Hearts Burst Into Fire di My Pride (/viewuser.php?uid=39068)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Questione di luce ***
Capitolo 2: *** Tutta colpa di Bradley ***
Capitolo 3: *** Strano regalo › Follia d'età ***
Capitolo 4: *** L'apparenza inganna ***
Capitolo 5: *** Lezioni ***
Capitolo 6: *** Fotoricordo ***
Capitolo 7: *** Prendere in giro › Ovvero, quando Roy Mustang viene chiamato vecchio ***
Capitolo 8: *** Diamoci... un taglio! ***
Capitolo 9: *** Capelli e stanchezza ***
Capitolo 10: *** [ Special di Halloween ] Dolcetto o scherzetto, Roy? ***
Capitolo 11: *** Milk Shake › Ovvero, come riuscire a far bere un po' di latte... ***
Capitolo 12: *** Tutte a me capitano! › Ovvero, quando Roy Mustang non riesce a... ***
Capitolo 13: *** Play... boy? ***
Capitolo 14: *** [ Flash Contest ] Strange Love Story › Il nostro inizio ***
Capitolo 15: *** [ Special di Natale ] Vigilia di Natale ***
Capitolo 16: *** [ Storia Fuori Serie ] Visita inaspettata ***
Capitolo 17: *** Mai giudicare un libro dalla copertina! ***
Capitolo 18: *** [ Storia Fuori Serie ] La colpa è sempre della tua mamma ***
Capitolo 19: *** [ Storia Fuori Serie ] L'imprevisto porta un nome ***
Capitolo 20: *** [ Flash Contest ] [ Storia Fuori Serie ] Beata Innocenza ***
Capitolo 21: *** [ Storia Fuori Serie ] Tenere pesti › Distrazioni ***
Capitolo 22: *** Sorprendersi › Quando accade l'impensabile! ***
Capitolo 23: *** [ Storia Fuori Serie › Special di Halloween ] Stupidaggini ***
Capitolo 24: *** [ Storia Fuori Serie ] “Scherzi” ***
Capitolo 25: *** [ Storia Fuori Serie › Special di Natale ] Regalo di Natale ***
Capitolo 26: *** [ A contest, a rose and a story ] [ Storia Fuori Serie ] “Rosa Canina” ***
Capitolo 27: *** [ Storia Fuori Serie ] Vecchie conoscenze ***
Capitolo 28: *** [ Storia Fuori Serie ] Letture notturne e rare mattine ***
Capitolo 29: *** [ Storia Fuori Serie ] Scelte e decisioni ***
Capitolo 30: *** [ Evento Roy/Ed Mariage › Missing Moment ] Until the end ***
Capitolo 1 *** Questione di luce ***
Heart burst into fire_Episode 1
[
Terza classificata
al «Flash Contest» indetto da
Addison89 { 14 / 20 } ]
[ Sesta classificata
al «A contest, a rose and a story!»
indetto da Roy Mustung sei uno gnocco { 26 } ]
Titolo: Questione di luce
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 333 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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EPISODIO
1: QUESTIONE DI LUCE
Vagando
a tentoni nell'oscurità, cercavo di
raggiungere il generatore.
Fuori pioveva a dirotto, e i fulmini e
lampi che cadevano di tanto
in tanto avevano fatto scattare l'interruttore del contatore
principale, facendo così mancare la luce. E a chi toccava
andare a
ripristinare il tutto? A
me, ovvio. Un lampo improvviso illuminò la
stanza in cui mi ero ritrovato, facendomi imprecare a denti stretti
quando mi resi conto di dove fossi. Perfetto, avevo
sbagliato direzione... ero in cucina. Adesso mi sarebbe toccato
camminare a ritroso fino al salotto per
sbucare all'ingresso, perfetto.
Feci dietro front ma, dopo nemmeno
qualche passo, inciampai nel
mobiletto nel bel mezzo del corridoio e sentii un rumore sinistro che
non mi piacque per niente, ancor meno quando l'inconfondibile suono di
un vaso in frantumi aleggiò per tutta la casa. Imprecando
fra i denti e
stando attento a dove mettevo i piedi - ci mancava solo che mi ferissi,
visto che ero scalzo e non avevo minimamente pensato a quell'incidente
di percorso -,
portai una mano in avanti per evitare eventuali
ostacoli o muri; prima di passare la soglia del soggiorno,
però, vidi una luce
giallastra accesa nella nostra camera da letto. Che quel fagiolino
avesse trovato
una torcia?
Tenendo come punto di riferimento quel
fascio di
luce,
attraversai il
corridoio fino ad entrare nella stanza, dove, accesa sul comodino,
l'abat-jour illuminava il volto di Edward, che si stava grattando
distrattamente una guancia. Boccheggiai e lo indicai, ottenendo in
risposta solo una sua breve scrollata di spalle.
«Beh, scusa tanto se ti ho
fatto alzare per
andare a
controllare il contatore», disse con
tranquillità inaudita, per quanto nella sua voce avessi ben
udito anche una nota non tanto velata di sarcasmo.
«Come
mai abbiamo la luce?» chiesi, sbattendo le palpebre con fare
incredulo mentre mi avvicinavo.
Mi ero dovuto alzare... per
cosa, esattamente?
Con non curanza, Edward si
allungò per prendere le mutande gettate sul
pavimento e
poi, guardandomi fintamente dispiaciuto, unì gli indici e
abbassò il capo. «Si
era solo fulminata la lampadina».
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Capitolo 2 *** Tutta colpa di Bradley ***
Heart burnst into fire_Episode 2
Titolo: Tutta colpa
di Bradley
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 659 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, King Bradley
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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EPISODIO
2: TUTTA COLPA DI BRADLEY
Tanto
per
cambiare, come ogni anno, a casa del Comandante Supremo si sarebbe
tenuto uno
stupido ballo in maschera a tema, giacché al vecchio Bradley
era
sempre piaciuta l'idea di pensare ad espedienti sempre nuovi per
intrattenere i propri ospiti. Io pensavo solo si divertisse a mettere
in ridicolo tutti noi, ma quello era un parere che, per il momento,
preferivo tenere per me senza parlarne a terzi.
Buttai le pratiche appena firmate nel
contenitore, sbadigliando
annoiato. Fosse stato
per me non ci sarei mai andato, ma era utile per avvicinarsi pian
piano, un gradino
alla volta, ad una possibile promozione che mi avrebbe ulteriormente
avvicinato alla carica di Comandante, ed era solo per quel motivo se mi
trovavo immischiato in quella
storia. L'ultima volta mi era toccato indossare una normalissima
maschera nera con un piumino sull'occhio, quindi che cosa mai sarebbe
potuto andare storto, a parte la noia?
Fu un lieve picchiettare alla porta a
distrarmi dai miei pensieri, ma, quando alzai lo
sguardo, restai sorpreso nel vedere la figura di Edward: indossava una
camicia bianca e una gonna a pieghe in tessuto di
tartan, e sulla spalla, assicurato
da una spilla d'argento, portava
uno scialle della medesima trama; ricadeva in un aggraziato
drappeggio interrotto da una cintura borchiata, ma continuava in
uno strascico oltre i polpacci fasciati da calze di lana fino agli
stivali di pelle. Sul davanti della gonna, inoltre, portava una specie
di borsetta di
cuoio in pelo, e i capelli li aveva rigorosamente castigati in un'alta
coda.
Sbattei le palpebre, divertito e
scioccato al contempo dalla scena che
mi si parava davanti.
«E
tu vorresti venire conciato così, alla festa?»
chiesi,
indicandolo.
Lui mi guardò con cipiglio
corrucciato,
poggiandosi le mani sui fianchi. «Cos'ho
di strano?»
«Una
gonna, ad esempio?» replicai accigliato.
«Non
è una gonna», borbottò.
Lo
squadrai, inarcando un sopracciglio. «È una
gonna», insistetti, divertito dalla sua
espressione stizzita.
«E
tu sei un idiota, Colonnello dei miei stivali»,
sbottò. «Ma
ti pare che mi mettevo una gonna?»
«Beh,
è quello che indossi, no?»
«Questa
gonna, come
la chiami tu, è un kilt», mi informò,
incrociando le braccia al petto. «È
un indumento maschile».
«La
indossano i travestiti, allora», buttai lì
sarcastico,
osservandomi distratto una mano.
Edward si portò una mano alla
fronte, esasperato. «Non
si può ragionare con te».
«Se
ti presenti con una gonna...»
«È
un kilt!»
ripeté nervoso. «Ed
è il tema di stasera».
Sbarrai gli occhi e rischiai
di cadere dalla sedia per lo stupore, mantenendomi
al bordo della scrivania e scuotendo con impeto la testa, sconvolto. «Io
quel kilt o come si chiama non me lo metto nemmeno se mi
uccidi!»
esclamai, sconcertato anche solo all'idea di immaginarmelo addosso. Io,
l'uomo più sexy d'Amestris... con una gonna?!
Tanto valeva
dichiarare anche che ero omosessuale, a quel punto! Che diavolo di
idee malsane venivano in mente, al Comandante Supremo? Senza badare
alle mie proteste, Edward mi si avvicinò e mi
afferrò per un braccio, trascinandomi tutto divertito fino
agli
spogliatoi dove aveva già riposto il mio abito da cerimonia.
Lo osservai inorridito.
«Non
me lo metto», mi impuntai, deciso.
«Oh, aye»,
ghignò, cominciando lui stesso a togliermi la divisa e a
sistemarmi il suo stesso vestiario addosso, ignorando deliberatamente i
miei sbuffi, le proteste e le lamentele che mi lasciavo sfuggire mentre
tentavo di scappare dalla sua morsa - letteralmente - d'acciaio. Mi
porse per ultima quella borsetta di pelo che avevo scoperto
chiamarsi sporran,
e mi sistemò lo scialle sulla spalla. A lavoro ultimato, mi
osservò compiaciuto, ravvivandomi i
capelli all'indietro.
«Sei
perfetto! Ma
manca un'ultima cosa», si grattò una guancia,
divertito. «Levati
le mutande».
Corrugai le sopracciglia e incrociai le
braccia al petto. «Eh
no, caro mio», sbottai, indignato. «Mi
hai conciato così e non ti meriti un assaggio del piccolo Roy».
«Non
farti illusioni», mi rispose a tono, ridendo e poggiandomi le
mani sulle spalle. Quando le sue
labbra si avvicinarono al mio orecchio e mi sussurrarono
quelle parole, rimasi avvilito, scioccato e imbarazzato allo
stesso
tempo.
«Non
si portano le mutande sotto il kilt, Roy».
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Capitolo 3 *** Strano regalo › Follia d'età ***
Heart Burst Into Fire_Episode 3
Titolo: Strano
regalo (Follia d'età)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 800 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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EPISODIO 3: STRANO REGALO
(FOLLIA D'ETA')
Odiavo il 27 giugno. Mi ricordava gli anni che, purtroppo,
passavano anche per me... compivo 44 anni.
Affondai di peso sul divano, reclinando
la testa all'indietro e
fissando con sguardo vacuo il soffitto, sbuffando di continuo. Avevo
sempre avuto il terrore di invecchiare e, anno dopo anno, quando si
avvicinava l'estate, venivo colto da uno
strano senso d'ansia, tanto forte che, nelle prime settimane del mese
di giugno che anticipavano quella data, cercavo di tenermi ben lontano
dal mio letto... e, in linea più ristretta, da Edward.
Temevo un
calo di prestazioni, che potevo farci?
Afferrai un bicchiere e lo
riempì di quel poco whisky
rimasto nella bottiglia, lasciando che quel bruciante
liquido dorato mi scendesse giù per la gola, con quel suo
piacevole tepore ad invadermi lo stomaco. Poi, barcollando un po',
tornai al mobile bar per recuperare
un'altra bottiglia, ma
fui
bloccato dall'insistente suono del campanello e, seppur di malavoglia,
andai ad aprire. Lì, accanto al postino che reggeva tra le
mani
un
blocchetto, c'era un enorme pacco regalo che fissai allibito.
«Il Signor Mustang?»
mi chiese, masticando una
gomma. Annuii svogliato, e lui mi passò il blocchetto e la
penna. «Firmi qui, grazie».
Una volta firmato glielo restituii e,
salutando, il postino se
ne
andò, lasciandomi il pacco fuori alla porta. Perfetto,
adesso mi
sarebbe toccato portarlo in casa da solo, dato che
Edward era
ancora fuori a fare la spesa. Con un po' di sforzo lo spinsi dentro,
riuscendo a trascinarlo fino al
salotto tra borbottii vari ed epiteti ben poco cordiali rivolti a
chiunque. Ma che diavolo c'era lì dentro?! Pesava un
accidente!
E di certo non mi faceva bene trascinare oggetti pesanti.
Restai ad osservarlo per svariati
minuti, poi, sbadigliando, senza
avere alcuna voglia di sapere chi me lo mandava o ad aprirlo, presi
quella cara bottiglia di whisky che mi aspettava nel mobiletto,
riempiendomi un bel bicchiere fino all'orlo. Scolatomelo subito, mi
apprestai a riempirne un altro quando con la
coda dell'occhio vidi il pacco muoversi un po'. Sussultai, guardando
meglio. Che fossi già ubriaco?
Mi riavvicinai, inclinando la testa di
lato. Feci
per allungare un braccio e toccarlo, quando il pacco si mosse di
nuovo e si scoperchiò, mostrandomi la figura di Edward.
«Ta-dan!
Sorpresa!» esclamò a braccia alzate. Indossava a
coprirlo appena, parti intime comprese, un enorme
nastro rosso che terminava in un piccolo fiocco dietro alla schiena. I
capelli tirati all'indietro erano raccolti nella solita coda
alta, e gli occhi ambrati mi osservavano maliziosi.
Lo guardai allibito. «M-Ma...
ma che hai combinato?!» esclamai sconvolto. Che cavolo di
idee strane gli venivano in mente?! Trent'anni ed era già
uscito
di senno? Il mondo stava andando davvero a rotoli, ai miei tempi mica
ci si comportava così! Lo vidi
gonfiare le guance e appoggiarsi con i gomiti al bordo del
pacco.
«Visto che ad ogni tuo
compleanno sei giù di
morale», borbottò, mettendo su un broncio
adorabile che
lo fece sembrare un bambino. «Isabella mi ha dato
involontariamente un'idea per farti riprendere»,
mi
rivolse poi un timido sorriso, girando su se stesso. «Ti
piace?»
Non potei fare a meno di ridere, a
quella sua dimostrazione. Certo che
mia sorella... una ne pensava, e cento ne faceva! Per far fare una cosa
del genere ad Edward, chissà che gli
aveva detto. «Non ti vergogni?» sghignazzai,
scuotendo la
testa
per poi osservarlo in tutte le sue forme, compiaciuto a dir poco. Uhm,
in fondo non era male...
«Certo che
mi vergogno, cosa credi! Non si dovrebbero fare certe cose a trent'anni!»
sventolò una mano in aria, grattandosi la testa con l'altra.
«Ma
una sorpresa è una sorpresa, e se serve a strapparti un
sorriso almeno stavolta...»
Infatti sorrisi. Io non avrei mai avuto
il coraggio di conciarmi
in quel modo! «Sarò sincero, allora»,
sussurrai,
chinandomi sulle
sue labbra. «La sorpresa è ben gradita».
Lui ridacchiò, un po'
impacciato. Si diede poi
un'occhiata, riportando la sua attenzione su di me, con
quel suo sorrisino squisitamente imbarazzato che mi piaceva tanto,
alludendo al proprio corpo prima di scavalcare il bordo del pacco per
uscire dalla scatola; mi poggiò entrambe le mani sulle
spalle,
baciandomi di sfuggita uno zigomo.
«Muoviti a scartare il
regalo»,
sussurrò rauco al
mio orecchio, mentre la mano scivolava un po' più
giù. «Questo nastro fa un po' male, non so se
mi
sono spiegato».
Mi trascinò lui stesso fino
alla camera da letto, gettandomi
sul
materasso e mettendosi carponi su di me prima di prendermi le mani per
portandosele dietro alla schiena, esattamente sul fiocco. Lo tirai
delicatamente, stando al gioco, sciogliendolo per
liberarlo in un batter di ciglia da quell'ingombro, così da
ritrovarlo
completamente nudo davanti ai miei occhi. Le sue labbra si chinarono
sul mio collo, saggiandolo languidamente,
per poi accarezzarmi con piccoli colpetti vogliosi della lingua la
mascella.
«Buon compleanno, Colonnello».
Avevo detto che odiavo il 27 giugno? Beh, dopo
questo avrei dovuto ricredermi.
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Capitolo 4 *** L'apparenza inganna ***
Heart burst into fire_Episode 4
Titolo: L'apparenza
inganna
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 362 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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EPISODIO
4: L'APPARENZA INGANNA
Mi
mossi attentamente per evitare di fargli male come l'ultima volta e,
con lentezza, ripresi a muovere le mani, sentendolo trattenere un
gemito e la stretta convulsa del suo auto-mail sulla mia spalla. Quando
l'avevo fatto, non più di qualche giorno prima, aveva
urlato talmente forte che mi ero spaventato, quindi ero un po' restio
dal farlo, adesso.
Nello stringere più forte gli
scappò un lamento,
così mi fermai, pur guadagnandoci una sua occhiata. «Non
ti preoccupare, Roy», mugugnò, sforzandosi di
sorridere. «Continua».
Scossi la testa e lo accontentai,
riprendendo lento il mio
lavoro. Per
la concentrazione, la fronte mi si era imperlata di piccole
goccioline di sudore che rotolavano giù lungo il viso,
costringendomi a detergermela di tanto in tanto per evitare che mi
cadessero negli occhi; vidi Edward portarsi una
mano alla bocca e serrare le palpebre, con un'espressione
così
dolorosa che quasi mi si strinse il cuore.
«Andiamo,
Ed... non sono affatto bravo», borbottai. «Non
ho esperienza».
«Tu
vai avanti e non preoccuparti».
Sbuffai, alzando lo sguardo al soffitto.
Era inutile discutere
con lui, ne sarebbe uscito comunque vincitore anche se avessimo
litigato su quella questione per tutta la notte.
Così feci scivolare le mani lentamente, sentendo di tanto in
tanto qualche suo gemito trattenuto. A lavoro ultimato ripulii il
sangue con un asciugamano, gettandolo poi
lontano e sedendomi sul materasso accanto ad Edward.
«È
l'ultima volta che lo faccio», gli tenni presente,
sventolandogli un dito davanti al viso. «Ti
faccio troppo male».
Lui ridacchiò divertito.
Alzò la gamba destra -
quella su cui, se non ci fosse stato il bendaggio che la nascondeva,
sarebbe svettato uno squarcio
che
gli prendeva gran parte del polpaccio e della parte anteriore -,
poggiandola con
delicatezza su un cuscino. Le bende si erano già sporcate di
sangue, perfetto. Mi diede una leggera pacca sulla spalla, sorridendo,
per poi
scoccarmi un piccolo bacio sulle labbra.
«Beh...
guarda il lato positivo»,
la buttò lì con una scrollata di spalle.
«Non
c'è un lato positivo», borbottai imbronciato. Lui
si metteva nei guai e poi il lavoro
sporco toccava a me. Missioni del genere non gliele avrei
più fatte affidare.
Quel fagiolino testardo sorrise serafico. «Aye,
invece... la fasciatura resisterà per un po', no?»
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Capitolo 5 *** Lezioni ***
Heart burst into fire_Episode 5
Titolo: Lezioni
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 671 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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EPISODIO
5: LEZIONI
«Equitazione?»
chiesi incuriosito, abbandonando la lettura e osservando con un
sopracciglio inarcato Edward, seduto a gambe incrociate sul tappeto. Ce
ne stavamo tranquilli nel salotto del mio appartamento, a
sorseggiare del the freddo che, in quella giornata afosa, era un
vero toccasana, e lui se ne usciva all'improvviso con quella stramba
idea.
«Aye,
portami a cavalcare», mi disse di nuovo, reclinando la testa
all'indietro per guardarmi con i suoi stranissimi occhi ambrati. Non
potei fare a meno di ridacchiare mentre lui chiudeva il suo libro
e lo
posava sul pavimento, per prendere poi posto accanto a me sul divano. «Non
ridere, dico sul serio».
«Non
ti basto io?» chiesi con un pizzico di ironia e malizia. «Vuoi
davvero montare
un altro cavallo?»
«Se
ci riesco con un Mustang,
che è selvaggio...» buttò
lì serafico, prendendomi deliberatamente in giro.
Scossi la testa, poggiando la schiena
contro il divano.
«Dammi
un valido motivo, su».
Lui si rigirò attorno al dito
alcune ciocche dei capelli che
aveva raccolto in una coda alta a causa del caldo, osservandosi
distratto l'altra mano per evitare di guardarmi.
«Ma
che ti costa portarmici», si lagnò come un
bambino, senza
però rispondermi.
«Mi
costa che devo sfacchinare per due ore in macchina», gli
tenni presente. Sapevo che, dall'altra parte della città, si
trovava
un maneggio parecchio frequentato e che per raggiungerlo
bisognava armarsi di santa pazienza e affrontare il traffico e le
lunghe code, e non mi andava assolutamente. Faceva troppo caldo per
infilarsi in auto, per non parlare, poi, dei soldi che avrei dovuto
spendere.
«Suvvia,
mo dubh, ci
voglio andare solo una volta», mi supplicò,
guardandomi con occhi dolci e imploranti da cane bastonato, ma non
cedetti affatto. Quella carta funzionava solo una volta al mese, e
l'aveva già giocata quando aveva rovinato per sbaglio uno
dei
miei vestiti preferiti quando aveva provato a lavarlo lui, riuscendo
solo a restringerla.
«Non
fare il bambino, Ed», borbottai, sventolando un dito. «E
poi, ancora non mi hai detto perché vuoi andarci».
Incrociò le braccia al petto, fissando con finto interesse
il pavimento.
«Volevo
provare, tutto qui», scrollò le spalle. «Al
ha detto che mi sarebbe piaciuto, quindi...»
Ecco spiegato il perché.
Un'idea nata da suo fratello.
Maledizione, quando avrei rivisto Alphonse gliene avrei dette quattro!
«Ed,
hai ventun anni», cominciai, alzando lo sguardo al
soffitto. «Se
è solo per questo, puoi benissimo andarci da
solo».Certe volte si comportava davvero come un bambino
capriccioso che pretendeva sempre di vincere, su qualsiasi cosa. Stavo
con lui da
quando aveva diciassette anni e non ci facevo
più caso se voleva avere la meglio su qualsiasi mia
decisione, ma stavolta non l'avrei accontentato. Che pericolo poteva
correre se ci fosse andato senza di me?
«E
tu mi lasceresti andare lì senza compagnia?» mi
chiese, fingendosi scandalizzato.
Emisi un flebile lamento. Era una vera
peste, senza dubbio.
«Non
credo ti serva una scorta per montare a cavallo», feci di
rimando, sistemandomi gli occhiali sul naso per riprendere poi, bene o
male, la lettura.
Lui, però, posò la
mano d'acciaio sulla pagina, impedendomi
di leggere.
«E
invece penso proprio di sì, conoscendoti.»
Sbuffai,
sebbene non avessi capito quel che voleva dire.
«Ehi», bofonchiai irritato, allontanando
la mano. «E'
vero che hai un bel faccino, ma non credo che i cavalli ti salteranno
addosso».
«Loro
no, ma forse alcuni fantini sì», mi
informò divertito, e stavolta mi accigliai, togliendo gli
occhiali e sbattendo le palpebre in
continuazione.
«Come
sarebbe?» chiesi confuso.
Per un po' evitò di
rispondere, facendo il finto offeso,
guardando ogni angolo della stanza come a volerlo ben imprimere nella
sua mente, senza prestare attenzione alle mie parole. Poi
riportò piano il suo sguardo su di me. «Ci vado da
solo, lascia stare», disse infine,
alzandosi.
Lo afferrai svelto per un braccio prima
che potesse allontanarsi.
«Spiegati,
adesso», replicai schietto.
Mi squadrò con un
sopracciglio inarcato, poi si sedette
sulle mie gambe, giocherellando con i bottoni della mia camicia.
«Beh,
sai», cominciò, per poi posare la testa sulla
mia spalla. «Alcuni
di quelli che lo frequentano...» la mano risalì
lenta fino ad accarezzarmi una guancia. «...sono
gay».
Aye,
l'avrei accompagnato... e
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Capitolo 6 *** Fotoricordo ***
Heart burst into fire_Episode 6
Titolo: Fotoricordo
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 863 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
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EPISODIO
6: FOTORICORDO
«Non
puoi
essere tu!» esclamò Edward, osservando
sbigottito il mio album di fotografie.
Entrambi rintanati sotto al piumone e
sdraiati a pancia in
giù
sul materasso, ci godevamo il calduccio della coperta mentre fuori
imperversava un furioso temporale, che metteva ben in chiaro la
stagione in cui ci trovavamo. Il freddo non mancava quasi mai, in quel
periodo. E se non eravamo impegnati nei nostri giochi, leggevamo
o, come in quel momento, sfogliavamo vecchi album della mia infanzia.
«Aye,
invece!» gli risposi impettito, con un sorrisone stampato in
volto.
Poggiò una mano sulla pagina
vuota e si girò
verso di me
con un sopracciglio inarcato, indicando poi con il dito
d'acciaio la fotografia, picchiettandola. «Vuoi
forse farmi credere che questo bambino così carino e
innocente
sei tu?» fece, tornando a guardare la foto, rappresentante me
a cinque anni.
Mi limitai ad annuire, divertito dalla
sua aria
stupita. Girò poi pagina, e mi ritrovai io stesso a
sghignazzare
quando
vidi la foto che stava osservando quasi con meticolosa attenzione, come
se non lo credesse possibile. C'ero io all'età di nove anni
in
compagnia di Maes, entrambi
seduti su una delle panchine nel parco che, a distanza di
così
tanti anni, da quel che vedevo in quella vecchia foto, era cambiato
parecchio. Sorrisi al ricordo. Quel giorno erano appena iniziate le
vacanze estive, e io, lui e alcuni
nostri amici di scuola ci godevamo il meritato riposo dopo una partita.
«Guarda
qua», dissi ad Edward - che osservava la foto nel tentativo
di
riconoscere i volti, cosa non molto facile, dato il modo in
cui tutti noi sembravamo cambiati - nell'indicare Maes. «Promosso a
scuola, e questo stupido già si credeva
chissà chi!» Lui infatti sorrideva, fiero e
impettito, con un suo braccio dietro
alle mie spalle mentre faceva il segno della vittoria a chi scattava.
Edward mi fissò per un po',
prima di riabbassare gli occhi sull'album. «Nah,
dai, quello è Hughes?» mi chiese, sgranando gli
occhi e
guardando la foto obliquamente, come se cambiare posizione potesse
realmente aiutarlo a capire ciò che stava osservando. «Difficile
crederlo, senza barba...»
sghignazzò poi, lanciandomi uno sguardo a dir poco divertito.
«Eh
già!» sghignazzai a mia volta, sistemandomi meglio
sul materasso prima di indicargli nuovamente la foto. «Pensa
che ero più basso di lui!»
Rise di gusto e girò pagina. «Ah,
aye?» fece ironico. «Non
si vede molto!»
«È
perché siamo seduti», dissi con
fare ovvio, ridendo con lui. «In piedi
mi mancava quasi mezza testa di Maes!»
«Non
ci credo!»
Gli scompigliai i capelli, coprendo
entrambi con il piumone. «Chiedi a
lui, allora», gli consigliai. «Sarà
felice di rivangare l'infanzia».
«Beh,
immagino!» esclamò divertito. Continuò
a girare
pagine su pagine, commentando ogni foto
che
vedeva, chiedendomi chi erano le persone ritratte insieme a me e quando
erano state scattate; si interessava come se stessimo intavolando un
discorso sull'alchimia e si faceva più vicino quando si
rendeva
conto che un argomento più spinoso degli altri mi
intristiva,
domandando al contempo l'ordine cronologico di ogni fotografia sparsa
un po' ovunque e senza didascalia. Quando poi si fermò su
una
pagina e lo vidi sorridere, mi
incuriosii. «Oh-oh! Questa
è interessante», disse in tono basso.
Mi sporsi un po' verso di lui per capire
di che parlava, e sgranai gli
occhi. «E' una
foto compromettente scattata a tradimento!» esclamai
rosso in volto. «Pensavo di averla bruciata!»
Lui si voltò verso di me con
le sopracciglia
finemente sollevate, e potei benissimo vedere che si stava trattenendo
dal
non scoppiare a ridere. «Quanti
anni avevi?» mi chiese invece, e la sua voce suonava
così
spassosa che sbuffai, poggiando il viso sul palmo della mano.
«Quasi
undici», confessai, provocandogli uno sbuffo divertito e una
mezza risata che cercò inutilmente di camuffare con un colpo
di
tosse.
«E che cercavi di fare? Tentavi di
nascondere le prove?»
Afflitto, annuii, scrollando sconsolato
le spalle.
«Tentavo... ho miseramente fallito, come puoi
notare»,
sospirai mesto. «Ma
la cara Isabella per quella foto ha ricevuto una punizione
esemplare!» esclamai significativo.
Stavolta gli provocai una grossa risata
e lo
fulminai con lo sguardo, anche se lui non parve farci minimamente caso.
«Certo...
conoscendo tua sorella, sarà stato il
contrario!»
prese la foto dall'album, rimirandola ancora un po' con sguardo
divertito.
Gli lancia un'occhiataccia. «Ti sbagli,
e ora dammi quella foto che la brucio!» berciai; mi sporsi
verso di lui ma si allontanò, facendomi una
linguaccia.
«Nay, nemmeno per sogno!»
«La
devo bruciare, dai qua!»
«Non ci penso proprio!»
Scoppiò
completamente a ridere, rotolando sul materasso e tenendosi lo stomaco
per il troppo ridere, con le lacrime agli occhi. Beh,
perfetto.
Ero proprio contento che la cosa per lui fosse così
esilarante,
davvero contento... e la mia era pura e semplice ironia, accidenti.
Sbuffai e,
prendendo l'album, lo richiusi accuratamente per riporto sul comodino,
e fu solo a quel punto che Edward interruppe quel flusso e mi
guardò, notando la mia aria irritata.
«Eddai, è
divertente!» lo sentii dire mentre
sghignazzava ancora un po', ma io mi sdraiai sul materasso senza dargli
corda più di tanto, incrociando le braccia dietro alla testa.
«Per
me non
così tanto», borbottai, e lui scattò
sull'attenti,
sventolando la foto che ritraeva me colto sul fatto e continuando a
ridere come uno stupido.
«Aye,
invece!» esclamò tra le risate. «A
undici anni bagnavi ancora il letto!»
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Capitolo 7 *** Prendere in giro › Ovvero, quando Roy Mustang viene chiamato vecchio ***
Heart burst into fire_Episode 7
Titolo: Prendere in
giro (ovvero, quando Roy Mustang viene chiamato vecchio)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 523 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Arancione
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
EPISODIO
7: PRENDERE IN GIRO (OVVERO, QUANDO ROY MUSTANG VIENE CHIAMATO VECCHIO)
«Che
ne diresti di posare quel libro, adesso?» borbottai
d'improvviso,
infrangendo il silenzio che aleggiava nel soggiorno da un'ora a quella
parte.
Edward interruppe la lettura quasi a
fatica,
sbattendo le palpebre come a doverle abituare ad una luce troppo forte,
quasi fosse rimasto al buio per troppo tempo, e poi mi
guardò interrogativo per un po' prima di sorridere
sarcastico.
«Ma
è interessante», replicò divertito,
portando il
segno con un dito per sventolare allegramente il libro in aria. «Ho
capito perché ti piace tanto».
Alzai sconsolato lo sguardo al soffitto,
abbandonando le braccia dietro
allo schienale del divano e appoggiando un piede sul
ginocchio opposto prima di sospirare afflitto. «Me
lo farai odiare se non mi degni
d'attenzione per leggerlo», ribattei secco,
sentendolo ridacchiare piano.
Non mi prestò attenzione,
guardando nuovamente la copertina
del libro. «Il
protagonista si fa i problemiproprio
come te», riprese, sempre più divertito, e
gli lanciai un'occhiataccia. Si portò una mano alla bocca
per
soffocare le risate,
riaprendo il libro dove si era fermato per guardarmi poi ammiccante;
dopo un teatrale colpetto di tosse per far scena, cominciò a
leggermi un passo ad alta voce, come se lo divertisse. «“Che
tristezza!” mormorò Dorian Gray, con gli occhi
ancora fissi sul suo ritratto.
“Che
tristezza! Diventerò vecchio, orribile, spaventoso, mentre
questo ritratto rimarrà giovane per sempre”».
Si interruppe per valutare la mia espressione, e io gli vidi la voglia
di scoppiare a ridere impressa in volto, mentre continuava a leggere in
tono spassoso, sorridente. «“Giovane
come in questo preciso giorno di giugno... se soltanto potesse accadere
il contrario! Se soltanto fossi io a rimanere giovane e fosse il
ritratto a invecchiare!”»
Lasciò cadere il libro a
terra e prese a ridere senza
ritegno,
battendo un pugno sul divanetto mentre tentava di soffocare le risate
con l'altra mano, senza curarsi della mia espressione a dir poco
infuriata. Mai chiamarmi vecchio alle undici di sera! Mi alzai in piedi
e lo raggiunsi sull'altro divano così in
fretta che la risata gli morì in gola quando mi ritrovai
praticamente a cavalcioni su di lui, mentre gli bloccavo i polsi sopra
la testa. I suoi occhi dorati percorsero il mio corpo e si soffermarono
su un punto ben preciso,
prima che guizzassero nuovamente sul mio volto per incrociare il mio
sguardo. Mi sorrise impudente, passandosi allusivo la lingua sulle
labbra.
«Si
invecchia, Roy, si invecchia», sghignazzò, alzando
le gambe
per cingermi i fianchi mentre tentava di liberare i polsi. «E,
prima o poi, avrai bisogno di quella bella pillolina per
seguire i miei ritmi o, in alternativa, dovrò fare tutto il
lavoro io».
Gli mollai i polsi e lo fissai con finto
sguardo intimidatorio, avvicinandomicon
lentezza micidiale al suo volto per sfiorargli il naso con il mio
prima di spostarmi verso l'orecchio; glielo torturai con i denti in
un misto di sensuale rudezza e dolcezza e lui mugolò,
sospirando
forte quando scesi lungo il collo e glielo carezzai allusivo con la
punta della lingua. Mi allontanai per guardarlo in volto, sentendo fin
troppo bene, un
po' più in basso, che quel trattamento era ben gradito.
Gliel'avrei dato io il vecchio, adesso!
«Caro fagiolino, ora sei nei guai!»
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Capitolo 8 *** Diamoci... un taglio! ***
Heart burst into fire_Episode 8
Titolo: Diamoci... un taglio!
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 1815 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Maes Hughes, Jean Havoc
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Arancione
Avvertimenti: Shounen
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Rights Reserved.
EPISODIO
8: DIAMOCI...
UN TAGLIO!
Dire
che in quel momento mi annoiavo era un eufemismo.
Avevo passato la maggior parte della
giornata a chiacchierare a
telefono con Maes perché Edward non era in casa, e quella
era
una stranezza bella e buona, visto che di solito, soprattutto al
Quartier
Generale, tentavo sempre di non imbattermi in lui, onde
evitare di farmi coinvolgere in una delle uscite da lui organizzate con
Jean. Ora me ne stavo lungo disteso sul divano del salotto, con una
pezza
umida sulla fronte per calmare il forte mal di testa e una voglia di
fare praticamente pari allo zero.
Fu lo squillo del telefono a
costringermi ad alzarmi e, anche se
durante i primi cinque fui tentato di ignorarlo, alla fine, al
quindicesimo, mi
diressi ciondolante verso l'ingresso per rispondere. «Pronto?»
feci sbadigliando.
< Abbiamo
il tuo uomo. >
mi disse una voce, una voce che conoscevo fin troppo bene e con cui
avevo parlato fino a
poche ore prima, quindi fu quasi di riflesso che inarcai un
sopracciglio, tamburellando con le dita sul tavolino dove
tenevo il telefono.
«Maes,
perché dici stronzate?» chiesi con una punta di
sarcasmo. Dall'altro lato della cornetta, sentii degli sbuffi divertiti
e la
risata inconfondibile di Edward, prima di avvertire un piccolo crepitio
e
un'altra voce borbottare «Principiante». Ci fu poi un
tonfo e un altro crepitio.
< Se
avessi parlato io ci sarebbe cascato, Generale. >
si fece sentire la voce divertita di Havoc. <
E un colpo le sarebbe venuto eccome! >
Al suo tono e alle sue parole non potei
fare a meno di ridere. «Mi
volete spiegare cos'è questa storia e perché
Edward
è lì, chissà dove, con voi?»
domandai,
sentendo il diretto interessato trattenere una risata e, probabilmente,
Maes sbuffare. Adesso che ci facevo caso, inoltre, si sentiva un
sommesso
chiacchiericcio e una bassa musica, quasi fossero...
< Siamo da
Madame Christmas. >
fece prontamente la voce di Jean, confermando la mia teoria. <
Venga anche lei, Edward dice di voler festeggiare! >
Ancor prima che potessi ribattere,
riattaccò. Guardai per
un po' la cornetta silenziosa con le sopracciglia
sollevate, stringendomi nelle spalle prima di riattaccare a mia volta e
andare a darmi una sistemata per raggiungerli e vedere cosa stessero
architettando quei tre folli. Ventotto, trentasette e quarantatre
anni... e si
comportavano ancora come dei ragazzini alla festa del liceo! Chi li
capiva era bravo... anche se, in realtà, io non ero da meno.
Non restai a rifletterci oltre, mi
chiusi gli ultimi bottoni della
camicia e agguantai chiavi e portafoglio, uscendo dal condominio per
salire in macchina e raggiungere quei due folli che si erano portati
dietro il mio ragazzo - cioè,
uomo, visto
che odiava che lo
si considerasse ancora un ragazzino nonostante fosse ancora abbastanza
basso per la sua età - al bar. All'interno c'era un bel
calduccio confortevole e venni immediatamente accolto da Vanessa,
sorridente e zelante come sempre; mi salutò con un mezzo
abbraccio e mi indicò Madame con un cenno del capo, alla
quale
rivolsi un saluto prima di concedarmi divertito da quell'avvenente
cameriera. Dovevo ammetterlo, mi stupivo sempre di
come mia zia
riuscisse ancora
a
fare tutti quegli affari in quel posto, e forse era anche grazie alla
bella presenza di tutte le ragazze di cui si era circondata.
Scorsi i miei tre idioti poco
lontano dall'entrata, sul lato destro del locale. Da quel che vedevo,
avevano ordinato qualcosa da bere anche per me, ma
ciò che mi stupì, in quel momento, non fu il
fatto che,
avendomi visto, mi facevano animatamente cenno di raggiungerli
schiamazzando, bensì Edward. Accigliato come non mai, mi
avvicinai piano al tavolo, sedendomi senza
dire una parola mentre continuavo ad osservarlo, o meglio, ad osservare
i suoi capelli.
«Perché
mi guardi in quel modo?» mi chiese, inclinando la testa di
lato
con un sopracciglio biondo finemente inarcato, ma non risposi, restando
a boccheggiare come un idiota. Fu Havoc a farlo per me, e sembrava
divertito.
«Temo
che il Generale sia sotto shock», sghignazzò, e
sentii la
sua mano darmi una bella pacca sulla spalla prima di sentire l'odore
della sua sigaretta, appena accesa, giungermi alle narici. Ma non vi
prestai attenzione, avevo ancora lo sguardo sui capelli di Ed.
«Devo
averti mozzato il fiato, eh?» ironizzò nel
lanciarmi
un'occhiata, concentrandosi poi sul suo bicchiere per bere
tranquillamente il suo whisky come se nulla fosse, imitato da Maes, che
sembrava cercasse di valutare la mia espressione stranita.
«Non
fare quella faccia, amico!» cinguettò, allegro
come un fringuello.
«Non hai nulla da dire al tuo uomo? Sei senza
parole?»
Mi riscossi solo quando, senza preavviso
e senza badare al luogo in cui
ci trovavamo, Edward mi afferrò con la mano d'acciaio per il
colletto della camicia e mi attirò a sé,
stampandomi
sulle labbra un bacio passionale. Allontanandosi, mi sorrise in un
misto di malizia e sfacciataggine.
«Allora?» mi chiese, poggiando un gomito sul
tavolino e
far
ciondolare l'altro braccio oltre lo schienale della sedia, accavallando
con disinvoltura le gambe.
«Sei...»
cominciai, sbattendo le palpebre e continuando a guardarlo perplesso. I
capelli che, da quando stavamo insieme e più, aveva sempre
portato lunghi, avevano adesso un taglio corto e sbarazzino, quasi
simile a quello del fratello, con la sola differenza che non aveva una
frangetta laterale ma la fronte scoperta, con giusto qualche ciuffo che
vi ricadeva sopra di tanto in tanto quando muoveva la testa. E, essendo
abituato a vederglieli sempre legati in una coda o in una
treccia, ero rimasto un tantino scioccato e perplesso da quel cambio di look. La
sola cosa che era rimasta invariata era la bizzarra anteninna bionda, e
di quello, lo ammettevo, ne ero alquanto grato.
«Ehi,
questa è una data da ricordare!»
ironizzò
Havoc.
«L'alchimista
di fuoco che non sa cosa dire!»
«Ordiniamo ancora da
bere!» esclamò
invece Maes di
rimando, e lo vidi passare un braccio intorno alle spalle di
Edward. «Tu
te lo fai un altro giro?» gli chiese, e sembrava
già
pronto ad ordinare anche per lui, che volesse bere o meno, ma Edward
annuì, sorridente.
«Un Vodka Martini», gli disse, prima di avvicinare
la sedia a
me e
cingermi i fianchi dopo avergli lanciato uno sguardo.
Riappuntò poi la sua attenzione su di me, sorridendo
maggiormente. «Non
dovevo tagliarli?» mi domandò in tono vagamente
dispiaciuto.
Non sapendo bene cosa dire, mi grattai
dietro al collo con non curanza.«N-Nay, è
che... un po' mi hai sorpreso», confessai, sentendo Havoc
ridere.
«Ha
sorpreso anche noi!» replicò, tirando fuori dalla
tasca il
pacchetto di sigarette per accendersene una nuova. Quando diavolo
l'aveva finita, la prima? «Doveva
inoltre vedere quanti problemi si faceva!»
continuò, ricevendo un'occhiataccia da Edward.
«Gli piacerò, non gli
piacerò, ho fatto male a tagliarli, e cose
simili! Fino a poco fa sembrava una donna in crisi, anche se adesso si
atteggia a grand'uomo!»
Accanto a me, Edward lo
fulminò con lo sguardo, facendo
lo stesso con me quando mi scappò involontariamente una
piccola
risata. Poi atteggiò il viso ad un'espressione assolutamente
diabolica. «Attento,
Jean», lo ammonì, sorridendo mefistofelico.
«So armeggiare
molto bene con le pistole,
quindi non provocarmi».
Cogliendo al volo l'allusione, lui
scoppiò a ridere, mentre
io
mi limitai solo a coprirmi il volto con una mano, scuotendo quasi
sconsolato la testa. «Sono
lusingato, Ed, ma ho altre tendenze», replicò
divertito, lanciandomi un'occhiata. «Infatti
ho una bella moglie e un bel figlioletto».
Lui agitò distratto una mano,
facendo finta che io non ci
fossi e continuando invece a stuzzicarlo. «A
Riza non dispiacerà che ti rimetta in carreggiata»,
riprese, ridacchiando per poi stringersi di più a me,
poggiandosi contro il mio collo. «Tu
che ne dici, Roy? Non ho ragione?» mi chiese in tono spassoso.
Abbassai lo sguardo per incontrare i
suoi occhi dorati che adesso mi
osservavano ammiccando, come a volermi far partecipare al gioco, e non
potei fare a meno di ridacchiare anch'io.
«Da
quel che ho sentito, Jean è un po' scarsetto», lo
sbeffeggiai, voltandomi verso di lui e vedendolo
con
la sigaretta penzoloni fra le labbra leggermente schiuse. «Una
ripassatina non
può che giovargli, gli farebbe più che
bene».
