lenzuola. «D’accordo, d’accordo...» cedetti, ritrovandomi a deglutire. «É una mia ex...»
    A quella mia confessione, lui sollevò un sopracciglio. Il suo viso sembrava rosso, e non per l’imbarazzo. «Ah... una tua ex», commentò, prima che gli occhi di Jaz si appuntassero su di lui. Lo guardava incuriosito, soppesando attentamente il suo colorito.
    «Anche tu sei rosso, ‘To-san...» fece innocente, e fu per miracolo che resistetti all’impulso di strapparlo dalle braccia del mio compagno e correre via il più lontano possibile prima che potesse dire qualcos’altro. Sperai che Edward non dicesse nulla e non chiedesse niente, ma, come al solito, le mie speranze furono vane.
    «Rosso?» gli domandò, perdendosi in quei laghi azzurri.
    Annuendo energico, Jason mi indicò con un ditino, muovendosi un po’ fra le sue braccia.  «Anche ‘Ka-san è diventato rosso, prima», parve spiegargli. «Guardavamo la collana della signorina ed è diventato rosso».
    Gli occhi di Edward si spostarono dal viso di Jason fino ad Evelyn, adocchiando con aria tutt’altro che tranquilla la camicetta che indossava. D’accordo, ammettevo che se si guardava bene si vedeva più del dovuto, ma... «‘Ka-san non guardava la collana, Jaz», fu il lapidario commento di Edward, che fermò anche i miei pensieri. «Guardava un altro tipo d’accessorio».
    Ciò detto, con espressione impassibile, mi sorpassò e si accomodò a sua volta sulla panchina, senza degnare me di uno sguardo.
Aveva fatto sedere Jaz sulle ginocchia, facendo finta che oltre a lui non esistesse nessun altro; però, quando Evelyn gli rivolse la parola rispose, con il sorriso dipinto in volto, cominciando a chiacchierare animatamente e facendola ridere subito dopo. Mi guardò, a sua volta con un sorriso sulle labbra. Perché prevedevo guai soltanto per me? La risposta era ovvia. Quando succedeva qualcosa, la causa ero sempre io, indiscutibilmente vero.
    Come un cane bastonato, mi riavvicinai a loro, tenendomi sempre a debita distanza. Era meglio stare lontani dal leone, in quel momento.
    «Roy-chan, vieni qua e siediti», mi richiamò mia madre, picchiettando il lato vuoto della panchina. Però scossi la testa come un bambino, soprattutto quando vidi che il posto libero era proprio accanto ad Evelyn. Ci mancava solo quella...
    «Vada a sedersi, Generale», rincarò la dose Edward, chiamandomi con il mio grado e parlandomi in tono esageratamente formale. Nemmeno quando non stavamo insieme aveva mai usato quella voce. Cazzo, era incazzato davvero.
    Stringendomi nelle spalle, strascicai i piedi, ma mi avvicinai soltanto, senza sedermi. Presi invece il mio orologio d’argento, controllando l’ora. «Come si è fatto tardi», feci, sperando che mi lasciassero andare. «Credo sia ora di tornare a casa, Jason deve mangiare...»
    «Ma no, Roy-kun, tua madre e il tuo compagno mi stavano raccontando così tante cose...» ribatté Ivy, con voce un po’ imbronciata.
    Stavo per rispondere, quando in un secondo momento mi accorsi di una cosa. Sbagliavo o aveva detto... il mio compagno? Ecco spiegato il perché della sua risata... l’aveva presa bene, a quanto sembrava. Chi dei due glielo avesse detto era un mistero, oppure il termine compagno era retorico e voleva solo intendere sott’ufficiale? Era meglio non indagare su quella cosa e lasciar passare quelle parole. Così, fui costretto a sedermi e a sorbirmi gli sguardi di Edward fino alla fine della chiacchierata. Era quasi il tramonto quando Evelyn ci salutò, tornando a sua volta a casa dopo aver scoccato un bacetto sulla guancia a Jason che le sorrise, agitando una mano.
    Nel mio appartamento, l’atmosfera era diventata opprimente. Seduti tutti a tavola, mangiavamo, o almeno mia madre mangiava, mentre io non riuscivo a mandare giù nemmeno un boccone. Edward faceva invece mangiare Jaz, che giocava divertito. Quelle rare volte che il mio biondino veniva a South City, Jason se ne approfittava quanto poteva. Quando fu l’ora di dormire fu sempre lui ad infilargli il pigiama e a coricarlo a letto, tornando poi in cucina con quella solita espressione vacua.
    «É stata una bella sorpresa trovare Evelyn, vero, Roy-chan?» subito attaccò bottone mia madre, proprio per farlo apposta. Siccome lei e Edward non avevano un buon rapporto se ne approfittava per provocar zizzania.
    É tua madre, mi ripetei, non puoi darle fuoco. Ma, cazzo! La voglia era tanta!
    «Oh aye, una sorpresa davvero splendida», rispose per me Edward, tornando ad accomodarsi prima di lanciarmi un’occhiataccia. «É una donna davvero simpatica, Roy-chan».
    La cosa stava degenerando, se mi chiamava anche lui in quel modo. Deglutii ancor più a disagio, trovando l’acqua che stavo sorseggiando fin troppo calda. Anche per quella mi si era chiuso lo stomaco, perfetto.
   
«Ci ha fatto vedere anche le foto dei suoi figlioletti, non erano due amori?» riprese mia madre senza dar il minimo peso a Edward, riempiendosi ancora il bicchiere di liquore. «Sarebbero stati proprio due angioletti come nipoti!»
    Sentii il sinistro crepitio del vetro e vidi Edward con la mano serrata sul suo, di bicchiere. Lo stringeva con l’auto-mail e, se avesse stretto ancora, l’avrebbe fatto a pezzi. «A differenza della loro nonna», replicò lui, con una voce che mi parve gutturale e davvero spaventosa. «O del loro papà», soggiunse, scoccandomi un’ennesima occhiataccia.
    Perché mi trovavo intrappolato fra due fuochi? Perché proprio io, maledizione?! In quel momento io, l'alchimista di fuoco, avevo il terrore di restare bruciato. Un punto per me o un punto per loro? Sarebbe stato difficile dirlo.
    «Io non direi, invece», fece ancora mia madre dopo aver ingollato un sorso di whisky. Perché avevo come la vaga impressione che si stessero sfidando con lo sguardo, adesso? Forse perché era veramente così. Continuarono con quel botta e risposta per un tempo che non riuscii a definire e durante il quale io non misi bocca, sentendo solo una forte e prepotente emicrania.
    Quando finalmente tutto tacque e ognuno se ne andò a dormire, era quasi mezzanotte.
Dopo aver preso qualcosa per far passare il mal di testa ero andato a controllare Jason, trovandolo saporitamente addormentato nel suo lettino con il suo solito pupazzo stretto al petto. Quel coniglietto non lo lasciava mai. Sorrisi e gli scompigliai affettuosamente i capelli prima di uscire in corridoio, dove gettai poi un’occhiata nella mia camera, ormai diventata proprietà di mia madre. Andava sempre a finire in quel modo, tanto. Il divano letto nel soggiorno invece se l’era accaparrato Edward, cacciandomi anche da lì. Gli avevo chiesto dove avrei dormito, e lui se n’era uscito con un “Dormi sul tavolo della cucina. 
    Mi trovavo quindi seduto su una sedia a sfogliare qualche libro, uno di quei tomi pesanti che mi avrebbero permesso di addormentarmi anche in quella posizione scomoda, però sembrava che non riuscissi a prendere sonno nemmeno con quelli. Ero un vero e proprio caso disperato. Sbuffando, mi scompigliai i capelli, passando non so quanto tempo a leggere pagine su pagine. Erano quasi le due passate quando sentii la presenza di qualcun altro nella cucina.
    «Ancora sveglio, idiota?» mi salutò la voce di Edward in tono sarcastico, facendomi voltare appena verso di lui prima di chiudere il libro.
  Sbadigliai, ma non avevo sonno. Era solo la noia. «L’idiota in questione non riesce a dormire», ribattei con lo stesso tono, decidendo di non dargli peso e far finta di nulla. Okay, mi stavo comportando come un bambino... ma anche lui non doveva farmi quella scenata di gelosia, che diamine!
    «Non dormiresti nemmeno se ti tramortissi», replicò ancora una volta il mio compagno, scostando una sedia per accomodarsi. Quel suo sguardo non era cambiato di una virgola. Mi ritrovai a sbuffare e a distogliere il mio, imbronciandomi. Che avrei dovuto dire, in mia discolpa? Assolutamente nulla. «Sei un cretino, sappilo», mi richiamò ancora lui, e mi voltai per osservarlo. «Non credevo ti interessassero ancora i seni prosperosi».
    Borbottai fra me e me. Un attimo di debolezza e via, venivi subito catalogato come infedele per aver solo guardato. «Non ho detto che mi interessano», trovai finalmente il coraggio di parlare.
    «Però hai guardato», fece subito, stroncandomi qualsiasi altra parola.
    «Non farmi un’altra scenata di gelosia, adesso».
    «Io? Scenata di gelosia?» ripeté scettico, arcuando un sopracciglio. «Non ho alcuna intenzione di fartela, ma se vuoi trastullarti con le tue ex o altre fammi il favore di non portarti Jason».
    Ahi, ahi, ahi... cos’erano adesso quelle parole? Che credesse che incontravo donne, lì a South City? Mi voltai verso di lui, serio in volto. «Guarda che hai capito male», ci tenni a precisare. «Avevo portato Jaz a giocare, lei è capitata nel parco per caso».
    «Adesso si dice per caso?» chiese sgarbato, con’inconfutabile nota amara nella voce.
    «Ed, sto dicendo davvero, perché dovrei mentirti?» fu il mio turno di domandare. Sollevò di nuovo un sopracciglio, forse con aria pensosa. Prima che potesse aprir bocca, però, gli poggiai un dito sulle labbra, decidendo di prender parola io. Non volevo che credesse cose non vere sul mio conto. «Due anni fa, prima di lasciare Central, ti ho detto che non ci sarebbe stato nessun altro, no?» gli dissi, riprendendo quel vecchio discorso. «Perché allora vuoi dipingermi in questo modo?»
    Allontanò il mio dito con fare un po’ nervoso, corrugando le sopracciglia come offeso, ma avrei dovuto esserlo io!  «Perché sei un libertino senza speranza...» ribatté piccato, imbronciandosi. Però vedevo che, pian piano, stava lasciando cadere quella maschera acida che si era creato.
    Mi ritrovai in piedi ancor prima che me ne rendessi conto, andando ad abbracciarlo, e lo sentii irrigidirsi un po’, come sorpreso. «Sei uno scemo...» bisbigliai, chinandomi verso il suo orecchio. «Come puoi pensare che riesca a trovare altrove qualcuno con il tuo bel culetto?» Provai ad alleggerire la tensione in quel modo, e fui lieto di sentire appena uno sbuffo divertito.
    «Sempre il solito, eh?» fece lui in risposta, voltandosi appena per incrociare il mio sguardo. «Ma guarda che ci vuole più di qualche bella parola con me». E dopo quella sua constatazione, non potei fare a meno di stirare le labbra in un sorriso ancor più grande e vagamente malizioso.
    Gli sfiorai il lobo con le labbra quando mi chinai ancora, sentendolo trattenere un fremito. «E chi ha detto che ho solo le parole a mia disposizione?» replicai, in un rauco sussurro che fece vibrare contro di me il suo corpo. Feci scivolare una mano lungo tutta la bianca canotta che indossava, sentendo la consistenza dei suoi capezzoli nascosti alla vista indurirsi sotto il tocco delle mie dita. Gli sfuggì dalle labbra un sospiro mentre, sempre più piano, scendevo a carezzargli poco al di sotto del petto fino a scendere ancor più giù.
    Inarcò la schiena afferrando il mio pigiama, poggiando la testa contro di me quando cominciai a sottoporlo ad una lenta e lussuriosa tortura. Un gemito gli salì alla gola quando intensificai il contatto, lasciandolo paonazzo. «Maledizione a te... Roy Mustang», ansimò, stringendosi fra le mani un lembo del mio pigiama. «Approfitti del fatto che non... lo facciamo da tanto...»
    Ridacchiai contro la sua pelle divertito, senza interrompere quelle carezze. «L’amore è anche guerra...» lo presi in giro, succhiandogli il lobo per stuzzicarlo con i denti prima di allontanarmi e soffiargli nell’orecchio. «E in guerra serve strategia...»
    Lo sentii apprezzare quel mio tono e quel mio modo di fare, sorridendo piacevolmente soddisfatto quando un bel peso morbido s’assestò vulnerabile contro il mio palmo. «Sul divano letto», fece imperativo Edward, ansimante e rosso in viso. «Subito».
    Non me lo feci ripetere due volte. Allontanai la mano per permettergli di alzarsi e, nonostante le gambe malferme, si spinse contro di me baciandomi con trasporto, spingendomi lui stesso fino al soggiorno. Gettatomi sul divano, s’avventò vorace sul mio collo, lasciando che il suo piacere strusciasse silenzioso contro di me.
    Sorrisi. Qual modo migliore per farsi perdonare, in fondo?