«Partiamo
dal piaffé?»
continuò Ed sempre più divertito, mentre vedevo
con la coda dell'occhio Havoc boccheggiare. Aveva scherzato con il
fuoco, e, se già io da solo ci sapevo fare fin troppo bene -
non
ero di certo diventato l'alchimista di fuoco per nulla, dopotutto - in
due eravamo pericolosi!
«Io
direi un bel passage»,
replicai ironico, vedendo finalmente Maes tornare con le nostre
ordinazioni e, notando il volto sconcertato e sconvolto di
Jean,
inarcò un sopracciglio.
«Che
avete
detto a 'sto poveretto?» ci domandò nel sedersi.
Gettandomi un'occhiata divertita e facendo spallucce, Edward prese il
suo bicchiere sorseggiando il Vodka Martini come se nulla fosse, mentre
io me la ridevo ancora un po', tentando di soffocare inutilmente
l'ilarità del momento.
«Nulla di che»,
buttai lì sghignazzando.
«Insegnavamo
ad Havoc le basi dell'equitazione».
Dalla sua espressione, Maes
sembrò non
capire. Così, guardandolo con un sorrisone sornione dipinto
in
volto, fu Edward a riprendere la parola.
«Saper
montare
bene un cavallo
è alle basi dell'equitazione», fece
distrattamente,
gettando un'occhiata ad un Havoc sempre più sconvolto che
non
proferiva ormai più parola, forse per l'essersi immaginato
qualcosa che non capivo.
«Ci sono le varie andature,
e bisogna stare scrupolosamente attenti che non sia il cavallo a guidare,
ma il suo fantino...»
guardò poi me, sorridendo con una malizia impossibile da
definire.
«...soprattutto
se si tratta di un purosangue, il cui galoppo
è molto più difficile del trotto».
Innocentemente, Maes annuì.
Probabilmente, cosa alquanto strana, non aveva capito la sfumatura fra le righe.
Colpa del whisky che aveva bevuto e continuava a bere? Possibile. Gli
rivolse un sorriso divertito, bevendo un altro sorso.
«Te
ne intendi, eh?» replicò, con una vaga punta di
divertimento, e altrettanto divertito, Edward fece semplicemente cenno
di
sì con la testa.
«Och,
naturale», sghignazzò, dando a me una pacca sulla
spalla. «E
inoltre, per ovvie ragioni, bisogna essere dolci e al contempo decisi
con il cavallo, in modo che non si imbizzarrisca
e ti disarcioni dalla
sella...»
A quel punto non potei evitarmi di
scoppiare a ridere sonoramente,
ricevendo delle occhiate sia da Maes che da Edward, che
ritornò
ben presto ad occuparsi del suo Vodka Martini con non curanza. Hughes
invece continuò a fissarmi attraverso gli occhiali
con i
suoi occhi color smeraldo, prima di bere per l'ennesima volta un lungo
sorso del suo whisky.
«Ho
sempre pensato che l'età si facesse sentire, ma non credevo
così tanto!» mi prese in giro, e io risi ancora di
più, scuotendo la testa.
«Mai
come
si sente a te», ribattei, sentendo Havoc tossire appena e
concentrarsi nel fumare la sua sigaretta come se non avessimo
minimamente aperto bocca.
Maes inarcò un sopracciglio,
senza capire. «Che
c'entro io?» mi chiese.
Ridacchiai ancora, confermando il fatto
che aveva bevuto troppo o
quasi. «Edward
diceva ambiguità e tu, da malizioso che sei, non te ne sei
reso
conto!» esclamai, ridendo ancor di più nel vedere
il suo
volto atteggiato ad un'espressione più che sorpresa.
Fu Edward a richiamarci all'ordine,
divertito.
«Diamoci un
taglio,
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Capitolo 9 *** Capelli e stanchezza ***
Heart burst into fire_Episode 9
Titolo: Capelli e
stanchezza
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 642 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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EPISODIO
9: CAPELLI E STANCHEZZA
Guardai
con un certo disappunto la mia immagine riflessa allo specchio,
toccandomi alcuni ciuffi di capelli che erano cresciuti fin troppo.
Non
andavo dal barbiere a far dar loro una spuntatina da secoli, e
certe volte ero costretto a legarli in un basso codino che non mi
piaceva affatto, sebbene Edward mi avesse ripetuto di trovarmi
affascinante conciato in quel modo assurdo. Io mi sentivo
tremendamente stupido, soprattutto quando andavo a lavoro e incrociavo
gli altri militari che
mi osservavano attoniti e divertiti. Più di una volta mi
avevano
chiesto perché li
lasciassi
crescere ma, senza aprir bocca, rispondevo sempre con un'alzata di
spalle. Purtroppo, essendo stato in missione per due settimane e
avendo dovuto
firmare documenti arretrati di tre mesi al mio ritorno, non avevo avuto
molto tempo
per curarmi del mio aspetto. A malapena ero riuscito a farmi la barba
come si conveniva, figurarsi quindi
se ero riuscito a tagliarmi per bene i capelli.
Sospirai per l'ennesima volta e sciolsi
il codino, inarcando un
sopracciglio. I capelli, sebbene fossero ancora molto corti, mi
infastidivano fin
troppo il collo. Come facesse Edward a portarli lunghi era un mistero
per me, ma non sarebbero ancora durati molto: mi sentivo troppo in
disordine così combinato, e avrei persino preferito raparmi
a
zero, piuttosto.
«Ancora
a guardarti allo specchio?»
la voce divertita di Acciaio mi riscosse e, quando incrociai il
riflesso dei suoi
occhi nello specchio, gli feci la linguaccia come una ragazzina.
«Domani
vado a tagliarli, non mi interessa», lo informai, legandoli
nuovamente con l'elastico che mi ero fregato in precedenza da quelli
che aveva lui. «Mi
sento ridicolo così».
Con un sorriso sornione stampato in
volto, mi si avvicinò,
cingendomi i fianchi da dietro per strusciarsi contro di me come un
gatto. «Secondo
me sei bellissimo»,
bofonchiò divertito, assumendo poi un tono di voce caldo e
ovattato, quasi sensuale. «Ti trovo terribilmente
sexy».
Sorrisi e mi voltai appena, dandogli un
buffetto sul naso. «Sexy
o meno, li taglio», dissi, baciandogli la fronte. «Non
mi va proprio di somigliare ad una versione maschile del General
Maggiore Armstrong,
grazie!»
«Esagerato!»
ridacchiò, sciogliendosi dall'abbraccio per squadrarmi con
un cipiglio sarcastico.
Presi la canotta dal lavandino,
infilandomela.
«Va
bene, ho esagerato, l'ammetto», feci, prendendolo a braccetto
per portarlo con me in camera da letto. «Però,
potremo organizzar loro una festicciola
d'addio. Che ne dici?»
La nota maliziosa che
trasparì dalla mia voce non gli
sfuggì affatto, ma riuscì solo a provocargli una
grossa e
sonora risata. Lo vidi scuotere la testa, per poi gettarsi sul letto a
gambe
incrociate.
«Non
sei l'unico che lavora, sai?» sghignazzò ironico. «Sono
stanco, non penso riuscirei a resistere ai tuoi ritmi!»
«Andiamo al trotto,
dai», mi avvicinai al materasso per
inginocchiarmi di fronte a lui, con un'aria da cane bastonato dipinta
in volto, ma lui mi scoccò un bacio sulle labbra,
poggiandomi il dito
d'acciaio sulla punta del naso.
«Sei peggio di un bambino», borbottò
divertito prima di sgranchirsi il collo.
«Non sarai come uno di quei trentenni che hanno la sindrome
di Peter Pan, vero?»
«Magari avessi ancora trent'anni!» replicai subito,
e lui scoppiò
nuovamente a ridere. Poi, con dolcezza,
avvicinò le sue labbra al mio collo,
sfiorandole appena. Sorrisi quando lo sentii cingermi i fianchi con le
braccia, pensando che, dopotutto, non era poi così stanco se
mi stuzzicava a quel modo.
Mi mordicchiò il lobo
dell'orecchio e mi gettò all'indietro
sul letto per bloccarmi i polsi con le
mani, e io chiusi gli occhi, già pregustando una bella
nottata. Per un po' l'avrei lasciato fare e poi avrei nuovamente preso
le redini del gioco, ma mi accigliai un po' quando la presa divenne
meno salda e si allentò, tanto che sentii il
peso del suo corpo contro il mio. Curioso, alzai piano una palpebra,
sbirciando. Vedevo solo la sua chioma bionda.
«Ed?»
lo chiamai. Lo sentii russare e spalancai la bocca, incredulo. Nay...
non era possibile! Si
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Capitolo 10 *** [ Special di Halloween ] Dolcetto o scherzetto, Roy? ***
Heart burst into fire_Episode 10
Titolo: Dolcetto o
scherzetto, Roy?
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Onne-shot
[ 1215 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jean Havoc
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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EPISODIO
10: DOLCETTO O SCHERZETTO, ROY?
Halloween,
la notte del terrore.
In special modo per me, che temevo un'altra strana idea da parte del
Comandante Supremo, dato che non mi ero ancora ripreso da quando ero
stato costretto ad indossare quella gonna chiamata kilt.
Descrivere il mio stato d'animo e il
tremendo imbarazzo che avevo
provato, con quel coso addosso, non sarebbe stato possibile nemmeno
lontanamente immaginare tutt'ora, e gli sguardi ammiccanti e divertiti
che mi aveva scoccato Edward mentre parlava con Havoc o Maes, con il
medesimo vestiario addosso, non mi avevano di certo risollevato il
morale. Per non parlare poi della battutina ironica che aveva fatto. Passa più aria,
aveva detto divertito. E gliel'avevo data io l'aria,
dopo!
Adesso, nei corridoi quasi del tutto in
penombra del Quartier Generale,
mi guardavo intorno per non essere beccato da qualcuno e non essere
costretto ad indossare chissà che vestiario di dubbia moralità.
Erano tutti nella sala più grande dell'edificio per
sistemare le
ultime cose per il party di Halloween e ai piani superiori,
probabilmente, c'ero solo io.
Gettai un'altra occhiata nervosa intorno, sospirando e abbassando
sconsolato la testa prima di poggiarmi una mano sul petto. Lo ribadivo.
Dannazione a Bradley e alle sue idee.
D'improvviso, sentii qualcosa di gelido
poggiarsi sulla spalla, poi il
contatto con qualcosa di pungente contro il collo e, preso alla
sprovvista, mi lasciai involontariamente sfuggire un urlo. Una risata
risuonò alle mie spalle, e mi voltai di scatto
con
uno sguardo così infervorato che l'artefice dello scherzo
sussultò, facendomi poi una linguaccia.
«Mi hai fatto prendere un
colpo!» sbraitai,
con il cuore che mi batteva impazzito nel petto. Percorsi il suo corpo
dall'alto in basso, restando sorpreso di trovarlo
così coperto
se
ripensavo alle geniali idee precedenti di Bradley: aveva indosso un
pantalone di seta nero praticamente aderente, esattamente come il
panciotto dal quale si intravedeeva una camicia con le maniche orlate
di pizzo; un mantello, anch'esso rigorosamente nero, gli cingeva le
spalle, e alle
mani - una
delle quali aveva portato alla bocca per soffocare le risate -
aveva dei guanti bianchi molto fini, all'apparenza anch'essi di seta. I
capelli erano come loro solito legati in un'alta coda, e i ciuffi
ribelli erano riportati all'indietro in modo da tenere la fronte
scoperta. Quando allontanò la mano e mi sorrise, potei
scorgere
fra le
sue labbra delle zanne appuntite e brillanti da vampiro.
«Chi
saresti, il conte Dracula?» chiesi con una punta d'ironia.
Senza dire una parola, prese un lembo
del mantello e si coprì il volto
a metà, in modo che vedessi solo i suoi occhi dorati,
divertiti. Fece un mezzo inchino, muovendo divertito la mano
libera, e poi, aggraziato come non lo era mai stato, lasciò
ricadere
il mantello, poggiando il suo auto-mail
sul mio petto e cominciando a giocherellare con non curanza con i
bottoni della giacca della divisa prima di
avvicinare il suo volto al mio.
«Sono
il tuo peggiore incubo», sussurrò solo, per
poggiare poi le sue labbra sulle mie, e in breve
cominciammo a consumare quel bacio, ma dovetti separarmi dai
lui
ben presto perché, inavvertitamente, sfiorai con la lingua
uno
di quei canini che credevo finti facendomi male. Lo
sentii ridacchiare, prima di vederlo leccarsi le labbra.
«Com'è
baciare un vampiro?»
mi domandò in tono spassoso.
Con un polpastrello mi sfiorai appena la
punta della lingua, gettando
un'occhiata a quei canini ben in mostra fra le sue labbra.
«Ma
che... sono veri?» feci in risposta, con voce un po' strana.
Gli strappai un'altra risata, prima che
mi afferrasse il volto e mi
costringesse ad aprire la bocca, come per valutare eventuali danni. Appurato
che era tutto a posto, annuì.
«Diciamo
che ho giocherellato un po' con l'alchimia»,
buttò
lì, facendomi un'altra linguaccia prima di allargare le
braccia e indicare il proprio corpo. «Anche
questo vestito è frutto di abiti in disuso trasmutati alla
meno peggio!»
Mi portai una mano a massaggiarmi la
fronte, quasi scoraggiato.
Alle serate organizzate dal Comandante Supremo si divertivano tutti.
Chi
invece veniva preso in giro, puntualmente, ero io.
«Ti ho mai detto quanto sei impossibile?» replicai
con un sopracciglio inarcato.
Lui annuì sempre
più divertito e, prima ancora che
potessi
aggiungere altro, fu la voce di Havoc a distrarmi; voltandomi,
non
potei fare a meno di assumere un'espressione
disperata e lasciarmi sfuggire un lamento. Aveva un paio di soffici - o
almeno così mi parvero -
orecchie da cane sulla testa, con tanto di coda che sporgeva da un
pantalone scuro molto aderente stracciato al ginocchio, mentre il petto
era completamente esposto allo sguardo, con gli addominali scolpiti in
bella mostra. Alle mani, poi, aveva dei peli che ne ricoprivano il
dorso, con tanto di unghie lunghe.
«Abbiamo
anche il lupo cattivo», ironizzai afflitto.
Lui gettò un'occhiata a me e
poi ad Edward, per poi guardare
se stesso quasi stranito prima di tornare ad osservare me. «In
realtà sarei un licantropo», mi
spiegò a braccia conserte. «E
comunque, pensavo che a quest'ora fosse pronto».
«È
rimasto sconvolto da questo bel pezzo di vampiro che vedi
qui»,
si intromise subito Edward, prima che potessi dire qualcosa in mia difesa.
Havoc lo guardò divertito,
sul punto di scoppiare a
ridere. Ignorandomi temporaneamente, si avvicinò a lui e si
massaggiò il mento con una mano, girandogli intorno per
osservarlo in ogni
minimo particolare e annuire compiaciuto. E quasi mi sentii fremere
dalla voglia di incenerirlo per come lo
guardava! Gli diede poi una pacca sulla spalla, annuendo ancora.
«Mi
sa che vincerai tu, Edward!» esclamò divertito,
lanciandomi un'occhiata che, per qualche oscura ragione, mi parve
alquanto strana. «A
meno che il Colonnello non riesca a trovare un costume migliore,
ovvio».
Passato lo stupido momento di gelosia,
mi accigliai e mi grattai la
testa.
«Non
dirmi che c'è anche una gara», feci, molto vicino
ad una crisi di nervi. Li vidi annuire entrambi e mi ritrovai a
scuotere la testa sconsolato,
con le loro risatine divertite che mi facevano sentire ancora peggio. E
le loro espressioni e i loro sorrisi, in quel momento, mi apparvero
pericolosi, tremendamente
pericolosi. Deglutendo, feci istintivamente
un passo indietro quando li vidi
sfregarsi le mani e avanzare verso di me con quel sorrisino vagamente
bastardo stampato in volto.
«C-Che
avete intenzione di fare?!» squittii nervoso.
In men che non si dica, mi sentii
trascinare via con
facilità da Havoc - e in quel momento maledii il fatto che
fosse
più alto di me e avesse decisamente maggior prestanza fisica
-,
che mi aveva letteralmente caricato sulle spalle fino agli spogliatoi,
quegli stessi spogliatoi che portavano con sé il trauma del kilt,
come l'avevo ormai definito io. Edward ci raggiunse subito dopo con
qualcosa dietro la schiena, e quel sorriso non mi piaceva affatto.
Mi si avvicinò piano, a passo
cadenzato, senza parlare e
senza
mostrarmi quel che teneva con così tanta cura nascosto
mentre
Havoc osservava entrambi, divertito. Che cosa dovevo aspettarmi? «Il
costume l'ho scelto io», mi informò, e, senza che
ne
sapessi realmente il perché, mi ritrovai a deglutire al solo
pensiero di quel che aveva potuto escogitare. E le risate di Havoc
confermavano la mia teoria. Facevo bene a terrorizzarmi!
«E,
anche se non c'entra un granché, con Halloween»
riprese con un sorriso smagliante, con un
cipiglio
che mi parve terribilmente mefistofelico mentre si sedeva su una delle
panche e mi mostrava ciò che lui aveva definito
costume, «penso
che con il perizoma di Tarzan farai un
figurone!»
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Capitolo 11 *** Milk Shake › Ovvero, come riuscire a far bere un po' di latte... ***
Heart burst into fire_Episode 11
Titolo: Milk shake
(ovvero, come riuscire a far bere un po' di latte ad un certo fagiolino)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Onne-shot
[ 1164 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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EPISODIO
11: MILK SHAKE (OVVERO, COME RIUSCIRE A FAR BERE UN PO' DI LATTE AD UN
CERTO FAGIOLINO)
Era
ancora buio, fuori, quando mi svegliai.
Sbirciai appena oltre l'orlo del piumone nel tentativo di focalizzare
la lampada e accenderla per vedere l'orario, la luce resa soffusa dal
debole watt che
usavamo.
Me ne tornai ben presto rintanato nel mio bozzolo, abbracciando
possessivo il calore del corpo di Edward; se ne stava ancora
piacevolmente immerso
nel mondo dei sogni, con la bocca leggermente schiusa a ronfare beato,
senza però che le labbra avessero abbandonato il sorrisino
appagato con cui si era addormentato. Avevo i
piedi e la punta del naso completamente gelati
perché mi
ero accorto che gran parte del piumone se l'era fregato Edward, e
cercai di scaldarmi come potei stringendomi addosso a lui, sentendolo
mugugnare infastidito al contatto della mia pelle nuda e fredda. Di questi
tempi, addormentarsi senza nulla addosso dopo aver fatto
l'amore non era di certo la mossa più grandiosa che poteva
venirci in mente. E adesso,
sveglio, ne pagavo le conseguenze.
Strusciai il viso fra i suoi capelli nel tentativo di riacquistare
almeno in parte la mia temperatura corporea, ma ci rinunciai
ben presto quando lo sentii lamentarsi nel sonno e agitare la mano
d'acciaio per schiaffarmela poi in faccia, ottenendo in quel modo di
aumentare solo il mio gelo. Riluttante, e con un
brivido che mi corse lungo la spina dorsale,
sgusciai fuori dal piumone alla ricerca dei miei vestiti, e una volta
infilato il pigiama presi frenetico a massaggiarmi le mani sulle
braccia, dirigendomi a passi mogi e ciondolanti verso la cucina. Avevo
intenzione di preparare qualcosa di caldo, visto che non riuscivo
a riaddormentarmi a causa del freddo.
Una volta entrato, accesi la luce e
trattenni un sonoro sbadiglio,
scavando nella credenza alla ricerca di qualsiasi cosa. Anche una
tisana mi andava bene, in quel momento. Alla fine
optai per la cosa più ovvia del mondo, dato che su
di
me aveva un buon effetto rilassante, peggio di quello che poteva avere
su un bambino. Un bel
bicchiere di latte caldo. Ancora
assonnato presi il bricco e un bollitore dal mobiletto e, con
un altro sbadiglio, versai abbondantemente il latte al suo interno.
Con gli occhi già mezzi chiusi dal sonno - erano le quattro
di mattina, al mio posto chiunque sarebbe crollato -, mi
apprestai ad accendere il fuoco del fornello e regolare la fiamma, ma
l'improvvisa voce impastata di Edward mi fece sussultare e rovesciare
tutto sul pavimento, nonché scottare due dita.
Ironicamente, il pollice e il medio della sinistra. Un gran
bel colpo per l'alchimista di fuoco, eh? Me le portai subito alle
labbra e succhiai i
polpastrelli, accarezzandoli con la lingua prima di voltarmi verso di
lui,
che si stava stropicciando come se nulla fosse gli occhi, sbadigliando
di tanto in tanto. Indossava
la mia vestaglia nera che gli arrivava ben oltre il
ginocchio, e che lo teneva ben caldo date le gote leggermente arrossate.
«Che
stavi facendo?»
mi chiese, strofinandosi il viso con una mano e avvicinandosi poi a me
per alzare il bollitore da terra, contemplando per poco la chiazza di
latte.
Corrucciato, lo vidi posarlo sul ripiano accanto al lavandino prima di
lanciarmi
un'occhiata a sua volta ,scuotendo la testa nel
vedere la pietosa scena
che stavo allestendo; mi prese con ben poco garbo la mano per
valutare i danni, dandomi poi un buffetto divertito sul naso.
«L'alchimista
di fuoco che si
scotta accendendo un fuocherello»,
ironizzò con un sopracciglio inarcato. «Devo
temere la catastrofe anche verso i piani
inferiori?»
Sbuffai a quell'offesa alla mia virilità, voltando
lo sguardo di lato e notando con la coda dell'occhio Edward cercare
qualcosa da applicare sulle dita, anche se non erano ustionate o messe
poi tanto male. «Non
dovresti avere certi dubbi», lo apostrofai, sobbalzando di
sorpresa al contatto con la crema.
«Fino
a poche ore fa non ti lamentavi affatto».
Sghignazzò, annuendo però divertito alle mie
parole. «Beh, non
è mica colpa mia se non riesci a tenere la pistola nella fondina
a lungo», buttò lì malizioso,
massaggiandomi delicato i polpastrelli con le dita della sinistra.
Gli scoccai un'occhiata obliqua, sorridendo serafico. «Io invece
credo di sì, visto che la tiro fuori per dar battaglia a te»,
replicai con un tono che sfociava vagamente nel bastardo.
Lo vidi immusonirsi prima che si sporgesse oltre la credenza e ne
tirasse fuori due cerotti, che applicò su entrambe le dita.
«A
volte mi chiedo come faccio a sopportarti»,
bofonchiò a
denti stretti, mollandomi la mano per cominciare a ripulire almeno in
parte il disastro che avevo combinato.
«Mi
sopporti perché sono irresistibilmente sexy», mi
vantai con un sorriso, aiutandolo. Ironico e
scettico, mi lanciò un'occhiata, e la sua
espressione, in quel momento, sembrava voler dire tutto. Sia in
positivo sia in negativo.
«Scendi
dal piedistallo», mi disse sarcastico, gettando quasi con una
smorfia di disgusto il poco latte rimasto nel bollitore nel lavandino. «E
poi si può sapere come fai a bere questa roba a
quest'ora?»
Gli tolsi il bollitore da mano e gli scompigliai con l'altra i capelli,
ricevendo da lui un'occhiataccia per come lo trattavo di tanto in
tanto, e cioè come se fosse un ragazzino di quindici o
sedici
anni circa. Beh,
ormai ne aveva ventiquattro... ma, in
qualche modo, lo trovavo divertente e spassoso.
«Questa roba,
come
la chiami tu, è buonissimo e sanissimo latte», lo
informai, vedendolo contrarre il volto in una smorfia. Su quel
punto, nonostante gli anni che passavano, non aveva affatto
cambiato opinione. Ancora
non gli piaceva, bere il latte.
«Questo non
spiega comunque perché sei di qua in cucina con questa roba invece
che di là con
me», borbottò, facendo il
finto offeso. E sapevo
bene come tirarlo su di morale, quando faceva così.
Abbandonai il bollitore e, sorridendogli
ammiccante, registrai con la coda dell'occhio il bricco del latte; sorrisi
ancor di più, con una strana idea che mi era balzata
nella mente. Cinsi i
fianchi di Edward con le braccia, facendo in modo che non
vedesse a sua volta il bricco prima di baciargli il collo. «Non
riuscivo a dormire», sussurrai, sentendolo a sua volta
abbracciarmi attorno ai fianchi per sporgersi verso di me come per
aspirare ad un contatto più profondo,
chiudendo
gli occhi.
A quel punto me ne approfittai, allungando un braccio verso il latte
per bere appena un sorso e baciare subito Edward, più che
sicuro
che, sebbene non lo vedessi, avesse strabuzzato gli occhi. Consumai
quel bacio più in fretta che potei, riuscendo a far
assaggiare anche a lui il latte - un
po' mi colò anche lungo il mento - e quando ci
separammo del tutto lo vidi portarsi frenetico una mano alla bocca,
come se non ci credesse.
«Vedi che
in fondo il latte è buono?» sghignazzai, ricevendo
da lui un'occhiataccia.
Mi fulminò con lo sguardo e io iniziai a correre, ridendo,
con
le sue urla adirate che mi seguivano in ogni dove, infischiandocene
entrambi dei possibili reclami che avrebbero potuto fare le persone
degli altri appartamenti per gli schiamazzi notturni a cui ci
stavamo - anzi, si
stava - dedicando con tanta foga.
«Questa
volta ti castro, parola di Edward Elric!»
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Capitolo 12 *** Tutte a me capitano! › Ovvero, quando Roy Mustang non riesce a... ***
Heart burst into fire_Episode 12
Titolo: Tutte a me
capitano! (Ovvero, quando Roy Mustang non riesce a...)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 1046 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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EPISODIO
12: TUTTE A ME CAPITANO! (OVVERO, QUANDO ROY MUSTANG NON RIESCE A...)
«Ho
voglia
di una torta di mele», disse di punto in bianco Edward,
gettato sul
divanetto dall'altro lato della stanza.
Abbandonai
per un po' la lettura del mio giornale per squadrarlo attraverso gli
occhiali da vista che indossavo, soppesando con interesse la sua
espressione e notandolo con lo sguardo puntato verso uno degli
archivi che ingombravano la Break
Room in cui ci trovavamo per una piccola pausa.
Inarcai
finemente un sopracciglio e ripresi distratto il giornale, accavallando
con disinvoltura le gambe al di sotto del tavolo.
«Devo
considerarla una proposta indecente?» gli chiesi con velato
sarcasmo, e lui si lasciò sfuggire
uno sbuffo innervosito prima di lanciarmi un cuscino che scansai
fortunatamente in tempo,
vedendolo con la coda dell'occhio schiantarsi contro il vetro della
finestra prima di cadere abbandonato sul pavimento.
«Ma
tu vedi perversità anche dove non ci sono?»
sbottò, facendomi ridacchiare. Mi ero
sempre divertito a fargli perdere le staffe a quel modo.
«È
maleducato rispondere ad una domanda con un'altra domanda»,
lo
informai, trattenendo un sorriso con un tremito divertito nella voce
mentre voltavo distrattamente pagina.
«Sai
quanto me ne può fregare di essere maleducato con
te»,
replicò arcigno, nonostante sembrasse sorridere. Gli
lanciai quindi un'occhiata di sbieco per valutare la sua espressione,
vedendo difatti l'ombra di un sorriso incurvargli appena le labbra.
«Abbiamo
cambiato discorso?» sghignazzai, voltandomi verso di lui
anche con la
poltrona e posando sul tavolino dietro al quale era seduto il giornale
per sorreggermi il volto con il dorso della mano destra. Lo vidi
agitare distratto l'auto-mail
su cui aveva issato le maniche della giacca e della camicia, come se
volesse liquidarmi cordialmente.
«Meglio
tenersi lontani da parole che tu potresti fraintendere», fece
quasi con
fare ovvio, passandosi poi con fare non curante l'altra mano fra i
corti capelli per ravvivarli all'indietro.
Sorrisi, scuotendo la testa divertito.
«Non
sono così malato», gli tenni presente, annuendo
poi significativo, e lui scoppiò in una
grossa e sonora risata.
«Ci
sono persone che lo confermerebbero, invece»,
ribatté, poggiandosi una
mano sulla coscia e piegando l'altra gamba sotto di essa. «Sei
malato».
«Io
direi più che mi piace divertirmi», replicai
subito, ricevendo da lui
un'occhiata di sbieco. Si
picchiettò il petto con due dita, inarcando un
sopracciglio.
«A
mie spese», disse, facendomi ridacchiare lievemente.
Alzai entrambe le mani in segno di resa, sollevando un angolo della
bocca.
«Ehi,
anche tu fai la tua parte», mi difesi, e ancora una volta mi
guardò male.
«Quelle
rare volte», rispose prontamente, grattandosi dietro al collo.
«Beh,
dettagli», sghignazzai. Lo
vidi incrociare le braccia al petto per poi distendersi all'indietro
sul piccolo divanetto, poggiando un piede calzato di stivale su di esso
per accavallare le gambe e far aderire la schiena ad uno dei braccioli. Mi
squadrò sarcastico, per poi sorridere.
«Tanto
lo so che ti piace quando sono io a comandare»,
buttò lì, vago e distratto, divaricando le gambe
come a voler alludere a qualcosa.
Per un po' lo guardai, accigliato e
stranito. Poi, con
un piccolo colpetto di tosse, distolsi lo sguardo, vagamente
imbarazzato. Odiavo
ammetterlo, ma quella sottospecie di fagiolino ci sapeva fare. Non aveva
di certo l'esperienza che avevo io alla sua età,
ma
anche con i suoi ventott'anni suonati, riusciva a far impazzire uno con
la mia fama.
Tossicchiai ancora, vedendolo con la coda dell'occhio cambiare
posizione.
«Ma
sai anche che preferisco essere io
a dirigere il gioco»,
mi decisi a ribattere, notandolo mentre faceva spallucce scuotendo la
testa.
«Come
hai detto tu, dettagli»,
mi sbeffeggiò, voltandosi
appena per guardarmi.
Risi falsamente, alzandomi dalla mia postazione.
«Ah
ah ah, divertente», feci, cominciando a camminare avanti e
indietro per la stanza sotto il suo sguardo più che attento.
«Comunque
non ho cambiato idea», mi richiamò, fermando la
mia passeggiatina; lo guardai,
sbattendo perplesso le palpebre senza capire.
«Su
cosa?» chiesi incuriosito, e lui sorrise,
soffiandosi via dal volto alcuni ciuffi di capelli che gli
erano ricaduti sugli occhi.
«Sul
fatto che voglio una torta di mele», riprese, e io mi
ritrovai a
scuotere quasi sconsolato la testa, con una mano sul fianco e l'altra a
massaggiarmi una tempia.
«So
cucinare di tutto ma con i dolci sono una frana, lo sai», gli
dissi gettandogli appena un'occhiata.
Edward sorrise con una punta di seduzione.
«Vorrà
dire che me la comprerai, vero?» concluse, come a voler avere
la meglio.
Mi avvicinai al divano, toccandogli la punta del naso.
«Domani,
se me ne ricordo,
te la comprerò», feci in
risposta,
vedendolo metter su una falsa espressione imbronciata.
«Ma
io la voglio adesso», si impuntò come una
ragazzina,
afferrando un altro cuscino per portarselo al petto e abbracciarselo.
«L'erba
voglio cresce solo nel giardino del Re», sghignazzai,
scostandogli di poco le gambe per farmi spazio sul divanetto stretto.
«Non
sei spiritoso», ribatté, inclinando la testa di
lato per squadrarmi, e io lo guardai
a mia volta, con un sorriso malizioso dipinto sulle labbra.
«E
infatti non volevo esserlo», gli tenni presente, sporgendomi
un
po' verso di lui in modo da fondere i nostri respiri. Si
sistemò meglio sul divano senza smettere di abbracciare
il
cuscino, portandoselo vicino alle labbra per nascondere metà
volto.
«Vecchiaccio»,
bofonchiò con voce sommessa, facendomi scoppiare a ridere.
Con un po' di attenzione, mi portai sopra di lui restando sospeso
a guardarlo, con le mani poggiate sul divano vicinissime ai suoi
fianchi.
«Questo
vecchiaccio sa ancora toccare i tasti
giusti»,
cominciai malizioso, chinandomi sul suo collo per dargli appena un
bacio, scendendo frattanto voglioso con la mano verso il suo basso
ventre nel tentativo di volere di più, ma lui mi
fermò con la sua d'acciaio, muovendo un dito
dell'altra.
«E
non dovrebbe», sghignazzò, abbandonando il cuscino
per
sottrarsi al mio corpo, senza guardarmi negli occhi.
«Perché?»
chiesi io, vedendolo che osservava qualcosa oltre la mia spalla. Mi voltai
verso il punto che fissava, restando avvilito nel vedere i
soliti due guastafeste - non
era difficile immaginare chi fossero - accompagnati
questa
volta anche da Riza. E nel
vedere la mia espressione, alla loro risata si aggiunse anche
quella di Edward.
«Per
non fare scandalo con loro, ovvio!»
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Capitolo 13 *** Play... boy? ***
Heart burst into fire_Episode 13
Titolo: Play... boy?
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
fiction
[ 502 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
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EPISODIO 13:
“PLAY... BOY?”
Sbadigliai
sonoramente e sbattei le palpebre per abituarle alla fioca luce del
sole che filtrava attraverso le persiane, dalla cui finestra aperta a
metà entrava un lieve venticello gelido che, sebbene mi
trovassi
avvolto nel piumone, mi fece rabbrividire.
Avevo un
certo fastidio verso i
piani bassi ma, assonnato com'ero, non ci feci caso,
provando a riaddormentarmi e affondando la testa nel cuscino; un
altro alito di vento mi fece correre un brivido
violento che mi fece tremare e sbattere i denti, e il piumone fu
spostato di lato. Mi
ritrovai a tremare ancor più forte e, riaprendo gli
occhi,
registrai la figura di Edward,
già
vestito con la sua divisa, che mi faceva cenno di alzarmi.
Stranamente
sembrava trattenersi dal ridere, data la sua espressione corrucciata e
il modo in cui si mordeva il labbro inferiore.
«Forza»,
disse.
«Ha
chiamato Riza, siamo...» Non
resistette oltre, scoppiando in una sonora risata che lo costrinse a
piegarsi a mezzo busto e tenersi il braccio d'acciaio sullo stomaco e
una mano sulla bocca per contenere
almeno in parte l'ilarità.
«Siamo
in... ahah! Ritardo!» concluse con le lacrime che
avevano cominciato a scorrergli copiosamente lungo le guance per il
troppo ridere.
Ancora
mezzo assonnato e, diciamolo, incapace di intendere e di volere
date le mie condizioni comatose per il gran sonno, non gli badai
molto, grattandomi una guancia mentre mi rimettevo quanto meno in
piedi, poggiando i piedi oltre il bordo del materasso. Il
fastidio fra le gambe c'era ancora, ma supposi che fosse per il
fatto che la sera prima ci eravamo andati giù un po'
troppo pesante, sia con il sesso che con il whisky - difatti ero
letteralmente
crollato, anche se la testa non mi doleva, adesso - quindi
anche a quello non feci caso.
Edward
intanto continuava a ridere, per un motivo che sulle prime, non riuscii
a capire. O,
almeno, finché non mi ritrovai davanti allo specchio del
bagno, e
restai talmente sconvolto che non ebbi nemmeno la forza di urlare il
mio disappunto. Ero...
ero vestito...
Sentii
un tic nervoso all'occhio e all'angolo della bocca mentre
facevo scorrere lo sguardo sul mio abbigliamento ben poco ortodosso,
soprattutto per un uomo. Avevo
solo una vaga idea del perché fossi vestito così
invece di indossare il mio pigiama. Forse
per lo scherzetto del latte di pochi giorni prima. E
poi stavo anche morendo di freddo, con le braccia scoperte in quel modo. Per
non parlare del fastidio fra le gambe, che adesso capivo a
cosa era dovuto. Calze
a rete, una specie di costume nero fin troppo aderente, colletto della
camicia con papillon... persino
le maniche ai polsi. L'abbigliamento lasciava ben poco spazio
all'immaginario collettivo.
Mi
riscossi subito appena lo realizzai pienamente, strappandomi di testa
quelle lunghe e ridicole orecchie bianche mentre mi fiondavo alla
ricerca di Edward.
«Maggiore
Edward Elric!»
tuonai,
avanzando per casa a grandi falcate, almeno per quanto quel vestito me lo
consentisse. «Che
diavolo ci faccio vestito da coniglietta!?»
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Capitolo 14 *** [ Flash Contest ] Strange Love Story › Il nostro inizio ***
Heart burst into fire_Episode 14
Titolo: Strange love
story (Il nostro inizio)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2224 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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[
FLASH CONTEST ]
EPISODIO
14: STRANGE LOVE STORY (IL NOSTRO INIZIO)
«Si
può sapere dove diavolo mi sta portando,
Colonnello?»
mi chiese
Acciaio con fare annoiato, infrangendo il silenzio che regnava ormai
da più di quarantacinque minuti nell'abitacolo della mia
auto.
Senza
staccare gli occhi dalla strada asfaltata su cui sfrecciavamo,
gli scoccai appena una fuggevole occhiata, non ritenendo necessario
rispondergli immediatamente. In
quella situazione era meglio concedergli il beneficio del dubbio.
Soprattutto
perché sarei stato io, dopo, a farne le spese. Ancora
mi chiedevo perché mi cacciassi in certi rompicapi che non
avrebbero fatto altro che farmi ritrovare, come si suol dire, cornuto e mazziato.
Innamorarmi
di un ragazzino quasi diciassettenne appena entrato nella
sua cosiddetta pubertà. Proprio
un bel problema, il mio.
«Allora?
Mi vuole rispondere?» la sua voce improvvisa fu in grado di
ridestarmi parzialmente dai miei catastrofici
pensieri.
Spazientito
quanto lui, gli lanciai un'altra occhiata,
accostando ad un lato della strada prima di spegnere il motore sotto il
suo sguardo alquanto confuso. Staccai
le mani dal volante e poggiai un gomito al di sopra dello
schienale del sediolino, voltandomi con il busto verso di lui in modo
da
poterlo osservare attentamente in volto.
Quell'aria
da so tutto
io che
aveva stampata sul viso si accentuò maggiormente quando
sollevò un angolo della bocca, dando vita ad un sorriso
ironico e
bastardo quanto i miei.
Deciso
più che mai a cancellargliela, mi sporsi un
po'
verso di lui come se volessi provare ad intimorirlo, gli occhi
ridotti a due fessure mentre lui corrugava le sopracciglia. «Riesci
a stare cinque minuti senza fare domande?» gli sbottai
contro
in tono esasperato, vedendolo aggrottare la fronte.
Edward si
scostò un po' da me indietreggiando sul sedile
quasi
senza un motivo preciso, incrociando le braccia al petto, non prima di
essersi scostato la treccia che gli era ricaduta su una spalla.
«Le ho solo
chiesto dove andiamo», borbottò con un tono di
voce che sfociava tra il sarcastico e l'offeso. «Non
mi va di fare la candela se deve rimorchiare, quindi mi sembra doveroso da parte
sua mettermi al corrente».
Non
mi andava a genio che mi considerasse anche lui un libertino, ma
ormai sembrava che ce l'avessi tatuato in fronte. Sono uno stallone in
cerca di giumente, lo dice anche il mio nome. Certo, uno
stallone che si ritrovava a girare intorno ad un puledrino, o meglio,
un pony. Non ero
certo che mi avrebbe creduto se gli avessi detto che provavo
qualcosa di speciale
per lui.
«Non devo rimorchiare
nessuna donna», risposi, voltandomi nuovamente
per
avviare il motore e tornare in strada, con la luce del sole morente che
ci accompagnava nella nostra bizzarra traversata verso
il nulla. Volevo
solo allontanarmi un po' con lui, non avevo una meta
precisa.
Acciaio si sporse verso il cruscotto e
poggiò
sopra un braccio, così da mantenere in precario equilibrio
il
volto nel palmo d'acciaio. «Difficile
credere che non sia in giro in cerca di un bel pezzo di figa,
caro Colonnello», mi sbeffeggiò con una punta
d'ironia e
amarezza,
come se ciò che lui stava immaginando non gli piacesse
affatto.
Provare a convincerlo che ciò
che volevo
l'avevo
già trovato sarebbe stato come gettare denaro ai porci: inutile
e infruttuoso.
Così
non ribattei e continuai a guidare, con quello strano
silenzio imbarazzante che era tornato a galleggiare pesantemente fra
noi, rendendo quella traversata peggiore di quanto credessi al
principio. Non
ero affatto abituato a trattare con i ragazzini, e
se si aggiungeva il fatto che il ragazzino in questione era Acciaio...
porcaccia,
perché mi ero ritrovato in quel pasticcio? Con
tutti quei pensieri che mi opprimevano le pareti del cervello, mi
fermai solo quando il paesaggio intorno a noi si oscurò,
attenuando ogni colore circostante. Eravamo
nei pressi di un motel fuori città, la nostra auto
parzialmente nascosta dalla quasi fittissima vegetazione che lo
circondava. Ricevetti
da Acciaio uno sguardo spaesato quando sfilai le chiavi dal
quadro e le tenni in mano prima di aprire la portiera per
scendere.
Vedendolo
ancora immobile, sbuffai, chinandomi a mezzo busto per
sbirciare all'interno dell'auto.
«Che
vuoi fare, Acciaio, dormire in macchina?» ironizzai, e lui,
a
quelle mie parole, sbatté perplesso le palpebre, come se non
capisse.
«Vuole affittare una camera?» chiese di rimando
decidendosi ad uscire e a chiudere - con
tanto di sicura - la portiera, deglutendo a disagio. «In
quel posto?»
aggiunse, indicando con il dito d'acciaio il motel.
Mi
limitai solo ad annuire risoluto mentre chiudevo a chiave l'auto,
incrociando poi le braccia al petto. E
seppur riluttante e con una certa agitazione, lui mi seguì
restando in silenzio mentre parlavo in fretta e senza giri di parole
con il proprietario, che gettava di tanto in tanto qualche sguardo a me
e poi a lui. Quando
mi consegnò le chiavi accompagnandoci entrambi fuori,
in
una delle camere adiacenti e poi si congedò, sentii Acciaio
emettere un basso lamento, chiudendosi la porta alle spalle. Faceva
scorrere come me lo sguardo sull'arredamento, soffermandosi
soprattutto sul letto matrimoniale
che occupava il centro. Ehi,
era già tanto essere riusciti a trovare una stanza... quello
del letto era un inconveniente valicabile.
«Ci
dormo io lì, vero?» fece indicandolo, con la testa
voltata verso di me.
Inarcai
un sopracciglio, scuotendo la testa. Beh,
non era esattamente quello che avevo in mente all'inizio, ma avrei
almeno potuto avere un pizzico di intimità con lui. «Il
lato di destra è mio», mi limitai a dire,
vedendolo
di
sfuggita restare di stucco; cominciai a togliermi la camicia e mi
compiacqui del suo sguardo e delle sue gote leggermente arrossate. Poi
mi coricai senza dire una parola disfandomi delle scarpe,
sbadigliando sonoramente e incrociando le braccia dietro alla testa. «Beh? Non
vieni?» gli dissi, sbadigliando ancora.
Il
rossore sulle sue guance andò ad intensificarsi. Che
fosse un tipo così pudico? Nay,
c'era dell'altro. E
se anche lui provava qualcosa per me? Era
mai possibile quel che stavo pensando? Nah, non dovevo farmi certe
illusioni.
«Guardi
che a me non sembra poi tanto normale dividere il letto con un altro
uomo, Colonnello», mi tenne presente, e mi sembrò
di
vederlo deglutire. «Strano
che proprio a lei la cosa non la disturbi».
Nonostante
l'espressione decisa e saccentemente distaccata che aveva in
volto, la sua voce aveva un leggero tremito che lo tradiva. In
quel momento non mi dispiaceva affatto ammetterlo. Era
adorabile.
Benché
stesse cercando di fare il duro.