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Capitolo 28
*** [ Storia Fuori Serie ] Letture notturne e rare mattine ***


Heart burst into fire_Episode 28 Titolo: Letture notturne e rare mattine
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 2171 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 28: LETTURE NOTTURNE E RARE MATTINE

    Mi costrinsi ad aprire gli occhi con un mugolio, sentendo una vampata di calore investirmi il viso. La notte, il caldo che si pativa a South City era terribilmente afoso; anche con tutta la finestra spalancata, non un alito di vento entrava a portare refrigerio.
    Assonnato sentii qualcosa contro di me e, quando chinai lo sguardo, scorsi la testolina mora di Jason, accoccolato fra le mie braccia con uno dei suoi pupazzi. Sembrava aver caldo anche lui visto l’espressione del viso, ma non aveva intenzione di sciogliere l’abbraccio, dato il modo in cui mugugnò infastidito quando cercai di fargli allentare la presa. Quel che mi rimase da fare fu solo trarre un lungo sospiro sconsolato e sperare che mi riaddormentassi alla svelta, ma l'afa era insostenibile e rendeva il tutto più difficile. Quel che era peggio, era che non potevo muovermi per non svegliare anche Jaz.
    Riuscii a girarmi  un po' e affondai il viso nel cuscino, sentendo le sue braccia stringermi maggiormente i fianchi. Dopo poco, mi ritrovai letteralmente in faccia il pupazzo che si era portato dietro, poi le sue mani cominciarono a scuotermi delicatamente, simbolo che si era svegliato.
    «‘Ka-san...» mormorò nella penombra, tirandomi qualche ciocca di capelli per provare a richiamare la mia attenzione.
    Corrugai le sopracciglia senza aprire gli occhi, sdraiandomi a pancia in giù libero dal suo abbraccio. «Torna a dormire, Jaz...» borbottai, provando a riprendere sonno, ma sentii di nuovo il suo pupazzetto poggiato su una mia spalla. Subito dopo avvertii anche le sue mani, piccole e calde.
    «Fa caldo per dormire, ‘Ka-san...» si lamentò con voce morbida, tipica dei bambini della sua età. Ancora non ci credevo che fossero passati quasi quattro anni, dacché ci trovavamo lì a South City a vivere senza Edward. E lui era rimasto un adorabile frugoletto. «Non ho più sonno...» aggiunse, ricominciando a scuotermi.
    Con un ennesimo mugolio, voltai la testa nella sua direzione, scorgendo a malapena il suo viso al di sotto della mia frangia nera; mi portai una mano fino alla testa e me la scostai, ravvivandomi i capelli all’indietro. «É ancora notte...» mi lagnai in risposta, come se fossi io il bambino e non lui. «Domani hai scuola, Jaz, chiudi gli occhi e mettiti a dormire».
    «Ma non ci riesco, ‘Ka-san...» cominciò a brontolare, ristringendosi nuovamente al petto il suo orsacchiotto e imbronciandosi.
    Mi ritrovai a distendermi ancora una volta di schiena, strofinandomi il viso con una mano prima di guardare lui, con le palpebre mezze abbassate. Avevo un sonno bestiale e lui invece sembrava più sveglio di me. Gli anni si facevano sentire, forse? Sperai vivamente di no. «Sforzati, Jaz, andiamo...» mi ritrovai a pregarlo, sbadigliando sonoramente. «Domani ‘Ka-san deve andare a lavoro, e tu invece a scuola».
    Lo vidi imbronciarsi maggiormente e cominciare a giocherellare con il suo pupazzo, grattandogli la pancia o carezzandogli le orecchie. «Ma se domani non ci siamo, chi aspetta ‘To-san?» mi chiese, cambiando discorso.
    Stavolta sospirai invece di sbadigliare, costringendomi con tutta la forza di volontà che possedevo ad aprire completamente gli occhi e guardarlo in viso. Gli feci cenno d’avvicinarsi nuovamente, perché ad alzarmi non ce l’avrei fatta. Troppo, troppo stanco. Si accoccolò ancora una volta fra le mie braccia scostandosi la frangetta corvina, sempre stringendo a sé l’orsacchiotto di peluche. «Domani Oto-san verrà direttamente a lavoro, Jaz», gli dissi, trattenendo uno sbadiglio. «Non passerà per casa, tornerà con me».
    Come spiegazione non era un granché, ma sembrò bastargli. Non mi chiese altro e restò in silenzio, e quasi credetti si fosse riaddormentato. Nemmeno controllai che avesse chiuso gli occhi, abbassai solo le palpebre cercando di tornare a dormire e riprendere il mio bel sogno. Il protagonista era Edward, e avevo detto tutto. Ma non ci riuscii, riaprendo presto gli occhi. Se fossi stato solo, magari, avrei pure continuato. Non fu solo quello a frenarmi, però, ma anche Jaz che, ripreso a scuotermi, mi chiamava insistente alla realtà dal mio regno di tepore sonnolente.
    Lo guardai di nuovo, sbadigliando per l’ennesima volta. «Jaz, ti avevo detto di dormire...» borbottai, strofinandomi un occhio con il dorso della mano. Si trovava in ginocchio sul materasso adesso, e aveva il viso più imbronciato di prima.
    «Leggiamo il nostro libro, ‘Ka-san?» mi domandò con voce sottile e ovattata, quasi cercasse di essere il più silenzioso possibile.
    Avrei sicuramente imprecato, se non mi fossi morso l’interno della guancia. Odiavo farlo davanti a lui. Non volevo prendesse cattive abitudini ma, cavoli, l’avrei fatto davvero tanto ero esasperato! Volevo soltanto dormire e aspettare il giorno seguente, così, almeno per quel mese, i miei sogni non sarebbero più stati tali. Mi facevo pietà da solo. Ancora una volta mi strofinai un occhio, incontrando i suoi azzurri, e cedetti, come mio solito, a quello sguardo così semplice ma intenso. «E va bene, prendi il libro...» bofonchiai, troppo stanco per contraddirlo.
    Con un sorriso, mi scoccò un bacio sulla guancia e scese svelto dal materasso, sgambettando in direzione della piccola biblioteca che avevamo e tornando subito dopo con uno dei tanti libri d’alchimia che gli avevo comprato fra le braccia.