Con
un sorriso, mi rialzai e mi avvicinai ad una spanna da lui,
abbassando lo sguardo per poter meglio incontrare i suoi occhi dorati. Non
parlammo per niente, ma dopo poco, deglutendo, lui distolse lo
sguardo, ritrovandosi ad osservare il mio petto. E
non potei non sorridere maggiormente, nel vedere il rossore che gli
saliva sempre di più al viso. Seppur
avrebbe considerato sfacciato il mio comportamento, mi chinai
verso di lui in modo da potergli sfiorare appena un orecchio con le
labbra, sentendolo sussultare al tocco.
«Io
non ci vedo nulla di male a dormire con un uomo»,
sussurrai, con una voce roca e sensuale che ero solito usare nei
momenti d'intimità. «Soprattutto
se l'uomo sei tu».
Da quelle mie parole ambigue e provocatorie, adesso, dipendevano
le mie condizioni nei
prossimi secondi che sarebbero passati. Mi
stavo preparando psicologicamente ad un rifiuto o ad incassare
qualche pugno, ma stranamente non ricevetti nessuno dei due. Sentii
solo la sua risatina. Infantile
e incerta, vero. Ma
cristallina. Un
suo sguardo dorato e luccicante, subito dopo, mi incatenò
completamente al suo volto dai lineamenti morbidi e ancora
fanciulleschi.
«Si
è dato alla caccia
agli uccelli,
a quanto sembra», disse scherzoso ma con voce titubante,
forse nel tentativo di alleviare la tensione.
Non
resistetti molto, gli cinsi i fianchi con entrambe le braccia
attirandolo verso di me così tanto da farlo quasi aderire al
mio
petto nudo, nonostante la sua espressione stupita. Gli
rubai un bacio, appena uno per assaporare la consistenza delle sue
labbra di sfuggita, non volendo approfondire nulla, fra noi. E
quando lo guardai nuovamente in quegli occhi d'ambra, erano
sì
dilatati per la sorpresa, ma con quel velo trasognato d'imbarazzo che
quasi mi sembrò sfociare nell'erotico. Ma
forse era colpa della mia astinenza
da sesso, quel particolare.
Lui
si allontanò un po' da me e mi poggiò le mani
sulle
clavicole per evitare il petto, deglutendo sonoramente mentre si
leccava inconsciamente le labbra. Per
non far sparire la sua solita aria, Acciaio cercò di
sollevare le
labbra in un sorriso sardonico ma, non riuscendoci, diede invece vita
ad un sorriso così dolce che stentavo a credere gli
appartenesse.
«Lo scapolo
d'oro d'Amestris che bacia un uomo»,
sghignazzò, ma con imbarazzo. «Immagino
che questo spezzerà il cuore di molte donne».
Mi
lasciai andare ad una risata liberatoria, non sentendo
più
quella strana aria di pesantezza ad opprimerci e avvolgerci come un
lenzuolo. «E
a te la
cosa sta bene?» replicai solo, con un enorme sorriso stampato
in
volto e che vedevo riflesso nei suoi grandi occhi dorati.
Annuì e sorrise a sua volta, abbassando le braccia lungo i
fianchi. «Finché
sta bene a lei, perché non dovrebbe star bene a
me», fece,
distogliendo appena lo sguardo senza però abbandonare il
sorriso. «E
lo confesso, non potevo sperare di meglio, in
realtà».
«Stessa
cosa vale per me», ribattei mormorando dolce, arrischiandomi
a
prendergli le mani fra le mie prima di baciarne delicato i dorsi,
portandolo poi verso il letto. E
quella sua aria d'audacia sfumò del tutto. Si
agitò un po', provando a farmi mollare la presa, ma
provai a rassicurarlo, stringendogliele ancor più forte
per calmarlo. «Non ti
preoccupare, non ti tocco», sussurrai, ben sapendo quale
fosse il suo timore, in quel momento, dopo quel mio gesto. Roy
Mustang più letto... uguale
sesso. Equazione
molto semplice per chiunque.
Nonostante
la mia rassicurazione quindi, mi costrinse a lasciarlo
sfruttando la forza del suo braccio d'acciaio, allontanandosi un
po' da me.
«Me
lo giura?» mi chiese, con un rossore che non gli avevo mai
visto.
Con
decisione, annuii energico, portandomi una mano alla fronte come
per fare il saluto militare. «Parola
di soldato», dissi sicuro, vedendolo ancora
tentennare. «Non sono
così depravato da sedurre
un minorenne e portarmelo a letto», soggiunsi a mo' di
rassicurazione ancor più risoluta.
Anche
se non era del tutto convinto dei miei principi morali, si
riavvicinò un po' scrutandomi ancora insicuro
prima di sedersi sul bordo del materasso. Restando
con quella sua solita maglietta a giro maniche nera, si tolse
solo la giacca del medesimo colore poggiandola sul comodino, sfilandosi
poi gli stivali.
Aggraziato
ai miei occhi, si tolse anche l'elastico rosso che
contrastava con il colore dorato dei suoi capelli cominciando a
sciogliersi la treccia, e quei fili di grano gli ricaddero in un'onda
morbida e ambrata sulle spalle. Restai
a guardarlo quasi estasiato, ricevendo una sua occhiata
perplessa. Il
biondo sopracciglio inarcato d'altronde, non faceva che accentuare
la sua espressione scettica.
«Perché mi guarda in quel modo?» mi
domandò, sollevando maggiormente il sopracciglio.
Sorrisi,
stringendomi nelle spalle. Mica
potevo dirgli che mi piaceva un casino con i capelli sciolti, no? «Nulla di
che», mi limitai quindi a dire, facendo nuovamente
spallucce. «Pensavo
che in quasi quattro anni è la prima volta che ti vedo con i
capelli sciolti».
Sbuffò
impercettibilmente, passandosi le dita fra quella
chioma dorata che stavo rimirando e elogiando mentalmente.
«Scusi se lo dico, ma lei è proprio idiota,
Taisa», rispose semplicemente senza aggiungere altro,
sdraiandosi
accanto a me quando lo feci anch'io.
Evitò
accuratamente il minimo contatto fra noi, tenendosi le
coperte fin sotto al naso e lanciandomi di tanto in tanto delle
occhiate come per controllare che tenessi le mani a posto. Ne
intercettai una, sorridendogli. E
senza che lui potesse dire nulla lo attirai a me facendo in modo di
abbracciarlo da dietro, non approfondendo però il contatto
fra i
nostri corpi. Non
volevo si agitasse; ma
sussultò comunque, voltando appena la testa verso di me.
«Tenga
a cuccia Fido,
mi raccomando», mi ammonì, tra il severo,
l'ironico e l'imbarazzato. «Non
vorrei avere sorprese che premono
quando mi sveglio, grazie».
Ridacchiando,
mi avvicinai una mano al viso e ne baciai due dita
delicatamente, portandomele poi al petto con grazia. «Ho un
perfetto auto-controllo»,
garantii, posando il mento sulla sua spalla prima di chiudere gli occhi
con un sorriso. «Fidati».
Forse
troppo stanco per ribattere, lui si limitò ad annuire. Come
se fosse naturale farlo, lo cullai fra le mie
braccia finché non si addormentò beatamente sul
mio
petto, i capelli biondi e morbidi che vedevo per la prima volta sciolti
mi solleticavano appena la pelle, una
sensazione piacevole e serena.
In
quel momento, nel nostro abbraccio, non c'era nulla di erotico. E
non ero abituato a quella strana... purezza che sentivo. Con
quel nostro bizzarro modo di fare ci eravamo bene o male confessati
il nostro amore, e la cosa mi andava bene anche così. Avevo
la certezza che, quella, fosse solo una delle tante notti che
avremmo passato insieme. Restai
così a godermi ogni singolo respiro che sfuggiva
dalle
sue labbra rosee e il calore del suo corpo contro il mio, ispirando il
profumo dei suoi capelli con bramosia.
Quella
gemma imperfetta ma preziosa era mia, e
non l'avrei mai più lasciata andare.
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Capitolo 15 *** [ Special di Natale ] Vigilia di Natale ***
Heart burst into fire_Episode 15
Titolo: Vigilia di
Natale
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
fiction
[ 2600 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Famiglia Hughes
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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[ SPECIAL DI NATALE ]
EPISODIO 15:
VIGILIA DI NATALE
Aprendo
piano gli occhi, scoprii che la mia vista era coperta da qualcosa che
ricordava vagamente l'oro, sfocata com'era.
Focalizzando meglio l'immagine e sbattendo ripetutamente le palpebre
per scacciare la patina della sonnolenza, riconobbi i capelli biondi di
Edward. Lo sentii
muoversi appena e il suo intero corpo strusciò
contro
il mio, facendomi rabbrividire di piacere insieme all'aria gelida che
filtrava attraverso le fessure della finestra.
Lui alzò la testa e mi guardò con un luccichio
malizioso
negli occhi dorati e, passandosi allusivo la lingua sulle
labbra,
capii le sue intenzioni non appena la sua mano sinistra
cominciò
a giocherellare con il mio inquilino al piano di sotto. Soffocai
un gemito quando concluse,
sentendo qualche istante dopo il peso della sua testa sul mio petto
mentre la mano vagava
distratta lungo un fianco.
«Buona
vigilia di Natale», sussurrò, e colsi una nota
divertita nella sua voce bassa. «Sei
più sveglio, adesso?»
Gli carezzai la schiena con un sorrisetto soddisfatto sulle
labbra. «Sveglissimo,
direi», mormorai, e lo sentii ridacchiare. «Auguri
anche a te», soggiunsi poi, e lui avvicinò il
volto per
posarmi sulle labbra un piccolo bacio.
«Se
sei
sveglio, allora...» fece con un sorriso, cominciando a far
vagare
distrattamente due dita sul mio petto nudo. «...che
ne dici di alzarti e andare a fare la spesa per il cenone?» Mi
lasciai sfuggire un lamento, voltando la testa di lato e affondando
una guancia sul cuscino, mentre sentivo il suo corpo scosso da risatine
incontrollate. «Andiamo, mo dubh,
lo sai che saremo in tanti stasera, no?» riprese nel sedersi
a
cavalcioni su di me, e mi trattenni dal sospirare di piacere al leggero
contatto tra noi. «E
Hughes ci ha chiesto il favore di fargli la spesa! Non puoi voltare le
spalle ad un amico in difficoltà!»
Continuò la sua tiritera
melodrammatica per un buon quarto
d'ora, finché non mi decisi a voltare nuovamente la testa
verso
di lui per guardarlo, con un'espressione che, ne ero sicuro, sembrava
più irritata che sconsolata.
«Dovrei
abbandonare il mio bozzolo di calore per andare a gelarmi le chiappe
là fuori?» gli chiesi con ovvietà,
inarcando un
sopracciglio.
Categorico e senza dire una parola, lui annuì, e io alzai lo
sguardo al soffitto, sospirando.
«Guarda
che se esco tornerò stile ghiacciolo», gli
tenni presente, e lo
sentii ridere sonoramente.
«A
me piacciono i ghiaccioli»,
sghignazzò, posandomi poi un bacio sul naso. «Soprattutto
quelli al limone».
Avevo deviato quel ragazzo in una maniera bestiale. Non
riuscivo quasi a credere di averlo reso così malizioso.
«Mi
spiace tanto per Maes, ma dovranno accontentarsi con quello che hanno
in frigo», mi impuntai, scuotendo la testa sul cuscino. «Io
non esco a fare la spesa la Vigilia di Natale».
«Generale
Mustang, da lei non me lo aspettavo!» esclamò,
scostandosi da me per inginocchiarsi sul materasso. «Dov'è
finito il suo spirito natalizio? E soprattutto... come le viene in
mente di abbandonare un soldato in difficoltà! In tanti
anni
della mia onorata carriera, non avevo mai visto nulla di simile!»
Mi sfregai una mano sulla fronte, ridacchiando alla sua
drammaticità da attore shakespeariano. Girandomi
su un fianco, mi ressi il volto sul palmo della mano,
osservandolo e sorridendo ironico. «Ehm...»
lo richiamai con un colpetto di tosse.
«...quali anni di onorata carriera, mio caro Tenente
Colonnello
Elric?» ghignai, vedendolo interrompere di botto
la
sua solfa. «Non
sei mica un veterano!»
Lui mi squadrò con un sopracciglio inarcato.
«Guarda
che, anche se ho solo
ventotto anni, sto nell'esercito da molto
più di te», fece ovvio, annuendo a se stesso
mentre
alzava l'indice d'acciaio.
Mi ritrovai a ridere, a quella sua constatazione. Undici
anni che stavamo insieme, e questo ragazzo - o meglio, uomo -
continuava a stupirmi!
«Questi
ventotto anni non li vedo da nessuna parte», replicai
divertito, vedendolo assottigliare con fare minaccioso gli occhi
dorati. «Mi
ricordi un ragazzino quindicenne che conoscevo tanti anni
fa», continuai, prendendolo in giro.
«Aveva
sempre una ridicola treccina e un ancor più ridicolo
cappotto
rosso che lo faceva somigliare ad un fagiolo d'Azuki».
Edward mi tirò il naso con ben poco garbo,
facendomi
mugolare di dolore poiché usò la mano destra per
farlo. I suoi
occhi, atteggiati ad un'espressione arcigna, mi scrutarono per
un po', prima che le labbra gli si stirassero in un sorriso
mefistofelico. «Visto
che mi hai preso in giro, ti tocca alzarti, adesso»,
disse
divertito, ravvivandosi distrattamente i corti capelli biondi
all'indietro, distogliendo come se nulla fosse lo sguardo.
Sorrisi anch'io, stiracchiandomi sul materasso.
«E se mi
rifiutassi?» chiesi prontamente.
Mi sorrise ancor di più, sfacciato. E quel
sorriso lo conoscevo fin troppo bene. «Sai,
uno dei miei buoni
propositi per l'anno nuovo potrebbe essere quello di
prendermi una specie di... periodo di pausa», si
guardò appena, quasi svogliato, la mano d'acciaio. «Niente
carezze, niente baci... niente sesso».
Rimasi sbigottito, spalancando la bocca.
«E
no, eh!» mi lagnai, drizzandomi a sedere. «Non
puoi farmi questo!»
Allungò il braccio meccanico poggiandomi un dito sulle
labbra, divertito. «E chi me
lo proibisce?» replicò spassoso, e io gli scansai la
mano, attirandolo verso di me.
«Io,
logico!» ribattei, ma gli
provocai una sonora risata.
«Ehi,
a quarantadue anni dovresti darti una regolata. Io
lo faccio solo per te». A quel suo dire gli diedi un
pizzicotto e
lui, lamentandosi, si massaggiò la guancia con fare offeso.
«Non
ho detto nulla di male», borbottò. «Non
sei più giovane come una volta, in fondo, mi
preoccupo».
Inarcai un sopracciglio. Odiavo
quando si parlava della mia età.
Soprattutto durante le vacanze natalizie.
«Su
queste cose sono ancora agile come un giovanotto, lo sai»,
gli
tenni presente, vedendolo gettarmi un'occhiata sarcastica; poi un
sorrisone sornione gli si dipinse in volto e si sporse verso di
me per scoccarmi un bacio a timbro sulle labbra.
«E
che giovanotto», fece sensuale, accarezzandomi lascivo il
collo. «Ma
abbiamo ancora una questione in sospeso, ti ricordo», si
allontanò da me per alzarsi in piedi. «Si
va a fare spese!» Prima
ancora che me ne rendessi conto, mi afferrò saldamente
per
un braccio e, sfruttando la sua forza, mi costrinse ad alzarmi dal
materasso.
Rabbrividii al contatto con l'aria
gelida mentre
sorpassava il piccolo alberello addobbato che avevamo in corridoio e mi
trascinava, fischiettando allegro un motivetto natalizio e seguito a
ruota da Sam - appena
sbucata dal salotto -, in bagno; aprì
il getto caldo della doccia e mi ci buttò
sotto,
voltandosi verso la nostra cucciolotta per farla stare fuori prima di
seguirmi svelto e bagnarsi la testa. Restai
immobile sotto l'acqua che scrosciava sulle nostre teste con un
sopracciglio inarcato, mentre lo vedevo arraffare lo shampoo e
strofinarselo fra i corti capelli, gettandomi appena uno sguardo
più che divertito.
«Beh?
Per caso devo lavarti io, vecchietto?»
sghignazzò, notando
che non mi ero ancora mosso a causa della confusione. «Ti
accompagno, non ti basta?»
Alzai stupidamente lo sguardo, ritrovandomi il viso completamente
investito dal getto d'acqua; Edward trattenne a stento le
risate, poi la sua mano afferrò la mia, passandomi il sapone. Scossi la
testa, arrendendomi ormai all'evidenza. Dovevamo
uscire. Passammo
però più di venti minuti a giocare sotto
la
doccia, schizzandoci addosso l'acqua come dei bambini nonostante
fossimo entrambi uomini fatti e cresciuti, tra bolle di sapone e
risatine divertite, giocando persino con Sam, che era riuscita ad
aprire la porta e si era infilata nella doccia insieme a noi, abbaiando
allegra. E poi,
pronti e incappottati, salutammo la nostra figlioletta
e cominciammo a vagare fra le strade di
Central City con il freddo che si insinuava attraverso il nostro
vestiario, mentre sorpassavamo persone che, ritardatari come noi,
compravano le ultime cose per la serata. Ci
dirigemmo così, senza fretta, a procurarci tutto il
necessario
per il cenone a casa di Maes, cercando di riscaldarci come potevamo nei
nostri cappotti. Certo
che, con tutte le persone che Hughes aveva
invitato, poteva benissimo risparmiarci quella passeggiata a Briggs!
Girovagammo per i negozi del centro per quasi tutta la giornata, prima
di riuscire a trovare quel che ci serviva e, alle 19:00 in punto,
eravamo già davanti casa Hughes, con le buste della spesa
ben
strette fra le braccia. Venne ad
aprirci Glacier, con indosso un grembiule. Ci
sorrise appena ci vide e ci salutò, aprendo completamente
la porta.
«Coraggio,
entrate! Non vorrete restare al gelo, vero?»
esclamò
gioviale, spostandosi di lato per farci accomodare in casa, al
calduccio. La vidi di
sfuggita aiutare Edward con le buste per alleggerirgli il
carico.
«Grazie,
Glacier», fece lui, gettandomi un'occhiata. «Questo
vecchietto non poteva portare da solo tutte queste buste!»
Lei rise divertita, sistemandosi meglio la spesa. «Hai
fatto bene ad aiutarlo!» gli diede manforte, ed entrambi mi
osservarono di sottecchi, come se si aspettassero che rispondessi a
tono. Invece,
chinando il capo come un galantuomo, oltrepassai il corridoio e
mi diressi in cucina, seguito appena dalle loro flebili risate,
poggiando poi le buste che reggevo io sul tavolo.
Lì aleggiava un profumino così delizioso
e un
tepore così piacevole, che quasi quasi sarei rimasto,
fregandomi
magari qualche biscotto allo zenzero che vedevo su un vassoio poco
lontano, dove c'era anche un bel piattone di struffoli strapieni di
miele. Mi leccai
le labbra, già sentendone il dolce sapore nel
palato. Ma prima
che potessi anche solo provarci, la voce di Glacier mi
ammonì.
«Mi
spiace tanto, Roy, ma quelli per adesso sono per i bambini»,
mi
informò divertita, e voltandomi, la vidi entrare in cucina
con
Edward, che stava posando le buste accanto alle mie.
«Ma
oltre a Jake e ad Elicia non ci sono bambini»,
protestai, ben sapendo però che definire bambina Elicia era
un
eufemismo bello e buono. Forse il
figlio di Havoc lo era, ma lei no.
Glacier ridacchiò, sistemandosi meglio il grembiule.
«Maes
e Jean non li conti?»
sghignazzò, cominciando a svuotare le buste, aiutato da
Edward
che, stranamente, aveva lanciato a me uno sguardo divertito.
«Allora
anche Roy entra benissimo nella categoria, Glacier!»
esclamò difatti, avvicinandosi a me per afferrarmi un
braccio e spingermi fuori dalla cucina. «Vai
a ciondolare da un'altra parte, qui ti mangeresti solo
tutto!»
Mi ritrovai a fare spallucce pensando stupidamente che la mattina
stessa non aveva fatto altro che chiamarmi vecchio, e adesso invece mi
dava del bambino.
Sospirando, mi diressi a passo mogio verso il salotto, dove trovai Maes
ad Elicia completamente sommersi dalle decorazioni, tra palline rosse e
blu e tra rose color oro che spuntavano fra il verde degli aghi
dell'albero. Sorrisi
alla scena. Io e
Edward c'eravamo limitati a quello striminzito alberello
che avevamo nel corridoio - che
puntualmente Sam faceva cadere per divertimento - e a
mettere la scritta Buone
Feste contornata dal pungitopo. Maes,
invece, aveva pensato persino al vischio. Avevamo
poco spirito natalizio, forse...
Ridendo divertiti come dei bambini, finirono di addobbare l'albero,
prima di accorgersi della mia presenza nel bel mezzo del salotto. Appena mi
vide, Elicia mi sorrise gioviale, gettandomi le braccia al
collo.
«Auguri,
zio!» esclamò, dandomi un bacio sulla guancia.
Le scompigliai i capelli con una mano, sapendo fin troppo bene che quel
gesto la mandava in bestia, vedendo con la coda dell'occhio Maes
riporre le decorazioni inutilizzate nello scatolo posto sul lato destro
della stanza. Si
sistemò gli occhiali sul naso voltandosi verso di me, gli
occhi smeraldo sembravano sorridere.
«Eli,
meglio se vai a dare una mano alla mamma», disse alla figlia,
guardandola mentre cercava si sistemarsi i capelli che io le avevo
scompigliato.
Lei lo guardò a sua volta, sorridendo. «Dovete
parlare di cose
da uomini?» chiese innocente, e vidi Maes
trattenere una risata.
Annuì divertito, e sentii lo sguardo di Elicia puntato su di
me.
«Zio
Ed?» mi domandò prontamente.
Più la guardavo, e più non potevo fare a meno di
pensare che il tempo passava troppo velocemente. Quasi non
riuscivo a credere che avesse sedici anni!
«È
anche lui in cucina», mi decisi a risponderle, e annuendo con
fare significativo, atteggiandosi a gran donna, ci lasciò ai
nostri cosiddetti discorsi
da uomini, sorridendo e ridacchiando divertita mentre
spariva alla volta della cucina.
Maes ridacchiò e mi lanciò uno sguardo
divertito,
facendomi poi cenno di seguirlo verso il divano, dove ci
gettammo sopra a peso morto.
«È
il decimo o l'undicesimo anno, che venite a festeggiare qui?»
mi
chiese, con un sorriso dipinto sulle labbra.
Sorrisi a mia volta, reclinando la testa all'indietro sullo schienale
del divano, concentrandomi con fin troppo interesse sul vischio appeso
al lampadario. «L'undicesimo,
Maes, l'undicesimo», mormorai con inconsapevole dolcezza,
chiudendo gli occhi. Quelli
erano stati gli anni migliori della mia vita, i più
pieni di gioia che avessi mai passato. Non
riuscivo nemmeno ad immaginarmi come avrei potuto passarli, se al
mio fianco non ci fosse stato Edward. Mi aveva
letteralmente riempito la vita, con la sua presenza.
«Undici
anni di natali insieme»,
mormorò a sua volta, e mi parve dalla voce che stesse
continuando a sorridere. «Che
gli regali, stavolta?» mi chiese divertito.
«Se
ti dicessi che è una cosa che non si può
dire?»
replicai, abbassando lo sguardo per osservare il suo volto, atteggiato
ad una maschera di curiosità.
«Devo
supporre che sia qualcosa per i vostri giochini?»
fece, con un sopracciglio inarcato, sistemandosi meglio gli occhiali
sul naso.
Scoppiai a ridere, scuotendo divertito la testa.
«Perché
mi credete tutti così pervertito?» domandai io,
facendo finta di nulla, e ci
guadagnai un'occhiata sarcastica.
Più che sarcastica, mi corressi.
«È
maleducato rispondere ad una domanda con un'altra domanda,
Roy», sghignazzò, dandomi una pacca sulla spalla. «E
comunque sì, tu sei più che
pervertito».
Con
non curanza, non mi presi la briga di rispondere, mentre facevo
distrattamente scorrere
lo sguardo per il salotto, soffermandomi sorridente sull'albero
addobbato. «Devo
farti i complimenti, Maes», dissi, cambiando discorso,
alzandomi
dal divano per guardare l'albero più da vicino. «Tu
ed Elicia avete fatto proprio un lavoro con i fiocchi».
«Modestie
a parte», fece, passandomi un braccio dietro alle spalle. «Siamo
stati veramente bravi».
Sghignazzai,
divertito. Era tutta
la mattina che ridevo per un nonnulla, forse era colpa di
quel giorno di festa, chissà.
«Ma sentitelo il papà!» esclamai. «Non
ti montare la testa!»
«Ma chi?
Io?» ridacchiò, portandosi teatralmente una mano
al petto, squadrandomi. «Non
mi chiamo mica Roy Mustang!» Gli
assestai una bella pacca sulla spalla, facendolo barcollare appena
in avanti. Si
sistemò gli occhiali sul naso, allontanando il braccio
per farli ricadere entrambi lungo i fianchi.
«Dai,
che scherzavo», bofonchiò con un cipiglio
sarcastico.
Ricominciammo parlare del più e del meno, ricordando persino
gli
anni in cui eravamo dei ragazzini per
chissà quanto tempo, andando di tanto in tanto in cucina per
vedere cosa combinavano ai fornelli le nostre donne e
beccandoci puntualmente - soprattutto da Edward che, con un coltello in
mano, faceva tremendamente paura - una sgridata. Restammo
in salotto a chiacchierare finché non
arrivarono anche gli altri, e ci riunimmo tutti in sala da pranzo
quando la cena fu pronta.
L'atmosfera era calma, serena,
straordinariamente famigliare mentre,
tra
risate e battibecchi, consumavamo tutto ciò che Glacier
metteva
in tavola, brindando. Io
gettavo sguardi ai volti di ognuno, godendomi come ogni anno i loro
sorrisi, la loro gioia, e non potevo fare a meno di sorridere a mia
volta ogni volta che incrociavo lo sguardo felice di Edward, che
parlava animatamente con il fratello.
Il calore di una famiglia gli era sempre
mancato, ed ero
più che felice di riuscirglielo a dare. Almeno
nel mio piccolo.
_Note inconcludenti dell'autrice
We wish you a
merry Christmas, We
wish you a merry Christmas, We
wish you a merry Christmas, and happy new year! Buon
natale a tutti! Cioè, buona vigilia!
Una mezza cosa su questa festa sono riuscita a scriverla anche io e a
postarla prima di domani, e anche se non è un
granché,
viene dritta dritta dal cuore, e spero passiate un bel Natale in
compagnia. E tantissim auguri a Red
Robin che diventa un anno
più vecchio/a! Augurissimi, cara alter ego mio!
Spieghiamo una cosa veloce veloce
prima di sparire: Sam (O meglio, Samantha)
verrà presentata un po' più avanti,
anche se qui ho
accennato la sua presenza con i due alchimisti.
Io vi saluto e vi do' ancora gli auguri, vado a rimpizzarmi di cibo,
dolci e panettone!
Mianntan! ♥
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Capitolo 16 *** [ Storia Fuori Serie ] Visita inaspettata ***
Heart burst into fire_Episode 16
Titolo: Visita
inaspettata
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
fiction
[ 3207 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
16:
VISITA INASPETTATA
Era
una serata come tante. Avevamo
appena finito di cenare e adesso ci trovavamo entrambi seduti su uno
dei divani del soggiorno, a leggere e a bere whisky. Quella
sera saremmo
dovuti uscire, ma, a causa della pioggia battente che aveva
cominciato a scrosciare, parecchie strade si erano allagate e, dato che
la mia auto
era un bel po' vecchiotta, la batteria, in giornate del genere, ci
abbandonava. Quindi
avevamo rimandato a quando il tempo ce l’avesse permesso,
decidendo di
passare una normale e tranquillissima serata a casa.
Cercai
di concentrarmi come potevo sul mio libro, gettando di tanto in tanto
occhiate interessate ad Edward, immerso completamente nella lettura. Non
mi stava minimamente calcolando... lo
odiavo, quando faceva così. Con
non curanza, mantenni il tomo con una mano, allungando
l’altro braccio
verso di lui per cingergli le spalle e attirarlo un po' a me. Ricevetti
un suo sguardo divertito, prima che abbandonasse il libro sulle
ginocchia e si ravvivasse all’indietro i corti capelli.
«Suppongo
tu ti stia annoiando, vero?»
ironizzò, dando vita ad uno di
quei sorrisi maliziosi che mi mandavano in delirio ancora adesso
nonostante il passar degli anni.
Mi
avvicinai maggiormente e gli scansai la mano occupata, in modo che
cadesse
sul divanetto, facendolo sedere su di me a cavalcioni. «Un
pochino sì, lo confesso», sghignazzai, rubandogli
un bacio; il suo sorriso si incurvò contro le mie labbra e mi
poggiò le mani sui fianchi, allontanandosi dal mio viso per
scendere lungo
il collo, che sfiorò appena con la punta del naso, scansando
il maglione a
collo alto che indossavo.
«Una
pausa serve anche a me», rise
contro la mia pelle,
facendomi scorrere un piacevole brivido lungo la schiena.
Di
sottofondo alle risatine soffocate e ai mugolii che ci lasciavamo
sfuggire
ad ogni bacio, c’era il ticchettio della pioggia contro i
vetri e qualche rombo
di tuono che solcava il cielo, ma
d’improvviso, a sovrastare tutto e a fermarci, fu qualcosa
che cadeva nel
corridoio al di fuori dell'appartamento, poi il rumore di qualcuno che
sembrava
volesse cercare di forzare la serratura. Io
e Edward ci scambiammo un’occhiata,
annuendo impercettibilmente. Se
quello era un ladro, aveva sbagliato indirizzo. Non
tutti avrebbero avuto le palle di derubare due alchimisti di stato
famosi
come lo eravamo noi.
Lanciandomi
un altro fuggevole sguardo, Edward si alzò allontanandosi da
me con
un movimento furtivo, avvicinandosi al comodino adiacente al divano per
aprire
il cassetto a doppio fondo, dove tenevamo nascoste le 9mm.
Impugnò
la sua con la sinistra e la tenne contro il petto, sentendo i rumori
provenienti dall’ingresso divenire più netti. Senza
fiatare, mi alzai altrettanto silenziosamente, prima che Edward mi
passasse anche la mia pistola; poiché
avrebbe fatto troppo rumore non aveva trasmutato il braccio, e vedevo
il
disappunto con cui impugnava la sua arma mentre ci avvicinavamo alla
soglia
del soggiorno.
Con
un cenno della testa, gli indicai il lato sinistro e, annuendo, lui si
accostò al muro facendovi aderire la schiena, con la pistola
ben salda nella
mano. Lo
imitai, tendendo l’orecchio. I
rumori
erano cessati. Sentii
però il cigolio della porta che ruotava sui cardini e mi
tenni pronto, con il dito sul grilletto, sentendo dei passi che si
addentravano nell’ingresso; quando
l’ombra dello sconosciuto si parò sulla soglia,
uscimmo entrambi dal
nostro nascondiglio, puntando le pistole al suo petto prima ancora che
lui
potesse fare qualcosa o avvicinarsi maggiormente per esporsi alla luce
del
soggiorno.
«Whoa!»
esclamò la voce, e avanzò con le mani alzate,
osservando le bocche
delle pistole anziché i nostri volti. «Con quanta premura
accogliete vostro
figlio!»
Mi
venne voglia di sparargli sul serio, a quel cretino. Abbassai
la pistola in simultanea con Edward, che era rimasto spiazzato
quanto me da quell’ospite inatteso.
«Jaz,
ti rendi conto che ci hai fatto prendere un colpo?» disse,
portandosi una
mano al petto e traendo un lungo sospiro, come se volesse calmarsi.
«Scusa,
Oto-san», borbottò lui,
abbandonando le braccia lungo i fianchi
prima di lanciarmi un’occhiata. «Non intendevo
spaventarvi, ‘Ka-san»,
soggiunse rivolto a me, enfatizzando soprattutto l’ultima
parola. Ecco,
adesso mi prudevano le mani per non aver premuto il grilletto. Davvero
perfetto.
«Quante
volte ti ho detto che non devi più chiamarmi
così?» lo ammonii,
vedendolo sorridere.
«Quand’ero
piccolo non facevi tante storie», bofonchiò
divertito, quasi
sembrava potesse scoppiare a ridere da un momento all’altro,
data la sua
espressione.
Inarcai
un sopracciglio, ironico. «Avevi
tre anni», dissi a mo’ di spiegazione.
Sempre
con quel sorriso spudorato dipinto in volto, si ravvivò
all’indietro i capelli mori, dal taglio
sbarazzino che gli
accentuava i lineamenti decisi ma al contempo delicati del viso e gli
angoli
degli occhi cerulei; prima che
potesse dire qualcos’altro in sua difesa, fu Edward
a precederlo. Aveva
poggiato la pistola sul ripiano dei libri, e adesso sorrideva rivolto
ad
entrambi.
«Non
sgridarlo appena arrivato, Roy», mi richiamò in
tono spassoso, facendo
sorridere maggiormente il nostro caro figlioletto.
«Venite, su, beviamo
qualcosa».
Accanto
a me, Jaz ridacchiò. «In
teoria non potrei bere, Oto-san», gli
disse, cominciando però ad
avviarsi verso il divano e vedendo Edward riempire i bicchieri con non
curanza.
«Certo
che puoi bere», replicò lui,
porgendoglielo. «Sei una recluta, mica
un monaco!» esclamò, facendolo scoppiare a ridere.
Intanto
io assistevo al loro scambio di battute, impugnando ancora la pistola,
impalato accanto alla soglia del soggiorno. Mi
veniva da ridere e non sapevo il perché. Forse
perché era da tanto che non vedevamo nostro figlio.
L’avevamo
adottato quando aveva la tenera età di tre anni, e,
diventato
più
grande, aveva deciso di diventare anche lui un alchimista di stato,
arruolandosi nell’esercito. Era
sempre stato bravo nell’uso dell’alchimia, non lo
negavo; già
da bambino aveva dimostrato interesse e capacità. Un
piccolo genio, insomma.
Più
che normale, quindi, che decidesse di seguire le nostre orme.
Mi unii a loro, sedendomi sul divano di
fronte a quello su cui erano accomodati loro.
Accavallai
disinvolto le gambe, poggiando il gomito sul bracciolo. «Come
mai non hai semplicemente bussato, invece di provare a fare lo
scassinatore?» gli chiesi, osservandolo mentre beveva
tranquillo un lungo sorso
del whisky che Edward gli aveva messo nel bicchiere poco prima. Lo
tenne con entrambe le mani, facendo subito
dopo
spallucce, come se la questione fosse di poco conto.
«Beh,
pensavo foste impegnati come vostro
solito», buttò lì con un
velo di imbarazzo, provocando a Edward una
sonora
risata per l’aver capito l’allusione.
Io
mi limitai a sbuffare appena, divertito.
«Lo
sai che ci saremmo comunque alzati per andare ad aprire», gli
tenni
presente, con un sorrisino dipinto in volto.
«Anche
se ti sarebbe toccato aspettare un po'», soggiunse Edward con
il medesimo
sorriso, mentre sorseggiava di tanto in tanto il suo whisky.
Jason
scoccò un’occhiata prima a lui e poi a me, dando a
sua volta vita ad un
sorriso bastardo che ricordava vagamente uno dei miei. «Allora
ho fatto bene ad attuare le cosiddette fiabe di
‘ka-san
su ciò che facevano lui e lo zio Maes
all’Accademia», ribatté in tono
ironico, guardando Edward che cercava di non ridere. Non
misi dito nella questione, facendo finta di guardare altrove mentre
fischiettavo disinvolto. In fondo
non erano stati così inutili, quei racconti... anche
se la tecnica andava perfezionata, eh già.
«Comunque,
come mai qui?» chiese Ed, e lo guardai appena
con la
coda dell'occhio. «Di solito, in questo periodo, i
cadetti sono impegnati
con gli studi del trimestre».
Jason si stiracchiò, grattandosi divertito il collo. «Diciamo
che avevo bisogno d’aria», fu la sua scusante.
«Jaz...»
insistette Edward, a braccia conserte.
«Davvero,
‘to-san!» ribadì,
annuendo fin troppo energicamente per essere
credibile fino in fondo.
«Dimmi
la vera ragione», si ostinò, assottigliando gli
occhi dorati.
Jason mi lanciò uno sguardo
supplicante.
«‘Ka-san...»
mi richiamò con un lamento, ma io scossi la testa,
incrociando a mia volta le braccia al petto per guardarlo
seriamente in volto.
«Avanti,
parla», ordinai, vedendo l’espressione compiaciuta
di Edward. E
questo perché di solito tenevo le parti di Jason viziandolo,
dandogliela
vinta quasi su tutto... ma
non quella volta. Ero
curioso anche io.
Borbottando, lui incassò la testa nelle spalle,
sistemandosi
appena e
con svogliatezza il colletto del lungo e pesante cappotto nero che
indossava,
imbronciandosi esattamente come quando era bambino. «Ho
troppe ragazze che mi corrono dietro», sbottò, e
non resistemmo. Io
e Edward scoppiammo a ridere incontrollati; non
tanto per ciò che aveva detto, in fondo l’avevamo
dato per scontato il fatto che le
donne
avrebbero fatto la fila per uno come lui. Lo
dimostrava il fatto che a soli tre anni, aveva fatto strage di cuori
tra le
bambine.
Più
che altro era per il tono e la sua espressione che ridevamo.
«E
non sei felice?» gli chiese Edward fra le risate, e io lo
vidi imbronciarsi
maggiormente a quelle parole.
«Tu
non lo saresti, ‘to-san, sapendo che i
ragazzi invece vogliono farti
il culo», replicò, con un’espressione
così comica dipinta in volto che veniva
voglia di ridere ancora, ma
non lo feci. Ridiventai
serio a poco a poco, calmandomi.
Nonostante
qualche spruzzo d’ilarità che minacciava di tanto
in tanto di far
scoppiare sia me che lui a ridere ancora una volta. Guardai
Jason con un pizzico di divertimento.
«Io
lo dicevo che avresti fatto impazzire anche gli
uomini», ridacchiai,
ricevendo subito un’occhiataccia da entrambi. Edward
aveva sempre patteggiato per la parte etero di
Jason. Gli
sarebbe piaciuto che, invece di fare il libertino come lo ero stato io
alla
sua età, si sposasse e avesse figli suoi. E
anche io ero di quel parere, certo, ma
l’attrazione era attrazione. Se
c’era, c’era e basta. Altrimenti io non mi sarei di
certo ritrovato in sua compagnia.
«‘Ka-san»,
mi richiamò Jason, con voce neutra.
Esasperato dal fatto che a diciotto anni mi chiamasse ancora
così dopo
che si era
fatto un’idea del mondo, sbuffai, cambiando disinvolto gamba.
«Ti
ho detto di non chiamarmi così», lo ammonii ancora.
Lui
corrugò le sopracciglia.
«‘Ka.
San», ripeté in un sibilo, e io lo
guardai male ma, prima che potessi rispondere, Edward impose una tregua
sventolando distrattamente una mano davanti al mio e al suo volto.
«Non
litigate, per cortesia», ci interruppe, prima che potesse
nascere una
discussione accesa come nostro solito. «Jaz, che volevi
chiedere?» soggiunse
rivolto a lui, che mi guardava ancora con aria di sfida.
Jason abbandonò
subito l'espressione ostile, sorridendo ironico e amaro.
«In
realtà nulla», disse ad entrambi, facendo
spallucce. «Però dovresti
smetterla di dire che faccio impazzire gli uomini,
Oka-san. Non
prendetevela a male, ma non ci vado poi così fiero, anche se
so che non c’è
nulla di sbagliato», evitò di guardarci, con un
velo triste
nella voce. Beh...
era giovane ed era stato cresciuto da due uomini. Lui
la considerava, come noi o quasi, una cosa normale, ma
i ragazzi che frequentava no. Non
volevo nemmeno immaginare come l’avrebbero trattato, se
fossero venuti a
conoscenza di tale situazione.
«Va
bene, va bene. Scusa», feci, alzando entrambe le mani per
imporre una
tregua, nel tentativo anche di interrompere quel momento che sentivo
opprimente
e imbarazzante per tutti e tre. «Dovrei riflettere, prima di
parlare».
«È
una delle cose che non fa mai, purtroppo», si intromise
Edward, e quando
gli lanciai un’occhiataccia sollevò sarcastico un
sopracciglio come a volermi
sbeffeggiare.
«Questo
lo so anch’io, ‘To-san»,
ridacchiò Jason, anche se quel velo di
tristezza non aveva ancora abbandonato i suoi occhi azzurri.
Dal canto mio, non provai nemmeno a
ribattere. Con
quei due sarebbe stato inutile. Erano
davvero tremendi, quando ci si mettevano.
Così allungai tranquillo una mano verso il mio bicchiere,
che giaceva
abbandonato sul tavolino al centro, e ne versai all’interno
un bel po' di
whisky, sentendoli intanto
continuare a
chiacchierare allegramente, prendendomi spesso in giro. E
anche a quello ero abituato. Se
ne andarono, supposi, ben quarantacinque minuti tra
chiacchiere e
liquore. Erano
mezzanotte passata,e il sonno si fece sentire simultaneamente su tutti
e
tre, sbadigliando all’unisono.
Mi
alzai e mi stiracchiai, grattandomi dietro al collo. «Vado
a prenderti una coperta e un cuscino, Jaz», dissi tra uno
sbadiglio e
l’altro, ma, prima che potessi muovere un passo, ricevetti da
entrambi delle
occhiate così intense che non mi piacquero affatto.
«Non
vorrai mica far dormire nostro figlio sul divano,
vero?» fece
ironico, alzandosi a sua volta per avvicinarsi e squadrarmi seriamente,
con il
suo scarso metro e sessant’otto che mi arrivava al petto. Jason
intanto assisteva sorridente alla scena, come se già sapesse
chi avrebbe
avuto la meglio su quella scelta. E
avrei scommesso che il favorito non ero io.
«Dovrei
dormirci io?» chiesi scettico, vedendolo sollevare pian piano
un angolo
della bocca, come per sbeffeggiarmi. Vidi
frattanto Jason sbadigliare sonoramente a sua volta, portandosi una
mano
alla bocca per educazione, gli occhi cerulei velati di lacrime per il
gran
sonno. Ricevetti
una sua occhiata divertita, mentre si passava con non curanza il
dorso della mano su una guancia.
«Dai,
‘Ka-san, per questa sera non imbuchi,
dormi sul divano»,
diede man forte ad Edward, facendomi accigliare e non poco.
Mi
poggiai una mano sul fianco destro, gettandogli
un’occhiataccia.
«Fa’
poco lo spiritoso», borbottai, e il sorriso che si era
dipinto sulle sue
labbra rosee e sottili si accentuò ancora di più,
divenendo bastardo.
«È
colpa tua se ci ritroviamo in questa situazione», mi disse,
annuendo
quasi rivolto a se stesso, con un cipiglio da so tutto io sul viso.
«Hai
smantellato la mia stanzetta».
«Su
questo gli do’ ragione», aggiunse Edward, a braccia
conserte. Si
erano entrambi coalizzati contro di me, quei due. Non
avrei avuto nessuna chance di vittoria. Ma
si sa com’è, c’è sempre la
voglia della rivalsa. Quindi,
sicuro di me, alzai il mento con un’espressione saccente
dipinta in
volto, lo sguardo che vagava su entrambi squadrandoli quasi
minuziosamente.
«Prima
di tutto, quello una volta era il mio
studio», tenni
loro presente, vedendoli fischiettare disinvolti con lo sguardo
altrove. «E tu almeno, potresti avvertire, quando
decidi di fuggire dalle
tue spasimanti rifugiandoti qui»,
soggiunsi, puntando il dito contro
Jason che, dopo essersi guardato intorno e aver poi gettato
un’occhiata a
Edward, si indicò a sua volta.
«Chi,
io?» mi chiese, e c'era un’inconfutabile traccia di
sarcasmo, nella sua
voce.
«Nay,
guarda, quello dell’appartamento a fianco»,
ironizzai, ma
lui si concesse il lusso di un sorriso.