    Mi drizzai a sedere, sbadigliando ancora, nell’esatto momento in cui lui si gettò sul letto e me lo porse, sempre sorridendomi.
«A che capitolo siamo arrivati?» gli chiesi, vedendolo girare le pagine distratto. Anche se sapeva leggere benissimo, a volte voleva che fossi io a farlo. Specialmente quel libro, che ormai stavamo leggendo insieme. Trovata la pagina giusta, lo girò verso di me e me lo porse, picchiettando sul titolo.
    «I diversi usi dell’alchimia e le varie provenienze», disse, come se stesse intrattenendo un altisonante discorso con uomini acculturati. Nessuno avrebbe mai detto che aveva soltanto sette anni o poco più. Guardandolo ne dimostrava un po’ meno, certo, ma quando cominciava a parlare d’alchimia erano tutte un altro paio di maniche. Dire che ero orgoglioso sarebbe stato poco.
    Un po’ più sveglio, gli sorrisi di rimando, poggiando la schiena contro la testata del letto.
«Dobbiamo leggere questo qui, allora?» domandai ancora, vedendolo annuire. Ben presto me lo ritrovai ancora stretto a me, infilandosi sotto il mio braccio quando me lo alzò. Sorrisi un po’, nostalgico, proprio come quella lontana notte di anni addietro in cui ci trovavamo tutti e tre insieme.
    Mi imposi di non pensarci oltre, anche perché avevo sentito un groppo in gola ben poco rassicurante. Forse avrei pianto se l’avessi fatto, chi poteva dirlo, euindi diradai ogni pensiero, concentrandomi sulla lettura di quel libro. Me lo sistemai per bene sulle cosce, con lo sguardo di Jaz puntato a sua volta sulle pagine. Schiaritomi la gola, altro non mi toccò che iniziare a leggere. «In altre Nazioni, il processo alchemico si fonda sui cinque elementi e i due contrari, precisamente yin e yang, associati alla luna e al sole e rappresentanti la parte passiva e femminile, e la parte attiva e maschile...» cominciai, sentendolo farsi più vicino a me.
    Leggevo per lui concentrandomi e interessandomi a mia volta, scoprendo anch’io i vari usi che venivano fatti dell’alchimia nei svariati luoghi d’Amestris se non in altre Nazioni. Cerchi alchemici per curare le ferite, per ottimizzare il flusso sanguigno, molte e varie cose e via discorrendo. Jason cominciò a pormi domande come suo solito, interrompendo così la mia lettura per placare la sua insaziabile sete di conoscenza e la sua curiosità, ma una fra le altre mi stupì.
    Mi guardò serio, corrugando un po’ le fini sopracciglia scure. «Perché non mi insegni mai l’alchimia, ‘Ka-san?» mi chiese, con il volto particolarmente interessato mentre abbandonava per poco la lettura in cui ci eravamo tuffati.
  Non seppi cosa rispondergli. Il perché non gliela insegnassi, non lo sapevo nemmeno io. Sapevo bene che era portato per praticarla e che avrebbe anche imparato in fretta, ma c’era un qualcosa che mi frenava e non capivo quale fosse la ragione. Forse a disagio, mi passai una mano fra i capelli, guardando altrove. «Vedi, Jaz, non sono un bravo insegnate...» cominciai, come se quella cosa spiegasse tutto. «Mi piacerebbe insegnartela, ma non saprei proprio da dove cominciare...»
    «I libri non la insegnano bene?» chiese ancora, rapendomi lo sguardo con quegli occhioni azzurri.
    Allungai una mano verso di lui e gli scompigliai piano i capelli, vedendolo arricciare contrariato il naso quando alcune ciocche gli finirono in viso. «Alcuni insegnano le basi», gli spiegai, quasi eloquente. «Ma ci vuole soprattutto pratica».
    «Allora domani me ne compri uno?» domandò speranzoso, e non potei dirgli di no.
    Ancora una volta, gli scompigliai la zazzera mora, ritrovandomi a sorridere. «Prima di tornare a casa, io e Oto-san passeremo in libreria, okay?» dissi, e ridendo spensierato mi saltò al collo, facendomi sfuggire il libro di mano.
    «Quindi posso iniziare, vero?»
    Ero un po’ restio, certo, ma se voleva imparare non potevo mica impedirglielo. Così acconsentii, abbracciandolo prima che, incitato da lui, ricominciassi la mia lettura. Se ne andarono un bel po’ d’ore, e forse fu solo dopo l’alba che ci addormentammo, l’uno abbracciato all’altro con il libro ancora aperto sulle mie gambe.
    A stuzzicarmi e a risvegliarmi parzialmente, fu un raggio di sole che filtrava dalla finestra e una voce insistente che mi chiamava; avevo sentito altri rumori e mi venne naturale agitare un po’ una mano, scocciato. «Jaz, Oka-san è stanco, lasciami dormire...» borbottai, continuando a muovere la mano nel vuoto mentre cercavo di riaddormentarmi, ma fui costretto ad aprire gli occhi quando un paio di labbra si posarono sulle mie. Morbide, piene. Quelle labbra che ormai conoscevo bene.
    Scombussolato, le sbattei, drizzandomi un po’ a mezzo busto per sorreggere il mio peso su un gomito, mentre con una mano mi scompigliavo i capelli. Jason dormiva ancora accanto a me, abbracciato però al suo orsetto. Guardai Edward, come se non me ne capacitassi. «Non avevi detto che... saresti venuto al Quartier Generale?» gli chiesi tra uno sbadiglio e l’altro, scorgendo fra le ciglia offuscate da qualche lacrima il suo viso sorridente.
    Edward si sedette sul materasso con delicatezza, probabilmente per evitare che Jaz si svegliasse. «Ci sono stato, al Quartier Generale», mi disse, allargando il sorriso. Senza capire, mi grattai la testa, cercando di mettere a fuoco le sue parole, ma ero troppo stanco per riuscirci. «Abbiamo anche provato a rintracciarti, sai?» continuò con tono più ironico. «Il telefono ha squillato a vuoto per una buona decina di minuti, prima che decidessi di venire direttamente qui».
    Sollevai un sopracciglio, drizzandomi stavolta a sedere. Un altro sbadiglio mi scappò, e mi coprii la bocca con una mano. «Ma che ore sono?» chiesi, strofinandomi entrambi gli occhi come un bambino.
    Si sporse un po’ verso di me sfiorandomi ancora una volta le labbra con le sue, controllando prima che Jason stesse ancora dormendo. «Le undici passate», rispose semplicemente, e a quel punto sgranai gli occhi.
    «Miseria ladra!» esclamai, e Edward mi tappò subito la bocca, ammonendomi, ma troppo tardi. Fu proprio il mio urlo a disturbare Jaz e a fargli aprire gli occhi. Se li strofinò a sua volta con un cipiglio corrucciato dipinto sul suo bel faccino, borbottando tra sé e sé per il brusco risveglio, abbandonando il suo orsacchiotto sul cuscino.
    «Stavo dormendo ‘Ka-san...» si lamentò, alzando gli occhi azzurri su di me. Tutta quell’aria imbronciata, però, sfumò non appena vide Edward, e proprio come avevo fatto io, aprì del tutto gli occhi riacquistando lucidità, ma per un altro motivo. Si gettò fra le braccia di Edward con impeto, abbracciandolo stretto. «Che bello che sei qui, ‘To-san!» esclamò stavolta lui, strofinando il viso contro la sua spalla sinistra prima di guardarlo negli occhi. «‘Ka-san aveva detto che ci saresti stato solo la sera!»
    Edward sorrise e si chinò un po’ alla sua altezza per baciargli i capelli, affettuoso. «Ma tu e la tua Oka-san avete fatto tardi», disse, come se c’entrasse qualcosa. «Quindi sono venuto a casa da solo». In un secondo momento, si accorse del libro, mezzo aggrovigliato nelle lenzuola leggere. Sollevò in modo ironico un sopracciglio biondo, lanciandomi un’occhiata di sbieco. «Avete letto di notte?» domandò, quasi con tono ovvio. Lo sguardo complice che ci lanciammo io e Jaz non lasciò spazio a fraintendimenti. Edward alzò gli occhi al soffitto, scuotendo come sconsolato la testa. «Che devo fare con voi due...» borbottò, ma in tono vagamente spassoso.
    Che eravamo entrambi un caso perso si sapeva. Quelle rare mattine che ci trovava a dormire, infatti, era sempre perché avevamo fatto notte fonda a leggere un qualche libro d’alchimia. Ma proprio lui non avrebbe dovuto mettere voce in capitolo. Era il primo a fare le ore piccole quando si trattava di quello, e anche di altro, se il letto lo divideva con me.
    Quelli, però, erano momenti a cui non avremmo mai detto di no.
Noi tre nuovamente insieme, come se tutto fosse normale, come se non fossimo divisi ma fossimo insieme. Uniti, proprio come anni prima.