«Ah...
allora va bene, pensavo ce l’avessi con me ‘Ka-san»,
mi prese
in giro, provocando un’altra piccola risata ad Edward, che
quasi lo osservava compiaciuto.
Chissà
perché, eh? Semplice:
era lui che, una volta compiuta un’età
accettabile, l’aveva istruito
a sbeffeggiarmi. Lo
trovavano divertente ed esilarante.
Sbuffai
pesantemente, portandomi una mano alla testa ed alzando lo sguardo al
soffitto.
«Vorrei
davvero capire dove la trovi una ragazza che ti sopporta»,
borbottai
sottovoce fra me e me, ma sentendomi comunque, Jason fece un piccolo
colpetto
di tosse come per schiarirsi la gola, non prima di aver sbadigliato
sonoramente. Abbassai
lo sguardo, vedendolo portarsi pensoso un dito alle labbra, gettando ad
Edward un’occhiata divertita che fece scivolare
svelto verso di me.
«C’è
Megan, la ragazza della mensa», cominciò,
atteggiando il viso ad un’espressione
pensosa. «Poi Alice, che frequenta un paio di corsi con me...
per non parlare
di Marianne, Josephine, Elisabeth, Agathe, Carol, Christine, Catherine,
Monique, Gabrielle...» se le contò sulle dita,
come se stesse controllando di
non averne dimenticata qualcuna. «...loro non fanno altro che
ronzarmi intorno
da quando mi sono iscritto». Sia
io sia Edward ci guardammo con tanto d’occhi, sbigottiti. Jason
intanto continuava la sua lista, tranquillo. «Jane
ha qualche anno in più a me e lavora nel bar poco lontano
dall’Accademia,
Sophie e Anita escono con alcuni ragazzi che stanno nel mio stesso
dormitorio
ma dicono che sono stufe di loro, Beatrix e Serena invece...»
Prima
che potesse andare oltre, gettando un’occhiata al volto un
tantino
scombussolato di Ed, imposi a Jason una tregua ponendo entrambe le mani
avanti. Si
sarebbe fatta l’alba se avesse continuato, c’era
qualcosa che me ne dava la
certezza.
«Ho
capito l’antifona, Jaz», bofonchiai, grattandomi la
testa.
«Hai
una fila di donne che stravedono per te», concluse a mia vece
Edward,
ridacchiando. «Cerca solo di non fare la fine della tua mamma»,
soggiunse indicandomi con il pollice d’acciaio,
l’altra mano nella tasca. «Non
cambiarne una ogni sera come se fossero camicie».
Sinceramente scandalizzato, Jason strabuzzò gli occhi,
poggiandosi una
mano sul petto.
Farfugliando
qualcosa, forse imbarazzato, lui evitò di guardarci per una
frazione di secondo prima di riportare la sua attenzione su Edward.
«Non
me lo sognerei nemmeno di farlo, ‘To-san!»
esclamò, un guizzo di
vergogna solcò come un lampo nei suoi occhi azzurri.
«Cosa credi, sto
aspettando quella giusta!»
Con
un sorriso che andava da un orecchio all’altro, Edward gli si
riavvicinò,
dandogli una bella pacca sulla spalla, come per incoraggiarlo.
«Bravo,
sono fiero di te!» esclamò a sua volta,
lanciandomi uno sguardo che
voleva dire tutto, e
nei suoi occhi ambrati scorsi un pizzico di disappunto, forse nel
ripensare
al mio comportamento sconsiderato quando avevo poco più
dell’età di Jason.
«Andiamocene
a dormire», disse, sgranchendosi il collo.
«Domani studi qui,
te lo concedo».
Rivolgendogli
un sorriso, Jason ubbidì, seguendolo verso la soglia del
soggiorno, e io sbattei
le palpebre perplesso, senza capire.
«Ehi,
voi due...» li richiamai, ricevendo da loro
un’occhiata incuriosita. Mi
avvicinai a loro a braccia conserte, con un sopracciglio sollevato.
«Vi
ho detto che io non ci dormo sul divano», dissi arcigno,
guadagnandoci
solo due sorrisi.
Prendendo
tranquillamente Jason a braccetto - superava la sua zazzera
bionda
di un paio di centimetri buoni - Edward
allungò il
suo auto-mail per
darmi una leggera pacca sulla spalla.
«Meglio
se ci dormi, invece», mi consigliò, accentuando il
sorriso. «Passerai
una sola notte in bianco invece di molte, no?»
Restai
allibito, spalancando la bocca. Mi
stava minacciando, per caso?
«Non
di nuovo la scusa del niente sesso, vorrei
sperare», mi lasciai
sfuggire, sentendo subito dopo lo sguardo azzurro di Jason puntato su
di me.
Lui si portò teatralmente una mano alla fronte, scuotendo
sconsolato la
testa.
«Ah,
povero, povero te, ‘Ka-san!»
fece, fingendosi afflitto. «Allora è
vero che ormai il fuoco è stato
sottomesso all'acciaio!»
Lo
guardai imbestialito.
«Semmai
prenderai il titolo d’alchimista sicuramente ti chiamerai L’Alchimista
Rompicaz...»
«Roy!»
mi ammonì Edward prima che potessi completare la frase.
Sbuffai,
distogliendo lo sguardo mentre sentivo Jaz ridacchiare. Mi
sentivo preso in giro, non lo negavo, ma
non negavo nemmeno che stava venendo da ridere anche a me. Era
quello il nostro modo di dimostrare che ci volevamo bene, in fondo.
Ricominciammo
intanto a discutere sul chi dovesse o non dovesse dormire sul
divano, continuando a prenderci in giro mentre il tempo passava sempre
più.
Mi
impuntai, certo. Mi
lamentai come un bambino dicendo che non era giusto, ma
alla fine chi si era ritrovato rannicchiato sul divano avvolto da una
coperta, non erano stati di certo Edward o Jason. Provate
un po' ad indovinare il nome dello scemo che si gelava il culo? Esatto.
Io, purtroppo.
_Note inconcludenti dell'autrice
Storia fuori serie
dedicata a
Red
Robin,
visto che sa come si svolgono gli eventi precedenti chissà
quanti anni a questi qui raccontati! Per essere padre, non
basta fare un figlio! Ricordiamo la
pubblicità della Barilla!
*Si informano i gentili lettori che l'autrice ha detto addio alle
ultime briciole della sua sanità mentale e che non
satà
possibile contattarla per ulteriori informazioni fino a data da
destinarsi*
Scleri a parte, se poi farete un salto nel nostro account in
comune Red
Robin_ My Pride
uno di quei mesi, troverete anche una presentazione molto
più
accurata di Jason, che qui ho solo accennato. E se andrete invece qui, Life
in three,
troverete la raccolta di Red Robin dedicata a loro.
Alla prossima e buon anno!
_My Pride_
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Capitolo 17 *** Mai giudicare un libro dalla copertina! ***
Heart burst into fire_Episode 17
Titolo: Mai
giudicare un libro dalla copertina!
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 1627 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
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Rights Reserved.
EPISODIO 17:
MAI GIUDICARE UN LIBRO DALLA COPERTINA!
Non
c'era
niente di più appagante di un bagno caldo, specialmente dopo
una stremante
giornata passata a firmare e a controfirmare documenti senza nemmeno
poter fare due passi per sgranchirmi le gambe. E la vasca stracolma di
schiuma e l'acqua che mi lambiva i fianchi
erano un'efficace panacea contro la tensione accumulata.
Mi godevo appieno quei momenti, le
braccia abbandonate oltre il bordo e
la testa reclinata all'indietro, con gli occhi chiusi e il piacevole
tepore del vapore che mi saliva al viso. Ero anche riuscito, dopo ore
di estenuanti discussioni, a convincere
quel tappo di sughero di Acciaio a venire a mangiare un boccone da me,
anche se non aveva mancato di punzecchiarmi con le sue battutine da
quattro soldi per tutta la durata della cena. E adesso, probabilmente
in salotto a leggere qualcuno dei miei libri,
attendeva di poter usufruire a sua volta del bagno. Era strano come il
tempo passasse in un lampo. Poco più di quattro mesi
prima,
mi arrovellavo il
cervello per cercare un buon modo per confessargli i miei sentimenti, e
invece adesso stavamo in
un certo senso insieme. Ancora mi chiedevo
come fosse possibile quella situazione. Con l'età che mi
ritrovavo, come minimo potevo quasi essere
suo padre...
A distrarmi fu il lieve ed esitante
bussare alla porta, poi la voce di
Acciaio.
«Potrei
entrare, Colonnello?» mi chiese.
«Sa,
avrei un certo bisogno di andare in bagno».
Soffocai una risata e affondai la testa
nell'acqua,
soffiando via un bel po' di schiuma e creando
mille
bollicine. Mille, mille bolle blu... chissà
perché mi veniva
in mente quella vecchia canzone. Forse per non pensare a quella
situazione che - stupidamente e non poco, c'era
da aggiungere - trovavo estremamente esilarante. Mi raddrizzai per
darmi un contegno, facendo un piccolo
colpetto di tosse prima di rispondergli. «Fa'
pure. Comportati
come se fossi a casa tua».
Con incertezza, la porta si
aprì, e quando voltai la testa
incrociando lo sguardo ambrato di Acciaio, quest'ultimo lo distolse
subito, forse nell'aver notato che me ne stavo ancora tranquillamente a
mollo nella vasca. Sentendolo borbottare fra i denti un «Casa mia un corno»,
seguii con gli occhi la sua figura che, sempre evitando di guardarmi,
si avvicinava al water con passo alquanto insicuro. Poi, prima che si
sbottonasse la patta dei pantaloni, mi
lanciò un'occhiata quasi arcigna, fulminandomi con lo
sguardo.
«Le
dispiace?» fece ironico, vedendo che ancora lo fissavo. «Non
ci riesco se qualcuno mi guarda».
Alzai le braccia, gocciolanti e
ricoperte di schiuma, in segno di resa,
voltando divertito la testa con un piccolo ghignetto dipinto sulle
labbra. Era lodevole questo suo imporsi
e mostrarsi sicuro
in mia presenza, nonostante quel velo d'imbarazzo che scorgevo spesso
nei suoi occhi dorati.
«Resti
qui a dormire?» gli domandai, ma lui non
mi
rispose finché non ebbe finito, e lo vidi con la coda
dell'occhio rialzarsi la zip prima di lavarsi le mani nel lavandino
lì accanto.
«Alphonse
si preoccuperà, se non torno in albergo», mi
informò pacatamente, prendendo un asciugamano. «E non
vorrei che stavolta decidesse di accantonare il fatto che sono
minorenne e
approfittarne».
Scoppiai a ridere senza che potessi
farne a meno.
Affondai mani e braccia nell'acqua così d'improvviso e con
velocità per il gran ridere che quasi straripò
oltre i
bordi, bagnando le piastrelle del pavimento.
«E' davvero romantico sapere
che mi consideri un pedofilo depravato!» esclamai
più che sarcastico, tra sbuffi di risa.
«Altroché, se è romantico!»
Acciaio ignorò la mia ironia,
incrociando le braccia al petto senza
voltarsi. «Non
mi impietosisce affatto,
Colonnello», sbottò, anche se tranquillo. «Se
vuole del romanticismo si cerchi qualche libro rosa, sono
gli unici che mancano nella sua biblioteca».
Ridacchiai ancora, ma solo per poco.
«Sei
davvero sicuro che non ce ne siano?» gli chiesi divertito,
drizzandomi ancora un po' nel tentativo di incrociare il
riflesso
dei suoi attraverso lo specchio appeso al muro.
«Conosco
la sua biblioteca da cima a fondo», mi tenne presente, e
percepii una sfumatura spassosa, nella sua voce. «Ha
parecchi saggi, libri di medicina e d'alchimia, thriller e gialli, per
non parlare poi di alcuni fantasy, risalenti forse a quand'era
ragazzo».
Applaudii, facendo un piccolo fischio,
ma non per sbeffeggiarlo.
Era raro che qualcuno dei miei ospiti gettasse un'occhiata ai
libri stipati in biblioteca o perdesse persino tempo a
catalogarli. «E te ne
ricordi qualcuno, di questi testi?» sghignazzai, poggiando i
gomiti sul bordo della vasca.
Gettandomi appena un'occhiata prima di
voltarsi nuovamente, lui
abbassò la tavoletta e il coperchio del water, sedendosi di
spalle.
«Certo che
sì», mi disse, drizzando impettito la
schiena. «“Il
fantasma di Canterville”, ad
esempio. Oppure “La
ballata
del carcere di Reading”, persino “Ragione
e
Sentimento” o “Cime
Tempestose”, che
personalmente adoro».
Esilarante discutere di libri in bagno.
Non dissi quel mio pensiero ad
alta voce, ma ero certo che stesse
riflettendo sulla stessa e identica cosa anche lui. Mi scrollai l'acqua
dai capelli, poggiando poi il mento sulle braccia.
«Trovo
davvero bello il fatto che tu mi renda partecipe di ciò che
ti
piace leggere», dissi, non potendo però fare a
meno di
sorridere. «Ma
mi piacerebbe molto di più parlare con te, non con la tua
schiena»,
soggiunsi, sorridendo ancor di più nel vederlo
trasalire. Con la mano d'acciaio si grattò distratto la
testa,
spostandosi poi verso una guancia, ma ancora non accennava a voltarsi.«Oh,
andiamo...» cominciai serafico. «Non
dirmi che ti vergogni!»
Un altro suo lieve sussulto
confermò la mia teoria. Uomini
entrambi o meno, per lui il fatto che ero nudo in una vasca
piena d'acqua e schiuma era una situazione imbarazzante. Ma si
arrischiò comunque a lanciarmi un'altra rapida
occhiata,
accavallando quasi disinvolto le gambe, a braccia conserte. «Chi,
io?» fece, sforzandosi di sembrare ironico e indifferente. «Tsk,
e perché pensa che dovrei vergognarmi».
«Perché
eviti di guardarmi, mentre parli», gli tenni presente
divertito, e ricevetti da lui un altro piccolo sbuffo.
«Solo perché a
differenza sua rispetto la
privacy», disse, vagando con lo sguardo ad osservare
il
soffitto con finto interesse.
Risi ancora, sdraiandomi tranquillo
nella vasca. «Va
bene, Acciaio», sghignazzai divertito, tornando a rilassarmi
completamente. «In
fondo
è vero, siamo nati entrambi con la stessa attrezzatura.
Non c'è nulla di cui vergognarsi». Aye, ero un
tantino bastardo a prenderlo in giro, ma che potevo farci, era
più forte di me perché
sapevo che si imbarazzava. E difatti, a frase pronunciata, lui si
alzò, avviandosi alla
porta mentre scuoteva debolmente la testa e borbottava tra
sé e
sé. Nel far questo passò abbastanza vicino alla
vasca, tanto che
sarebbe bastato allungare abbastanza il braccio per bloccarlo. Cosa che
feci, trascinandolo verso di me.
«Dai, piccoletto,
non innervosirti», lo presi in giro, mentre mi mettevo in
ginocchio nella vasca in modo da poter prendere l'accappatoio,
attendendo frattanto una sua sfuriata che non tardò ad
arrivare.
Si voltò di scatto adirato,
con gli occhi in fiamme.
«Chi
sarebbe talmente minuscolo che anc-...!»
la voce gli morì in gola non appena mi alzai gocciolando,
sbadigliando per l'esser rimasto a mollo troppo a lungo. Mi stavo
apprestando ad infilare una manica dell'accappatoio mentre
scavalcavo il bordo della vasca quando incontrai il suo sguardo,
sgranato e allibito al tempo stesso, le guance di solito diafane
tendevano vagamente allo scarlatto. Si voltò immediatamente,
le braccia distese lungo i fianchi
con le mani che sembravano tremargli.
«Poteva
avvisarmi che si stava alzando», borbottò, la
rabbia per
l'appellativo con cui l'avevo chiamato era sbollita. Si avvertiva solo
un inconfutabile imbarazzo, nel timbro della sua voce.
Sistemandomi del tutto l'accappatoio
legandomelo alla vita,
sghignazzai, dandogli appena una pacca sulla spalla come a dirgli di
seguirmi. «Stavi
esibendo la tua voce da tenore, come potevo...» buttai
lì
divertito, passandomi una mano fra i capelli mentre uscivo dal bagno,
sentendo frattanto lo scalpiccio dei suoi stivali che seguivano le
impronte bagnate dei miei piedi nudi.
«Le sue battute
diventano più pessime ogni giorno che passa», mi
disse
in tono piatto, svoltando con me in corridoio verso il salotto.
Ridacchiando ancora una volta, mi
diressi alla biblioteca per
recuperargli qualche libro per fargli passare il tempo mentre mi sarei
vestito dando poi anche a lui qualche abito per cambiarsi. Con due dita
vagai sui titoli dei tomi, scartando
quelli che sapevo aveva già letto. Optai per uno che
sicuramente gli era sfuggito e non avrebbe
e
non avrebbe mai letto di sua iniziativa, sghignazzando incontrollato
come non mai. Dopo quella
clamorosa
figura
nel bagno, quel libro era la ciliegina sulla torta! Come minimo avrei
dovuto nascondermi in camera mia appena gliel'avessi
consegnato, se volevo vedere il sole sorgere il giorno dopo. Okay,
okay... era esagerato pensarla così.
Presi
il libro
in questione e ritornai in salotto per
consegnarglielo, con un gran sorriso sornione a trentadue denti dipinto
in volto.
«Ecco qua, mentre aspetti», gli dissi, senza
abbandonare il sorriso.
Dubbioso, Acciaio lo prese rigirandoselo
fra le mani, osservando la copertina
completamente nera e le lettere dorate del titolo con una delle bionde
sopracciglia ironicamente inarcate. «“Una
torrida passione”?»
lesse scettico, lanciandomi un'occhiata.
Sempre più divertito,
pregustando frattanto il momento di un
altro suo scoppio, annuii, osservandolo mentre si sedeva sul
divano girando distratto giusto qualche pagina, prima che mi decidessi
a sgattaiolare via di gran carriera verso la mia camera. Mi chiusi
dentro, dando sfogo alle mie risatine incontrollate. Uno, due...
«Colonnello!
Lei
è un pervertito!» Si fece sentire tonante la sua
voce,
ancor prima che arrivassi al tre. E a fargli eco subito dopo, furono i
suoi pesanti passi nel corridoio.
«Questo
è un romanzo erotico!»
Beh, in fondo il titolo diceva tutto, no? Mai giudicare un libro
dalla copertina!
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Capitolo 18 *** [ Storia Fuori Serie ] La colpa è sempre della tua mamma ***
Heart burst into fire_Episode 18
Titolo: La colpa
è sempre della tua mamma!
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2128 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
18: LA COLPA É
SEMPRE DELLA TUA
“MAMMA”
Non
avevo fatto altro che pensare alla serata che ci aspettava.
Sebbene
fossi stato costretto a firmare documenti arretrati dal Tenente Hawkeye
- che non mi
aveva nemmeno concesso il
lusso d’un buon caffè nonostante fossi appena
rientrato -, non avevo potuto
fare a meno di pensarci. Dopo
tanto tempo in astinenza, avrei forse potuto godere
d’una bella
nottata da solo, e in tutti i sensi possibili ed immaginabili, con
Edward. Cenetta
romantica, un po' di champagne, fragole zuccherate e... sesso. O almeno
il piano era quello, se Jason ce l’avesse permesso. Se
si fosse addormentato ben dopo mezzanotte,
la serata
sarebbe andata a farsi benedire per l’ennesima volta.
Ero
davanti ad una libreria, adesso, indeciso su quale libro
d’alchimia
comprare al mio caro figlioletto mentre reggevo
distratto un bouquet per
Edward. A
causa di una missione un po' spinosa, ero mancato da casa per quasi tre
settimane, non avendo potuto festeggiare con loro
l’undicesimo compleanno di
Jaz. Poi,
rientrato stanchissimo, li avevo salutati appena prima
di
crollare addormentato come un sasso. E
quando avevo aperto gli occhi, ero subito dovuto correre al
Quartier Generale
per rimettermi in pari con il lavoro, riuscendo a malapena a trovarli
svegli. In
poche parole, ero a Central da meno di ventiquattr’ore e
avevo appena finito
di sgobbare sulle scartoffie lasciate ad ammuffire da troppo tempo. Ma,
naturalmente, non era quello il mio primo pensiero, ora come ora.
Rimiravo
ancora gli scaffali, in piedi come un idiota appena mollato dalla
propria donna e che non aveva nemmeno avuto la decenza di far sparire i
fiori
che le aveva comprato. Ci
passai ben dieci minuti, finché non mi decisi finalmente
a prenderne uno
d’alchimia avanzata - sicuro al 100% che Jaz
l’avrebbe letto come fosse stato
un libro per bambini - e andare dal commesso per pagarlo,
chiedendogli gentilmente il favore d’incartarlo. E
mi ero portato dietro quei piccoli fardelli per tre isolati,
prima che
salissi di corsa le scale nonostante il caldo asfissiante e
tirassi fuori
le chiavi dalle tasche per fiondarmi dentro.
Trovai entrambi i miei uomini in cucina. Edward,
che indossava una canotta nera per l’afa, stava preparando la
cena e
lanciava di tanto in tanto qualche occhiata a Jaz, che
scarabocchiava su qualche foglio mentre girava distrattamente le pagine
di Introduzione
all’Alchimia. Era
da parecchio che lo studiava da solo, e aveva fatto notevoli progressi. Diavolo,
aveva ragione Maes.
Crescevano
troppo in fretta.
«Siete
tanto assorti da non notarmi?» sghignazzai, e mentre Edward,
con un
sopracciglio inarcato,
fissava perplesso i fiori, Jason lasciò subito perdere i
suoi appunti per
corrermi incontro, cingendomi i fianchi per abbracciarmi.
«Bentornato,
‘Ka-san!» esclamò, lo
sguardo puntato in alto per poter
meglio incontrare i miei occhi.
Gli
sorrisi e gli scompigliai la zazzera mora nonostante avesse corrugato
le
sopracciglia, tirando fuori dalla busta di plastica che reggevo il
libro
che gli avevo comprato. «Auguri
in ritardo», dissi, porgendolo quando mi lasciò
andare.
Per
un po' restò a guardare la carta regalo come se fosse
confuso, prima che un
sorriso irradiasse anche il suo volto e
cominciasse a
scartarlo, rivelando sì la copertina un po' consunta, ma un
libro di tutto
rispetto in campo alchemico. Gli
brillarono gli occhi quando lesse il titolo.
«Grazie,
‘Ka-san!» cinguettò
allegro prima di abbracciarmi ancora una
volta tutto contento, scansandosi per cominciare a voltare qualche
pagina,
già concentrato. Aveva
preso proprio da Edward, su quel punto.
«Un
nuovo libro d’alchimia, eh?» commentò
proprio lui, divertito, asciugandosi
le mani per avvicinarsi a noi, o meglio a me, visto che Jason si era
già
fiondato al tavolo per consultare il libro in pace e in maniera molto
più
approfondita.
Mi
limitai solo a scrollare le spalle e a rivolgergli un
sorriso
furbo, porgendogli galantemente il mazzo di rose.
«Delle
belle rose per un bell’uomo», mormorai allusivo,
facendo un piccolo
inchino.
Lui
sollevò ironicamente entrambe le sopracciglia, poi
mi tolse il
bouquet di mano, scuotendo la testa, esasperato.
«Credevo
si dicesse Delle belle rose per una bella donna»,
replicò per
prendermi in giro, dandomi un buffetto sul naso. «Trattami da
uomo, lo sai che
detesto essere scambiato per la donna, mamma».
«Non
ti si può nemmeno fare una sorpresa...» mi lagnai
e,
ignorando
deliberatamente il modo in cui mi aveva chiamato, mi chinai verso il
suo viso
per aspirare almeno ad un bacio; ma
lui mi tappò la bocca con la mano d’acciaio,
agitando
distratto l’indice
dell’altra.
«C'è
Jaz», disse, come se la cosa spiegasse tutto. Anche
la serata che avevo così elegantemente immaginato era ormai
un lontano
ricordo.
«Quante
storie», borbottai una volta che ebbe allontanato la mano, e
prima che potesse tornarsene anche lui accanto al tavolo per dare a sua
volta
una sbirciatina al libro e posare i fiori in un vaso, gli afferrai il
braccio
d’acciaio per attirarlo stretto a me, petto contro petto,
labbra contro labbra.
Cercò
di divincolarsi, ma dopo un po' lasciò perdere, gettandomi
le
braccia al
collo e allentando la presa, cosicché il bouquet cadde a
terra con un fruscio.
«Bleah...»
fu il commento di Jason, e io lo guardai con la
coda dell’occhio, vedendo una smorfia di disappunto dipinta
sul suo volto,
tipica dei bambini della sua età. Quando
Ed sfuggì alle mie grinfie per recuperare il mazzo
di fiori e
riporlo in un vaso, mi voltai definitivamente con un
sopracciglio
sollevato.
«Non
si guarda quando i grandi fanno queste cose», gli dissi in
tono fintamente
arrabbiato e accusatorio, vedendolo gonfiare le guance mentre sentivo
la
risatina che si era lasciato sfuggire Edward.
«Anche
io sono grande», replicò, nell’ormai
consacrato tono che aveva reso
celebre il mio caro Alchimista d’Acciaio. «Mica
starai dicendo che sono piccolo
quanto una formica che si può vedere solo al microscopio,
eh,
‘Ka-san?!» Il timbro della voce
aveva assunto una sfumatura alterata degna di
qualsiasi
sfuriata a cui Edward avrebbe potuto dare vita.
«Och, nay», cambiai prontamente discorso.
«Allora, ti
piace il libro?»
chiesi, così da sviare completamente tutto.
Anche
se un tantino corrucciato, Jason si lasciò andare ad un
sorriso e annuì,
gettando un occhio alle pagine quasi ingiallite e antiche.
«Ci
sono cerchi molto più complessi», mi
informò, accarezzando lievemente i
fogli come se avesse paura che potessero sgretolarsi. «Mi
servirà il tuo aiuto,
‘To-san», soggiunse, alzando lo
sguardo per localizzare la figura di
Edward, appena tornato ai fornelli.
«Non
posso aiutarti io?» domandai, poggiando i gomiti sul tavolo.
Mi
lanciò un’occhiata come se fosse rammaricato,
chiudendo il libro prima di
guardare ancora una volta Ed, gli occhioni azzurri avevano al loro
interno un
velato divertimento.
«‘To-san
ha detto che sei pericoloso con l’alchimia»,
buttò lì
semplicemente, scrollando le spalle come se nulla fosse. «Non
vuole rischiare
che dai accidentalmente fuoco alla casa».
«Ed!»
lo richiamai, risentito, ma lui
si limitò a sghignazzare, dando ad entrambi le spalle per
girare la carne
in padella.
«Ho
detto solo la verità», si difese, prendendo
qualche spicchio d’aglio. «E
poi, dato che i tuoi turni sono maggiori da quando sei Generale, non
potresti
insegnargliela comunque, se non di sera. E Jason non può
restare alzato fino a
notte fonda».
«Sì
che posso, ‘To-san»,
replicò il diretto interessato, mascherando un piccolo
sbadiglio.
«Ecco,
questa è la prova che non puoi»,
ribatté ancora Edward, sghignazzando e
riconcentrandosi sulla cena senza che nessuno di noi due fiatasse
più. Quando
fu pronto, portò tutto a tavola, accomodandosi a sua volta
armato di
coltello e forchetta. «Mangia
e vai a dormire, okay?» disse a Jaz, con un tono che non
ammetteva
repliche. «Se vuoi uscire con Glacier ed Elicia devi
svegliarti presto».
«Non
pensavo conoscessi il significato della parola presto»,
replicai io
sarcastico, subentrando nel discorso mentre ero impegnato a tagliare
distrattamente, ma disinvolto, la carne nel mio piatto. Mi
fece astenere dall’aggiungere altro un calcio
d’acciaio allo stinco.
«Ma
io voglio leggere un po', ‘To-san»,
si fece sentire lamentosa la voce
del popolo, gli occhioni grandi e azzurri
sembravano quasi
supplichevoli.
«Jaz,
se Oto-san ha detto che devi andare a dormire, non
discutere»,
dissi, naturalmente con un secondo fine ben stampato in testa. Con
la dovuta cautela, avrei potuto godere anche di pochi attimi
d’intimità con
Edward.
«Non
anche tu, ‘Ka-san!» si
lagnò ancora, abbandonando il
cozzetto di pane nel sugo della carne per provare a dissuadere me con
il suo
sguardo da cane bastonato. Ma
quella sera fui irremovibile, dato che gliela davo sempre vinta. Quando
poi, dopo varie lotte, vide che non crollammo e non cambiammo
decisione,
finì di mangiare e diede il bacio della buonanotte ad
entrambi, prima di
fiondarsi verso il bagno per sciacquarsi, mettersi il pigiama, lavarsi
i denti
e filare a letto.
Una volta soli in salotto, provai a dar
vita alla mia
espressione
da seduttore nato.
Stranamente,
ma con mia grande soddisfazione, Edward mi lasciò
tranquillamente
libero di fare quello che mi andava, limitandosi solo ad intrecciare le
dita
fra i miei capelli quando mi chinai verso il suo collo per creargli un
succhiotto.
Mugolò
tutto il suo assenso, piacevolmente, con una vaga conformità
d’erotismo
dipinta sul volto diafano; socchiuse gli occhi mentre mi
apprestavo a volere
di
più, le mani erano ormai diventati arti che avevano una vita
propria e non
seguivano più i comandi della mia mente. Ne
feci scivolare una lungo il suo fianco sinistro, scendendo rapido a
massaggiargli la coscia, poi più giù, verso la
gamba e il polpaccio d’acciaio. Mi
gettò le braccia al collo quando, al di sopra del pantalone
dalla stoffa
leggera, risalii per far danzare distrattamente due dita sul punto in
cui il
ginocchio si legava con la carne, proprio dove c’erano le
cicatrici.
«Dai,
smettila», fece flebile, mugugnando ancora una volta quando
riuscii a
far scivolare una mano al di sotto della canotta che indossava,
sfiorandogli
fugace il petto e un capezzolo.
«Lo
sai che non la smetto, inutile dirlo», mormorai in risposta,
i
polpastrelli dell'indice e del medio della mia mano avevano cominciato
a
disegnare invisibili cerchi sul suo torace.
«E
tu sai che posso farti smettere quando voglio»,
replicò, ma non sembrava
intenzionato a rendere veritiere le sue parole. Si
abbandonò completamente sul divano, divaricando di poco le
gambe per
permettermi di starne al centro, ormai succube di quelle mie carezze
che facevo
diventare sempre più insistenti. Ma
quando provai a varcare le porte dell’Olimpo
con una mano, lui mi
bloccò, con un biondo sopracciglio inarcato, come a voler
indicare un
inconfutabile scetticismo.
«Sei
rozzo, se dopo tanto vuoi farlo sul divano», mi prese in giro
sarcastico,
poggiandomi una mano sul petto per scansarmi con poca gentilezza. Rimessosi
a sedere, si sistemò distratto la maglietta e mi
gettò un’occhiata
in tralice come se fosse arrabbiato per qualcosa, liquidandomi con un
piccolo Tsk
prima di voltarsi saccente e alzarsi in piedi.
Scombussolato,
se non sconvolto, seguì con lo sguardo la sua figura che si
defilava svelta
nel
corridoio, verso la nostra camera da letto. Rimasi
per un po' lì in salotto, a boccheggiare come un idiota. Ancora
incapace di credere che io, il
Generale Roy Mustang, l’Eroe
d'Ishvar,
nonché Alchimista di Fuoco, fossi stato
piantato in asso in
quel modo, mi
drizzai in piedi di scatto, raggiungendo la nostra stanza in poche
falcate solo per trovare
Edward accanto al comodino; mi
avventai su di lui come una volpe avrebbe potuto avventarsi su una
lepre,
sentendo appena la sua esclamazione sorpresa mentre rotolavamo sul
pavimento,
avvinghiati l’uno all’altro, tra risatine soffocate
e, spesso, parole campate
per aria e senza significato alcuno.
Non
me ne accorsi subito che avevamo uno spettatore. Fu
Edward a farmelo notare, quando ci ritrovammo l’uno sopra
l’altro, quasi
accanto alla soglia della camera. Jason,
con indosso solo una canottiera larga che gli faceva da pigiama,
fasciandogli il corpo mingherlino e nascondendo alla vista i boxer,
ci
guardava con disappunto, atteggiandosi a grand’uomo. Non
sembrava né sconcertato né sconvolto, ma
in fondo viveva con noi da otto anni, quelle piccole pazzie in cui io e
Edward ci gettavamo ogni tanto erano
ormai diventate d'ordinaria amministrazione. Soprattutto
per lui che ci beccava quando capitava.
«‘To-san,
‘Ka-san», ci richiamò, vagamente
stizzito. «Non posso dormire
se continuate a fare tutto questo chiasso».
Beh,
e come dargli torto. Ma
mi limitai solo a guardarlo, come se avesse parlato un’altra
lingua. Edward fu
invece più svelto di me, scansandomi con così tanto garbo che mi
ritrovai con il culo per terra.
Guardò
lui e poi me, senza dire una parola, ma
sia io che Jason sapevamo fin troppo bene cosa significasse quello
sguardo.
La
colpa è della tua mamma,
Jaz.
La colpa è sempre
della tua mamma!
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Capitolo 19 *** [ Storia Fuori Serie ] L'imprevisto porta un nome ***
Heart burst into fire_Episode 19
Titolo: L'imprevisto
porta un nome
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2334 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric, Jason Mustang
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
19: L’
IMPREVISTO
PORTA UN NOME
Ci
trovavamo sul divano del soggiorno,
ormai divenuto il nostro tacito
osservatore in serate
come quella, quando sfruttavamo lui anziché il morbido
materasso.
Da meno di poche
ore, eravamo tornati dal gelido
Quartier Generale del Nord, dove molti di noi avevano dovuto compiere,
sotto
diretto ordine del Comandante Supremo, una specie di giro d'ispezione
che era
durato una settimana. Una settimana passata in balia della
neve, tutti stipati in una grande
stanza
con brandine dove non avevo nemmeno potuto godere di un po'
di intimità con
Edward, che aveva dormito al lato opposto della stanza da dove mi ero
ritrovato
io. Fortuna almeno che, in quel momento, potevamo permetterci
qualche minuto di
svago dopo una cena consumata al volo, godendomi frattanto il mio dolce
tranquillamente disteso sul divano.
In quel silenzio
rotto solo dai mugolii
d'assenso che sia io, che lui, ci lasciavamo sfuggire, le mani e le
labbra si
muovevano e si cercavano da sole, seguendo il ritmo di quella passione
che
andava crescendo man mano. Giusto un attimo dopo, fui
sul punto di ansimare nel sentire la
sua mano
fra le mie gambe, al di sopra della stoffa dei pantaloni. L’allontanò
subito, chinandosi verso di me per
darmi un bacio sulle labbra, girandosi di schiena
per
sdraiarsi su di me,
con i suoi lunghi capelli che mi solleticavano il petto nudo.
Non
fiatai e cominciai a lisciargli quella chioma bionda, alzando le
gambe per
poggiare i piedi sul divano, in modo che lui potesse meglio stendersi
fra di
esse. Un contatto piacevole, senza dubbio,
dopo l’astinenza che
avevo dovuto - anzi,
avevamo entrambi dovuto - sopportare in quella settimana
bianca. Con la coda dell'occhio, vidi Edward
giocherellare con i miei
occhiali da vista che, fortunatamente, non erano rimasti coinvolti
nella
nostra lotta
di supremazia avvenuta sul divano pochi minuti prima,
rigirandoseli fra le
mani e rimirandoli distrattamente, come per voler perder tempo.
Mi scappò una risata e,
togliendoglieli dalle
mani, gli presi un dito d'acciaio per baciarglielo con devozione, accarezzandolo con la punta della
lingua, allusivo e
sensuale,
nonostante fosse freddo; gli cinsi i fianchi con le braccia
qualche attimo dopo, così da poterlo attirare
verso di me. «Che ne diresti se
sfruttassimo un po’ di questo
tempo da soli, ora che
possiamo?» gli chiesi,
sperando in una sua
risposta affermativa. Dato che Jason era uscito, magari
avremmo potuto godere di qualche
carezza
negata.
Edward fece scorrere il suo sguardo dorato per tutto il mio corpo,
soppesando il mio petto prima di scendere interessato
verso il basso
ventre, ritornando a guardare i miei occhi. L’ombra di un sorriso gli
illuminò il volto, mentre si chinava verso di
me per gettarmi le braccia al collo. «Och, beh... è
da tanto che non lo
facciamo», sghignazzò, stuzzicandomi appena il
lobo dell’orecchio. «Direi che si può
benissimo fare... ma ad una condizione»,
soggiunse, sciogliendo la presa delle sue braccia e costringendomi a
fare lo
stesso con le mie.
«E quale sarebbe la condizione?» chiesi, vedendo
che non accennava ancora a
porla, ma si limitava solo a catturarsi fra le dita la mia frangetta,
quasi
distratto. Abbandonato il suo passatempo mi
sorrise, ammiccando malizioso.
«Beh, sai...» mormorò, prendendomi le
mani per farmele poggiare sulle sue
spalle, come se volesse che gli sfilassi la camicia. «Stavo
giusto pensando di comandare io anche stavolta».
Sbattei le
palpebre, perplesso. Erano rare le occasioni in cui voleva
essere la parte
attiva del
nostro rapporto, o almeno per quanto ricordassi. Senza sapere cosa dire, provai ad
aprire la bocca ma, prima ancora che
potessi,
mi posò un dito sulle labbra con un sorriso bastardo,
imponendomi silenzio.
«Non accetto un no»,
continuò
divertito, scostandosi i capelli dal viso.
«Non lo facciamo da tanto e, adesso che Jaz è
fuori, voglio giocare un
po’ con te». Ancora più perplesso, fui
quasi tentato di alzarmi e lasciar
perdere, ma qualcos’altro sembrò
non
avere lo stesso parere quando Edward vi
poggiò sopra una mano. «Lo considero un
sì?»
sghignazzò al mio orecchio quando si chinò,
scendendo
poi piano con le labbra per saggiare la pelle della mia gola. Me la stuzzicò con i
denti, catturandone delicato i lembi, e a quel trattamento non potei evitare
di lasciarmi sfuggire un gemito
languido. L’esperienza si acquisiva
davvero con gli anni, non
c’era nulla da fare. «Non hai nulla da dire, mammina?»
mi prese in giro, rendendo la voce
ancor più bassa e suadente.
In
risposta al suo quesito, mugolai ancora una volta. La sua risata vibrò come
un diapason contro la mia carne, il
suo corpo si
strusciò lentamente contro il mio quando scese per lambire
la pelle del mio
petto, accarezzando con la lingua una delle tante, bianche e piccole,
cicatrici
di guerra. Una sua mano
scivolò lungo il mio fianco e carezzò anche
quella causata da un proiettile un po' di
anni prima, sfiorando
di sfuggita una coscia quando scese ancora.
Seppur
sentissi offeso il mio ruolo di dominante,
non volevo che
smettesse. Era eccitante, sentire tutta
quell’esperienza sprizzare in
quel corpo ancora un
tantino minuto nonostante gli anni passati. Mi sfuggì un altro gemito
e incassai la testa nelle spalle,
voltandola un po’
di lato. Così facendo,
però, gli diedi ancor di
più libero arbitrio. Con piccoli colpetti decisi della
lingua, mi accarezzò la
mascella, poi dietro
l’orecchio.
«Sei troppo accondiscendente, stasera», lo sentii
sghignazzare ironico,
mentre poggiava le mani sulle mie spalle, come se volesse tenermi
fermo, sotto
di lui.
Chiusi
gli occhi e poi li riaprii, perdendomi in quel color whisky che
amavo. «Preferiresti che facessi
resistenza?» domandai
sarcastico,
regalandogli un sorriso.
Rise
nuovamente, scuotendo piano la testa, lasciando che i capelli si
muovessero fluenti. «Renderebbe tutto molto
più eccitante, non lo
nego», replicò, sfiorandomi la
punta del naso con il suo. «Ma sarebbe infruttuoso per me,
dato che posso
averti facilmente e senza sforzo...»
«Sei troppo sicuro di te», ribattei, senza riuscire
a nascondere un sorriso.
«Posso permettermelo, in fondo».
Frustrato, richiusi gli occhi con forza, passandomi poi velocemente una
mano
fra i capelli. «Zitto e muoviti, non posso
aspettare ancora»,
evitai di esclamare, vedendo
un sorriso quando riaprii gli occhi.
«Quanto
siamo impazienti», ridacchiò,
appropriandosi delle mie labbra.
Unito
in quel bacio, mi limitai solo ad annuire. Lasciai a lui il completo comando del
gioco,
godendo di ogni minima
attenzione che quel giorno sembrava donarmi. Mugolai di nuovo quando mi
creò un succhiotto, proprio dove
chiunque avrebbe
potuto vederlo anche se indossavo
la divisa. Ridacchiò contro la mia
pelle e, inconsciamente, lo attirai
maggiormente a me, intensificando il contatto fra i nostri corpi nudi a
metà; gli feci scorrere le mani lungo la
spina dorsale e le fermai a
coppa sulle
sue natiche, sentendo il suo volto affondato nell’incavo del
mio collo.
Le sue
mani scesero lungo i miei fianchi, posandosi stabili sul mio
bacino,
mentre le labbra cercavano bramose le mie nel tentativo di far durare
quegli
attimi per un tempo indefinito. Ma, anche lui per impazienza, non
resistette un minuto di
più, liberandosi dei
pantaloni e restando in mutande, a cavalcioni sopra di me, ancora quasi
vestito. Si arrischiò a lanciarmi
uno sguardo divertito, forse per
valutare la mia
espressione. «Oh... qui qualcuno
si è svegliato»,
scherzò, soffermandosi
su un punto ben preciso.
Non
potei non sorridere, portandogli le
mani
alla mia cintola. Volevo i fatti, in quel momento, non
le parole. E non ero il solo, da quel che
riuscivo a scorgere.
Con un
sorriso impudente dipinto a sua volta sulle labbra,
cominciò ad
abbassare piano la zip, guardandomi ancora una volta per
sporgersi verso di me e
baciarmi a lungo. Stava cominciando a sfilarmi i
calzoni quando sentimmo un rumore. Lui mi guardò, sbattendo
perplesso le palpebre senza capire
cosa fosse stato. O, almeno, finché non lo
capimmo entrambi.
«‘Ka-san, ho dimentica-
oh...» Jason, appena entrato nel salotto, ci
guardava allibito e accigliato,
gli occhi
azzurri increduli e fissi sulla scena che gli stavamo offrendo. Aveva le guance completamente
imporporate di rosso, mentre immobile ci
fissava. Anche Edward e io ci irrigidimmo,
deglutendo
all’unisono. Lui era ancora cavalcioni sopra di me,
io avevo i calzoni calati sulle
cosce
e... beh... meglio sorvolare sul resto.
Jason
avvampò ancora più violentemente, riuscendo
finalmente a darci le spalle. «Non volevo interrompere
nulla e non ho visto
nulla!» esclamò un tantino
isterico, una mano poggiata sullo stipite della porta mentre
l’altra l’agitava
frenetica in aria. Edward si allontanò più
veloce che poté e recuperò i calzoni,
infilandoseli svelto prima di darmi un pugno sulla spalla, alzarsi la
zip alla svelta e avvicinarsi a Jason; proprio lui,
scorgendolo con la coda
dell’occhio, si grattò dietro al collo. «Ero... ero tornato per
prendere il portafoglio»,
gli disse, ancora un
tantino a disagio.
Edward
mi lanciò uno sguardo d’avvertimento, e capii
subito al volo cosa
voleva dirmi. Alza le
chiappe e rivestiti,
semplice da capire. Massaggiandomi il
punto colpito mi drizzai a
sedere, avendo l’accortezza di alzarmi a mia volta i
pantaloni per nascondere i
boxer.