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Capitolo 29
*** [ Storia Fuori Serie ] Scelte e decisioni ***


Heart burst into fire_Episode 29 Titolo: Scelte e decisioni
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist

Tipologia: One-shot [ 1875 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale, Triste
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?



FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.



[ STORIA FUORI SERIE ] EPISODIO 29: SCELTE E DECISIONI

    «Roy, vieni a letto», mi richiamò Edward dalla soglia del bagno, e vidi il suo profilo riflesso nello specchio quando alzai il viso dal lavandino. Era poggiato allo stipite della porta con indosso solo i boxer per colpa del gran caldo, il viso assonnato e i capelli ormai quasi del tutto sciolti sulle spalle.
    Mi trovavo in bagno già da un po’ di tempo, ad osservare le mie cicatrici. La cauterizzazione completa era ancora lenta, soprattutto sulla palpebra, dove si vedeva ancora qualche lembo di pelle rosea e un po’ ruvida. Iride e pupilla, ormai, si confondevano con la cornea. Non mi meravigliavo affatto che di primo impatto facesse ribrezzo, il primo ad essere rimasto sconvolto ero stato proprio io, ma era successo più o meno un mese e mezzo prima.
    Finii di tamponare con il panno caldo che reggevo la bianca cicatrice sulla guancia, l’unica che era quasi guarita del tutto. «Arrivo subito, vai a dormire», gli dissi, asciugando l’acqua dal viso.
    Un suo sospiro mi raggiunse, prima che si avvicinasse. Mi poggiò una mano su una spalla, togliendomi con quella d’acciaio il panno prima di gettarlo svogliato sul bordo del lavandino. «É quasi l’una, Roy», mi ammonì, prendendomi il mento per costringermi a guardarlo. «Vieni a dormire, ci pensi domattina». Fui io a sospirare, stavolta, allungando una mano verso la benda. La sua si posò sulla mia prima che potessi prenderla, facendomi nuovamente voltare appena verso di lui in modo da incontrare i suoi occhi dorati. Sul suo viso un po’ assonnato, s’era dipinta un’espressione tra il mesto e il severo. «Lascia stare, dai», mormorò, sfiorandomi una cicatrice e facendomi sussultare. «Se Jaz ti vede così, si demoralizza, lo sai».
    Chiudendo l’altro occhio, gli scansai delicatamente la mano, annuendo piano. Già si incolpava di suo, non ci volevo anche io a rincarare la dose. «Aye, lo so», feci mesto, sospirando. «Mi rimetto la benda e torno a letto, al resto ci penso domani», soggiunsi poi, vedendolo atteggiare il viso ad un’espressione ancor più seria.
    «Almeno la notte dovresti lasciarla scoperta», esordì lui, prendendola al mio posto. «Se la esponi, si cicatrizza più in fretta».
    Lo sapevo bene, ma era più forte di me. Certe volte ancora non riuscivo a vederla senza
disgustarmi. «D’accordo, ma domattina la rimetto», cedetti stanco. «Non voglio che Jaz la veda ancora».
    Tornammo a letto qualche attimo dopo, distesi sul materasso l’uno tra le braccia dell’altro senza però riuscir a prendere davvero sonno. Restai ad osservare un punto indefinito per parecchio tempo, sentendo pian piano Edward rilassare i muscoli nel sonno e allentare quindi la presa intorno ai miei fianchi, per cadere piacevolmente addormentato. Sorrisi un po’, cercando di seguire il suo esempio, ma inutilmente. Ogni qual volta chiudevo l’occhio destro, il sonno arrivato spariva d’un lampo.
    Facendo più attenzione possibile, scivolai via dalla sua presa, sgusciando silenzioso sulle scale per raggiungere la cucina al piano di sotto, dove mi sarei preso qualcosa per conciliare il sonno; vi trovai la luce accesa, scoprendo che non ero il solo a non riuscire a dormire. Jason sedeva al tavolo della cucina a sorseggiare un po’ di latte, con qualche biscotto a portata di mano se la fame avesse chiamato. Era così assorto che, quando entrai e mi vide, sussultò, e per poco non fece cadere il bicchiere. «Non volevo spaventarti», mi affrettai a bisbigliare, nascondendomi al contempo l’occhio con la frangetta come meglio potevo. «Non riesci a prender sonno?»
    Tornato allo stadio iniziale di placida tranquillità, lui scosse la testa, allungando una mano per prendere un biscotto e intingerlo nel latte. «Mi sono svegliato poco fa», disse, concentrato attentamente sulla sua colazione. «Ho provato a riaddormentarmi, ma fa troppo caldo».
    Emettendo un suono d’assenso, sbadigliai, avvicinandomi al tavolo per prendere la bottiglia di latte. «Dovresti esserci abituato», dissi ironico. «A South City era peggio». Non c’era sera, difatti, che non si morisse davvero di caldo.  Quand’era piccolo e dormiva a volte con me, molto spesso si scioglieva dai miei soliti abbracci e scalciava via le lenzuola, levandosi anche la canotta.
    Concorde, Jaz annuì, prima che vedessi di sfuggita l’occhiata che mi lanciò. Appena incrociato il mio sguardo, l’aveva difatti distolto, forse per l’aver visto che ero senza benda e l’aver scorto le cicatrici. Trassi un lungo sospiro accomodandomi, rubando anch’io qualche biscotto.
    «C’è qualcosa che non va, Jaz?» gli chiesi senza tanti giri di parole, bevendo intanto dalla bottiglia. E dovevo essere fortunato che Edward stesse dormendo. Gli dava un certo fastidio quel mio maledetto vizio.
    Jason mi guardò un’ennesima volta di volata e scosse la testa, mangiucchiando. «Nulla, ‘Ka-san», fece, poggiando un gomito sul bordo del tavolo per sorreggersi il viso. «Te l’ho detto, è soltanto per il caldo».
    «Crediamoci», asserii, bevendo un altro sorso prima di leccarmi le labbra.
    Restammo poi in religioso silenzio per un bel po’, l’unica cosa che lo rompeva scandendo lentamente il tempo era l’insistente ticchettio dell’orologio appeso al muro. Date le dimensioni della cucina, sembrava quasi assordante. O forse ero io a vederla in quel modo. La quiete notturna rendeva i suoni più alti e netti.
    «‘Ka-san?» mi richiamò Jason, e alzai l’occhio verso di lui per osservarlo. Rivolsi sul suo viso tutta la mia attenzione, cosicché decise di continuare. «Dopo il quinto anno, che venga bocciato o meno, tu e Oto-san siete disposti a farmi frequentare l’Accademia?» mi chiese, abbassando nuovamente gli occhi azzurri sul tavolino.