«Se penso che stava per salire anche un mio compagno
di camerata...»
riprese Jaz, avvampando nuovamente quando si voltò verso di
me
per osservare
l’espressione che mi si era dipinta in volto. A dir poco sconvolta, bisognava
aggiungere. Un conto era che lui, che aveva
vissuto tanto con noi e conosceva il
rapporto
che ci legava, ci avesse beccati a fare cose non tanto caste e pure in
salotto
quando piombava all'improvviso in casa con il suo migliore amico... un altro, invece,
era che avevamo rischiato
che ci vedesse un estraneo.
«Beh, stavolta è colpa mia»,
replicò tranquillamente Edward, dando vita ad una
delle sue solite scrollate di spalle che potevano significare tutto o
niente,
dando poi una pacca sulla schiena a Jaz utilizzando piano la sua mano
d’acciaio.
«Faccio a meno dei dettagli», ribatté
lui, facendo un piccolo colpetto di
tosse. Forse per disperdere
l’imbarazzo che ancora gli colorava le
guance.
Chiusa la patta, mi sistemai il colletto
della camicia ancora
sbottonata. «E non te li avremmo
nemmeno dati», feci,
guadagnandoci un’occhiataccia da
entrambi. Jason alzò lo sguardo al
soffitto senza dire niente, come se
ribattere sarebbe
stato praticamente inutile e infruttuoso, e agitò pacatamente entrambe
le mani, facendo qualche passo
verso il disimpegno. Ma, prima che potesse dileguarsi, lo
richiamai. «Le chiavi», feci
schietto, e i suoi
occhi azzurri si soffermarono sul mio
volto.
Aggrottò la fronte, portandosi sospettoso una mano
sulla
tasca dei
pantaloni.
«Perché?» La sua non suonò
come una domanda, bensì come
un’affermazione vagamente accusatoria.
Incrociai le
braccia al petto, cercando di
essere il più saccente possibile. «Non voglio rischiare che
piombi in casa
in momenti inopportuni»,
replicai, piegando il palmo verso di lui in modo che mi consegnasse le
chiavi.
«Ormai per te e il tuo amichetto Cedric è
diventata quasi una routine romperci
le uova nel paniere».
«Ma se è successo solo una volta»,
ribatté pacato, atteggiando il volto ad
un’espressione che la diceva abbastanza lunga. «E
stavolta Ced non c'entra nulla».
Avremmo
sicuramente cominciato a polemizzare, se Edward non avesse
fermato
entrambi, sbuffando sonoramente. Sapeva troppo bene, in effetti,
quanto diventavamo testardi e cocciuti
quando
cominciavamo a sproloquiare in questioni assolutamente futili. «Se cominciate ancora una
volta con i vostri battibecchi,
sapete quali sono le punizioni»,
sbottò, incrociando le braccia al petto.
Alzammo
le mani sulla difensiva, prima che puntassi nuovamente
il mio
sguardo su Jason. «Coraggio, consegnami le
chiavi», ripetei
imperativo.
Seppur
tentennasse ancora, dopo aver lanciato un’occhiata al
volto di Edward,
Jason sbuffò, infilandosi svogliato le mani in tasca; ne tirò fuori il suo mazzo
di chiavi e si avvicinò a me per
lasciarlo cadere
non curante nel mio palmo aperto, seguendole con lo sguardo quando le
chiusi in
un cassetto accanto al divano. «Tanto appena abbassi la
guardia me le riprendo»,
mi disse con fare
minaccioso, impuntandosi capricciosamente.
Lo
guardai con un sorriso vagamente bastardo, grattandomi non curante
il collo. «E tu credi davvero che le
lascerò lì?»
domandai, muovendo cadenzato la mano
destra.
Jaz
borbottò fra se e se qualcosa, forse scimmiottandomi
perché di sfuggita sentii
un “lascerò”. Mi guardò con quei suoi
occhi d’un azzurro
iridescente, con quel pizzico di
sfida che non glieli abbandonava mai. «A
costo di ispezionare l’intera casa, le
ritroverò», ripeté, annuendo a se
stesso. «O al limite scassinerò la
serratura». Detto ciò, si
risistemò la frangetta scura sulla fronte,
ancor più saccente
di me. Quando si dileguò nel
corridoio e tornare subito dopo
con il portafoglio
fra le mani, ci salutò velocemente e si fiondò
all’ingresso, richiudendosi la
porta alle spalle con un sonoro tonfo.
Guardai
Edward che ridacchiava, ancora in piedi nel bel mezzo del
salotto. Mi lanciò
un’occhiata, con un sorriso sornione
dipinto sulle labbra; si riavvicinò prima di
lanciarsi divertito
su di me,
facendomi ricadere all’indietro sul materasso. Un tantino confuso,
l’osservai sbattendo le palpebre,
vedendolo allargare il
sorriso. «Abbiamo un piccolo conticino
in sospeso,
mi sembra», mormorò, cominciando a far vagare due
dita della destra sul
mio
collo scoperto.
Trassi
un lungo sospiro, ormai trepidante. Adesso che Jason si era dileguato
nuovamente, non volevo essere
ulteriormente
disturbato. Così gli sorrisi a mia
volta, scostandomi di poco la
camicia, come se volessi
invitarlo. «Sono pronto a pagare il debito»,
replicai malizioso, vedendo entrambe
le sue bionde sopracciglia sollevate in
un’espressione maniacale.
Ci
mettemmo poco a ritrovare l’intimità iniziale
che avevamo perduto. Il gioco riprese normalmente, mentre
ormai non aspettavamo altro che
portarlo
una volta per tutte a compimento. Entrambi solo in intimo, non ci
curammo nemmeno del flebile gelo
che si
espandeva di tanto in tanto dalle fessure delle finestre, ma poi, quando giungemmo
al punto cruciale, a rompere
l’atmosfera fu il prolungato suono
del campanello e poi la cara e vivace voce di nostro
figlio. «‘To-san!
Stavolta ho
dimenticato le chiavi della macchina!»
Era
vero: l’imprevisto
porta un nome... Jason Mustang!
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Capitolo 20 *** [ Flash Contest ] [ Storia Fuori Serie ] Beata Innocenza ***
Heart burst into fire_Episode 20
Titolo: Beata
innocenza
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2890 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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[
FLASH CONTEST ][ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
20: “BEATA
INNOCENZA”
«‘Ka-san?»
Jason mi chiamò, la vocina ovattata dall’acqua che
scrosciava.
Mi trovavo sotto la doccia, costretto ad
essermi svegliato presto per
andare a
lavoro anche se, per prima cosa, avrei dovuto accompagnare Jaz a
scuola. Sciacquatomi un occhio in cui era finita un po’ di
schiuma,
chiusi l’acqua e,
ravvivandomi i capelli all’indietro per evitare che si
incollassero alla
fronte, arraffai il primo asciugamano che trovai e me lo legai alla
vita, uscendo
dalla
doccia per andare dritto dritto ad aprire la porta. Non ebbi nemmeno il
tempo di farlo che un tornado in pigiama mi si
catapultò
addosso.
«Ehi, ehi, così ti
bagni», lo ammonii
divertito, allontanandolo un po’ da me per
issarlo sotto le braccia, così da poterlo vedere meglio
in viso. Aveva un’espressione imbronciata e il musetto ancora
sporco
di marmellata alle
ciliegie. «Che c’è, Jaz?» gli
chiesi,
riuscendo solo a farlo imbronciare di più.
Si strofinò il viso con una
manina per ripulirselo alla
bell’e meglio, ma riuscì solo ad allargare la
macchia. «La vecchia signora che sta di là ha
detto una
brutta cosa», cominciò, cercando
di gettarmi le braccia al collo per avvicinarsi di più a me.
Non glielo permisi subito per evitare
che si bagnasse
però, vedendo il suo viso intristirsi, fui io stesso a
portarmelo al
petto. Mugugnò un po’ il suo disappunto al
contatto con
la pelle umida, ma poi ci
strofinò contro il viso, portandosi le braccine al petto per
poggiare le mani
sul mio. «Che ti ha detto la signora, Jaz?» provai
a farlo
parlare, visto che
l’espressione era sempre più triste. Di solito
gliela
vedevo solo quando c’entrava Edward: in quelle
rare occasioni in cui veniva a trovarci e poi doveva di nuovo scappare
a
Central.
Cominciando a giocare con le goccioline
d’acqua sul mio
petto,
Jaz chinò il
capo, lasciando che la frangetta mora gli nascondesse gli
occhi. «Mi ha chiesto dov’era la mia
mamma»,
spiegò, percorrendo con un dito un
rivoletto. «Ho detto subito che sei tu, ma
lei ha detto di no». Gli occhietti azzurri si alzarono per
incontrare i miei, tristi, e anche le sopracciglia erano corrugate.
«Ha detto che tu non sei la mia mamma», concluse
con una
nota di dolore.
Fui io, però, ad addolorarmi.
Quello era
proprio un brutto discorso da affrontare. Con Jaz tra le braccia,
uscii dal bagno e mi fermai nel corridoio vicino alla cucina, dove
avrei potuto essere
sentito
senza il rischio d’esser visto. «Può
andare, signora Arman, grazie per aver badato
a Jaz», feci, sentendo lei
fare un po’ di rumore con i piatti usati per la colazione.
«Scusi se non
l’accompagno alla porta, ma non sono presentabile».
Sentii distintamente il suono
d’una risatina, quasi
maliziosa. Proprio una vecchietta arzilla, non
c’era
che dire. «Oh, non si preoccupi, signor Mustang»,
rispose
civettuola. «É un piacere
occuparmi di quell’angioletto, chiami pure quando
occorre». Stavolta la sentii posare gli ultimi piatti per
sbucare
nell’altro corridoio,
collegato all’ingresso.
Chiusa finalmente la porta quando fu
uscita, mi arrischiai ad
entrare in
cucina, con Jason ancora fra le braccia e i capelli che pian piano si
asciugavano da soli. Misi il mio figlioletto in piedi su una
delle sedie, in modo che io potessi guardare
lui e
viceversa. L’espressione triste, però, non aveva
abbandonato
il suo musetto. «Jaz, ti ricordi il discorso delle
‘Ka-san
maschietto e delle ‘Ka-san
femminucce?» cominciai,
vedendolo annuire piano a sguardo chino. Sospirai, poggiandogli le mani
sulle spalle esili non prima
d’essermi sistemato
l’asciugamano. «Tu la mamma ce
l’hai, solo che
per gli altri è un papà»,
provai
a spiegarmi con parole semplici, vedendolo corrugare un
po’ le fini
sopracciglia scure. Da come mi guardò, capii che ero stato
tutt’altro
che chiaro.
«Ma perché se sei
la mia ‘Ka-san, gli
altri credono che sei il mio
‘To-san?» mi chiese difatti, gonfiando un
po’ le guance paffutelle. Ecco che mi stavo nuovamente
impelagando in milioni di domande. Era un po’ troppo curioso
per
essere un bambino
di cinque anni, secondo i miei modesti canoni.
Adocchiai l’orologio, sperando
che fosse almeno quello a
salvarmi, purtroppo per me, però, anche il tempo sembrava
non essere
dalla mia parte. Mancava ancora più
d’un’ora prima
dell’inizio della scuola e quasi due
dall’inizio del mio turno. In poche parole, ero fottuto.
«Allora,
‘Ka-san?» mi
richiamò, tirandomi una ciocca di capelli e, lagnandomi, gli
feci lasciare la presa.
«Jaz, questa è una
cosa che per adesso non posso
spiegarti», mi giocai
quella carta, sperando che almeno per quel giorno accantonasse il
discorso. Speranza vana, in realtà.
«Ma perché
no?»
Alzai lo sguardo al soffitto, esasperato.
«Perché non posso, Jaz, sei ancora troppo
piccolo», mi lasciai sfuggire, e non l’avessi mai
detto. Dovetti subirmi una lamentela alla Edward Elric.
«Io non sono piccolo,
‘Ka-san!»
esclamò, agitando le braccine e rischiando
di cadere, ma per fortuna lo trattenni svelto, poggiandogli un dito
sulle labbra.
«Sei grande, sei
grande», mi affrettai a
dire. «Ma non posso spiegartelo
lo stesso».
Jaz si imbronciò nuovamente e
incrociò le braccia al
petto, fissando i suoi occhi
azzurri in giù. Mi ricordò quasi dolorosamente me
da bambino, con
quell’espressione da cane
bastonato. «Non mi dici mai niente»,
riattaccò,
distraendomi dai miei pensieri.
«Ti dirò tutto
quello che vorrai quando sarai
cresciuto», gli promisi nello scompigliargli i capelli,
appuntandomi di non fargli nessun discorso sul sesso. Quello
l’avrei malignamente lasciato fare ad Edward se
fossimo tornati in
tempo a Central.
Anche se non del tutto convinto, alla
fin fine Jaz annuì,
cosicché potei finalmente
portarlo fino in camera per prendere dei vestiti per me e per lui prima
di
dirigermi in bagno. Lottai non poco per farlo entrare nella vasca,
ritrovandomi a fare
l’ennesima
doccia fuori programma. E fortuna che non mi ero ancora vestito, eh.
Ormai fradicio, mi scompigliai i capelli per liberarli
dall’acqua in eccesso,
voltandomi un po’ per cercare dell’altro shampoo e
la saponetta.
Una domanda di Jaz, però, mi
lasciò con entrambi
i prodotti a mezz’aria una
volta trovati. «Ma tu e ‘To-san fate il bagno
insieme,
‘Ka-san?» Da dove nascevano certi quesiti? Mi
voltai come
un automa, ancora una volta senza risposte. Era vero, certo, quando
Edward veniva a trovarci facevamo il bagno
insieme... e
non solo per lavarci. Ma questo non spiegava di certo il
perché
della domanda, tanto che mi ritrovai
a chiederglielo. Peggio d’un bambino anche io. «Gli
altri
bambini a scuola dicevano che i ‘To-san
e le ‘Ka-san fanno il bagno
assieme», rispose, come se quello spiegasse tutto.
«Anche tu e ‘To-san?»
I bambini non sono
più quelli di una volta,
quella fu l’unica cosa
razionale che riuscii a pensare. Già a cinque anni a
chiedersi
certe cose. Come cambiavano i tempi! Mio malgrado, quindi, mi ritrovai
ad arrossire. Maledetto il mio ventenne che si trovava fuori dai guai,
adesso! «Jaz, lo sai che queste cose non si
chiedono?» feci, sperando che mi
prendesse in parola. Mi sarei imbarazzato troppo a rispondere,
affermativamente o negativamente che fosse.
Jaz corrucciò il visino,
giocando distratto con la schiuma
che lambiva la
vasca. «Che ho chiesto di brutto?» mi
domandò
ancora, mandandomi
all’esasperazione. Non ce l’avrei mai fatta a
vincere contro di lui e i suoi
occhioni azzurri, inutilmente vero.
«Non hai chiesto nulla di
brutto, ma è una cosa
che...» mi interruppi, cercando
le parole adatte. «É una cosa che devono sapere
solo gli Oto-san e le
Oka-san». E non avevo tutti i torti, anche se lui si
imbronciò maggiormente, corrugando le sopracciglia.
«Ma se lo devono sapere solo
le ‘Ka-san e i
‘To-san, perché gli altri bambini
lo sanno?» chiese.
Ecco, ad una logica simile non avrei
saputo rispondere. Mi
grattai il collo, ormai senza sapere come poter sfuggire a quella
situazione. Perché diavolo se n’era uscito con
certi
quesiti,
quella mattina? «Stammi a sentire, Jaz», cominciai,
arrampicandomi
ormai sugli specchi. «Sono
solo le ‘Ka-san femminucce che fanno il bagno con i
‘To-san maschietti,
capito?» Provai a mettergliela su quel piano, sempre con la
speranza che la smettesse di fare domande e si
lasciasse
lavare i capelli in tranquillità.
«E
perché?» fu invece la sua risposta
alla mia affermazione.
Mi lasciai cadere sul pavimento bagnato
con un lamento,
girandomi di
schiena per adagiarmi alla vasca e reclinare la testa
all’indietro, in modo che
potessi guardarlo bene senza perderlo quindi di vista. I miei capelli
sfioravano appena il pelo dell’acqua su cui
galleggiava la
schiuma. «Questo lo capirai tra un paio
d’anni»,
me ne uscii, vedendo il suo faccino
atteggiarsi ad un’espressione vagamente perplessa e
incuriosita. «Quando avrai
la mia età o quella del tuo Oto-san, scoprirai che
è molto divertente fare il
bagno con una femminuccia».
«E non lo posso scoprire
adesso?»
Sorrisi un po’ a quella sua
constatazione. Ah, beata
innocenza. «Adesso no, più in
là»,
dissi, e lui si fece pensoso.
«Quindi, se è
divertente, le ‘Ka-san e i
‘To-san giocano?» mi chiese ancora, e se
non avesse avuto soltanto cinque anni avrei detto che la sua era
malizia.
Mi ritrovai a ridacchiare, alzando un
braccio per scompigliargli i
capelli
bagnati e far schizzare appena qualche gocciolina d’acqua da
tutte le
parti. «Una cosa del genere», feci, sentendo le sue
manine
fra i miei, di
capelli.
«E come giocano?»
cominciò a passare le
dita fra ogni ciocca, prendendo di
tanto in tanto la schiuma per buttarcela sopra insieme
all’acqua. «Giocano come
quando tu giochi con me e i miei pupazzetti,
‘Ka-san?»
Eh, aye... proprio una beata innocenza.
Tirandomi su con i capelli ormai nuovamente bagnati, mi apprestai a
fare lo
stesso con i suoi, vedendolo socchiudere gli occhi infastidito quando
gli
massaggiai la cute con le dita. «Diciamo di sì,
Jaz», esordii
tranquillamente, sebbene di tanto in tanto mi
scappasse qualche risatina per la mia bugia a fin di bene che lui
cercava di
capire.
Jason diede finalmente tregua alle sue
domande, permettendomi di fargli lo
shampoo; gli passai il sapone, così che
potesse cominciare
a lavarsi almeno un po’ per benino, anche se dopo poco
cominciò a giocare con la schiuma, coinvolgendomi
quasi senza che me
ne accorgessi. Più bambino di lui, ne presi una bella
manciata e me la
passai in viso,
soffiando via il restante incitato dalle sue risate divertite e le sue
mani che
battevano a pelo d’acqua.
«Come sei buffo,
‘Ka-san!»
esclamò giocoso, allungando le braccia per togliermi
la schiuma dal naso e passando di nuovo le dita fra i capelli, dove
ne era
caduta un po’. Ridacchiando, riempii anche lui di schiuma,
vedendolo arricciare il
nasino prima
di strofinarsi la faccia nel tentativo di pulirsela.
Il resto del tempo se ne andò
più o meno
così, tra nuvole di schiuma e risate. E, beh... e
l’acqua
sul pavimento. Fu quasi con rammarico che dovetti tornare alla
realtà,
ricordandomi di scuola
e lavoro. Sciacquai Jason da tutta la schiuma che avevamo creato e di
cui si era
praticamente vestito, tirandolo fuori dalla vasca per avvolgerlo
nel suo
accappatoio. A misura di bambino, ma comunque grande. Ed era lui a
sembrare buffo, adesso. Buffo, aye, ma terribilmente dolce.
Cominciai a tamponargli i capelli con un
asciugamano, liberandoli
dall’acqua in
eccesso prima di passare ad asciugarlo completamente senza che si
muovesse come suo solito. Aveva il visino rilassato, come quando era
pronto per il suo
pisolino. «Ehi... hai sonno?» gli chiesi, mentre
gli infilavo
la maglietta.
Con una manica sì e una no,
lui annuì,
strofinandosi un occhio
con il braccio
libero. Mi intenerii alla vista della sua boccuccia
all’ingiù, espressione che adottava
solo quand’era stanco; risi e continuai a vestirlo, passando
presto a me mentre lui se ne
stava
seduto sulla tavoletta del water, a sbadigliare di tanto in tanto.
Infilati i boxer, cercai il mio pantalone, fermandolo alla vita con
la
cintura una volta indossato. Mi stavo apprestando a chiudere la camicia
quando Jaz mi
richiamò di
nuovo.
«Lo voglio anche io,
‘Ka-san»,
mormorò, con la vocina ammorbidita dal sonno.
Lo guardai senza capire, chiudendo gli
ultimi bottoni. «Che cosa, Jaz?» chiesi,
riprendendolo in
braccio, e lui si sporse un po’ oltre la mia spalla,
indicando un punto
dietro di me. Quando mi voltai, non potei evitarmi di ridere
divertito, recuperando
il mio orologio d’argento dal lavandino. «Ti
piace?» chiesi ancora, porgendoglielo.
Jaz cominciò a cincischiarci
e lo caricò, premendo il pulsante
sopra di esso per
aprire il coperchio e sbirciare al suo interno prima di chiuderlo con
uno
scatto e aprirlo di nuovo. «Mi piace tanto tanto»,
ammise, alzando gli occhi
azzurri verso di me. «Me lo
regali?» Lo disse con un tono così speranzoso
che mi dispiacque
dovergli negare
quella richiesta.
«Non posso, Jaz»,
gli risposi, corrugando
un po’ le sopracciglia. «Non
è di Oka-san».
Con il visino imbronciato, lui
tornò a studiarselo, passando un
dito sull’incisione
dell’araldica del Comandante Supremo. «E di chi
è?» mi domandò mesto.
Mi incamminai verso la porta con lui in
braccio, sospirando.
«É del posto dove lavoro, mi serve», gli
spiegai con parole semplici, sentendo
nuovamente i suoi occhi su di me. «Senza quello Oka-san non
può andarci». Gliela buttai sul facile, vedendolo
annuire
mogio. Si attorcigliò la catenella intorno ad un dito,
riporgendomelo subito
dopo.
«‘Ka-san...» chiamò ancora,
concentrandosi sui bottoni della mia camicia. «Ma
se non ci vai una volta a lavoro... ti sgridano?»
Mi guardò con i suoi occhioni
azzurri e non potei
resistere.
Lo abbracciai più stretto, baciandogli con dolcezza la
chioma nera mentre
sentivo un sorriso andare ad incurvare le mie labbra. Ero io quello che
non voleva avere figli una volta, eh? «A dire il vero non lo
so,
Jaz», semplificai il
tutto, sentendo le sue manine
aggrapparsi alla stoffa, come se non volesse lasciarmi.
«Vuoi stare con me?»
mi chiese con voce morbida.
Come avrei potuto resistere ad una
simile richiesta fatta con quel
tono? Se ci fosse stato Edward, avrebbe sicuramente detto che lo
viziavo
troppo. «E come fai per la scuola?» feci invece io,
anche
se sentivo benissimo che, se
l’avesse chiesto, non l’avrei portato per restare
quel giorno con lui. Dovevo essere una madre
più presente,
in fondo. Almeno quando potevo. Un giorno o due a casa da lavoro e
scuola non avrebbe di certo fatto
crollare
il mondo.
«Non posso restare a casa con
te?» ed ecco la
domanda che aspettavo.
Gli sorrisi raggiante, come se volessi
rassicurarlo. Se quel
giorno non mi sarei presentato, il Quartier Generale non sarebbe
andato
a rotoli, no? La mia presenza non era poi così essenziale o
di
vitale
importanza, visto che
scaldavo una sedia e riempivo scartoffie quando mi andava. Nemmeno in
missione mi mandavano più, quindi
figurarsi. «Sai che facciamo, Jaz?» gli dissi,
dirigendomi
con lui
all’ingresso. «Visto che siamo vestiti, ce ne
andiamo al parco, ti va?»
Il suo viso, a quelle mie parole, si
illuminò
di un sorriso. «Sì!» esultò
felice,
gettandomi con impeto le braccia al collo e
scoccandomi un sonoro bacio sulla guancia. «Grazie,
‘Ka-san!»
Vedere quegli sprazzi di allegria e
gioia mi scaldava il cuore.
Lo distraeva, almeno in parte, dalla situazione che stavamo
affrontando,
dato che
vivevamo separati da Edward, in un posto a parecchie ore di distanza.
Uscimmo dal palazzo, lasciandoci andare entrambi a risatine divertite,
uno più
bambino dell’altro. La giornata era una delle più
belle e
assolate che avessi
mai visto nell’afosa
South City, ideale per una passeggiata nel parco fra il verde della
natura. Mi meravigliai non poco a vedere quante coppie fossero
lì
presenti già dal
primo mattino, persino genitori seduti sulle panchine ad osservare i
figli che
giocavano poco distanti. Avevano fatto tutti la mia stessa pensata, a
quanto sembrava.
«Mettimi giù,
‘Ka-san, voglio andare
sullo scivolo!» esclamò Jaz,
attirando anche l’attenzione di una coppia che stava passando
lì vicino. E fui sicuro che quello che mi lanciarono fu uno
sguardo stranito...
Mi chinai per permettere a Jason di
poggiare i piedini a terra,
mettendogli le mani sulle spalle prima di puntellarmi sulle ginocchia,
così da poterlo
guardare meglio in viso. «Jaz, come ti ho detto che devi
chiamarmi fuori
casa?» lo ammonii, ma non
in tono severo.
Abbassò lo sguardo sui
ciottoli bianchi, portandosi le
braccia dietro alla
schiena. «‘To-san», rispose, tornando a
fondere il
suo cielo con la mia antracite. «Però...
perché?»
Oh, no... rieccolo con le domande. Gli
accarezzai la testa
amorevolmente, sorridendogli. «Te lo spiegherò
poi»,
mi risolsi a
dire. «Ora vai a giocare, coraggio».
Con quelle paroline magiche, riuscii ad
evitarmi un’altra
conversazione fatta
solo di quesiti. Quando gli venivano certe curiosità non
sapevo
proprio dove
sbattere la testa. Seguii Jason con lo sguardo mentre lo vedevo
raggiungere le giostrine,
avvicinandomi a mia volta al piccolo spazio gioco prima di
lasciarmi cadere
seduto sulla panchina. Come al solito fu subito attorniato dalle
bambine lì
presenti, e quasi mi
sembrò che se lo litigassero. Difficile non sorridere, a
quella
vista. E quasi fui sul punto di scoppiare a ridere e di farmi guardare
male
dalla donna
che si era appena seduta quando fu lui stesso a scegliere, prendendo -
guarda
caso - la mano di una biondina.
Beata innocenza avevo
detto, eh?
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Capitolo 21 *** [ Storia Fuori Serie ] Tenere pesti › Distrazioni ***
Heart burst into fire_Episode 21
Titolo: Tenere pesti
(Distrazioni)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2415 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang & Figli
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO 21:
TENERI PESTI (DISTRAZIONI)
Dinanzi
a me si prospettavano quattro giorni d’Inferno.
Edward era a Reesembool, per la
manutenzione del suo auto-mail,
mentre io ero stato incastrato da nostro figlio di
controllargli i
bambini
per un po’. Aye, i bambini. Quattro adorabili pesti frutto di
tre
notti di fuoco. Almeno non aveva lasciato le cose a metà,
riconoscendoli
tutti come suoi
nonostante non si fosse deciso a sposare nessuna di quelle povere donne
che
aveva
messo incinta. Se non fossi stato certo e stracerto che fosse adottato,
avrei pensato
che avesse davvero i geni Mustang, nelle vene. Non riusciva proprio a
tenere il fratellino
nei
pantaloni. C’era da dire, però, che aveva fatto
delle
ottime
scelte. Non significava certo che approvavo quel suo modo di fare,
persino io
avevo
sempre fatto minuziosamente attenzione quando si era trattato di
donne... e per fortuna, c’era da aggiungere. Chi
l’avrebbe
sentito a Edward, altrimenti! Certe volte veniva persino il dubbio che
Jason fosse frutto
d’una mia notte
passata con una donna, tanta era la somiglianza e il modo di fare. Ma
non era ciò a cui pensavo, in quel momento.
Comodamente adagiato sul fondo della
vasca, con l’acqua
che
mi lambiva i
fianchi, riflettevo su come avrei potuto cavarmela con i miei nipoti.
Solo, senza l’aiuto di Edward. Aveva scelto proprio un bel
giorno
per andare dalla sua cara
meccanica,
quel fagiolino! Sbuffando via un po’ di schiuma, mi portai le
braccia dietro
la testa,
distendendomi meglio e lasciando che un piede fuori uscisse
dall’acqua mentre abbassavo di più il capo
per far sì che il calore
ammorbidisse le cicatrici. Chiusi l’occhio e mi concentrai
sul flebile scrosciare
contro il bordo
della vasca ai miei lievi movimenti, con il pensiero che vagava alla
bottiglia
di whisky adagiata sul pavimento.
Quel momento di pace, però,
fu infranto in poco. Un
insistente bussare alla porta ruppe l’attimo e, riluttante,
dovetti abbandonare quel bagno di tepore, arraffando
l’accappatoio
per asciugarmi alla bell’e meglio prima di passare ai vestiti
e alla benda. Ancora umido, ci misi un po’ di più
per
infilare
intimo e pantaloni, indossando
la camicia sulla pelle ancora fumante e appiccicosa. Pensai ai primi
bottoni strada facendo, mentre l’ospite
inatteso continuava a
bussare. «Arrivo, arrivo», borbottai, dirigendomi
all’ingresso.
Una volta aperta la porta, fui
letteralmente investito da un
tornado di
colori
e stature che portava svariati nomi. Eccole lì, le mie
adorabili
pesti. Seguite a ruota dal caro papà. «Ciao,
‘Ka-san», mi salutò,
con quel sorriso strafottente su quella faccia da
prendere a schiaffi. «Su bambini, salutate la nonna».
Tutti avvinghiati a me, alzarono lo
sguardo verso il mio occhio
in
contemporanea. «Ciao, nonna Roy!»
esclamarono
all’unisono, con lo stesso sorriso del
padre. Inutile dire quanto quella situazione mi stressasse.
Già in passato ero stato scambiato per una nonnina,
esserlo davvero, adesso, era un altro paio di maniche. Stavo
invecchiando sul serio, purtroppo.
Mi piegai sulle ginocchia,
abbracciandoli uno ad uno,
soprattutto le mie gemelle preferite e anche l’unico ometto
di
casa, che sembrava un po’
contrariato.
«Niente dolci prima delle
sette ‘Ka-san»,
mi informò Jason, entrando con una
sacca più grande di lui. «Chi le sente alle mie mogli,
poi!»
Ridacchiai, non riuscendo a farne a meno
mentre seguivo la sua
figura. Stava posando la sacca accanto al mobile, seguito dal figlio e
da una
delle
figlie. «Me la vedo io, non preoccuparti», lo
rassicurai,
incontrando i suoi occhi
azzurri.
«Appunto per questo ti
avverto»,
scherzò, scompigliando i capelli della
maggiore delle figlie, che non tardò a far sentire le sue
proteste.
«Sono grande, papi,
smettila!» esclamò,
cercando invano di sistemarseli. Un morso di bambina e già
si
atteggiava ad adulta! Aveva proprio preso il gene Elric, non
c’erano dubbi. Da poco aveva compiuto i sei anni, ed era, se
la
si voleva mettere in
quei
termini, la secondogenita. Era la figlia della figlia di Alphonse, ed
era stato arduo calmare il caro fratellino del mio compagno, quando
aveva saputo che Jaz aveva messo incinta la sua bambina.
«Lo so che sei grande, Beth,
ma resti sempre la mia
piccina», fece Jason,
prendendola in braccio e strofinando il naso contro il suo;
l’altro si imbronciò e gli strattonò il
pantalone, così lui abbassò lo sguardo,
sorridendo.
«Non fare il geloso, Will», disse, ricavandoci solo
un altro colossale broncio. William, sette anni: stranamente alto per
la sua età, era il gallo del pollaio e spettava a lui
occuparsi
delle sorelline. Capelli scuri, occhi azzurri... sputato al padre.
«Mica sono geloso»,
replicò, ma la sua
espressione diceva il contrario, così Jason sorrise di
nuovo, passandogli un braccio dietro alla schiena in
perfetto
stile padre premuroso. La scena mi fece sorridere, ma non potei
osservarla oltre che fui
richiamato da
due manine che mi tiravano la camicia. Mi voltai, incontrando gli occhi
delle gemelle.
«Dopo ci racconti una
‘toria, nonnina?»
mi chiesero all’unisono, con quel
dolce faccino.
Come avrei potuto dire di no? Amber e
Sarah, quattro anni:
capelli lunghi, castani, avevano preso dalla madre. Solo gli occhi
erano quelli di Jason. Me le abbracciai entrambe, issandomele subito
dopo in braccio. «Tutte le storie che volete»,
concessi,
venendo
subito richiamato dal padre.
«So quali sono le tue storie,
‘Ka-san, me le
traumatizzi», sghignazzò,
ritornando sui suoi passi per darmi una leggera pacca sulla spalla.
«E cercate
di non fare tardi la notte».
«Alle otto i miei due
angioletti saranno
già a letto, promesso», dissi,
nonostante le proteste che subito si lasciarono sfuggire le dirette
interessate.
Jason, invece, sollevò
divertito un angolo
della bocca. «Io non lo dicevo per loro, ma per
te»,
ribatté sarcastico. «Sessant’anni sono
sessant’anni».
Storsi la bocca in una smorfia, quasi
fossi stato
pugnalato. «Non mi piace sentire la mia età, lo
sai» mi lagnai come un bambino
capriccioso. E quelli erano gli unici momenti in cui potevo ancora
sentirmi tale.
Jason rise, dandomi un’altra
pacca sulla spalla. «Dai, dovresti farci i conti prima o
poi»,
sghignazzò, sollevando ammiccante un
sopracciglio prima di avvicinarsi maggiormente a me, più
precisamente al mio
orecchio. «Ma penso che te lo faccia già notare
‘To-san quando in quei rari
momenti andate a letto, vero?»
«Siamo entrambi in forma
smagliante, quando si tratta di quello»,
replicai, sentendolo sghignazzare ancora un po’, troppo
divertito.
«Io non volevo insinuare
nulla»,
ridacchiò, passandomi distrattamente due
dita sul mento per accarezzare la barba che mi stavo facendo crescere.
«Questa
faresti bene ad eliminarla, però»,
constatò pensoso, e io gli scoccai un’occhiataccia.
«Volevo farmi crescere i
baffi», ironizzai,
guadagnandoci un’occhiata
stranita.
«Staresti peggio!»
esclamò divertito,
agitando distrattamente una mano, dando
un bacio alle gemelle prima di premurarsi di fare lo stesso con
Elisabeth e
William. «Fate i bravi», raccomandò,
salutando
poi anche me. «Ci vediamo sabato,
‘Ka-san», mi informò, e con quel solito
sorriso se ne andò, agitando divertito
la mano. Non era cambiato affatto, anche a trent’anni restava
tale. Avrei affermato con certezza che si trattasse di una cosa di
famiglia.
Solo con i miei nipoti, adesso, non mi
toccava altro che trovar loro
qualcosa da
fare. Mancavano tre orette all’ora del sonnellino, quindi
potevo intrattenerli
con la tanto agognata fiaba che avevano richiesto le gemelle.
«Che ne dite di un bel gelato?» chiesi subito,
richiamando presto la loro
attenzione.
William mi osservò, un
po’ scettico. «La mamma non me lo fa prendere se
non
mangio», mi disse, guardandomi
con quegli stessi occhioni azzurri che, tanti anni orsono, mi avevano
catturato.
Sorrisi, però, nel vedere
invece l’espressione
indecisa sul suo volto. «La mamma non
c’è, no?» feci
in risposta, facendo cenno ai maggiori di seguirmi
in cucina, con le gemelle ancora avvinghiate al mio collo.
Elisabeth e William mi trotterellarono
dietro, la mia nipotina sembrava
ansiosa
di gustarsi un bel gelato fuori orario. «A me crema al
limone, nonnina»,
mi informò, aspettando che aprissi il
frigorifero. Mi evitai di ridacchiare, e lo feci solo perché
poi si intromise anche William.
«Io lo voglio al
cioccolato», fece invece lui,
infischiandosene in un lampo delle
regole della madre. Dovetti chinarmi per far poggiare i piedi a terra a
Sarah e Amber, che
mi si
aggrapparono invece ai pantaloni.
«Dai, nonnina,
muoviti!» si
lamentarono, sempre in coro.
«Un momento, un
momento», replicai con un sorriso.
Pronti i gelati per tutti, ci
accomodammo in salotto, con un
libro
d’alchimia sottobraccio e un bicchiere di whisky sul
tavolino.
Ciotole di gelato alla fragola, al cioccolato, al limone e alla
stracciatella
si paravano lì accanto, con una bella spruzzata di panna e
cialde. Avidi, i miei nipotini cominciarono a consumarle, e le
più piccole non
tardarono ad
inzaccherarsi.
«Voglio sentire la storia sui
fratelli che cercano la
pietra
filosofale»,
incalzò Elisabeth, tirandomi la camicia per farmi cedere a
quella richiesta. Già, le mie storie si basavano quasi
sempre su
avvenimenti
realmente accaduti. Quella era nata così, per caso. Nemmeno
ricordavo esattamente come. Un piccolo litigio con Edward su
chissà cosa, ed ecco che mi
ero ritrovato a
raccontare la sua vita come una fiaba da tramandare ai nipoti. E non
gli era affatto dispiaciuto, anzi.
«Racconta quella dei due amici
che rubavano negli
armadietti dei capitani!»
fece in risposta William, guadagnandoci un’occhiataccia dalla
sorella. Anche quella era una storia di vecchia data. Molto vecchia,
per essere precisi. Nata la prima notte che avevamo passato con Jason,
la ricordo bene. Non sapendo su che specchi arrampicarmi, mi ero
ritrovato a
raccontargli di
quando io e Maes, ai tempi dell’Accademia, scassinammo
l’armadietto del nostro
capitano e ci avevo rimediato anche una ramanzina da Edward. Proprio
lui, poi, aveva attaccato con l’alchimia. La stessa alchimia
che
tanto era piaciuta a Jason, ora alchimista di stato come
noi. Fiero anche di dire che ero stato io a
sottoporlo all’esame e a
consegnargli di persona quella
carica, iinvestendolo di quelle alte onorificenze. Aye, proprio io, il
nuovo Comandante Supremo!
A distrarmi dai miei pensieri di gloria,
fu il battibecco fra William ed
Elisabeth che stavano bisticciando su
chi
avesse ragione, praticamente ignorati da Amber e da Sarah che si
godevano, a
differenza loro, il gelato. Una delle due mi gettò
un’occhiata, con il musetto
sporco di panna. «Nonnina,
perché non ci leggi
il libro d’acchimia?» mi chiese, angelica
come non mai. Ed era strano, visto che insieme alla sorellina era una
vera e propria
miniera
di caos. Ne combinavano sempre una più del Diavolo. Solo in
rare occasioni erano calme, giusto quando si avvicinava il
momento del
riposino. Il giorno dopo, invece, mi sarei ritrovato a fare i conti con
due pesti
scatenate!
Sorridendo alla mia cara, quanto
pestifera Amber, allungai di
poco il
braccio per prendere il libro, interrompendo così il litigio
tra i due
maggiori.
«Ma no nonnina!»
si lagnarono,
non appena lo videro.
«‘Ti,
invece!» rincarò la dose
Sarah, accoccolandosi contro di me con la faccia sporca di gelato alla
fragola.
Glielo ripulii, troppo divertito. Mi
sembrava di essere tornato ai tempi in cui era Jason quello che si
sporcava
sempre. Ai miei cari, vecchi, trent’anni... scossi la testa,
preparandomi ad una bella e profonda
lettura.
«Leggi nonnina,
leggi!» mi
scosse Amber, ancora in ginocchio sul
divanetto.
Risi tra me e me, felice per quel loro
interesse. Sarebbero
diventate alchimiste provette, un giorno. Ci avrei messo la mano sul fuoco.
Mi sistemai meglio sul morbido divano, attirandoli tutti a me prima di
cominciare a sfogliare le prime pagine alla ricerca di un argomento non
troppo
pesante prima di apprestarmi a leggere, con i loro sguardi puntati su
di me. Domande varie non mancarono, così come alcuni sbuffi
da
parte di Will o Beth. Le uniche davvero interessate erano le mie
gemelline, e non lo trovavo affatto strano. Finché una di
loro
non sbadigliò sonoramente,
interrompendo la mia lettura.
Guardai i volti assonnati delle mie
piccine e allungai distratto
un
braccio
per afferrare l’orologio sul comodino, controllando
così
l’ora e restandone
stupito. Erano quasi le dieci. Il tempo era davvero volato e non
avevamo nemmeno mangiato qualcosa... se si escludeva il gelato,
ovviamente. Chiusi il libro con uno schianto secco, sbadigliando a mia
volta senza
ritegno
prima di guardarli ad uno ad uno.
«Ce la fate a restare svegli
mentre preparo da
mangiare?» chiesi, ricevendo
sguardi e sbadigli. William annuì, così come
Elisabeth,
anche se lei
sembrava più addormentata. Amber e Sarah, invece, si
limitarono
solo a spalancare la bocca in un
ennesimo
sbadiglio. Scompigliai i capelli del maggiore alzandomi,
stiracchiandomi poi. «Bada a loro, Will, okay?» mi
premurai, sgranchendomi
il collo.
Sorridendomi, lui si alzò un
po’ e, calandosi nell’imitazione d’un
soldato, fece il saluto militare. Tutti quella strada in famiglia, eh?
«Ci penso io, nonna.
Anzi, no, Eccellenza», disse,
atteggiandosi già a grand’uomo.
Stavolta non potei evitarmi di
ridacchiare e mi diressi in
cucina per preparare un pasto leggero, tenendo conto sia
dell’ora che della loro età. Chi
l’avrebbe sentito
Jason, altrimenti! Ci misi non più di dieci minuti e, quando
li
chiamai, si presentò solo William. «Le tue
sorelle?»
gli chiesi perplesso, seguendolo
con lo sguardo e
mettendogli poi il piatto davanti.
Lui si strinse nelle spalle, tranquillo.
«Dormono», rispose semplicemente, avventandosi
subito dopo sul cibo, famelico.
Andai a dare un’occhiata alle
altre e, trovandole tutte
accucciate sul divano, mi intenerii alla scena. Decisi di prenderle in
braccio ad una ad una, portandole almeno nel
letto. Non ebbi il cuore di svegliarle. Dormivano troppo saporitamente.
Me ne tornai quindi da William, consumando la cena con lui
finché non fu tempo
anche per noi di coricarci accanto alle sorelle. Attesi che crollasse
anche lui nel mondo dei sogni, vegliando sul loro
sonno.
Mi accorsi di essermi addormentato anche
io solo quando qualcosa
di
caldo e
morbido si posò su di me, ridestandomi pian piano. Schiusi
lentamente la palpebra e, con l’occhio ancora
assonnato, mi parve di scorgere gli occhi di Edward che
luccicavano appena nella penombra. Che ci faceva lui a casa?
Che
stessi ancora sognando? Lo diedi per scontato e sbadigliai, tornando a
chiudere
l’occhio mentre sentivo
stretti a me i corpi e le braccia dei miei nipoti.
Nelle orecchie mi risuonò una
vaga risatina divertita,
prima che delle labbra
morbide
e piene mi sfiorassero appena il viso. Un respiro sul collo,
nell’orecchio. Il suono delle giunture di
quell’auto-mail
che tanto avevo
imparato a
riconoscere... poi la sua voce, come un’eco sussurrato in un
sogno. «Dormite bene».
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Capitolo 22 *** Sorprendersi › Quando accade l'impensabile! ***
Heart burst into fire_Episode 22
Titolo: Sorprendersi
(Quando accade l'impensabile!)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction [ 549 parole ]
Personaggi:
Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
EPISODIO 22: SORPRENDERSI (QUANDO ACCADE
L'IMPENSABILE!)
«Che
ore sono?» mi chiese distrattamente Edward con uno sbadiglio,
mentre la sua mano d'acciaio mi accarezzava una guancia per scendere
lenta lungo il collo, facendomi rabbrividire
per il freddo che mi aveva trasmesso.
Sbadigliai anch'io, stiracchiandomi
stanco.
«Quasi le tre», lo informai, stropicciandomi gli
occhi.
Lui emise un fischio acuto e prolungato,
e solo in seguito,
quando lo guardai di sfuggita, mi accorsi dell'espressione sarcastica
che si era dipinta sul suo volto.
«Abbiamo superato il nostro record, allora»,
borbottò divertito. «O
meglio, il tuo», si corresse prontamente, con un
sorriso smagliante ad illuminargli il viso. «Di
solito non resisti più di cinque minuti!»
Risi di gusto a quella sua
constatazione, sgranchendomi il collo. Aveva pienamente ragione, quella
volta!
«Invece, adesso, addirittura due ore!» esclamai,
fiero e impettito. «Sono
o non sono bravo?»
La sua risata cristallina si aggiunse
presto alla mia, e mi
appioppò una bella pacca sulla spalla, alzando divertito un
pollice in segno di okay.
«Aye, sei il mio impeccabile
Colonnello!» ironizzò.
«E non dimentichiamoci affascinante», soggiunsi io
per lui, ammiccando malizioso.
Sollevò sarcastico una delle
bionde sopracciglia,
spostandosi
con non curanza i capelli che gli erano ricaduti davanti al viso.
«Non
vantarti troppo, adesso», ribatté, senza
però
abbandonare quel sorriso che mi era sempre piaciuto e che mi
aveva colpito, otto anni prima.
«Oh, mai non mi vanto mai», replicai ironico,
inclinando amorevolmente la testa di lato. «Dovresti
ben saperlo, mame-chan».
Edward allungò la mano verso
il mio volto e mi
tirò il naso senza badare al lamento che mi lasciai
scappare,
scuotendo piano la testa come a volermi ammonire. «Nay,
caro Colonnello. Non si fa», disse, muovendo
avanti e indietro l'indice d'acciaio.
«Non mi deve dare del fagiolino».
A quel suo tono, fui sul punto di
scoppiare a ridere come un cretino. Mi ero sempre divertito a chiamarlo
mame-chan,
soprattutto nei primi tempi del nostro rapporto, in cui ancora reagiva
con delle sfuriate che mi facevano sempre morire dalle risate. Adesso,
invece, quel bel venticinquenne che avevo davanti ci aveva
ormai fatto l'abitudine, sebbene mi sgridasse di tanto in tanto giusto
per far scena che per altro.
«Era affettuoso...» sghignazzai, ricevendo una
mezza occhiata.
Incrociò le braccia al petto,
inarcando le sopracciglia.
«Certo,
affettuoso il mio caz...» si interruppe nel vedere che avevo
aperto
la bocca e stavo per ribattere usando una parolina che a lui piaceva
tanto. «Nay,
non diciamolo», si affrettò ad
aggiungere, scuotendo la testa.
«Fraintenderesti».
Stavolta non mi trattenni, scoppiando a
ridere. Era esilarante
pensare che volesse mantenere il suo linguaggio, di
solito fin troppo scurrile in certe situazioni, casto e puro.
Chinandomi sul suo volto, gli scoccai un bacio a timbro sulle labbra.
«Beh,
allora immagina a come resteranno sorpresi gli altri nel sapere che ho
resistito per tutto questo tempo», avevo prontamente cambiato
discorso, e lo sentii ridere ancora una volta, prima che si alzasse
dalla poltrona su cui era seduto e recuperasse tutti i fascicoli e le
documentazioni presenti sulla scrivania del mio ufficio, dove avevo
stranamente passato la maggior parte del mio tempo morendo di freddo a
causa del riscaldamento fuori uso.
Edward picchiettò la mano
destra sulla pila di fogli, sorridendo.
«Lo
sarei anch'io, sapendo che hai compilato tutti questi
documenti!»
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Capitolo 23 *** [ Storia Fuori Serie › Special di Halloween ] Stupidaggini ***
Heart burst into fire_Episode 23
Titolo: Stupidaggini
(Ovvero, quando Roy Mustang può essere considerato un vero
idiota)
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 4549 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO 23:
STUPIDAGGINI (OVVERO, QUANDO ROY MUSTANG PUO' ESSERE
CONSIDERATO
UN VERO IDIOTA)
Assurdo,
praticamente assurdo.
Era ciò che mi ripetevo mezzo
nudo davanti allo specchio.
Non facevo altro che far scorrere gli occhi sulla mia immagine,
passando poi su
tutto ciò
che il mio compagno aveva gentilmente preparato per
me sul ripiano del
bagno. Reprimevo lamenti da quasi un’ora, senza
però
decidere di darmi una benedetta
sistemata. Ma chi l’avrebbe fatto, se fosse stato al mio
posto? Quale uomo sano di mente si sarebbe messo quella
roba?
Ed era tutta colpa di quel disgraziato di mio figlio. Già,
proprio così. Ne aveva combinata un’altra delle
sue con
quello scorfano
della sua prof di
matematica.
Un po’ lo capivo e non lo
biasimavo affatto, ma... se mi
ritrovavo ancora una volta a guardare - con profondo
orrore - il
modo in cui avrei dovuto conciarmi, la mia compassione svaniva del
tutto,
lasciando posto solo ad una profonda stizza. Anzi, forse era ancora
troppo poco definirla così. Un incontro genitore-insegnante,
certo. Parlare da adulto ad adulto, come no. Da donna a donna... ecco,
qui c’era
una nota che stonava. Ed era questa la causa dei miei
problemi.
Intelligentemente, Jason aveva avuto la brillante
idea di dirle, in preda
ai suoi soliti sproloqui alla Edward Elric, che era - tanto
per cambiare,
sia chiaro - colpa di sua madre se si comportava
così. Giustamente, quel mostro che si ritrovava aveva
chiesto di parlare con
la
donna che gli dava certi insegnamenti a dir poco immorali.
Avevo pensato di costringere Edward ad andarci, in principio, ma con la
solita minaccia mi aveva messo subito a tacere. “Mandami
lì vestito da donna e il sesso lo farai
in bagno da solo.” Come avrei potuto contestare contro quella
logica
così
schiacciante? Non mi andava assolutamente di passare il resto dei miei
giorni a
praticare il
Fai da te. Non se potevo evitarlo, che diamine!
Così, avevo messo da parte quel briciolo
d’orgoglio virile che mi restava e avevo acconsentito
a quella follia, ma continuavo a guardare avvilito quel vestiario.
Mi ero seduto sul bordo della vasca, con le mani abbandonate
sulle
cosce. Dannazione a quel fagiolino e anche a mio figlio!
«Roy, sei pronto?»
mi richiamò, guarda
caso, la voce di Edward. «Non vorrai
fare tardi, spero! La professoressa ancora non ti conosce
e già ti tiene
sotto mira, sai?»
Il suo tono sarcastico mi fece
imbestialire. Ringhiai contro la porta in perfetto stile
“Cane
dell’esercito”. Me ne sarei stato volentieri
lì dentro tutto il giorno, se
non avessi pensato
al sesso. Uccide,
ed era proprio vero. Maledettamente vero! Trassi un lungo sospiro,
decidendomi infine ad alzarmi. Angosciato e non poco, con una smorfia
in viso, mi avvicinai afflitto
al primo
abbigliamento che avrei dovuto indossare e per primo presi proprio il
reggiseno.
Non me ne ritrovavo uno per casa da secoli, in realtà, e
il fatto che dovessi indossarlo io non mi piaceva affatto. Era
soffice, certo. Morbido, con i ferretti e le coppette a reggere le
rotondità
del seno e fasciarlo con grazie ed eleganza. Sarebbe stato perfetto,
indossato da una giovane donna. Ma
non addosso a me, porcaccia!
Lanciai un’occhiata anche
all’imbottitura, la quale era un tantino esagerata, in
realtà. Semplice
capire chi avesse fatto tale scelta. Io no di certo. Ci persi non
più di cinque secondi, ad indossarlo. Nello sfilarli avevo
fatto pratica per
anni, ma, adesso che mi guardavo allo specchio, la cosa mi
faceva un tantino...
ribrezzo? Aye, probabilmente era quello il termine adatto.
Insomma, un po’ di buon senso! D’accordo che, prima
di
stare con Edward, avevo visto milioni
e milioni di
donne in intimo, con seni prosperosi che avrebbero fatto girare la
testa ad
ogni uomo; d’accordo anche che mi piaceva da pazzi
assaporarne la
pienezza nei palmi e non
solo... ma, diamine, io ero un uomo!
Mi girai a mezzo busto per controllarne
il profilo. Cazzo, erano
perfetti, certo, ma... repressi l’istinto di dare capocciate
contro il muro, mentre
sentivo le lamentele
dei miei inquilini giungere fin qui dalla cucina. Mi gridavano di
muovermi, come se fosse facile! Ci volle tutta la mia forza di
volontà per entrare nel
vestito. Stretto - forse troppo, avrei aggiunto - e aderente,
mi fasciava
praticamente tutto il corpo fino a metà coscia, e aveva una
scollatura a V che
lasciava ben poco all’immaginazione. C’era un particolare
da nascondere, ora
che mi osservavo meglio. Ma, naturalmente, il mio biondino aveva
pensato anche a quello. Aveva già preparato una pelliccia,
nera anch’essa.
Un po’ sulle mie, allungai una
mano verso la trousse che
Edward si era fatto
prestare da non volevo nemmeno sapere chi, cominciando, nonostante
l’espressione a dir poco sconvolta del mio stesso volto, a
truccarmi. Ombretto chiaro sulle palpebre, correttore sul viso prima
di stemperarci su un po’ di fard; qua mi fermai, squadrando
il
rossetto con aria malevola. Non volevo metterlo, ma Edward era stato
chiaro. Mi feci coraggio e, mettendone appena un accenno, passai in
seguito agli
occhi in uno stato di catalessi. Non riuscivo a guardarmi allo
specchio, e la cosa peggiore era che mi veniva da ridere! Ma non
perché trovassi quella situazione divertente... era per non
frignare come un moccioso!
Con lentezza e attenzione, cominciai a
passare
l’eye-liner sugli occhi,
rendendo ancor più a mandorla il loro taglio. Non ebbi il
coraggio di guardarmi oltre. Pensai che fosse meglio concentrarmi sulla
parrucca che Edward aveva premurosamente
trasmutato appositamente per me. Capelli neri, lunghi e un
po’ ondulati alle punte. La infilai, certo, ma anche stavolta
non
ebbi la forza di osservare la
mia
immagine riflessa. Cosa non si arrivava a fare, per non essere
condannati ad una vita
senza sesso! Ben presto, mi sedetti sul water, infilando, con una certa
difficoltà, il
reggicalze. Poi le scarpe... con i tacchi. ovviamente. Dannato
fagiolino, me l'avrebbe pagata molto cara!
Mi alzai e uscii solo tempo dopo, con la
pelliccia sottobraccio,
e fu con imbarazzo e orrore che li raggiunsi in cucina. Alla mia
comparsa, abbandonarono le loro occupazioni per osservarmi. A Edward
quasi cadde la tazza di caffè di mano per il gran
ridere, mentre Jason lasciò nel piatto il toast con la
marmellata
che stava mangiando,
strabuzzando gli occhi azzurri e spalancando la bocca. Non seppi dire
se fosse perché facevo bella figura o meno. Forse solo
perché era sconvolto quanto me. «Non una
parola», intimai, rivolto al mio compagno
che stava già per aprire
bocca, ma ben si sapeva che Edward Elric faceva ciò che
voleva.
Scoppiò fragorosamente a
ridere, cercando di soffocare le
risate come meglio
poteva mentre si avvicinava a me, a grandi passi.
«Sei... mpf!» mi diede continue
pacche su una spalla, ridendo a
crepapelle. «Non... ce la faccio, sei... fantastico!
Mpf!»
Non gli diedi peso, attraversando a
grandi falcate - tacchi
permettendo,
ovvio - la cucina, con gli occhi stralunati di Jaz che ancora
mi fissavano. Gli si sarebbe bloccata ancora di più la
crescita,
perfetto. E come dargli torto? Persino io ero sconvolto! Con un leggero
tremolio alla mano destra, allungai il braccio per
prendere la
caffettiera, in modo da riempirmi una bella tazza fumante per sbollire
almeno
un po’ l’incazzatura. Ma le risate di Edward non lo
permettevano affatto, così lo fulminai con lo sguardo,
lasciando perdere il
caffè per
indossare svelto la
pelliccia e coprire almeno in parte l’abito che indossavo.
«Datti una mossa, Jaz», gli ordinai, palesemente
innervosito.
Era ancora sconcertato, e si mosse
quindi come una marionetta.
O, almeno, finché non gli comparve il solito ghigno di
sempre. «Sai che stai bene così,
‘Ka-san?» mi disse, anche se ancora un
po’
scombussolato. «Ti da un’aria molto
più... femminile», aggiunse, e sbottò a
ridere
anche lui.
Che diavolo avevo fatto di male per
meritarmi quei due? Ah,
già. Mi ero innamorato di uno e volevo bene
all’altro. Mi
sbattei una mano sulla fronte, sistemando un’ultima volta
i capelli che mi
fungevano da parrucca per gettarli un po’ in avanti.
«Muoviamoci», ripetei, incamminandomi verso
l’uscio, ma mi bloccò nuovamente Edward, che
cercava di
trattenersi dal ridere; mi batté la mano d’acciaio
sulla
spalla, accarezzandomi,
stranamente lascivo, i capelli... ops, la parrucca.
«Vorrei darti due consigli,
anche se dovresti sapere certe
cose meglio di me»,
mi disse, con quell’aria da so tutto io mentre guardava
Jason, che stava
mettendo lo zaino in spalla. «Il primo: cerca di
camminare in modo più
sensuale. No che non lo sia, ma devi sembrare una donna, non un uomo
che cerca
di abbordare», continuò in fretta, vedendo che
stavo per ribattere... e
parecchio sgarbatamente. «Il secondo: rendi la voce
più femminile... non vorrai
farti sgamare immediatamente, no?»
«Io non vorrei proprio farmi
vedere, in
realtà!» esclamai immediatamente,
riuscendo solo a provocargli un’altra sonora risata.
Più per ironia che per altro,
mi passò
sensualmente un braccio intorno ai
fianchi, nella bizzarra imitazione d’un uomo che vuole
attirare a sé la propria
donna o una tipa conosciuta da poco. Perfetto, ci mancava solo che
gasasse il suo orgoglio virile! «Dai che sei favolosa»,
scherzò con bislacco divertimento. «E con i
capelli intorno al viso non si vede nemmeno tanto che sei un uomo... ti
rende i
lineamenti più morbidi».
La risata, stavolta, giunse da dietro
alle mie spalle. Mi voltai
di poco, scorgendo Jason che tentava di soffocarle come
meglio
poteva. Ma che diavolo ci trovavano, di divertente? Io consideravo
quella situazione imbarazzantissima! «É vero,
è
vero»,
confermò lui con scherno. «Sicuramente
sembrerai più
donna tu che la mia insegnante di matematica!»
«Sai che la cosa non mi
rallegra affatto?» sbottai,
subendomi per l’ennesima
volta le loro risate. Decisi ben presto di porre fine alla questione,
sciogliendo Edward dal
suo
abbraccio possessivo per incamminarmi sulla soglia della cucina,
diretto
all’ingresso. E anche le risatine mi seguirono
«Ci vediamo più
tardi,
‘To-san!» sentii esclamare Jaz, prima che mi
raggiungesse.
«D’accordo, bada
alla mamma!»
fece in risposta lui, lasciando che
un’ultima sua risata ci seguisse fin giù alla
tromba delle scale.
A passo svelto, mi avvicinai alla
macchina, salendo al posto di guida.
Prima che potessi mettere in moto, però, Jaz mi raggiunse,
poggiandosi al
finestrino che avevo appena abbassato. Lo guardai, sollevando
ironicamente un sopracciglio. Continuava ad osservarmi, come a volermi
chiedere qualcosa.
«Non è meglio che
guidi io?» mi chiese,
con quel fare da bambino che vuole un
giocattolo.
Scossi categoricamente la testa,
inserendo le chiavi nel quadro
d’accensione. «Sali», gli intimai
schietto, vedendolo gonfiare le
guance.
Sembrava volesse averla vinta lui, ma
dopo avergli scoccato
un’occhiata
ammonitrice, alla fine decise che fosse meglio assecondarmi alla
svelta, forse
perché la mia aria adirata era visibile anche da iarde di
distanza. Si accomodò sul sedile del passeggero,
abbandonando lo
zaino
sulle cosce e
incrociando le braccia, lanciandomi di tanto in tanto qualche sguardo.
E mentre partivamo alla volta della scuola, vidi che non aveva
abbandonato
l’aria divertita. Che cosa mi toccava fare, maledizione?! Ci
impiegammo, stranamente, meno di una quindicina di minuti, a
raggiungere la
scuola. Mi fermai nel parcheggio, facendo aderire la schiena al
sediolino.
«Ora la prova più
difficile», dissi,
forse più rivolto a me stesso che a lui. Non continuai, e mi
guardò curioso. Si era intanto ricaricato lo zaino in
spalla,
pronto a scendere.
«Non ti mangia mica, quel
demonio!»
sghignazzò poi, dandomi una pacca sulla
spalla per confortarmi.
«Non è di questo
che mi preoccupavo»,
replicai, lanciandogli uno sguardo
obliquo.
«E a cosa allora?»
«Devo cercare di rendere la
voce femminile».
A questa mia spiegazione,
scoppiò, tanto per cambiare, a
ridere e si batté una mano sulla coscia, soffocando
l’ilarità come meglio poteva. Ci mise un
po’ per riprendersi, traendo un profondo sospiro
per riuscirci ancor
di più. «Prova a dire “Buongiorno, sono
la madre di Jason,
Angelica Mustang”».
«E perché dovrei
usare il nome di mia
madre?» domandai subito, giusto
per divulgare quell’inutile conversazione ancora un
po’ e ritardare così
l’incontro con l’arpia.
Jason gonfiò le guance,
aggrottando la fronte. «Basta che lo dici, ‘Ka-san!
Che ti
importa!» replicò, forse innervosito. Eppure avrei
dovuto esserlo io! Mica era lui quello con indosso un
abito succinto e tutto il resto!
Borbottai fra me e me prima di
provarci e, naturalmente, non sortii l’effetto sperato. Jason
rise,
tanto per cambiare. Continuammo a fare prove per una buona ventina di
minuti, finché, ormai
sull’orlo di una crisi di nervi, riuscii a fare la voce un
tantino femminile. Non perfetta, ma era abbastanza. Che diamine, va
bene che avevo la voce sensuale, ma non esageriamo! E adesso ci
trovavamo lì, in sala professori. Era quasi del tutto vuota
a
causa dell’orario delle lezioni,
se ci escludevamo
noi due e quello scorfano mal riuscito della sua professoressa di
matematica.
Ormai mi squadrava da un bel paio di
minuti, senza
accennare a dire
nulla. Io, d’altro canto, avevo drizzato la schiena e
sistemato
meglio il mio
soprabito, in modo che coprisse il basso ma lasciasse almeno un
po’ scoperto il
petto... ehm, il seno. Avevo persino accavallato le gambe per quanto
concessomi dalla mia anatomia, abbandonando
garbatamente le mani
precedentemente guantate in grembo, perfettamente immobili. Cosa non
avevo imparato frequentando tutte quelle donne! E anche se ad ogni
occhiata Jason rischiava di ridersela bella grossa e pisciarsi
praticamente sotto, aveva avuto il
buon senso di trattenersi, stavolta. Finalmente,
quell’armadio che di donna aveva solo il nome
smise di soppesarmi
con lo sguardo, accavallando a sua volta le gambe al di sotto del
tavolino.
«Quindi lei è la
Signora Mustang», mi
disse con quella vocetta stridula. Persino mia madre risultava
più gradevole, e avevo detto tutto.
Sorrisi, un lieve stiramento di labbra
che lasciava intendere
cortesia. «Aye, sono io». Non volli nemmeno
ascoltare il mio
tono. «Sono davvero dispiaciuta
per il comportamento disdicevole che ha adottato mio figlio nei vostri
confronti». Sentii una risata malamente soffocata, e allungai
un piede di lato per
colpire
quell’idiota allo stinco, facendolo zittire
all’istante.
«In verità, vostro
figlio sostiene di aver appreso
tali metodi da lei».
«Oh, ma che
sciocchino!» Ecco, adesso volevo
scavarmi la fossa da solo. «Non vi
è mai stato nessuno nella nostra famiglia che abbia agito in
cotal modo». Ma come diavolo stavo parlando?
«Ciò può
comportare dunque una ricerca
del problema nel ramo paterno?» chiese
ancora, falsamente cordiale e mielosa.
Nel ramo paterno, certo... gira e rigira
la colpa era comunque
mia, visto che il preside mi
conosceva! Scoccai un’occhiataccia a Jason, che se la rideva
sotto i
baffi che ancora non
gli erano cresciuti. E mai lo avrebbero fatto, se avesse continuato a
ridere! «Credo piuttosto che sia dovuto alla
modalità
d’insegnamento», dissi invece,
allargando piano il sorriso come se volessi sbeffeggiarla.
Un po’ sorpresa, la
professoressa sollevò un
sopracciglio. «Sta per caso scaricando la colpa su di me,
Signora
Mustang?» chiese,
perplessa.
Evitando di ridere sguaiatamente - cosa
che avrebbe
immediatamente fatto
saltare la mia copertura -, mi lasciai andare appena ad uno
sbuffo d’ilarità,
leggero e silenzioso. «Beh, fino ad un po’ di tempo
fa, portava almeno un
voto decente, a casa», le
tenni presente, vedendola quasi spalancare la bocca.
«Questo perché, mia
cara signora»,
calcò spietatamente il termine. «Il
ragazzo aveva la cattiva abitudine di sedurre la collega di cui ho
preso il
posto».
«Sedurre, che brutta
parola!» pigolai, fingendomi
più innocente che mai. «Direi
piuttosto che voleva richiamare la sua simpatia».
«Un sorriso seducente non
cattura solo la
simpatia, Signora Mustang». Il suo tono da so tutto io la
diceva lunga. Così come le sue
parole. E le veniva a dire a me, l’uomo che si era fatto
mezza
Amestris prima di
diventare omosessuale!
«Oh, indubbiamente»,
replicai, tremendamente
cordiale. «Anche mio marito
diceva sempre la stessa cosa, prima che gli facessi mettere la testa a
posto». Ero marito di me stesso... non l’avrei mai
creduto possibile.
«Quindi avevo ragione a
ricercare il problema nel ramo
paterno», disse ancora,
come se volesse averla vinta lei. «Suo marito... il Generale
Mustang, nevvero?»
«Avete colto nel
segno».
«Ecco spiegata la
sporadicità del
ragazzo», riprese, gettando una veloce
occhiata a Jason. «Con genitori simili, non mi meraviglio che
adotti tali
subdoli trucchi».
Che diavolo voleva dire, quella vecchia
racchia? Che Jason era un
maleducato? Che era stato tirato su nel modo sbagliato? Era
davvero troppo, anche per me! Abbandonai la maschera di compostezza che
mi ero creato, quasi
assottigliando
lo sguardo. «Peccato che con una vecchia come lei non
funzionino», feci, come se volessi
tenerglielo presente. Forse mi ero calato un po’ troppo nei
panni della donna. Mi stavo comportando come una gatta
che affila le
unghie.
A quelle mie parole, l'insegnante
spalancò gli occhi, rimanendo spiazzata.
Persino Jason si era voltato verso di me, con uno scuro sopracciglio
sollevato. Il modo in cui mi guardava, somigliava vagamente ad un
“Sei
impazzito?” «Come si permette!»
esclamò indignata, portandosi una mano al
seno in un gesto teatralmente comico.
«Mi permetto, cara la
mia signora,
perché voi state offendendo
l’educazione che io e mio marito abbiamo
impartito a nostro figlio»,
replicai tranquillo.
Non potei continuare che mi sentii
strattonare una manica del
soprabito. Mi voltai, vedendo Jason che mi fissava. «Che
diavolo
stai combinando?» mi chiese in un
sussurro, quando si avvicinò
un po’. «Così la fai incazzare di
più!» Ma il tono con cui l’aveva detto
sembrava
vagamente ironico, come se volesse davvero vederla incazzata. Non gli
badai assolutamente,
tornando ad osservare la sua insegnante,
il cui
volto era sempre più indignato nonostante io non proferissi
parola. Poi d’un tratto s’alzò,
sbattendo
entrambe le mani sul bordo della scrivania.
«Ne parlerò al
consiglio, il ragazzo
verrà bocciato», esordì, assottigliando
gli occhi. «E farò in modo che anche gli altri
insegnanti prendano in
considerazione quest’alternativa».
A Jason sfuggì un lamento.
Farsi bocciare, per
lui equivaleva a doversela vedere con Edward. E se ero io la causa,
anche peggio. A me sarebbe toccato fare astinenza per un periodo
indeterminato, poi. Mi alzai a mia volta, squadrandola quasi
dall’alto dei miei
stivaletti col
tacco. «Non può bocciarlo, dati i voti nelle altre
materie», tenni presente in tono
acido, incrociando le braccia. «É solo una
questione tra voi due, no? Perché
coinvolgere anche altri insegnanti?»
Lei assottigliò lo sguardo,
come una tigre pronta ad un
balzo. «Ha voluto scherzare un po’ troppo con il
fuoco,
signora, ecco perché»,
constatò, e mi evitai di ridere a quelle sue parole. In
famiglia, ormai, scherzavamo tutti, con il fuoco. Non era poi una
così grande novità. La squadrai per un
po’, forse
cercando di capire qualcosa che
mi sfuggiva. Poi, d’un tratto, ebbi
l’illuminazione. Era
questo allora - forse! - che non andava!
«Adesso capisco»,
esordii trionfante.
«Lei è una di quelle donne che, poiché
il
marito non tira fuori dai pantaloni il fratellino,
se la prende con il
primo che le capita a tiro». L’occhiata che mi
lanciò Jason non mi
sfuggì affatto, ma la ignorai. Cosa che invece non feci con
quella dell’insegnante.
«Come scusi?»
«Ha capito bene»,
feci significativo.
«Se la prende con i suoi alunni perché
vostro marito non fa assaggiare il ghiacciolo,
eh?»
Punta forse nel vivo,
spalancò gli occhi e la bocca.
Avevo colpito e affondato. «Ma brutta...!»
sbraitò
ancor
più indignata, prima di fulminare con
un’occhiataccia Jason. «Tu! Sei sospeso a tempo
indeterminato! E lei!» tornò a
guardare me, palesemente infuriata. «Meglio che non si
presenti alle riunioni
di classe quando ci sono io!»
«Ah, nay, credo sia il
contrario», replicai, serrando
un pugno lungo un fianco
per additarla con l’altra mano. «É
lei che non dev’esserci quando vengo convocata!»
«Mamma,
andiamo!» si intromise
subito Jason, tirandomi per un braccio. Sembrava nervoso, come se la
situazione non gli piacesse affatto. E in
molti gli avrebbero dato ragione, in fondo. Non era poi una
così
gran bella situazione, quella che era
venuta a crearsi. Però lo ignorai nuovamente, strattonando
il
braccio dalla
sua presa quando la
sua insegnante riprese a parlare... o meglio, ad urlare, tanto forte
che vidi di sfuggita anche altri insegnanti affacciarsi. Li sentii
appena borbottare tra loro, come per chiedersi cosa stava
succedendo. Glielo avrei spiegato io cosa stava succedendo! Quella
specie di donna sarebbe presto diventata un arrosto, se non
avesse
abbassato la voce!
«Aspettate che lo sappia il
preside, ah!» riprese
lei, sicura di sé. «Sarà un
miracolo se non deciderà di espellerlo dalla
scuola!»
Fui io ad agitarmi, stavolta.
Espellerlo? Ma nemmeno per sogno!
«E che direbbe il preside se sapesse che prende di mira gli
alunni?» replicai
acido, evitando di alzare troppo la voce per non tradirmi da solo.
Avevo difatti sentito una nota vagamente mascolina,
nel mio tono. Fortuna che, troppo arrabbiata com’era, non se
ne
accorse. O forse sì, ma non parve comunque farci caso. Stava
per
ribattere, quando fece il suo trionfale
ingresso l’insegnante
di filosofia, seguito a ruota da quello di latino.
«Suvvia, signore,
calmatevi», si intromise,
frapponendosi fra noi due. «Non
state dando un buon esempio comportandovi così,
coraggio».
Nel vedere il volto di Jason,
però, non sembrava poi tanto sconvolto
da
quel modo di fare, anzi. Sembrava si stesse divertendo
come un matto. Il perché? Semplice. Si erano inseriti nella
discussione anche gli altri due insegnanti,
cercando di
calmare i nostri bollenti spiriti e di sedare quella che sarebbe presto
sfociata in una battaglia.
Tornammo a casa solo una
mezz’oretta
dopo. Tornammo, già, perché Jason... beh, grazie
alla
mia sparata, era stato sospeso
quel giorno stesso. E per fortuna solo quello! Fatto stava che, quando
aprii la porta di casa, trovai Edward
nell’ingresso,
intento a sistemarsi in fretta e furia la giacca della divisa. Fra i
denti, reggeva un toast da consumare al volo. Tanto per cambiare,
sembrava aver fatto tardi, visto che aveva persino
uno
stivale slacciato.
«E hui cosha shi fa
gui?» biascicò non
appena ci vide entrambi, togliendosi
di bocca il toast per parlare meglio. «Aveva
scuola».
Entrando prima di me, Jason si
stiracchiò, lasciando lo
zaino accanto al
mobiletto in cui Edward teneva spazzole ed elastici.
«‘Ka-san ha avuto la brillante idea di inimicarsi
la prof», spiegò
semplicemente, chinandosi per slacciarsi le scarpe e abbandonare
anch’esse su
un lato del mobile.
Sentii, subito dopo, lo sguardo dorato
di Edward indugiare su di
me. Rimasi immobile, grattandomi non curante una guancia.
«Che
diavolo hai fatto». Non suonò
propriamente come una domanda, ma mi
intimorì lo stesso il tono con cui la pose.
Un po’ sulla difensiva, mi
tolsi il soprabito, dando sfoggio
al mio
abbigliamento. «Diciamo che... ci sono andato un
po’
giù pesante, con le parole», dissi, anche
se quella non era una vera e propria spiegazione.
Difatti, abbandonò il toast
per avvicinarsi a me e tirarmi
un orecchio. «Cioè?» mi chiese, tirando
più forte.
«Mi fai male!» mi
lagnai, cercando di fargli
allontanare inutilmente la
mano.
«Non frignare»,
borbottò, assottigliando
lo sguardo. «Spiegami piuttosto cos’è
successo».
«Mi hanno sospeso»,
prese parte alla conversazione
Jason, tranquillissimo come
non mai, come se gli avesse appena detto che aveva preso un bel voto a
scuola.
«La professoressa si è sentita insultata nei suoi
metodi d’insegnamento, ma
forse se l’è presa perché
‘Ka-san gli ha detto che è una vecchia stronza che
si
sfoga sugli alunni perché il marito non inzuppa il
biscotto».
A quelle parole, Edward mi
osservò con uno sguardo che, sono
sicurissimo di
dirlo, avrebbe potuto incenerire chiunque, persino me, l'alchimista di
fuoco. «Nay, aspetta, fammi capire...»
cominciò, squadrandomi attentamente. «Tu
hai detto alla professoressa di Jason che è una vecchia
stronza e tutto il
resto?»
Non curante, mi grattai dietro il collo,
scansando quella detestabile
parrucca. Che dovevo fare, rispondere? Tanto sapevo già come
sarebbe andata a finire! La solita scusa, la solita tortura, la solita
notte passata in bianco. «Ma lei aveva insultato il modo in
cui lo
educhiamo», cercai di far leva sul
suo orgoglio paterno, sperando che almeno quello fosse un buon motivo
per lui
quanto lo era stato per me.
Edward si voltò verso Jason,
come a chiedere
conferma. «É vero?» domandò
difatti,
allentando di poco la presa sull’orecchio.
Sbadigliando sonoramente, il mio
figlioletto ebbe almeno la decenza di
annuire. «Ha detto una cosa del genere, aye», mi
appoggiò, e per una volta, c’era
da aggiungere.
Presto, l’attenzione di Edward
ritornò su di me. Mi
regalò, con mia grande sorpresa, un sorriso. «É davvero
una cosa dolce il fatto che fai certe
cose per difendere tuo
figlio e il modo in cui l’abbiamo cresciuto»,
disse, con una strana cadenza
smielata. «Ma ciò non toglie che sei stato stupido
a dire cose del genere ad un
insegnante». Ecco, mi era parso troppo bello, per essere
vero.
Non poteva mancare la cazziata. «É
già la seconda
volta che lo
sospendono, un po’ di buon senso, Roy Mustang!»
continuò la sua tiritera, sventolandomi un dito
d’acciaio dinanzi al viso.
«Sei davvero un caso disperato!»
Stavo per ribattere ed interromperlo,
quando ci fermò
entrambi lo squillo del
telefono. Più svelto di noi, prese la chiamata Jaz,
portandosi
il
ricevitore
all’orecchio. «Casa Mustang», fece
tranquillo,
masticando una
merendina che aveva
probabilmente tirato fuori dal suo zaino. Lo osservammo, sbattendo
entrambi le palpebre. O almeno finché non
allontanò il
ricevitore
passandolo ad Edward. «Ti cercano,
‘To-san», disse
semplicemente, inghiottendo. Provai a toglierglielo di mano e parlare
con il misterioso chiamante,
ma lui mi
allontanò un po’, poggiandomi una mano sul seno
fittizio.
«Pronto?» chiese,
guardandomi di sottecchi.
«Ah, aye, mi scusi, Hawkeye, stavo
giusto uscendo». Ascoltai quella conversazione a senso unico,
allontanandogli la mano
sgarbatamente. «Aye, aye, Roy è tornato adesso
dalla sua missione»,
riprese,
sorridendomi. «Aye, sarò lì in un paio
di minuti, giusto il tempo di sistemare
un po’ di cose. A dopo». Riattaccò,
osservandomi con
un sorrisetto malevolo. Decidendo che fosse ora di sparire, Jason ci
salutò
frettoloso, augurando a Ed
buon lavoro. Provai a seguirlo per cambiarmi, ma una mano
d’acciaio mi
afferrò per il
braccio. Guardai Edward dall’alto in basso, come per capire
che
gli
fosse preso, e lui sorrise ancora di più. «Vieni,
stiamo
facendo tardi a lavoro», mi
disse, con voce tremendamente
sarcastica. «Riza si è premurata di trovarci una
piccola scusa, ma dobbiamo
andare lì in fretta».
Arricciando le labbra, feci un segno di
diniego.
«Ma oggi era il mio giorno libero», provai, ma ci
ricavai solo un sorriso ancor
più smagliante.
«Lo so. Questa è la
tua punizione fuori dalle
regole», mi informò, prendendomi
a braccetto prima di afferrare il mio soprabito
dall’attaccapanni. «Invece di
vietarti il sesso, visto che a volte sono proprio io a porre fine alla
tua
punizione, ho deciso di farti venire a lavoro con me... conciato
così».
Lo fissai con tanto d’occhi,
chiedendomi se stesse scherzando
o meno, ma dovetti ricredermi quando ci ritrovammo ai gradini del
Quartier
Generale,
senza nemmeno che me ne fossi accorto tanto che strepitavo e mi
lagnavo. E adesso camminavo accanto al mio fagiolino, subendomi da un
bel paio
di
militari occhiatine malate e perverse a cui non volevo dare un nome.
Avrei preferito l’astinenza...
e senza nemmeno pensarci due volte!
_Note inconcludenti dell'autrice
Se siete arrivati a
leggere fin qui...
Arrivati a questo punto, credo che in molti
siano scioccati. Ebbene
sì, Roy vestito da donna! Si
legge sempre di Edward, e ho pensato di
rompere un po' a
lui, visto che non può essere sempre quel povero fagiolino a
subire le angherie delle fan writer, quando si tratta di queste cose...
e poi, ammettiamolo, con quegli occhi a mandorla, Roy un pochino per
donna potrebbe passare.
Nah, scusate, oggi sono un po' fuori fase e sclero, lasciatemi perdere
che è molto meglio così.
Se siete attaccati alla vostra
sanità mentale non cliccate
qui
{ HALLOWEEN
GIFT FOR ROYED FUN } se invece non ve ne frega nulla e siete
curiosi, lasciate ogni speranza, voi che entrate! [Cit!] E
da notare il numero della shot...
Ricordiamo:
SPECIAL DI HALLOWEEN { IN
ANTICIPO! }
Comunque, come dice lo stacchetto in grassetto
qui sopra, ho deciso di
postare questa shot oggi come regalo di Halloween per voi! (Per voi che
siete sopravvissuti anche all'immagine) Non
c'entra molto, lo so, ma sono felice di
aver passato questo secondo
Halloween con tutte/i voi, che mi avete sostenuta fino a questo
momento. Quindi,
cari lettori vecchi e nuovi, cari fan
dell'ormai fandom quasi
abbandonato a se stesso, vi auguro una felice notte piena di dolci e
terrore! A___A *in
modalità vampiro/sclero
mode on* A presto!
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Capitolo 24 *** [ Storia Fuori Serie ] “Scherzi” ***
Heart burst into fire_Episode 24
Titolo: Scherzi
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 1838 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
24: “SCHERZI”
Solita
mattina afosa a South City. La
frescura era poca, così come la voglia di andare a lavoro, e
ormai dormivo
solo in boxer a causa
del caldo, nemmeno
lontanamente paragonabile a quello che soffocava
Central durante il mese di luglio.
L’unica
cosa che mi recava sollievo era starmene sotto la
doccia fredda, anche se, purtroppo, non durava in eterno.
Mi
guardavo allo specchio, adesso, tranquillamente
indaffarato e intento a radermi; appena
ebbi finito, però, un insignificante
dettaglio catturò la mia attenzione e, invece
di raccattare i miei vestiti o almeno infilarmi i
boxer, restai con l’asciugamano legato alla vita a
specchiarmi
minuziosamente, incrociando il mio riflesso che mi osservava un tantino
corrucciato.
Poggiai
le mani sul bordo del lavandino e mi feci ancor più
attento, sgranando gli occhi con
fare incredulo e... beh, terrorizzato.
Neanche
lo scalpiccio nel corridoio mi
distrasse.
«‘Ka-san?»
mi chiese Jason, fermo davanti alla porta. «Che stai
facendo?»
Fissando
il suo riflesso attraverso lo specchio, senza
voltarmi e senza dire una parola, gli feci cenno di avvicinarsi,
vedendolo con
lo spazzolino abbandonato all’angolo della bocca.
Lo
costrinsi ad avvicinarsi di più, indicando la mia
capigliatura. «Cos’è
questo?»
chiesi isterico.
Lui,
perplesso, si sporse un po’ per squadrarmi, tornando
poi tranquillo a spazzolarsi i denti.
Quando
incontrai i suoi occhi azzurri, vi scorsi un guizzo
d’ironia e divertimento. «Un
capello bianco», rispose, come se fosse naturale.
«Stai
scherzando, vero?!» esclamai, sebbene sapessi che
negare la realtà era inutile, e lui scosse
la testa, perfettamente calmo.
«Nay,
si vede».
Ritornai
ad osservare la mia immagine come un
automa.
Non
poteva essere un capello bianco, non
era assolutamente possibile... e
allora perché diavolo spiccava così tanto, fra la
mia
chioma nera?!
«Stai
invecchiando, ‘Ka-san», disse Jason, dandomi una
leggera pacca sulla spalla. «Mi sa che tra un po’
dovremo subirci la tua crisi
di mezza età».
Quanto
mi voleva bene
mio figlio. Mi
portai una mano fra i capelli, resistendo per un pelo
alla tentazione di estirpare alla radice
quel dannatissimo difetto.
Se
l'avessi fatto ne
sarebbero spuntati altri, e non ci tenevo proprio a ritrovarmi con uno
stuolo di capelli bianchi che spuntavano fra tutto quello scuro.
Guardai
mio figlio con un velo di panico.
«Dici
che Ed lo noterà?» domandai, sperando in una
risposta
negativa.
Chinandosi
un po’ per sputare e sciacquarsi abbondantemente la bocca,
Jaz si limitò semplicemente a fare
spallucce. «Chi
lo sa», fece semplicemente.
«C’è da dire che non
passa inosservato».
«Tu
sì che sai come tirar su di morale le persone...»
ironizzai.
«Capita...»
replicò divertito.
Afflitto,
mi allontanai dal lavandino, cercando
frattanto di sistemarmi i capelli in modo che quell’orribile
difetto non si notasse.
Me
li ravvivai quindi all’indietro, avendo almeno
l’effetto
sperato.
«Potresti
almeno cercare di rassicurarmi un po’», borbottai
offeso, ravvivandoli ancora.
«Mica
sono ‘To-san!» ribattè Jaz, ridacchiando
incontrollato., e io gli
scoccai un’occhiataccia.
«E
pensare che ho preso questa settimana di licenza da Central
per farti incontrare
i tuoi vecchi amici...»
Mi
giocai quella carta con la speranza di far breccia
nel suo cuore, peccato che
non ci guadagnai nulla.
Difatti
rise, abbandonando lo spazzolino nel contenitore
accanto al mio, e poi prese non
curante il pettine, rigirandoselo distratto
fra le mani prima di passarselo fra i capelli scuri con delicatezza, sicurissimo
che volesse prendermi in
giro.
«Io,
fossi in te, mi sbrigherei ad andare a lavoro,
‘Ka-san», disse,
gettandomi un’occhiata. «Prima ti muovi, prima
potrai metterti tutto in
ghingheri per l’arrivo di ‘To-san».
Dalle mie labbra sfuggì un lamento. «Mi
metti in ansia...» mi lagnai, nervoso già di primo
mattino dopo quella scoperta. Un’altra
risata, però, fece compagnia alla mia disperazione.
Jaz si
diede un’ultima sistemata, prima di baciarmi per ripicca
una guancia e scompigliarmi i capelli ancora un po’ bagnati
che poco prima
avevo con tanta cura ravvivato.
«Torno
per l’orario di ‘To-san. Vado a pavoneggiarmi un
po’
con le mie tante ragazze», gongolò, sorridendo.
«Amano i miei capelli mori e fluenti»,
soggiunse, enfatizzando
troppo le parole, e,
prima che potessi davvero mettergli le mani addosso,
schizzò via come un lampo, salutandomi velocemente e
fiondandosi fuori
dall’appartamento, sbattendo la porta quando la chiuse.
Sospirai,
ancor più afflitto.
Quasi
diciassette anni ed era ancora indisciplinato.
Quella
cavolo di Scuola Militare non serviva ad un bel
niente, nemmeno
a potermene stare con Edward, visto che più di una
volta l’aveva marinata con il suo miglior amico. I
tempi erano cambiati, purtroppo, e
questo stava a significare che... stavo invecchiando sul
serio.
Scossi
con impeto la testa per allontanare quel pensiero.
Se
avessi continuato a rifletterci su, ci sarebbe
sicuramente stato un altro problema
da risolvere e
non volevo, dato che ero più che intenzionato a
concludere la serata come dicevo io.
Mi
affrettai quindi ad asciugarmi e a vestirmi, ravvivandomi
nuovamente i capelli all’indietro per nascondere ad occhi
indiscreti quell’oscenità con
cui stavo facendo i conti.
Persino
quando giunsi alla mia postazione cercai di farmi
vedere il meno possibile.
Era
esagerato, lo sapevo.
A
South City non avrei dovuto nemmeno restarci molto, ma per me
era una questione di principio.
Principio
e orgoglio.
Paranoico,
anche quando andavo in bagno, passavo più ore davanti allo
specchio che nel
gabinetto di per sé.
E
continuai quell’andirivieni finché non
finì il mio turno,
tornandomene a casa più mesto che mai.
In
cucina, trovai Edward seduto al tavolo a sorseggiare un
caffè; vedendomi,
mi sorrise e accennò all’altra tazzina, ma sbattei
le palpebre con fare perplesso,
avvicinandomi piano. «Non
avevi detto che saresti arrivato per le otto?» gli
chiesi, però lui
sorrise maggiormente, alzandosi per essere ad una
spanna da me.
«Ho
fatto presto, non sei felice?» mi domandò in
risposta,
facendo vagare due dita sul mio petto con lasciva lentezza.
«Ho pensato che
potevamo fare gli straordinari,
così...» rese
il tono basso e gorgogliante, erotico come tanto
piaceva a me, e
mi provocò una bella scossa, dovetti ammetterlo.
Senza
aspettare che parlassi, si spinse contro di me,
attirandomi alle sue labbra e guidando quel bacio, stranamente
impaziente.