    Mi accigliai, sbattendo la palpebra. «Era a questo che pensavi?» domandai in risposta, vedendolo scuotere la testa.
    «Nay, in realtà mi è venuto in mente adesso», spiegò, cominciando a far vagare le dita sulla superficie di legno. «Mi sono ritrovato a riflettere un po’ seriamente sulla cosa».
    Mi oscurai, a quelle parole. Sapevo che per l'alchimia aveva un talento innato, e sapevo anche che sarebbe diventato un ottimo alchimista, se avesse fatto l’esame. Ma dopo quanto era successo, ero un po’ restio dal farlo arruolare. Le scelte però erano sue, presto avrebbe compiuto la maggiore età e io non dovevo intromettermi. Il pulcino doveva lasciare il nido. «Sei davvero convinto di voler entrare a far parte dell’esercito?» gli chiesi ancora, in tono neutro, costringendolo in questo modo a fondere i suoi occhi con il mio.
    Tentennò un po’ alla vista delle cicatrici, ma mi tenne testa. «Aye, ‘Ka-san», fece dopo poco, con aria risoluta. «Voglio dimostrare di saper fare qualcosa. Non posso dipendere sempre da voi né posso mettervi ancora in pericolo».
    «Jaz, tu non hai messo in pericolo nessuno», ripresi a quattro mani quel discorso, scuotendo la testa in un gesto d’impotenza. «Ti ho chiesto se sei deciso a seguire questa strada per un buon motivo. Spesso l’alchimia non ha usi benefici, nell’esercito».
    «É sfruttata come arma bellica, lo so», mi informò. «Ho sentito un po’ di cose del genere. Però voglio comunque diventare un Alchimista di Stato, ‘Ka-san».
    «Jaz...» lo richiamai ancora corrugando preoccupato le sopracciglia, come se volessi farlo desistere.
    Lui scosse la testa, forse per ammonirmi. «
É pure ora che metta un po’ la testa sulle spalle», continuò serio, poi mi fissò con i suoi occhi cerulei, prima che le labbra sottili si stirassero in un mesto quanto triste sorriso. «Dovrà pur esserci qualcuno che prenda il posto do alchimista di fuoco, prima o poi... no?» concluse per sdrammatizzare, nonostante gli vedessi in viso un’espressione che conoscevo bene. L’espressione della colpa. La colpa che poteva sentire solo chi usava l’alchimia per uccidere, quella consapevolezza che con un tuo schiocco di dita avevi sottratto la vita. E lui, troppo presto, aveva provato quell’orribile sensazione.
    «Se dici così, mi fai venire ancora di più il dubbio di darti il permesso di iscriverti», gli tenni presente, e stavolta fui io a chinare il capo per non incontrare più il suo sguardo. «Non fraintendermi, Jaz, so che hai delle potenzialità... ma sapere che potrebbe esserci l’eventualità che tu venga spedito in una qualche pericolosa missione o in una guerra...»
    Al solo pensiero, non riuscii a continuare. Il logorio che lasciava la guerra dentro gli animi era un peso enorme. Per quanto potesse essere forte di spirito, non sapevo se avrebbe resistito davvero. Dai miei pensieri mi distrasse un suo lungo sospiro, e lo vidi distrattamente osservare altrove, come se trovasse interessante chissà quale angolo della cucina.
    «Non è un capriccio, ‘Ka-san», disse poi, sempre senza guardarmi. «So che queste cose possono succedere. Ma io voglio diventare un Alchimista di Stato anche per aiutare te e ‘To-san».
    Quel suo motivo, però, a me non bastava. Facevo tante storie sul suo dover essere responsabile e cercare di crescere un po’, ma ero sempre stato più bambino di lui. E su quell’argomento non volevo dargliela vinta, dopo tutta quella storia. «Lo sai che io e Oto-san ce la possiamo cavare benissimo da soli», cercai ancora di farlo desistere, ma capivo che ormai era troppo tardi. Aveva preso la sua decisione, ormai. Non sarebbe tornato indietro.
    Jaz prese a rigirarsi il bicchiere ancora mezzo pieno tra le mani e a guardarlo non curante, come se stesse fintamente riflettendo sulle mie parole. Però, il suo viso intendeva ben altro. «L’hai detto tu che ho delle potenzialità, ‘Ka-san», fece distante. «Potrei esservi più utile lì al Quartier Generale o in missione, piuttosto che a svolgere qualche normale lavoro».
    Era peggio di Edward, indiscutibilmente vero. Quando si metteva in testa una cosa era difficile farlo desistere. Sospirai pesantemente, ben consapevole che aveva ragione. Se pur avesse trovato un lavoro come la maggior parte delle persone, il suo talento per l’alchimia sarebbe stato sprecato e relegato a futili mansioni. Avevo visto di cos’era capace, sapevo cosa riusciva a fare con la sua alchimia. E seppur anch’ioavessi deciso di diventare Alchimista di Stato per aiutare le persone, ritrovandomi poi in un massacro, davvero non riuscivo a veder lui prendere quel titolo. Non lo concepivo, purtroppo. «Mettiti nei nostri panni, Jaz», dissi, guardando con finta attenzione il tavolo. «Conosciamo i rischi del mestiere... e ti dirò la verità, sono preoccupato già da adesso».
    «Hai una scusa in più per diventare Comandante Supremo, allora». Il tono non era né sarcastico né derisorio, ma più vicino al volermi spronare. Difatti alzai lo sguardo con fare confuso se non stranito, vedendogli appena l’accenno d’un sorriso dipinto sulle labbra. Si era alzato in piedi, come pronto a tornarsene in camera sua. Non aggiunse altro e, posando soltanto i biscotti, si diresse verso la soglia della cucina per sparire in corridoio, rivolgendomi appena un veloce e sussurrato saluto. Io mi ritrovai invece a scuotere il capo, poggiando i gomiti sul bordo del tavolo per sorreggermelo, passandomi una mano fra i capelli prima di accarezzare piano le cicatrici.
    «‘Ka-san?» Un altro richiamo, la voce un po’ più leggera. Mi voltai verso la soglia, vedendo lui ancora lì in piedi. Non era tornato in camera e si stava grattando dietro al collo, vagamente imbarazzato. «Dici che sono grande per volere un abbraccio dalla mamma
    Sorrisi divertito e, scansandomi dal tavolino della cucina, allargai le braccia, come ad invitarlo. «Gli abbracci non si negano mai, scemo. Non hanno età».