Mi
lasciai andare nonostante fossi ancora un po’ intontito,
concentrandomi solo sulla sensazione che quel semplice contatto sapeva
darmi; ma
l’incanto si ruppe quando, sicure, le sue mani vagarono
come al solito verso i miei capelli.
Lo
scansai terrorizzato, vedendo così la
sua
faccia sconcertata.
«Che
diavolo ti è preso?» mi chiese, vagamente
innervosito
per quel brusco distacco.
Se
non se n’era accorto, non volevo dirgli della mia scoperta.
Accampai
quindi la prima scusa che la mia mente malata e
contorta aveva formulato, prendendolo in braccio prima che potesse
persino
rendersene pienamente conto.
«Abbiamo
solo un’ora per gli straordinari»,
dissi nella speranza che non facesse domande, e non le
fece, nonostante gli strepiti che si lasciava
sfuggire ora in corridoio.
«Mettimi
giù, non sono un poppante!» sbraitò,
facendo leva
sul peso dei suoi auto-mail per farsi ubbidire. «Ci arrivo
anche da solo in
camera! Roy!»
Sapevo
che odiava quando facevo così, ma,
almeno, lo avrebbe distratto.
In
camera, lo lasciai cadere sul materasso, rubandogli
svelto un bacio prima che potesse contestare ancora; anche
se cercava di farlo, tempestandomi frattanto la schiena
di pugni, si arrese be presto, gettandomi le braccia al collo.
Il
dopo fu molto più facile del previsto.
I
vestiti erano praticamente volati via, e non solo per il
caldo.
Ora
eravamo ricaduti entrambi stanchi, una gamba dell’uno
intrappolata in quello dell’altro.
Avevo
la testa affondata nel cuscino, mentre con una mano
accarezzavo distratto la zazzera bionda del mio compagno.
Lui,
invece, se ne stava beatamente appoggiato al mio petto,
l’auto-mail saliva e scendeva senza soffermarsi su un punto
in particolare.
Il
tempo che ci concedevamo era già poco da un bel
po’ di
tempo, quindi era piacevole che, quei rari momenti, riuscissimo davvero
a
goderceli come meritavano d’esser goduti.
«Peccato
che debba sempre finire così presto»,
borbottò di
punto in bianco Ed nello sfiorarmi con
il ginocchio d’acciaio, e io a quella constatazione non
potei evitarmi di ridere, accarezzandogli anche la schiena e stringendolo
protettivo.
«Sono
un uomo, mica un cavallo», scherzai, ricevendo un
buffetto sul naso.
«Hai
la criniera spettinata,
mio bel mustang...» disse nell'allungare
la mano verso di me, e andai nel
panico quando mi sfiorò i capelli. Prima
che potesse anche solo toccarli di più, mi accinsi io
stesso a dar loro una sistemata, ravvivandoli come al solito
all’indietro.
Mi
guardò un po’ perplesso, ma anche stavolta non
chiese
nulla, poiché a
distrarci fu la porta aperta
nell’ingresso
e poi i passi nel corridoio.
«‘Ka-san!
Sono tornato!» esclamò
Jason dall’altra
parte.
«‘To-san
è venuto?»
Cercai
di soffocare una risata per il terribile doppio senso
che avevo colto e ci
guadagnai un’occhiataccia da Edward, che si
drizzò ben
presto a sedere.
«Aye,
sono qui!» fece di rimando, afferrando i boxer.
«Aspettaci
in cucina, veniamo subito!»
«Consideralo
già fatto!»
mi intromisi, giusto per rincarare la dose. Così
facendo, però, non feci altro che far arrabbiare
maggiormente Ed, il quale si
rivestì in un lampo, gettandomi i miei abiti.
«Comincia
a fare pratica con il “Fai da Te”»,
disse in
tono severo. «Dopo certe battute, ti sei
giocato il secondo round». asserì
e, prima che potessi ribattere, se ne andò, lasciandomi
lì da
solo come un idiota.
Sconsolato,
mi rivestii mogio anche io, senza curarmi di
cambiare le lenzuola.
Ci
avrei pensato poi, ora
non ne avevo granché voglia.
Quando
li raggiunsi, li trovai entrambi seduti al tavolo a
consumare un pasto leggero, nulla
più che un panino e del prosciutto. Anche
se, ad essere sincero, il sorriso che Edward mi
rivolse non prometteva nulla di buono, così
come quello di Jaz.
Si
alzarono entrambi tranquilli, e vidi che Ed reggeva
qualcosa dietro alla schiena, come se volesse assolutamente tenermelo
nascosto.
«‘To-san
ha portato una cosa», disse Jaz, senza abbandonare
il sorriso. «Ti piacerà di sicuro».
Girandomi
intorno con un cipiglio bambinesco, il mio
biondino mi consegnò prima una scatola di cioccolatini - che
chissà dove aveva nascosto - per poi gettare uno
sguardo a
Jason.
Quasi
d’intesa, avrei aggiunto, e quelle occhiate non mi piacquero
affatto, esattamente come la risata che
si lasciarono sfuggire quando
Ed mi mostrò la seconda sorpresa.
«Questo
è il miglior Horror che abbia mai visto!»
esclamò,
trascinandomi via dalla cucina, senza badare alla mia aria sconvolta,
verso il
salotto dove avevamo uno di quei piccoli televisori in bianco e nero
che
giravano ormai da un paio di mesi.
Cercai
inutilmente di farmi mollare prima che mi gettasse
sul divano, ma non potei nemmeno
scappare, visto che Jason si avvinghiò al mio
braccio.
«Vedrai
che ti piacerà, ‘Ka-san», disse ilare, e
per
lui, divertito a sua volta, concluse Edward.
Anche
se, forse, con una punta di perfidia e malizia
che mi fece pensare che i miei tentativi di nascondergli
un particolare fossero
stati vani.
«É
roba da farti venire i capelli bianchi!»
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Capitolo 25 *** [ Storia Fuori Serie › Special di Natale ] Regalo di Natale ***
Heart burst into fire_Episode 25
Titolo: Regalo di
Natale
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 4322 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
25: “REGALO” DI NATALE
Era
il giorno della vigilia di Natale, precisamente le dieci del mattino.
Andavo avanti e indietro per casa seguito da Jason, che mi
sgambettava dietro vivace come suo solito nonostante non fosse passata
nemmeno
mezz’ora del suo risveglio.
Eravamo
entrambi in pigiama, ma avevo messo lui qualcosa di
pesante indosso per evitare che prendesse freddo.
Non
che a South City, durante l'inverno, fosse eccessivo come nelle altre
zone di Amestris,
però
era sempre meglio prevenire che curare in seguito.
Sbadigliavo di continuo mentre entravo ed uscivo dalle
stanze, sprangando finestre e compagnia bella il più in
fretta possibile.
La
valigia l’avevo preparata la sera addietro, mettendo i
vestiti che ci sarebbero potuti servire per quella settimana di vacanza
a Central City.
Esatto,
Central City.
Almeno
quell’anno, avevo intenzione di passare il Natale con
il mio fagiolino.
Ci
vedevamo raramente e, quelle poche volte
che era lui a farci visita, cercavamo di stare insieme in
tutti i sensi.
Ma
saremmo andati noi lì, stavolta.
C’era
solo il piccolo inconveniente che ci eravamo svegliati
tardi e non eravamo ancora pronti, per non parlare del fatto che il
treno
sarebbe partito tra meno di due ore.
Terminai solo una decina di minuti dopo, adocchiando di
sfuggita Jaz quando ci ritrovammo entrambi in cucina per una colazione
veloce.
Stringeva
fra le braccia il suo solito coniglietto, quello
che Edward gli aveva regalato un anno addietro, e sembrava
vispo e arzillo come non mai, come se tutto
quel mio daffare lo divertisse.
Infatti
s’imbronciò quando lo
presi in braccio,
costringendolo a star fermo sulla sedia per dirigermi in fretta e
furia al
frigorifero per prendere il latte. Con
altrettanta rapidità, mi voltai e cercai il bollitore
per scaldarlo, ma quando
aprii il mobiletto mi caddero un paio di cose,
facendomi imprecare.
Maledetta
fretta e maledetto me che avevo avuto la bella
pensata di riaddormentarmi alle otto!
«‘Ka-san, ma perché vai così
veloce?» mi chiese Jaz e, voltandomi mentre accendevo il
fuoco, lo vidi
con il
mento poggiato sulla tavola e le braccia penzoloni.
Mi
astenni dal richiamarlo; non avevo abbastanza tempo
nemmeno per quello.
«Perché se vuoi vedere Oto-san dobbiamo fare in
fretta», gli risposi
semplicemente, riempiendo il pentolino di latte prima di metterlo a
bollire.
Mentre
aspettavo, aprii l’altra credenza alla ricerca dei
biscotti, tirando fuori dal cassetto una tovaglietta per andare a
stenderla
sul tavolino. «Alza
la testa, Jaz», dovetti richiamarlo,
sistemando la stessa
e poggiando lì accanto anche il pacco di biscotti.
Con il pupazzetto in grembo, lui si sporse per afferrarli,
cominciando come suo solito a sezionare quelli ancora interi. «Ma
perché dobbiamo fare in fretta?» mi
chiese ancora, ripetendo le mie parole
mentre mangiava qualche biscotto e mi guardava.
«‘To-san non ci aspetta?»
Magari fosse stato così semplice.
Anche
quello, però, lo tenni per me, andando a controllare il
latte.
Non
lo scaldavo mai completamente.
«Dobbiamo
prendere il treno, Jaz, lo sai», dissi,
portandogli una tazza fumante
qualche minuto dopo, e lui vi
soffiò sopra, prendendola con entrambe le manine e bevendo
piano il contenuto fino a svuotarla del tutto.
Quando
la posò nuovamente sul tavolo, aveva la bocca sporca
di latte.
Ridacchiai un po’, permettendomi almeno il lusso di fare
colazione anch’io.
«Pulisciti
la bocca, Jaz», feci.
«‘Ka-san...» si
lagnò in risposta, guardandomi con
quegli occhioni azzurri.
Io, che mi ero riempito a mia volta una tazza di latte e me
l’ero portata alle labbra per bere un sorso, ricambiai
l’occhiata con un enorme
sorriso quando l’allontanai. «Fai
così», mi evitai di
ridacchiare, leccandomi le labbra.
Anche se incerto - ben ricordando l’ammonimento di
Ed,
quello di non imitarmi -, alla fine se ne infischiò
e si leccò a sua volta
le labbra, sporgendosi per prendere un altro biscotto.
Se
l’avesse saputo il mio fagiolino, il sesso
l’avrei visto
solo con un binocolo, quindi era
meglio tenere la bocca chiusa.
Finimmo la colazione una buona manciata di minuti dopo e, mentre
io mi occupavo delle tazze, Jaz cercava di aiutarmi come poteva
prendendo il
pacco di biscotti e togliendo la tovaglietta.
Scese
dalla sedia e sgambettò verso di me con quelle due
cose fra le mani, porgendomele tutto pimpante per essere stato utile.
Gli
sorrisi, scompigliandogli i capelli quando mi asciugai
le mani, ma lo vidi
comunque arricciare il naso, dato che l’odiava.
Usciti dalla cucina, ci fiondammo nella
sua
stanzetta, facendo passare quella fretta per un gioco.
Pensai
prima ai suoi vestiti, prendendo quelli più pesanti
che trovai.
A
Central il freddo non sarebbe stato così mite, e aveva
quindi bisogno d’indossare qualcosa di molto caldo,
all’andata, per evitare così che prendesse freddo
dopo.
Raggruppato
il tutto, presi Jaz per mano vedendolo dare i
primi cenni di stanchezza con uno sbadiglio, sebbene sembrasse
più sveglio lui
che io.
Ci
dirigemmo infine nella mia stanza e, lasciatolo andare
per dirigermi all’armadio, lo vidi buttarsi sul
piumone e arraffare
il mio orologio d’argento che stanziava sul comodino, tutto
senza abbandonare il suo coniglietto.
Mi venne da ridere nel ricordare quanto quel mio
riconoscimento come Alchimista di Stato gli piacesse, decidendo infine
di
passare anche al mio vestiario.
Secondo
i canoni di South City, quella mattina era più fredda
delle altre, quindi avrei fatto bene ad optare per qualcosa di ben
più pesante
del solito anche per me.
Una
volta che ebbi pensato anche ai miei abiti, mi scaldai
entrambe le mani mentre mettevo tutto sottobraccio.
Guardando
Jaz, poi, non potei non sorridere.
Con
quel maglione più grande di lui a tenerlo caldo, era
buffo e d’una dolcezza unica al tempo stesso.
Più
lo guardavo, più mi sembrava ieri che
l’avevamo
adottato.
Sentendosi probabilmente osservato, abbandonò lo studio
dell’orologio alzando il visino verso di me, intrappolandomi
inesorabilmente
con quei suoi occhi celesti.
Ancora
mi stupivo che avessero una presa del genere, e
non solo con me, ma con chiunque li guardasse.
Prima
di dimenticarmene, comunque, andai all’armadio alla
ricerca del mio giaccone e del cappotto di Jaz, attento allo scorrere
del tempo.
«Che ore sono, Jaz?» gli chiesi, scansando i
cappotti
più
leggeri per prenderne uno pesante per lui e il solito per me.
Jaz ci mise un po’ a rispondermi, dapprima cincischiando con
il
coperchietto per leggere, anche se forse poco convinto,
l’ora.
«La grande sta sul sei», disse infine, e
sentii subito dopo lo scatto e il
rumore della catenella dell’orologio sul legno.
Erano
le dieci e mezza, quindi.
Avevamo
perso mezz’ora ed eravamo ancora in pigiama.
Davvero
perfetto!
Ed
il mio era puro sarcasmo.
Stavo
per dirigermi alla porta e chiamare Jaz, quando
quest’ultimo mi anticipò e si aggrappò
ai calzoni,
strattonandomi come ad
impormi di darmi una mossa. «Svelto
‘Ka-san, voglio andare da
‘To-san!» esclamò difatti, tutto
pimpante come prima, agitando nel contempo il coniglietto.
Mi
ritrovai a ridacchiare,
offrendogli ancora una volta una mano prima di dirigerci entrambi in
bagno. Lì
faceva più freddo delle altre stanze, tanto che
dovetti tornare in corridoio per prendere la stufetta e portarla
lì.
Andai
quindi alla doccia, scansando la tenda che la separava
dal resto del bagno per far scorrere l’acqua calda, squadrato
da un attento Jaz
che si crogiolava al calore della stufa. E mentre
facevo questo, mi ritrovai stupidamente a pensare
che quella mattina della vigilia di Natale, di magico, non aveva
proprio
niente.
Quelle
erano cose che facevamo tutti i santi giorni e per me,
come data, indicava solo la nascita del mio
compagno.
Dovetti
scuotere la testa per scacciare quei pensieri e
muovermi, se non volevamo tardare ancora.
Con
lo scrosciare dell’acqua nelle orecchie, tornai da Jaz,
lottando con lui nel tentativo di fargli togliere il pigiama.
«Fa freddo, ‘Ka-san!» si
lagnò, sfuggendomi con il
pupazzetto fra le braccia.
Sospirai, già esasperato.
Era
una vera e propria condanna. «Jaz,
devi lavarti e vestirti», lo ammonii,
cercando di riacciuffarlo. «Andiamo,
su, anche Oka-san deve lavarsi!»
«E allora lavati!»
ribatté, sgusciando via proprio
quando credetti d’averlo preso. Quel
bambino era terribile, davvero.
Una
mina vagante, una calamità naturale.
«Jaz, vuoi o non vuoi andare da Oto-san?» feci,
provando a spronarlo in quel
modo e a farmi finalmente ascoltare.
Aye,
lo sapevo: era un colpo basso.
«Ci voglio andare, ma fa freddo!»
replicò
subito, facendo sfumare ogni mio
possibile piano.
A
quanto sembrava, non aveva affatto funzionato.
«Ma non puoi restare in pigiama e non lavarti!»
cercai di
farlo ragionare, tentando ancora una volta di acchiapparlo, ma mi
sfuggì da sotto le gambe, avvicinandosi alla
porta.
«Sì, invece!» ribatté per
l’ennesima volta, facendomi
esasperare ancor più di quanto già non fossi.
Alla
fine, dopo un tira e molla generale, avevo passato una
ventina di minuti buoni a rincorrerlo per il bagno e per casa,
riuscendo ad
acciuffarlo soltanto per pura fortuna.
Fatto
stava, però, che avevo perso un mucchio di tempo ad
inseguirlo e, tanto per cambiare, indossavamo ancora il pigiama.
Una
mattina di Vigilia davvero movimentata, e non erano
ancora le undici!
«Fa freddo!» si lagnò ancora quando,
finalmente, riuscii a togliergli la parte
superiore del pigiama.
Cercava
ancora di scappare, incredibile.
«Ho acceso la stufa apposta, Jaz, non fa così
freddo!» ribattei, mettendoci
ancora un’altra manciata di minuti infernali prima di
riuscire a levargli del
tutto i vestiti e a fargli fare quella benedetta
doccia. Purtroppo
la vasca era fuori uso a causa dei rubinetti da
cambiare, quindi
bisognava accontentarsi.
Cercare
di farlo stare fermo e nel contempo lavargli i
capelli, però, fu un’altra terribile lotta che
vide me perdente.
Non
solo mi aveva
inzuppato il pigiama da capo a piedi ma, approfittando del fatto che mi
ero
allungato un po’ oltre la doccia per prendere il sapone, se
l’era data
letteralmente a gambe.
Quando
lo riagguantai, dovetti gettarmi anch’io sotto la
doccia per evitare che fuggisse ancora e per tentare di guadagnare un
po’ di
tempo.
Era
quello che era, purtroppo, e rischiavamo di far tardi.
Abbandonai il mio pigiama zuppo nel cesto dei panni,
tornando ad occuparmi di Jason e, soprattutto, dei suoi capelli pieni
di
schiuma.
Dovetti
persino tenerlo fermo per sciacquarlo da quella
montagna bianca che sembrava neve.
«Jaz,
collabora un po’, dai!» fu il mio
turno, stavolta, di
lagnarmi come un poppante.
Ero
sicuro che le undici fossero belle che passate,
sebbene non ne avessi la certezza.
Ed
io ero ancora con i capelli mezzi asciutti e il corpo
insaponato a chiazze.
Che
era preso a Jaz proprio non lo sapevo, poiché di solito
era tranquillo quando si trattava di lavarsi.
Anzi,
spesso e volentieri giocavamo pure quando faceva il
bagno, solo con
mia madre si comporta-...
Fu a quel pensiero che interruppi il flusso dei miei
ragionamenti, non continuando la frase che la mia mente stava
formulando. Natale
voleva dire festa a Central City; Central City voleva
dire vedere Edward e festeggiare con lui anche il suo
compleanno in compagnia d’amici ma,
soprattutto, Central City voleva dire mia madre.
Sicuramente
si sarebbe auto-invitata come suo solito, e volli
dare ragione a Jaz per quel suo modo di
comportarsi, anche se forse lo stava facendo inconsciamente.
Ci vollero ancora una decina di minuti buoni prima che
riuscissi a lavarlo e a fare lo stesso con me. Avevo
chiuso l’acqua della doccia e avvolto lui
nell’accappatoio, portandolo accanto alla stufa mentre, alla
ricerca del mio,
rabbrividivo per il freddo.
Dovetti
persino subirmi le occhiate imbronciate del mio
moretto per tutto il tempo, anche quando, una volta trovato
ciò che cercavo, mi
avvicinai a lui con un asciugamano per passarglielo fra i capelli e
liberarli
dall’acqua in eccesso.
Provò
a scansarmi più volte senza successo,
decidendo di
lasciar perdere e poggiare anche le sue manine sulle mie come per
aiutarmi.
E
meno male che aveva deciso di collaborare...
alla
buon’ora!
Ben asciutto, passai al suo vestiario.
Tra
sciarpa, guanti e quant’altro, tutto imbacuccato era
ancor più buffo di prima.
Mi
scappò solo un piccolo sbuffo ilare, ma fu
abbastanza per richiamare la sua attenzione.
«Perché ridi, ‘Ka-san?» mi
domandò, gonfiando le guance mentre strofinava le
manine fra loro.
Scossi la testa, limitandomi a sorridergli in
risposta e a finire di abbigliarlo.
«Niente,
piccolo», risposi, facendolo imbronciare
maggiormente.
«Non sono
piccolo!»
cantilenò, stupendomi non più di tanto.
Era
una cosa che capitava come minimo dieci volte su dieci
quando mi sfuggiva quell’aggettivo.
In
senso affettivo, sia chiaro.
Mica
lo chiamavo così perché mi divertivo!
O
forse sì, dato che mi ricordava il mio fagiolino... ma era
meglio non dirlo, aye?
Dopo un altro bel po’ di tempo, riuscito a
vestirmi a mia volta, sistemare quanto potevo in giro e preso la
valigia, ci
trovammo finalmente ad avventurarci alla volta della stazione.
Nemmeno
arrivati, ci toccò fare una corsa per riuscire a
prendere il treno.
Le
undici precise.
Quel
treno aveva davvero spaccato il minuto con la sua
puntualità, diavolo!
Di
solito bisognava aspettare svariato tempo prima di
vederlo sfrecciare sulle rotaie.
Il viaggio fu movimentato quanto la mattinata passata a
casa: Jaz, che da quando l’avevamo preso la prima volta era
diventato
insofferente a viaggiare in treno, non la smetteva di lamentarsi o
scappare
via, costringendomi a fare avanti e indietro fra le varie carrozze per
rincorrerlo.
Fu
una manna dal cielo quando, finalmente, sentii annunciare
la nostra destinazione.
Raccattai
la valigia e presi Jaz per mano, così da evitare
che fuggisse ancora una volta chissà dove; tra il via
vai di persone presenti alla stazione, cercai
quella che interessava me, dovendo faticare non poco per tener fermo il
mio
moretto quando anche lui la notò.
«‘To-san!» lo
chiamò a gran voce, non riuscendo a sovrastare il
chiacchiericcio presente, ma
con voce abbastanza alta e chiara per essere udito.
Edward ci vide e si diresse verso di
noi, facendo slalom fra i
presenti e, dopo amorevoli saluti e abbracci con Jaz - noi,
purtroppo, ci
accontentammo di una stretta di mano che il nostro piccolo
adocchiò
stranito -, ci dirigemmo tutti e tre alla macchina che ci
attendeva; aprii
la portiera dal lato del passeggero, accomodandomi sul
sedile con Jaz per passare alla cintura di sicurezza che lui
prendeva nervoso, come se cercasse di togliersela.
Edward,
invece, una volta preso posto a sua volta, inserì le
chiavi nel quadro e partì alla volta del nostro appartamento.
Chiacchierammo
per tutto il tragitto, parlando di tutto ciò
che, in quel piacevole momento, poteva venirci in mente.
Se
avessimo continuato così, non avremmo avuto
più argomenti
per il resto della settimana.
Quando arrivammo, e mi ritrovai ad
osservare ogni minimo
particolare di casa, mi sentii il sorriso solcare le labbra.
Non
solo perché mi era mancata ogni singola cosa
lì
presente, bensì perché Edward aveva anche
addobbato casa, persino il salotto;
Jaz
si agitò un po’ fra le mie braccia, sgusciando
via
per sgambettare verso il grande albero di Natale posto
all’angolo della stanza.
Sembrava
guardarlo estasiato e divertito.
Si
stancò ben presto, ma solo per correre in corridoio e
tornare con i suoi
pupazzetti, trovati
chissà dove.
Oltre
il solito coniglietto, che non aveva categoricamente
voluto lasciare per tutto il viaggio, aveva con sé anche un
orsacchiotto e
qualche soldatino di piombo, piccole miniature che risalivano quasi
alla
mia infanzia.
Si
sedette poi accanto all’albero, cominciando a giocare
felice mentre le luci colorate danzavano allegre sul suo visino.
Edward ridacchiò sereno e io gli
lanciai un’occhiata, vedendo il sorriso che si
era dipinto sulle sue labbra.
Sorrisi
anch’io, adocchiando Jaz prima di tornare ad
osservare, forse troppo interessato, il mio compagno.
Posai
una mano sul suo braccio e intrecciai le dita
intorno ad esso, richiamando la sua
attenzione e facendolo sbattere le palpebre con fare perplesso.
«Devo parlarti un
attimo», risposi con semplicità.
«Parlarmi, eh?» ripeté ironico, ma mi
limitai ad annuire senza rispondergli, gettando
un’altra occhiata a Jason prima di trascinarmi Ed nel
corridoio, fino in
camera.
Forse
intuendo il mio voler parlare,
incrociò le
braccia al petto mentre s’accomodava sul letto, arcuando un
sopracciglio. «Beh,
parla. Ti ascolto». mi
disse, sarcastico come
non mai.
Si
era già mangiato la foglia, purtroppo per me.
Alzai entrambe le mani in segno di resa,
avvicinandomi a lui per chinarmi verso il suo viso.
Non
cercai nessun contatto, mi limitai solo a respirare il
suo profumo.
Una
leggera essenza di sapone, nessuna acqua di
colonia.
Quando
gli poggiai le mani sulle spalle, però, cercando di
avvicinare il mio volto al suo, mi posò un dito sulle
labbra, guardandomi
male.
«Roy... c’è Jaz», mi
ammonì con un tono che non
ammetteva repliche, e a quel
dire mi imbronciai come un bambino.
«Solo un bacio, davvero», insistetti dopo
aver allontanato il suo dito,
facendo scivolare le mani lungo le sue braccia.
«So fin dove arrivano i tuoi baci»,
replicò, anche a ragione.
Ogni
volta che dicevo “Solo un bacio” o parole
simili, si
finiva sempre per andare un po’ oltre.
«Non questa volta, sul serio», ribattei
ancora una
volta, facendo pressione con le mani sulle sue braccia nonostante
provasse ad
opporsi.
Lo
distesi sul letto, vedendolo dilatare gli occhi dorati
mentre li fondeva con i miei.
Senza
nemmeno accorgermene, mi ritrovai a cavalcioni su di
lui, e tanti
cari saluti al “Solo un bacio”.
«Ho detto di no, Roy», mi
smontò immediatamente,
facendomi vacillare un po’, ma mi
chinai comunque verso il suo volto, tanto che, se mi
fossi sporto ancora, avrei potuto sfiorargli le labbra.
«Non voglio fare quello che pensi, dico
davvero», provai
a farmi ascoltare ma, quando ci trovammo con le labbra quasi unite,
sentimmo
una voce proveniente dal corridoio.
Subito
dopo, un
piccolo tornado si gettò sul letto,
costringendomi ad
allontanarmi. Ancor
prima che potessi realizzarlo, fu proprio Jason
ad appropriarsi del mio posto, stringendosi ad Edward con quel suo
solito e
innocente sorriso dipinto sulle labbra.
Ed sorrise prima di passargli una mano
fra i capelli per scombinarglieli, e risero entrambi con fare
divertito, come
dimentichi di me. Dovetti
ammetterlo.
In
quel momento, nel vederli, ero geloso di mio figlio.
Borbottai
fra me e me con il chiaro intento d’andarmene e
concentrarmi sulla cena ma, prima ancora che potessi alzarmi, Jason si
lanciò
sulla mia schiena appendendosi ad essa, cingendomi il collo con le
braccia.
«Dove vai, ‘Ka-san?» mi chiese, poggiando
la testolina mora
contro la mia.
Mi diedi dello stupido per quella mia gelosia, ritrovandomi
a sorridere mentre mi voltavo un po’ verso di lui per
incrociare i suoi occhi.
Anche
Edward s’era messo a sedere sul materasso, e mi
guardava con un cipiglio ironico dipinto in volto. «Che
ne dite se ce ne andiamo in cucina?»
suggerì lui, aggirando il letto per
rimettersi in piedi e porgere a me una mano.
La guardai scettico, sollevando un sopracciglio mentre
m’alzavo a mia volta.
Portai
le braccia dietro alla schiena per sorreggere Jaz,
tenendolo per le ginocchia, e lui strinse automaticamente la stretta
intorno al
mio collo.
«Ehi,
così mi soffochi...!» lo
richiamai, mezzo divertito.
Lui rise, allentando la presa per poggiare il capo sulla mia
schiena e sbadigliare, anche se sembrava ben lungi
dall’addormentarsi. Vidi
Edward lanciargli una rapida occhiata per
accertarsene, intercettando il suo sorriso mentre mi faceva cenno
di
seguirlo fuori dalla camera.
Pazienza,
mi ritrovai a pensare, riguardo al nostro
piccolo “discorso”.
La
giornata non era ancora finita, avevo tempo per riprovarci.
Tra risate, schiamazzi e qualche discorso senza capo né
coda, cominciammo a preparare il cenone e ad abbellire la cucina.
Mentre
Edward si occupava della cena, io e Jaz ci spostammo
in salotto, dove passammo il tempo tra gli scatoloni mezzi pieni in cui
erano
rimasti ancora degli addobbi da appendere in giro.
Ci
eravamo seduti entrambi sul grande tappeto, uno più
bambino dell’altro mentre, ridendo e borbottando fra
noi - esattamente
come dei bambini, ma lui a differenza mia poteva permetterselo -,
scartavamo quelli che sembravano a prima vista i più mal
ridotti e tiravamo
invece fuori festoni rossi e dorati.
Trovammo
persino del pungitopo e un paio di piccoli babbo
natali di stoffa, uno dei quali Jaz, alzatosi, andò a
mettere su un ramo
dell’albero per sgambettare poi verso l’ingresso,
forse per posare l’altro sul ripiano
del telefono.
Ritornò
subito dopo tutto soddisfatto, avvicinandosi ad uno
scatolone per scavare ancora al suo interno, quasi cadendoci dentro
visto che
era più grosso di lui.
Mi rialzai dal tappeto con un sorriso, andando ad aiutarlo
per evitare che finisse davvero lì dentro.
Nel
far questo, però, trovai qualcosa che
richiamò la mia
attenzione.
E
fu con un altro sorriso che mi chinai per prenderlo, sentendo su di me
lo
sguardo
azzurro di Jason.
Fece
vagare gli occhi sull’oggetto che reggevo al mio volto,
portandosi un ditino alle labbra.
«Che cos’è quello,
‘Ka-san?» mi domandò curioso, ma gli
feci cenno di non dire
niente mentre m’allontanavo un po’, con i pensieri
diretti alla cucina.
O,
più precisamente, ad un biondino lì
presente.
«Jaz, Oka-san torna subito», gli dissi
semplicemente, anche se il mio tono non
prometteva nulla di buono. «Non ti muovere, mi
raccomando».
«E perché, ‘Ka-san?»
replicò ancora una volta, però gli ripetei
nuovamente quella
raccomandazione prima di filare in cucina.
Per
mia fortuna, Edward era girato di schiena.
Un’occasione
più che perfetta, quella.
Mi avvicinai a passo felpato, tenendo
ben stretto fra le dita
quello che per me, in quel momento, rappresentava quasi un prezioso
tesoro.
Quando
giunsi dietro al mio caro compagno, però, alzando
quell’oggetto oltre la sua testa e avvicinandomi al contempo
per bramare un
bacio, due fredde dita d’acciaio mi sfiorarono al di sotto
del mento, facendomi
deglutire.
Un
paio d’occhi d’ambra, subito dopo, si fusero
inesorabilmente con i miei.
«Bella prova, genio», disse ironicamente.
«Sapevo che ci avresti provato
non appena avresti trovato quel vischio. Ti conosco fin troppo
bene».
Che scopa torta.
Eppure
ero sicuro di riuscirci, stavolta.
Fu
tranquillamente che tornò a preparare la cena, senza
degnarmi più d’uno sguardo o d’una
parola. E a me, a
quel punto, non toccò fare altro che dirigermi
nuovamente in soggiorno, dove trovai Jaz a giocare con i festoni
rimasti.
Non
potei evitarmi di sorridere, a quella scena.
Almeno
c’era lui a mettermi di buon umore.
Il
resto del pomeriggio lo passammo così, ad addobbare casa
e ad aiutare occasionalmente Edward con i preparativi della cena o del
tavolo
su cui l’avremmo consumata.
Solo
verso le otto e mezza si presentarono tutti gli altri,
allegri e spensierati; c’era chi aveva portato dolci allo
zenzero e champagne,
chi un panettone per completare il quadro.
Subito
dopo arrivò, proprio come aveva immaginato, mia madre
in compagnia d’un uomo che non avevo mai visto, subito
seguita da mio padre che
sembrava un cane bastonato.
Non
volli dire nulla, limitandomi solo a salutarli e a farli
entrare. Tra
schiamazzi e risate, litigate dei miei e la colpa
di tutto che veniva scaricata come sempre su di me, il mettersi in
mezzo del
compagno di mia madre per provare a calmare le acque e qualche battuta
fuori
luogo da parte di Maes, giunse ben presto il momento di consumare
dolcetti e
liquore, contornato persino dall’arrivo improvviso di
Armstrong che, quasi come
ogni anno, non mancò di spaventare i
bambini con la sua mole massiccia di muscoli.
Fu quando la serata finalmente si
concluse e tutti tornarono
alle proprie case che potei sentirmi un po’ sollevato,
stiracchiandomi tranquillo
prima di mettermi a letto.
Edward
si era già infilato sotto le coperte dopo aver
pensato a Jaz, e si voltò appena verso di me quando
sentì il mio peso posarsi
sul materasso.
Mi
augurò buonanotte e mi baciò fuggevolmente, e io
mi
allungai verso il comodino per spegnere l’abat-jour prima di
coprirmi bene con
il piumone.
Sbadigliai sonoramente, già pronto ad assopirmi, quando un
pensiero mi folgorò facendomi aprire nuovamente gli occhi.
«Stavo quasi per dimenticarmene», feci, sentendo
appena un suo mugugno
infastidito; non gli badai e mi sporsi
verso di lui, puntellandomi su
un gomito in modo da riuscire a sfiorargli le labbra con le mie in un
casto
bacio.
Nella
penombra, lo vidi sbattere un po’ le palpebre, come
sorpreso, prima che fondesse i suoi occhi dorati con i miei.
Gli
sorrisi, sistemandomi fra le coltri mentre stringevo il
suo corpo nel mio abbraccio. «Mi
spiace non avere un regalo, dovrai accontentarti di
questo abbraccio», gli mormorai, strofinando il viso fra i
suoi capelli, e lo
sentii arretrare maggiormente per far aderire la sua schiena al
mio
petto.
«A me basta la presenza delle persone, dovresti
saperlo», ribatté lui fra uno
sbadiglio e l’altro.
Ridacchiai, poi mi sporsi per prendere l’orologio dal
comodino.
Non
era ancora mezzanotte, bene.
Mancavano
giusto pochi minuti, ero ancora
in tempo.
Tornai
abbracciato a lui, beandomi del suo corpo contro il
mio.
«Ma
io non
parlavo del regalo di Natale», replicai ancora una volta,
stringendolo sempre più
possessivo a me.
Edward sbadigliò ancora e scrollò le spalle,
almeno per quanto la
posizione
in cui era glielo permettesse.
«E
di cosa,
allora?» chiese, più nel mondo dei sogni che
davvero lucido.
Mi lasciai
sfuggire un altro sbuffo ilare, anche se un tantino incredulo.
Come
poteva
essersene dimenticato?
Beh,
ci avrei
pensato io, allora, a ricordarglielo.
«Buon
compleanno, Ed», dissi con dolcezza, vedendolo finalmente
voltare il capo nella
mia direzione e,
dall’espressione che gli vedevo in volto, sembrava essersi
davvero dimenticato
del suo compleanno.
Ma
si riprese
subito e mi sorrise, girandosi del tutto verso di me per affondare il
viso
nel mio petto e bearsi del calore che, pian piano, stava avvolgendo
entrambi in
quella sera d’inverno mentre i minuti passavano, facendo
scoccare del tutto la
mezzanotte e il nuovo giorno.
Forse,
adesso, avevo capito.
Stare
insieme
l’uno con l’altro, festeggiare quel giorno con
nostro figlio e gli amici... che
fosse quella la magia del Natale?
_Note inconcludenti dell'autrice
Che emozione,
ragazzi/e, che
emozione!
La seconda vigilia che passiamo tutti insieme, e proprio come l'anno
scorso vi regalo questo piccolo dono per augurarvi un buon Natale in
compagnia di famiglia e amici!
Questo
capitolo è dedicato al mio alter ego Red Robin
per il suo compleanno ♥
E voi, mi raccomando, passate una bella vigilia di natale e cercate di
divertirvi, che anche se viene una volta ogni anno il natale va passato
in famiglia e bisogna mangiare il più possibile! *e ti
pareva
che andava sempre a finire sul cibo, lol*
Ricordiamo inoltre:
Adesso, con un nuovo
augurio a voi e a RR, vi saluto!
Mianntan! ♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8%
del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice
milioni di scrittori.
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Capitolo 26 *** [ A contest, a rose and a story ] [ Storia Fuori Serie ] “Rosa Canina” ***
Heart burst into fire_Episode 26
Titolo: Rosa canina
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 5114 parole ]
Personaggi:
Roy
Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ A
CONTEST, A ROSE AND A STORY ][ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO
26: “ROSA CANINA”
Originariamente
le
rose erano tutte bianche ma un giorno la dea Venere,
mentre correva
incontro ad uno dei suoi innamorati,
mise un piede su un
cespuglio di tali fiori e le spine la punsero.
Le rose, bagnate dal
suo sangue, per la vergogna arrossirono all’istante
e rimasero di tale
colore per sempre.
Quella
che era sorta si sarebbe potuta definire una giornata
normale.
Un giorno di routine, insomma; una di quelle classiche
mattinate che cominciavano sempre uguali, come tutte le altre.
Mancavano ancora un paio d’ore all’inizio del mio
turno di
lavoro e, almeno per una volta, avevo tutta l’intenzione di
prendermela comoda.
Ed era proprio per quel motivo che mi trovavo a letto,
avvolto nel mite tepore che il piumone, le lenzuola e il corpo del mio
compagno
mi donavano.
Lui sonnecchiava ancora piacevolmente,
mugugnando solo di
tanto in tanto frasi sconnesse nel dormiveglia; tutto a causa
dell’accenno di
barba che avevo e che gli pungeva il viso, specialmente quando mi
strofinavo
contro la sua pelle.
Proprio la sera addietro avevamo fatto un bel ripasso
dell’ABC,
sebbene mi fosse risultato abbastanza difficile far capitolare Edward.
Siccome in casa con noi c’era anche Jason, spesso e
volentieri era molto difficile poter restare un po’ per conto
nostro per
coccolarci come si conveniva ad una coppia; sfruttare quei rari momenti
era quasi diventata
un’arte, se contavamo soprattutto il mio continuo via vai da
Central a South
City.
Scossi il capo,
avvicinandomi maggiormente al corpo di Edward per riscaldarmi;
l’attirai a me
e gli cinsi i fianchi, anche se ci guadagnai un ennesimo
mugolio
infastidito.
«Roy, pungi»,
borbottò con voce
impastata dal sonno,
agitando con fare svogliato una mano per scacciarmi, ma per tutta
risposta l’abbracciai più forte,
affondando il
viso fra i suoi capelli mentre facevo scivolare con lentezza una mano.
Gli sfiorai i fianchi e scesi ancora, arrivando a carezzare
quella delicata peluria dorata che aveva sulle cosce. Fu quando osai
volere di più, però, che una mano
d’acciaio mi
colpì scherzosamente una guancia.
«Vai a farti la barba»,
m’ordinò categorico, senza però
trattenere un sonoro sbadiglio quando pronunciò quelle
parole.
Lo ignorai, limitandomi solo a
massaggiarmi il punto colpito
prima d’issarmi a mezzo busto.
«Non sai che barba e baffi sono il simbolo del vero
uomo?»
filosofai sarcastico, riuscendo solo a strappargli una risatina
divertita.
Si sciolse senza alcun garbo dal mio
abbraccio, raccattando
un paio di mutande dal cassetto della biancheria posto accanto al
letto. Issandosi a sedere, mi lanciò
un’occhiata tutt’altro che accondiscendente.
«E dove saresti uomo, cara Oka-san?»
mi prese in
giro, stiracchiandosi come se nulla fosse.
Non divenni volgare nel rispondere, lo
guardai solo con un
sopracciglio inarcato prima di scostare svogliato le lenzuola.
«La mia argomentazione
è tutta
lì», ribattei,
alludendo malizioso ad un punto poco al di sotto del mio basso ventre,
e Edward sbuffò ilare, facendovi guizzare gli occhi per
andare a
recuperare la divisa.
«Non prova nulla»,
replicò, schioccando
la lingua sul palato
per provocarmi. «Ed ora, se madame
permette, usufruisco per primo del
bagno, visto che non sembra intenzionata».
Presi la prima cosa che mi
capitò sotto mano e gliela tirai
addosso, imitando alla meno peggio una di quelle scenate da moglie
incazzata o
gelosa; ma ciò che ottenni fu solo farlo ridere maggiormente
quando
evitò quella che altro non era che una pantofola, portandosi
vicino alla soglia
del bagno.
«Vedi piuttosto di metterti
qualcosa addosso, che con
l’età
che ti ritrovi rischi di buscarti un’influenza»,
profetizzò in tono di scherno,
facendomi una linguaccia come un bambino quando mi vide pronto a
prendere anche
l’altra pantofola. «Ah, già che ci sei,
prepara anche la colazione a Jaz e poi
vai a svegliarlo».
Detto ciò, si chiuse la porta alle spalle, lasciandomi con
quella ciabatta sospesa a mezz’aria come un vero e proprio
fesso.
Borbottai fra me e me per quel suo modo
di fare, facendo cadere la pantofola sul pavimento
con un tonfo
sordo prima di tornare sdraiato; allungai un braccio fuori da quel
piumone solo per tastare
il comodino dal mio lato del letto, cercando l’orologio
d’argento per sbirciare
l’orario.
Aperto il coperchietto, mi ritrovai a sbuffare sonoramente
prima di richiuderlo e abbandonarlo nuovamente là sopra. Non
era né troppo presto né troppo tardi, certo,
ma la
voglia d’alzarmi era diventata pari allo zero.
E me ne sarei volentieri tornato a dormire sul serio se uno
scalpiccio non
avesse richiamato
la mia attenzione, facendomi trasalire.
Avevo difatti abbassato le palpebre senza nemmeno essermene
reso conto, tanto che le riaprii di scatto solo per vedere la figura
sfocata di
Jason tutta allegra e pimpante.
Perché era già vestito se mancavano come minimo
ancora due
ore alle nove?
«‘Ka-san,
svegliati!» mi
richiamò, scuotendomi. «‘To-san ha
detto che farete tardi se non ti alzi!»
Tardi? Ma che diavolo...?
Mi puntellai sui gomiti e mi strofinai gli occhi, stando
attento che il piumone non scivolasse via.
Un po’ per il freddo, un
po’ per amor di decenza.
«Jaz, ma che stai dicendo?», gli chiesi,
bofonchiando
assonnato.
Riuscita finalmente a mettere a fuoco la sua immagine,
vidi che indossava un pantaloncino nero con tanto di bretelle, e
portava una
camicia taglia bambino color panna.
Intravedevo persino dei calzettoni di lana ai piedi, mentre
di scarpe neanche l’ombra visto che era scalzo.
«Sono le otto»,
dichiarò in tono solenne, con quelle
finte arie da grand’uomo vissuto che stava acquisendo
già da un po’. Guardandolo, nessuno gli avrebbe
dato sette anni, data la sua
scarsa altezza.
Ma, se si intratteneva con lui una conversazione su un
qualsiasi argomento, sapeva davvero stupire nonostante la sua giovane
età.
Interruppi il flusso di quei miei
sproloqui mentali solo
quando la mia mente ancora addormentata registrò
l’orario; cosa voleva dire che
erano le otto?!
Mi ero forse riaddormentato sul serio senza neanche
accorgermene?
«Porcaccia!» masticai fra i denti, sporgendomi
oltre il
bordo del materasso per rovistare fra la mia biancheria sotto lo
sguardo
incuriosito del mio moretto. «Jaz, prendimi una divisa
dall’armadio, per favore»,
soggiunsi velocemente, prendendo quel che mi serviva prima
d’arraffare il
lenzuolo per legarmelo intorno alla vita.
Ci mancava soltanto questo.