_Note inconcludenti dell'autrice
Dopo mesi di latitanza, sono tornata anche io per questi lidi.
Non dirò il motivo del mio allontanamento, anche se alcuni - per lo meno le persone con cui parlo più frequentemente e che frequentano il sito, lo sanno almeno in parte. Ma come si dice: a buon intenditor, poche parole.
Sono, però, rimasta abbastanza dispiaciuta nel vedere la desolazione che ormai sembra riempire le pagine di EFP (E non parlo solo della sezione FullMetal Alchemist), quindi ho voluto comunque postare per terminare questa raccolta.
L'ultimo capitolo sarà postato il 10 ottobre, data in cui verrà celebrato a Tokyo l'evento che porta il nome di RoyEd Mariage.
Spero che le fan della coppia, se si trovano ancora qui in giro, vorranno contribuire in qualche modo.
Alla prossima.

_My Pride_


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Capitolo 30
*** [ Evento Roy/Ed Mariage › Missing Moment ] Until the end ***


Heart burst into fire_Episode 30
Titolo: Until the end
Autore: My Pride
Fandom: FullMetal Alchemist 

Tipologia: Flash Fiction [ 700 parole ]
Personaggi: Roy Mustang, Edward Elric
Genere: Slice of life, Sentimentale
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen ai, What if?

Benvenuti al banco dei prompt: Pacchetto introspettivo › 15. Domani


FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All Rights Reserved.


[ MISSING MOMENT ] EPISODIO 30: UNTIL THE END
We've always been walking together on parallel lines,
and that's what we'll keep on doing...
So I won't say goodbye,
'cause I'm gonna live here and always be walking by your side.
- Love Letter, chapter five -

    Il graffiare della stilografica sui fogli che stavo firmando rendeva quel silenzio sordo quasi irreale, esattamente come quando si riusciva a sentire a pelle la calma prima di una tempesta.
    Non più di un paio di giorni prima quell'ufficio in cui mi trovavo era stato completamente abbandonato anche dall'ultimo membro della mia brigata, lasciando completamente vuote le scrivanie che avevano ospitato proprio i miei sottoposti. Mi ritrovai a sospirare pesantemente, a quei pensieri, pronto a riprendere il mio lavoro o almeno a tentare di farlo, ma fu un pesante bussare alla porta e il rumore della stessa che si apriva a richiamare la mia attenzione, tanto che alzai rapidamente lo sguardo verso di essa, sbattendo più volte le palpebre quando vidi Acciaio.
Non potei nascondere a pieno lo stupore che si era dipinto sul mio viso, nel vederlo dritto in piedi sulla soglia del mio ufficio. E forse, polemizzò la mia mente, era proprio quella stessa figura bionda che stavo osservando in quel preciso istante che mi ero aspettato di vedere qualche giorno addietro. Adesso che era lì, però, uno strano senso d'oppressione e dejavù sembrava dirmi che la scena già accaduta con Hawkeye si sarebbe ripetuta.
    «Non mi aspettavo una tua visita», ammisi poi in tono quasi incolore, riprendendo almeno in parte il controllo di me stesso. «Pensavo fossi ancora alla ricerca di quello strano gatto».
    «È proprio per questo che sono qui
», si giustificò semplicemente, avanzando di qualche passo in direzione della mia scrivania. «Mi è parso giusto doverla avvisare della mia partenza».
    «Partenza?» ripetei, saggiando bene quella parola come se la stessi assaporando sulla lingua. Quel bizzaro senso di inquietudine che avevo provato pochi istanti prima ritornò prepotente, schiacciando quel poco di speranza che sembrava essermi rimasta. Ma gli regalai uno dei miei migliori e falsi sorrisi, forse più per rassicurare me stesso che lui. «Sei deciso ad andare, dunque?» gli domandai retorico, ben conscio della risposta.
    Difatti annuì, rendendo il suo sguardo dorato duro e deciso, ardente come in quella lontana mattina di quasi sei anni addietro.
«Devo farlo», mi rispose, con voce quasi rotta dall'emozione che cercava di contenere. «È la sola e ultima speranza a cui io e Alphonse ci siamo aggrappati».
    Quelle sue parole non mi stupirono affatto, quasi le avessi previste. Mi limitai dunque ad annuire appena a mia volta e ad alzarmi, abbandonando la mia postazione per avvicinarmi a lui e dargli una leggera pacca sulla spalla. «Allora fa' attenzione, Acciaio», mi sentii quasi in dovere di dirgli, nonostante sentissi, in cuor mio, che quelle semplici parole di circostanza valessero ben più di quanto sembrava.
    Come colto un po' alla sprovvista, lui sussultò, facendo scorrere quel suo strano sguardo ambrato dal mio viso alla mia mano, come se non se ne capacitasse, dando vita ad una piccola smorfia che faticai a comprendere. Annuendo nuovamente, si sistemò
la camicia nera che indossava - e che aveva ormai sostituito il sempre onnipresente cappotto rosso che si portava continuamente dietro -, socchiudendo appena gli occhi prima di darmi le spalle e cominciare ad avviarsi alla porta. «Non dico di volerla incontrare nelle vesti di Comandante Supremo», lo sentii dire poi «ma mi aspetto di trovarla almeno Generale, quando sarò tornato».
    Mio malgrado, mi ritrovai a sollevare un angolo della bocca mentre lo seguivo con lo sguardo, con quell'ansia sempre più crescente che aveva ormai completamente invaso il mio cuore. Ma, nonostante tutto, ero tranquillo. Forse perché sapevo - o volevo convincermi di sapere - che quel ragazzo che avrei visto andar via sarebbe realmente tornato, un giorno.
«Anche se forse ci vorranno anni per far sì che questo avvenga, Acciaio, mi sosterrai e resterai sempre al mio fianco?» domandai di getto, non riuscendo a frenare il fiume in piena che sembravano essere diventate le mie parole.
    Ormai pronto a lasciare l'ufficio si fermò sulla soglia, con una mano poggiata sullo stipite della porta e lo sguardo rivolto nel corridoio. Lo vidi voltarsi poco a poco e, sul viso di quel bambino che avevo praticamente visto crescere e diventare il ragazzo che avevo dinnanzi, sorse appena l'ombra d'un sorriso.
«Fino alla fine, Colonnello. Fino alla fine».






HEART BURST INTO FIRE: SHATTERED SKIES { STAND BY ME }
- TWO YEARS TOGETHER -
~ END ~







_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Eccomi, esattamente come promesso, nel giorno del RoyEd Mariage con l'ultimo capitolo di questa raccolta durata oltre due anni.
Sono passati due anni da quando quest'idea di fare una raccolta, nata da un semplice commento di chamaedrys su Proposal of Marriage, è cominciata.
Abbiamo riso insieme, affrontato i momenti di vita quotidiana - non sempre da definire normale - di Fuoco e Acciaio, e visto l'evolversi del loro rapporto giorno dopo giorno e anno dopo anno, negli attimi più disparati possibili. Avete conosciuto Jason, nato in un giorno lontano di ormai quasi tre anni addietro, a cui molti di voi - per vostra stessa ammissione - si sono affezionati, trovandolo il figlio perfetto di Ed e Roy.
Potrei spendere milioni di parole per ringraziarvi uno per uno per aver apprezzato questo personaggio, e per averlo amato con tutti i suoi pregi e difetti. Altrettante ne potrei spendere per i sorrisi che mi avete regalato con le vostre recensioni, molte delle quali, proprio perché quasi complici, mi hanno fatta ridere divertita, ma le parole non basterebbero comunque, dopo questi due anni che ci siamo lasciati tutti dietro. Anni in cui, ammettiamolo, il livello di EFP era maggiore.
Non voglio però trasformare queste note in un dibattito su quanto sia calato il livello di scrittura amatoriale rispetto gli anni scorsi (Prima ancora di iscrivermi lo seguivo da visitatore, quindi sono praticamente sei anni che bazzico qui in giro e ho notato troppo bruscamente il cambiamento), quindi passo a spiegare questa shot.
Trovata nel mio quadernetto degli orrori, originariamente questa storia sarebbe dovuta essere una piccola drabble, ma sistemandola, visto lo stile molto immaturo con cui era stata scritta, è diventata una specie di flash fiction. Non segue la restante linea della raccolta, consideratela infatti una specie di missing moment del manga, visto che l'avevo abbozzata quando uscirono le scan del volume 16.
Ho pensato che sarebbe potuta essere perfetta per chiudere la raccolta. Non si capisce esattamente cosa provino i due protagonisti l'uno per l'altro, se semplice ammirazione, gratitudine o amore, e ho voluto appunto giocare su questo. Persino la frase pronunciata da Edward è in linea con una possibile storia fra loro, o forse è solo come una frase detta da un sottoposto fiducioso del suo superiore.
Chiudo qui, adesso, abbracciando anche chi sta solo leggendo.


A chi mi ha seguita fin qui e a chi si è perso per strada, a chi commentava sempre e a chi si è aggiunto dopo, a chi ha solo aperto un qualsiasi capitolo per dare una sbirciata e a chi senza commentare leggeva soltanto... grazie.


~ Ringraziamenti ~
1 - 22volteME 
2 - Acquist
3 - aiko neko black
4 - aka_sama
5 - Akela 7
6 - AlexNatalie
7 - Alice_Wolf
8 - Ambiguo
9 - Amx89
10 - AngelSword
11 - ANOKIRA86
12 - Ashen
13 - athenachan
14 - AtobeTezuka
15 - aubry 
16 - auretta 
17 - avalon44
18 - Ayako Malfoy
19 - Baby Green Eyes
20 - BANAUS 
21 - BaronessSamedi 
22 - BeyondTheLimit 
23 - Blacasi
24 - BlondeFox04
25 - bollicina
26 - B_Ila
27 - camomilla17
28 - Cassidy11
29 - chamaedrys
30 - Cherry Berry
31 - Chihiro
32 - ciabysan
33 - Ciel88
34 - cola23
35 - Contessa Phantomhive
36 - Crown Clown
37 - dalsia
38 - Dark Sissi 89
39 - DarkAeris
40 - Death_Fanny
41 - DeepBlueMirror
42 - Dharma
43 - Dihanabi
44 - Dita di Polvere
45 - donnarosa
46 - donnarosa2
47 - Ecila
48 - Edo 
49 - eiden
50 - Eikochin
51 - elilogi
52 - elindor
53 - eLiSeTtA
54 - Elizaveta Hedervary
55 - Ely_Van Baust
56 - emilia_asr
57 - emmychan
58 - envy the alchemist
59 - Eril
60 - Ery Lily Vengeance Haner
61 - Exoticue
62 - FeggeElric
63 - FightClub
64 - Flame Drago del Fuoco
65 - FraGirl
66 - franci1978
67 - funke
68 - Fuyuchan
69 - gengy
70 - gessicat
71 - giaggia
72 - giagiotta
73 - giuls_31
74 - giuly89
75 - grazzzia87
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«Farewell?»
_My Pride_



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