Con la coda dell’occhio,
mentre mi alzavo, vidi quel piccolo
soldo di cacio saltare per tirar via la divisa dalla cruccia,
portandomela
tutto gongolante quando ci riuscì.
Lo ringraziai svelto, avviandomi verso il bagno mentre
sentivo i brividi lungo la schiena.
Cavoli se faceva freddo, quella mattina!
«‘Ka-san, stai
tremando»,
appuntò Jaz, con quell’innocente
cipiglio bambinesco. «Perché dormi nudo se hai
freddo?»
Lo sapevo che sarebbe andata a finire
così.
Me lo sentivo.
Mi voltai solo di poco, sorridendogli ironico.
«Perché Oka-san è un perfetto
idiota», replicai
semplicemente, guadagnandoci un’occhiata stranita prima che
lo invitassi a
raggiungere il suo papà per chiudermi in
bagno.
Non lo sentii protestare né altro; mi giunsero alle orecchie
solo i suoi passi che s’allontanavano mentre mi liberavo
degli ingombri e mi
gettavo sotto la doccia calda.
Dopo tutto quell’andirivieni,
finalmente, ci trovammo alla
nostra postazione di lavoro, ognuno dei due nel proprio ufficio.
Ciò che mi aveva stupito, però, era il fatto che
Edward
avesse deciso di portare Jason con
noi, ricevendo il suo allegro consenso.
Li avevo visti sparire entrambi verso il mio vecchio
ufficio, dov’ero sicuro si trovassero tutt’ora
insieme alla restante brigata.
La maggior parte del tempo
l’avevo passata a chiedermi
cosa stessero facendo - e soprattutto a malmenarmi il cervello
sul perché
della decisione di Edward -, firmando sì e no un
documento su dieci.
E dovevo ritenermi fortunato dell’assenza di Occhi
di
Falco in quell’ufficio; se ci fosse stata lei, di
certo non avrei perso
tempo a pensare o a non far nulla.
Mi ero persino concesso il lusso di sonnecchiare un po’,
risvegliandomi solo un bel paio d’orette dopo.
In poche parole, quel giorno l’avevo passato dormendo.
A distrarmi, fu un bussare alla porta e
quindi il successivo
arrivo di Maes che, come suo solito, non attese nemmeno che
l’invitassi ad
entrare.
Aveva una strana aria divertita dipinta in volto, tanto che
non potei fare a meno di chiedermi cosa gli fosse successo di
così bello per far
assumere al suo viso quell’espressione. Non espressi ad alta
voce quel mio pensiero, limitandomi
solo ad indicargli d’accomodarsi sulla poltrona dinnanzi alla
mia scrivania;
invito che, prontamente, ignorò.
Ciò che fece, fu stiracchiarsi tranquillamente e gettare un
veloce sguardo alle scartoffie, come se stesse soppesando quante ne
avessi
realmente firmate, e poi guardò me con un sorriso.
«Vedo che ti dai da
fare come al
solito», sghignazzò,
alludendo a quei pochi fascicoli che si trovavano nel
contenitore della
posta in uscita.
Feci finta di nulla, giocherellando
distrattamente con la
stilografica prima di lanciargli un’occhiata.
«Qualcuno deve pur firmare tutti questi documenti, non ti
pare?» ribattei sarcastico, alzando appena un angolo della
bocca con fare
scettico.
Se fosse stato davvero per me, in
realtà, tutte
quelle scartoffie sarebbero rimaste ad ammuffire per chissà
quanto tempo prima
d’esser prese e firmate.
Hughes si lasciò sfuggire una
sonora risata, scansando infine la
poltrona per accomodarsi come l’avevo invitato a fare in
precedenza.
Giocherellò a sua volta con una stilografica quando la
prese, poi, guardando ancora una volta la pila che occupava il lato
sinistro
della mia scrivania.
«Ti conviene muoverti e firmarle sul serio, se non vuoi che
te le filtrino a South City», mi tenne presente in tono
divertito, allungandosi
per batterci una mano sopra. «E lì non ci
sarà nessuno a pararti il culo per
possibili ritardi».
Emisi un piccolo sbuffo ilare; seppur
non volessi ammetterlo a me stesso, Maes aveva maledettamente ragione.
Bene o male ero sempre stato salvato in calcio d’angolo
dalla diligente Hawkeye, che trovava qualche scusa anche quando non ne
serviva
una vera. Lì, invece, ai confini del nulla,
dovevo
cavarmela da
solo.
Persino Edward non poteva aiutarmi falsificando la mia
firma.
«Se sei venuto a dirmi questo, torna a fare il tuo
lavoro»,
gli sbottai contro, anche se con la sua stessa sfumatura nella voce.
«Sono già
indietro, altre distrazioni non mi servono».
Maes alzò le mani in segno di
resa, abbandonando la stilografica
al suo posto prima d’alzarsi.
«D’accordo, d’accordo», disse,
fingendosi offeso. «Non si
può nemmeno salutare un amico».
Scossi il capo, divertito. Non cambiava
mai.
Mi fece appena un cenno di saluto con il capo, sgranchendosi
in un secondo momento il collo per avviarsi alla porta.
«Ah, quasi
dimenticavo», fece poi, fermandosi
proprio
accanto alla soglia prima di voltarsi tutto sorridente verso di me.
«Auguri».
«Non è mica il mio
compleanno», replicai
immediatamente,
sollevando scettico un sopracciglio.
Stavolta, però, non rispose,
ma si limitò a
rivolgermi un
altro sorriso indulgente prima d’agitare con
fare divertito una mano, lasciandomi infine nuovamente solo
nell’ufficio.
Ma che diavolo era preso a tutti? Proprio non riuscivo a capire cosa
passasse nelle loro
teste.
Non ci pensai oltre, altrimenti sarei
diventato
pazzo insieme al loro; mi concentrai invece sul lavoro che avevo da
svolgere,
tentando di terminarlo il prima possibile.
Purtroppo, per l’ennesima volta in quella giornata, fu un
insistente bussare a farmi alzare nuovamente il capo.
Fulminai la porta con lo sguardo, tamburellando con le dita
sulla scrivania.
Sarei mai riuscito a lavorare seriamente per una volta?
Ne dubitavo altamente.
«Avanti», borbottai mezzo insonnolito, attendendo
che
quell’ennesimo scocciatore si facesse vedere.
Restai basito, però, quando una figurina bassa e dalla
zazzera
mora si fece avanti come se nulla fosse, richiudendosi la porta alle
spalle.
«Jaz, che ci fai qui?» chiesi immediatamente,
tra il
severo e il divertito. «Non puoi girare da solo per il
Quartier Generale, lo
sai».
Lui si strinse un po’ nelle
spalle, tranquillo.
«‘To-san mi ha detto di portarti questa»,
rispose
semplicemente, ignorando praticamente le mie parole mentre agitava una
busta e
s’avvicinava.
L’abbandonò sulla scrivania anche se, per farlo,
dovette
arrampicarsi sulla poltrona per riuscire a posarlo nel suo esatto
centro; poi alzò il visino paffutello e mi sorrise, senza
aggiungere
altro e senza darmi spiegazioni.
Inarcai finemente un sopracciglio. Che
diavolo significava
tutta quella storia?
Squadrai lui e poi quella busta, afferrandola circospetto.
Sul lato a destra, precisamente in basso, c’era la piccola
stilizzazione di quella che sembrava una Meillandina.
L’espressione scettica che aveva di sicuro segnato il mio
viso divenne maggiore.
Perché quella rosa, adesso?
Aprii la busta con attenzione, quasi temessi di vederla
esplodere fra le mie mani; non si poteva mai sapere, conoscendo quel
fagiolino
di nome Edward Elric.
Presi poi quel foglio piegato, aprendolo per rivelare la
scrittura del mio compagno.
«“Caro Roy”»,
cominciai a leggere tra me e me, e già
da come quella lettera iniziava avrei dovuto diffidare
del resto «“Scommetto
che adesso ti starai chiedendo il perché di questa lettera
anziché l’ovvio uso
del telefono”». E certo, chi sano di
mente non se lo sarebbe chiesto, visto
che ci trovavamo anche nello stesso edificio «“e
immagino che starai anche
pensando perché ho perso tempo a scriverla e a fartela
consegnare da Jaz invece
di venire direttamente lì”».
Anche questa, in effetti, era una domanda che
mi stavo ponendo. «“La vera risposta la
conoscerai stasera, questo era solo
un espediente per vedere se stavi lavorando o facevi il lavativo. A
seconda di
quel che mi dirà Jaz, la serata prenderà due
‘pieghe diverse’...”»
Oh, porca.
Smisi di leggere e chiusi la lettera, alzando il viso per
guardare in quei profondi e intensi occhioni azzurri il mio moretto.
Non poteva essere cattivo con la sua Oka-san, no?
Non poteva assolutamente
esserlo, vero?
«Jaz... che ti ha detto di fare Oto-san, oltre a consegnarmi
la lettera?» domandai sulle mie nel temere la risposta, e
quel
mio timore non tardò ad avere conferma, dato il nuovo
sorriso che si era dipinto sulle piccole labbra di Jason.
Non mi rispose subito, prendendosi il
tempo di scendere attento
dalla poltrona.
Mossa che mi mise maggiormente sull’attenti.
«Se Oka-san
non lavora vieni subito a dirmelo»,
iniziò,
citando probabilmente a memoria le parole del mio biondino.
Ciò che mi mise più in guardia, però,
non fu quella sua
frase, bensì il fatto che stesse indietreggiando a piccoli
passettini, con quel
sorriso ancora dipinto sulle labbra.
Sorriso quasi bastardo, avrei osato dire.
«Che stavolta
stasera non gioca»,
concluse,
lasciandosi scappare una risatina ingenua mentre si
voltava del tutto e
sgambettava verso la
porta, veloce come non mai.
In un primo momento, restai a guardarlo
uscire, allibito;
poi, quando la mia mente registrò esattamente
ciò che aveva detto,
scattai immediatamente in piedi ed aggirai la scrivania, rischiando
di
farmi male e far cadere una montagna di documenti da firmare.
«Jason, torna qui!» provai a richiamarlo, anche se
sembrava
ignorare le mie grida disperate. «Non
puoi fare questo alla tua Oka-san!»
Poco mi importava che, passando per quei
corridoi quasi del
tutto deserti, qualcuno negli uffici adiacenti potesse sentirmi.
Il mio unico pensiero, in quel momento, era il voler
acciuffare quel birbante che correva allegro davanti a me e che si
voltava solo
di tanto in tanto, quasi si divertisse a vedere come mi affannavo
inutilmente
per raggiungerlo.
Mi fermai solo quando lo vidi svoltare
l’angolo, non avendo
più la forza di stargli dietro.
La resistenza non era più quella di una volta, dovevo
ammetterlo.
Giunti a quel punto, comunque, potevo considerarmi fregato.
Jason avrebbe spifferato tutto ad Edward e, fino al
mio rientro a South City, potevo anche considerare il sesso come una
lontana
utopia.
Potevo provare a salvarmi in calcio d’angolo, vero, ma il
risultato non era comunque garantito. E continuai a formulare assurde
ipotesi anche mentre mi
incamminavo mogio verso l’ufficio di Edward, luogo in cui si
era sicuramente
rifugiato quel mascalzone di Jason.
Quando lo raggiunsi, posai una mano sulla maniglia,
tentennando un po’ prima di farmi coraggio.
«Auguri!» sentii
esclamare in coro a quei pochi
presenti che
riuscii a scorgere non appena aprii la porta, lasciandomi basito sulla
soglia a
sbattere le palpebre.
E pensare che ero pronto a giustificarmi con il mio compagno
chissà come!
Lanciando un attento sguardo all’interno, potei benissimo
scorgere qualcosa che non quadrava affatto; perché
c’era una bottiglia di
champagne, sulla scrivania di Edward?
Vidi una mano afferrare per il collo proprio quella bottiglia
che stavo osservando, riconoscendo soltanto dopo quella di Havoc.
La stappò riempiendo dei bicchieri, offrendone a tutti prima
d’avvicinarsi a me.
«Alla salute,
Generale!» ridacchiò,
bevendo il suo tutto
d’un sorso.
Se fossi stato meno sorpreso, avrei
sicuramente ammonito i
presenti del fatto di star
bevendo in servizio.
Però, vedendo anche Jason bere qualcosa che mi parve del
succo d’arancia, decisi di chiudere un occhio; che si
divertissero pure, se
proprio ci tenevano. Ma che mi spiegassero almeno il motivo!
«Cos’è tutta questa
pagliacciata?» domandai, forse più
rivolto a Maes - anch’egli lì presente a
non fare un emerito niente - che
al mio caro compagno.
Fu proprio Edward a rispondere,
però, bevendo appena un
sorso del suo champagne prima di sorridermi, invitante e
sensuale.
«Ma come, è la festa per il tuo
compleanno!» replicò
tranquillo, senza dar peso alle risatine degli altri e alla mia aria
scettica.
Ci si metteva anche lui con quell’idiozia, adesso?
«Oggi non
è il mio
compleanno», ribadii ancora una
volta, ma nessuno volle prendere in considerazione le mie parole.
Persino Jason sembrava essere contro di me, in quel momento.
In tutta quella baraonda,
comunque,
nemmeno mi
resi conto della mancanza di due ospiti, là dentro; solo in
un secondo momento - quando
Maes la finì di fare l’idiota e Havoc di darmi
divertite pacche sulla spalla
tracannando chissà cosa - mi accorsi che
all’appello mancavano proprio i due
artefici di quella festa-presa in giro. Mi limitai solo a
scuotere la testa, tornando ad occuparmi
del problema che mi si poneva adesso: quello di interrompere
quegl’insensati
festeggiamenti prima dell’arrivo dei superiori.
Tanto avrei dovuto aspettarmelo, da quel fagiolino.
Sicuramente, adesso, o erano diretti verso casa o si
trovavano già lì da un bel po’.
Dissipato quel casino che si era venuto a creare, altro
non mi toccò da fare che tornare nel mio ufficio; e
lì tentai di lavorare,
sebbene mi fossi sorpreso più volte da solo a sbadigliare
senza accorgermene.
Quando il mio turno terminò,
finalmente, fu con rinnovata
energia che uscii e andai alla macchina, con l’unico pensiero
in testa di
tornare a casa e finire quella stramaledetta giornata. Al mio arrivo,
però, il resto della famiglia non
sembrò
dello stesso avviso: non appena infilai le chiavi nella toppa e aprii
la porta,
venni immediatamente investito da un piccolo tornado in pigiama che
portava il nome di Jason.
Vidi che reggeva in una mano il piccolo bocciolo d’una rosa
bianca, mentre con
l’altra si teneva ai miei pantaloni, strattonandoli.
«Questa è da parte
mia,
‘Ka-san», disse con vocina allegra,
costringendomi praticamente a chinarmi alla sua altezza per scoccarmi
un bacino
sulla guancia.
Dire che ero allibito era poco.
Già quella festa per il mio finto
compleanno mi aveva destato un qualche sospetto, ma non
riuscivo a capire
come quegli eventi potessero essere collegati fra loro. Ebbi giusto il
tempo di accettare quel piccolo dono che
sentii una manina di Jaz afferrare la mia, tirandomi con prepotente
innocenza verso la sala da pranzo.
E fu lì che restai letteralmente a bocca aperta: al
centro esatto del tavolo, costeggiato da qualche piccolo rametto di
giunco e da
rosei e bianchi fiori di pesco, era esposta la più bizzarra
composizione
floreale che avessi mai visto.
Anche se, dovetti ammetterlo, non ero poi così sicuro di
averne realmente mai vista una.
Tra la moltitudine di colori e specie di rose lì presenti,
si trovavano - attorcigliate a quelle che mi parvero piante
rampicanti d’un
verde brillante, tenute su chissà come -
quello stesso tipo di rose
che avevo visto stilizzato sulla busta.
Erano tre, forse quattro, d’un rosso paragonabile solo a
quello d’una fragola o della mela più succosa; ma
restava sempre quel primo
interrogativo... a che pro, tutto ciò?
Abbagliato com’ero da quella
vista, mi accorsi solo in un
secondo momento che Edward era seduto lì,
anch’egli con delle rose in mano.
Sembrava un piccolo bouquet di Meillandina,
composto
da dodici rose rosse e una bianca.
Mi guardò con un sorriso, giocando distrattamente con uno
dei delicati petali di velluto.
«É la prima
composizione seria
che faccio, dovrai
accontentarti», mi disse, stringendosi nelle spalle
come se volesse scusarsi. «Abbiamo provato a renderla
più bella possibile,
dopo». Accennò verso di me con il capo, indicando
però la figura di Jason.
Ecco spiegato almeno il perché della sua aria soddisfatta.
Il resto, adesso, sarebbe stato gradito.
Edward Elric, però, era Edward Elric, e si limitò
quindi ad
alzarsi semplicemente; ma non per avvicinarsi a me, bensì
per vagare come se
nulla fosse accanto a quella creazione artistica,
carezzando ogni rosa
con finto interesse.
Jaz intanto si era stretto alle mie gambe, quasi volesse
abbracciarmi o impedirmi di muovermi.
«Volete dirmi che cavolo sta
succedendo?» mi
decisi
a domandare, sull’orlo di una crisi di nervi.
Non ne potevo davvero più, quel giorno.
In risposta, però, mi giunsero ben due risate: una di
Edward, che aveva cominciato a sistemare ancora un po’ rose e
rampicanti; e
l’altra di Jason, che si staccò da me solo per
allontanarsi e tornare poco dopo
con un foglietto colorato.
Chiesi mentalmente pietà.
Non volevo più saperne di lettere e rose.
Solo in seguito mi accorsi che reggeva anche qualcos’altro,
un piccolo vaso da fiori decorato e dalla forma tondeggiante.
Difficile dire se fosse stato fatto interamente a mano o
sfruttando un po’ di sana
alchimia.
«Buona festa della mamma,
‘Ka-san», disse con
semplicità, e stavolta dire che ero allibito sarebbe stato
un eufemismo.
Anzi, feci fatica a credere alle mie orecchie, tanto
che mi scappò una piccola risatina che quasi
sfociò nell’isterico.
«State scherzando,
vero?» chiesi per
l’ennesima volta, quasi
sentendo un tic all’angolo della bocca.
Non era possibile, mi stavano sicuramente prendendo in giro.
Tutto quel da fare era esagerato, c’era qualcosa sotto. Ma
quando vidi Jason imbronciarsi ed Edward voltarsi verso
di me infastidito, dovetti ricredermi e scartare
quell’ipotesi.
Stavano facendo sul serio.
«Sei cattivo,
‘Ka-san»,
borbottò il mio moretto,
avvicinandosi offeso al tavolo per posare lì quegli
oggettini che aveva
portato, avvinghiandosi ad un braccio di Edward.
Adesso mi sentivo in colpa, proprio come un perfetto idiota.
E tutto quel profumo mi stava anche dando alla testa.
Che cosa avevo fatto di male per meritarmi
tutto ciò?
E pensare che, proprio quel mattino stesso, avevo definito
quella una giornata di routine.
Non l’avessi mai fatto, allora!
Aggrottai la fronte, vedendo Edward
confabulare con Jason a
bassa voce, in modo che non potessi sentire nessuno dei due.
In realtà non volevo minimamente sapere cosa si stessero
dicendo, visto le pieghe che, pian piano, stava prendendo quella
serata.
Se avevo fatto qualcosa di male, comunque, sapevo già come
sarebbe andata a finire: quella spaventosa premonizione che avevo avuto
in
ufficio, quando Jaz era corso via, sarebbe ben presto diventata una
realtà.
Ci avrei messo la mano sul fuoco.
Dovevo fare buon viso a cattivo gioco, allora.
Quindi mi avvicinai ad entrambi, tentando di dar sfoggio ad
uno dei miei miglior sorrisi.
«Mi hai fatto un bel regalo, Jaz», provai ad
ingraziarmelo,
non ottenendo però l’effetto sperato.
Difatti mi guardò giusto un
attimo, alzando il viso verso il
suo papà prima di farmi una linguaccia,
nascondendosi poi dietro ad
Edward con fare piccato.
«Non stai dicendo sul serio», rimbeccò,
e sentii il mio
biondino soffocare una risata.
Almeno qualcuno si divertiva, lì!
Io trovavo quella situazione estremamente irritante, più che
ilare.
«Davvero complimenti,
genio», mi sfotté
ironico lui,
vedendolo sollevare un angolo della bocca in un sorriso più
che sarcastico. «E
pensare che ci abbiamo messo mezza giornata per farti questa piccola
sorpresa».
I sensi di colpa aumentavano, perfetto.
Quel fagiolino sapeva toccare esattamente i tasti
giusti.
Gli scoccai un’occhiataccia, facendolo soltanto sorridere
maggiormente; non gli badai più di tanto, puntellandomi
sulle ginocchia per
essere quasi alla stessa altezza del mio moretto, semi-nascosto dietro
al mio
compagno.
«Mi ha fatto piacere questo regalo, dico davvero»,
tentai,
ancora una volta, di farmi ascoltare. «Ma non credevo di
certo che avresti
fatto qualcosa per la festa della mamma,
quest’anno».
Un bel paio d’anni fa, infatti, era rimasto parecchio
confuso a causa della sua maestra d’asilo riguardo questa
stessa festa.
Jaz borbottò qualcosa, per
nulla concorde, ma
alzò ancora una volta il capo per fissare negli occhi
Edward, come se volesse chiedere il suo consenso per chissà
cosa.
Il mio parere non valeva un bel niente, in quella casa.
«Coraggio, dai», gli disse, rassicurandolo.
«Ad Oka-san sono
piaciuti il regalo e la sorpresa».
Anche se non sembrò ancora
convinto, Jason si allontanò
da lui per
gettarmi le braccia al collo, affondando il visino nella mia spalla.
«Però non devi più dire che scherziamo,
‘Ka-san», bofonchiò,
tornando ad assumere quel cipiglio bambinesco che l’aveva
caratterizzato sin
dalla tenera età.
Alla mia risatina, si aggiunse anche
quella di Edward, che si
chinò a sua volta per carezzargli la schiena e abbracciare
poi entrambi. «Vi coccolerete dopo voi due, la cena si
fredda»,
ci ammonì
divertito, rialzandosi per posare lontano quella gran cesta di rose in
cui
avevano sistemato la loro composizione floreale.
Ne avevano di inventiva, però, bisognava farne atto ad
entrambi.
Adocchiai la sua figura che
preparava i piatti e ci
guardava di tanto in tanto, come ad invitarci ad accomodarci.
Strinsi ancora un po’ a me il mio moretto, scompigliandogli
la
zazzera mora nonostante sapessi quanto odiava quel modo di fare.
«La prima rosa che metterò nel vaso
sarà il tuo bocciolo,
d’accordo?» gli sussurrai in tono confidenziale ad
un orecchio, spassoso.
«Non diciamolo ad Oto-san, però».
Jason s’allontanò
un po’ da me per alzare poi
il visino e
guardarmi negli occhi, lanciando una rapida occhiata ad Edward che
aveva
cominciato ora a mettere da bere a tavola.
Tornò a guardare me, ritrovando il sorriso prima di portarsi
un ditino alle labbra.
Ricambiai e mi alzai, prendendo
finalmente posto a tavola
con lui.
Me l’ero cavata abbastanza bene, dovevo ammetterlo.
E messo poi a dormire Jason, il
nuovo sorriso che Edward mi rivolse mi lasciò con una bella
scossa
d’eccitazione; e non attraversò solo
la schiena, quel brivido.
Mi prese una mano per trascinarmi in
camera, non prima
di avermi solleticato con fare erotico il palmo con le dita.
La serata stava prendendo una piega che mi piaceva, adesso.
Dopo avermi fatto sedere sul bordo del letto, posò appena un
bacio sulla mia fronte, sfiorandomi le palpebre che lui stesso si era
premurato
di farmi abbassare; ma potei notare che anche lì, nella
nostra stanza, c’era un
piacevole odore che riempiva l’aria.
Qualcosa di vellutato, poi, mi carezzò la bocca, ma non
potei aprire gli occhi per sbirciare perché lui mi
ammonì con un “Shhh”.
Quel piacevole tocco continuò
su tutta la curva delle mie
labbra, spostandosi su una delle mie gote fino a scendere lungo il
petto.
Lì si fermò, ma sentii una delle mani di Edward
giocherellare con i bottoni della camicia quando mi liberò
della fastidiosa giacca
che indossavo; riprese poi a far vagare quel qualcosa sulla mia pelle,
passandola sul pomo d’Adamo prima di scivolare lungo il
petto.
Mi ritrovai inconsciamente a sorridere, soprattutto quando,
rimasto con il busto nudo, sentii il velluto vezzeggiarmi il capezzolo
destro. L’altro, invece, era sotto l’esperta
tortura
d’uno dei suoi
pollici.
Fu a quel punto che decisi di infischiarmene del suo divieto
e di aprire gli occhi, vedendolo con una delle rose che, in principio,
avevano
composto il suo bouquet.
Allargai il sorriso, reclinando di poco la testa
all’indietro quando sentii il mio biondino avvicinare anche
le labbra; leccò
appena l’aureola con la punta della lingua, alzando poi lo
sguardo per fondere
i suoi occhi con i miei.
Si mise a cavalcioni su di me, subito dopo, tornando a far
scivolare sul mio viso quel delicato fiore.
«Rossa significa passione, se
non sbaglio... giusto?»
mi
domandò, quasi volesse ricevere conferma.
Mi limitai ad annuire, cingendogli i
fianchi per
strofinare il naso fra i suoi capelli.
«Rossa è passione, esatto», risposi,
beandomi di quel dolce
contatto che stava sapientemente portando avanti. Tornò a
far scivolare la rosa e i suoi petali sulla mia
pelle, provocandomi nuove scosse d’eccitazione ogni qual
volta ne carezzava un
nuovo lembo.
Mi fece allontanare in modo da guardarmi in viso e se la
portò poi alle labbra, baciandone il centro con fare quasi
sensuale; l’afferrò
con i denti, subito dopo, chinando il viso verso di me come per
invitarmi a
prenderla con la mia, di bocca.
Feci attenzione a non pungermi con le
spine mentre
ricambiavo quella bizzarra forma d’erotismo, facendo
scivolare pian piano le
mani alla base della sua schiena.
Volevo una standing ovation per me, adesso.
Nonostante la situazione mi offrisse qualsiasi cosa su un
piatto d’argento, ancora non avevo fatto nulla di troppo
spinto, e lui sembrò valutare la stessa cosa, visto che si
lasciò sfuggire una piccola risata.
Mi toccò la punta del naso e allungò appena una
mano verso
la lampada sul comodino, creando un’intima luce soffusa
quando l’attenuò di
poco.
Potei notare solo in quel momento che aveva agghindato
anche la nostra camera di rose, sebbene fossero in netta minoranza
rispetto a
quelle della composizione floreale in sala da pranzo.
Era un unico tipo, stavolta, esattamente come quello che
ancora reggevo fra i denti.
«E non dire che poi non ti coccolo»,
bisbigliò, togliendomi finalmente quella rosa dalla bocca
per
lasciarla sul
letto per avvicinarsi al mio viso.
Ma, anziché baciarmi, s’alzò e
poggiò una mano sul mio
petto, facendo in modo che cadessi all’indietro sul
materasso.
Alzai il viso per guardarlo tra lo
scettico e il
curioso; aveva iniziato a giocherellare per l’ennesima volta
con i petali dei
fiori presenti in ogni dove, e solo di tanto in tanto mi lanciava una
bislacca
occhiata.
Sorrideva, certo, ma non sembrava intenzionato a finire quel
che aveva cominciato con me.
Mi puntellai sui gomiti, sorreggendo il mio peso prima di
corrugare le sopracciglia.
«Beh, che fai?» lo richiamai, provando ad avere la
sua attenzione.
«Ti fermi qui?»
Edward mi lanciò
un’occhiata,
allargando, se
possibile, maggiormente il sorriso.
Sbadigliava distratto, come se la cosa per lui contasse poco
o niente.
«Non posso mica esagerare, mammina»,
replicò,
lasciandosi sfuggire una sonora risata.
Avrei dovuto immaginarlo che si trattava di uno scherzo.
Fare sesso con Jaz in casa per due sere di fila era troppo,
per lui.
Ogni rosa aveva le sue spine, in fondo,
e quella canina sembrava
non fare eccezione.
Peccato che quella che avevo scioccamente raccolto io, avesse
anche le zanne e una gran voglia di
prendere in giro.
Buona festa della mamma avevano detto, eh?
_Note inconcludenti dell'autrice
Quella di oggi è una storia un po' speciale,
poiché nata per il contest “A
contest, a rose and a story!”
indetto
da RoyXEd
4ever [Roy Mustung sei uno gnocco],
e che si è piazzata sesta
classificata nonostante l'avessi io stessa considerata da
ultimo posto. Infatti non è una delle migliori che abbia mai
scritto, lo
ammetto... ma, siccome vi è la presenza di un caro
frugoletto che alcuni di voi
hanno imparato ad amare, anziché postarla come una shot a
parte
ho deciso di inserirla qui, in questa raccolta, accumulando le
esperienze.
Qual giorno migliore per postare questa storia, se non il giorno di
San Valentino anche se c'entra ben poco con la festa in questione? Ma
l'amore è amore tutti i giorni, no? Comunque sia, per questa
festa ho fatto qualcosa, anche se non
è una storia, e si tratta di questo disegno [Happy Valentine's Day?]
per un contest su DeviantART. Originariamente quel piccolo sketch
sarebbe dovuto essere una one-shot,
ma non avrebbe reso esattamente l'idea, secondo me. Quindi, se gli
darete un'occhiata, sarò ancor più
felice.
Qui di seguito alcune piccole spiegazioni e il commento della giudice:
Commento:
Ti dirò, quando ho letto il titolo sono rimasta
un
po’ confusa: credevo che tu avessi toppato
sull’elemento roseoso, credendo che ti
fossi concentrata sulla rosa Canina. Poi ho capito! Il finale mi
è piaciuto molto, proprio perché hai spiegato la
motivazione della rosa. Ma andiamo con ordine. La storia, sinceramente,
mi è piaciuta, ma d’altronde da te non mi potevo
aspettare altro. Tuttavia ci sono delle cose che non ho apprezzato
granché e, te lo devo dire, non è uno dei tuoi
lavori migliori. Perché ho notato troppe ripetizioni. Troppe
volte hai scritto “quel giorno?”. Poi ho notato che
nei punti in cui ci sarebbero dovuti essere i due punti, c'erano i
punti e virgola. Non se siano errori di battitura, dato che il punto e
virgola e i due punti sulla tastiera sono vicini, ma credo di no, visto
che l'errore è ripetuto molte volte. Per il resto, errori
grammaticali o di sintassi non ce ne sono più. Pensandoci
non sono riuscito molto bene a capire come fosse la composizione, ma
molto probabilmente è colpa mia. L'elemento roseoso
è buono, alla fine è proprio la Meillandina - la
nostra adorata Meillandina xD - che accarezza la pelle di Roy. Te l'ho
detto: una bella storia, come al solito, ma non so perché
sono convinta che tu avresti potuto fare di meglio. Grazie mille per la
tua partecipazione, è sempre un piacere leggere e valutare
le tue storie. Spero tanto che parteciperai al mio prossimo contest. ^^
- 9 punti alla grammatica;
- 8,8 punti all'originalità;
- 9,5 punti per lo stile;
- 8 punti per l'utilizzo dell'elemento roseoso;
- 4 punti al giudizio personale.
NOTE
SULLE ROSE:
1.
Canina _
Indipendenza, poesia, delicatezza
e piacere, sofferenza e dolore
2.
Bianca _
Silenzio, purezza, amore
spirituale, reverenza, segretezza, innocenza e
fedeltà
3.
Rossa _
Passione e amore, rispetto e coraggio
4.
Bouquet con rose rosse e bianche
_
Regalate
insieme significano unità
A
presto! ♥
Messaggio
No Profit
Dona l'8%
del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai felice
milioni di scrittori.
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Capitolo 27 *** [ Storia Fuori Serie ] Vecchie conoscenze ***
Heart burst into fire_Episode 27
Titolo: Vecchie
conoscenze
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 4086 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO 27:
VECCHIE CONOSCENZE
La
lieve e piacevole brezza primaverile rinfrescava il parco
in cui mi trovavo.
Seduto su una delle tante panche di legno presenti,
osservavo il mio piccolo cinquenne che giocava allegro sulle giostrine
insieme
agli altri bambini, con quel sorriso tipico dell’infanzia
disegnato sulle
labbra rosee. Sorridevo
anch’io a quel suo buon umore, controllando di
tanto in tanto il quadrante dell’orologio senza perderlo
d’occhio.
Erano quasi le quattro del pomeriggio. Mancava
più d’un’ora e mezza
all’arrivo di Edward, quindi
potevo lasciar giocare Jason ancora un po’ senza
interromperlo. Minuto di
più, minuto di meno, non avrebbe comportato
così gravi conseguenze. Al
massimo il mio bel biondino avrebbe atteso solo in casa per
un po’ o sarebbe venuto a scontrarci. Inspirai
a pieni polmoni il bel profumo di fresco che si
disperdeva nell’aria e la fragranza dei fiori, incrociando le
braccia al petto per
sedermi meglio sulla panchina a gambe accavallate. Non
c’era niente di meglio d’una giornata in
libertà, dovevo
ammetterlo.
«Roy-kun?» mi richiamò una voce
femminile, vagamente
familiare.
Accigliato, mi voltai nella direzione da cui proveniva,
focalizzando la figura d’una donna un po’ minuta. I capelli
ricci, d’un colore quasi ramato, le ricadevano in
boccoli sulle spalle, in gran contrasto con la camicetta azzurra che
indossava
e che metteva ben in risalto le sue forme. Portava
un paio di calzoni bianchi che s’abbinavano al
colore delle sue scarpe. Aveva un
non so che di familiare, ma... dove l’avevo
già
vista? Ci spesi
non più d’una manciata di secondi a
pensarci su,
ricordando in un lampo. A prima
vista non l’avevo riconosciuta, tanto era cambiata.
«Evelyn?» domandai in risposta nell'alzarmi
d’istinto, vedendola stirare le labbra
carnose in un sorriso divertito.
Diavolo, quant’era piccolo il mondo! Non avrei
mai pensato d’incontrare
una delle mie ex a South City. Era da
quasi quattordici anni che non la vedevo. Avevamo
frequentato per un po’
l’Accademia Militare insieme, prima che decidesse
d’abbandonarla per
intraprendere una strada verso un lavoro in cui era più
portata. Uscivamo
qualche volta insieme a quei tempi, giovani
diciottenni con la voglia di divertirsi. Anche una
veloce scappatella
ci aveva visti uniti, alla fine. Poi,
ognuno per la sua strada facendo finta che non fosse
successo nulla. Sorrisi
un po’ a quei pensieri di scellerato adolescente che
pensava più con altro
che con il cervello,
scuotendo la testa per schiarirla prima di indicare ad Evelyn la
panca,
come ad invitarla ad accomodarsi.
Lei non se lo fece ripetere due volte, sedendosi accanto a me
quando lo feci anch’io.
«Ti trovo in forma», mi disse con quella
voce dolce
che, negli anni, non era cambiata. «Sei sempre lo stesso
identico presuntuoso
d’anni fa?»
Quella sua domanda-affermazione mi
strappò una piccola
risata. In
effetti aveva pienamente ragione, ero ancora
il solito.
«Adesso ho una variante», ribattei semplicemente.
«Sono
anche spocchioso».
«Oh, quello lo sei sempre
stato!» esclamò divertita,
agitando non curante una mano.
Mi faceva un certo effetto ritrovarmi a parlare con lei,
poiché di solito
le donne che avevo frequentato non le rivedevo
più.
Chiacchierammo del più e del meno per svariati minuti prima
che ad interromperci fosse la vocina morbida di Jason che, stancatosi
delle
giostre, corse sgambettando verso di noi chiamandomi a gran voce. Mi
tirò i calzoni, forse per farsi prendere in braccio. Dimentico
per un attimo della presenza di Evelyn, concentrai
tutta la mia completa attenzione sul mio bambino,
facendolo sedere sulle mie cosce e cercando di pulirgli in qualche modo
il
visino sporco di terra, mentre tentava di allontanarmi un po’
la mano. Fu
più difficile di quanto pensassi, dato che non guardava
me, ma Evelyn.
«Ciao!» la salutò infine.
Vidi Evelyn sorridere a sua volta prima che si chinasse un
po’ verso di lui per carezzargli amorevolmente i capelli e
toccargli appena
la punta del naso.
«Ciao a te, ometto», disse lei, e la guardai un
pochino di
sottecchi. Ero
pronto a scommettere che avesse dei figli, anche perché
avevo adocchiato la fede. O era
semplicemente una dote delle donne quella di
dimostrarsi premurose e materne? «Ti
somiglia proprio, Roy-kun», soggiunse ancora,
vagamente divertita. «Non
pensavo che un dongiovanni come te avrebbe messo la testa a
posto».
«Che vuol dire “la testa a
posto”?» subito chiese la voce
del popolo, con quel tono che era solito
usare quando era
avido di sapere. In quel
momento volli maledire Ivy, che se la rideva
per una qualche strana ragione. Ah, le
donne... non le
avrei mai capite.
«Che bambino curioso che sei», disse lei in tono
spassoso,
facendo imbronciare un po’ Jaz.
«Non sono un bambino, ho già cinque
anni!» asserì orgoglioso, segnando i numeri
sulla punta delle dita della destra prima di mostrargliele bene, forse a
scopo dimostrativo.
Evelyn rise ancora, con garbo. «Ma
allora è vero che sei un
ometto!»
Jason gongolò tutto fiero, cominciando a cincischiare con i
bottoni della mia camicia senza calcolarci poi più di tanto. Guardai
lui e poi Evelyn, scuotendo un po’ la testa con fare
divertito.
«Mi verrebbe da chiedere se hai figli», le
confessai semplicemente, vedendola
sorridere ancora; si
sistemò distratta qualche ciocca di capelli,
accomodandosi meglio.
«Perché, è così
evidente?» ribatté, e stavolta fui io a
ridacchiare. «I miei due gemellini sono a casa
con il papà, stavo
giusto tornando».
«Non sapevo abitassi qui a South City».
«Ci abitano i miei genitori», mi spiegò
con rinnovata allegria, guardando
ancora una volta Jason. Si era
accoccolato sul mio petto e aveva cominciatro a strofinarci contro il
visino, come se fosse stanco, ma lo
vedevo muovere ancora la mano, stavolta catturando fra
le dita la catenella dell’orologio d’argento che
sporgeva dal taschino.
«Chi è la gran donna che è riuscita ad
accalappiarti?» sentii dire da
Evelyn, e riportai la mia attenzione su di lei sorridendo ancora un
po’. Tra tutte
le donne che avevo avuto, sicuramente lei era
stata la migliore. Non era
mai stata una di quelle che avrei definito galline,
era
sempre uscita dagli schemi. Un
po’ come Riza, se dovevo fare un paragone. Buon per
l’uomo che l’aveva sposata, doveva
ritenersi fortunato.
«Una bella biondina
tutto pepe», risposi, con il pensiero
che ormai volava
sulle forme del mio fagiolino. Messo a
letto Jason, mi sarei divertito, quella sera. E non
volevo sentir ragioni, ero in
astinenza da troppo.
Evelyn rise, quella classica risata giocosa e maliziosa delle donne.
«Deve avere proprio il pugno di ferro se è
riuscita a domarti!» esclamò in tono
spassoso, e a quella
sua innocente espressione non potei davvero fare
a meno di scoppiare a ridere a mia volta, divertito a dir poco. Aveva
centrato in pieno il punto: un bel pugno
d’acciaio era quello che rimediavo ogni qual
volta facevo l’idiota.
«Oh aye, si può dire che in casa comandi lei», dovetti
convenire, senza smettere di sorridere. Ero
sicuro che, se fosse stato lì, Edward se
la sarebbe sì presa perché gli stavo dando della
donna, ma avrebbe anche fatto
una faccia soddisfatta. Stavo
ammettendo che era lui il capo
in casa, quindi...
Sentii una piacevole risata provenire nuovamente da Evelyn,
e la vidi osservare ancora una volta Jason senza fare commenti o altro.
«L’ho sempre detto che avresti trovato pane per i
tuoi denti», commentò,
ricevendo da Jaz uno sguardo e un sorriso prima che lui allungasse una
manina
verso di lei. Curioso
quanto Ivy, lo guardai, notando che aveva adocchiato
la catenina d’argento appesa al suo collo. Era un
ciondolo a forma di cuore, vicino al quale era
accostato anche un anello. Forse
quello di fidanzamento o altro, non avrei saputo
dirlo. Mi
ritrovai però ad arrossire un po’ quando
l’occhio mi
cadde sul suo seno e, facendoci caso, sentii lei ridere ancora una
volta.
«Ehi, stallone, non
sei cambiato affatto, eh?» mi prese in giro, facendomi
imporporare più del dovuto e distogliere in fretta e furia
lo sguardo.
Anche Jason mi guardò, posandosi un dito sulle labbra.
«Perché sei rosso, ‘Ka-san?»
mi chiese, dimenticandosi per l’ennesima volta di
chiamarmi papà quand’eravamo
in giro. Richiamò
così l’attenzione sconcertata di Evelyn, ma
mi evitò almeno di rispondere alla sua domanda fuori luogo.
«‘Ka-san?» ripeté lei, come se
non se ne capacitasse.
Mi grattai la testa voltandola altrove per non guardarla,
cercando di trovare una scusa plausibile per il modo in cui ero stato
chiamato, ma non me
ne veniva in mente nessuna. «Ecco,
vedi...» cominciai, ma venni interrotto da
Jaz che, come un fulmine, mi
aveva strattonato la camicia ed aveva poggiato i piedi a terra per
correre via. Mi alzai
di scatto per inseguirlo ma, poi, lo vidi.
«‘To-san!» esclamò tutto
contento il mio moretto,
saltandogli in braccio. Io,
invece, adocchiata la persona che era con il mio
compagno, ne approfittai per scappare e diedi le
spalle ad Evelyn, muovendo qualche passo.
«Fermo lì, Roy Mustang!» mi
bloccò una voce, e non era
quella di Edward.
Mi voltai come un automa, non riuscendo a sostenere gli
sguardi di nessuno dei tre. Persino
Jason mi osservava con quel solito ditino sulle
labbra. Figlio
traditore!
Ridacchiando nervoso e come un ebete, ritornai sui miei
passi, venendo immediatamente fulminato da due sguardi penetranti. Edward
sembrava vagamente incazzato e
gettava occhiatacce ad Evelyn, che sbatteva perplessa le ciglia come se
non
capisse la situazione. Ero
pronto a scommettere che, se avesse potuto, il mio
biondino l’avrebbe incenerita. Lo
sguardo peggiore, però, me lo stava rivolgendo mia madre. Aye,
esattamente... mia madre. Aveva gli
occhi infuocati, l’avevo vista così
soltanto
quand’ero poco più d’un bambino di nove
anni ed aveva litigato di brutto con
uno dei suoi amanti.
«Mamma, Edward...» feci con un tic nervoso
all’occhio,
deglutendo.
Gli sguardi non cambiarono di una virgola, anzi, si
intensificarono. A passo
di marcia, mia madre si avvicinò, pungolandomi il
petto con il solito dito tempestato di brillanti anelli. «Figlio
degenere!» esclamò. «Una povera
donna
come me passa a trovarti e cosa vengo a sapere?! Che
ti hanno trasferito in questo sputo di
città?!»
Ecco, ti pareva...
l’avevo anche annotato che avrei dovuto chiamarla per
avvertirla, e a lei
quand’è che veniva in mente di andare dal
figlio? Semplice:
dopo due anni di trasferimento. Gettai
un’occhiata ad Edward, ancora in silenzio con Jaz tra
le braccia, e poi ad Evelyn. Che cazzo
di giornata, quella! Non me ne
potevo andare a lavoro come ogni mattina, no... doveva
venirmi la brillante idea di passare un po’ di tempo
con Jason al parco giochi.
Maledizione a me e alla mia stupidità...
Prima che potessi provare in qualche modo a replicare, mia
madre parve finalmente accorgersi della presenza di Evelyn - rimasta a
sua volta in silenzio nonostante avesse
cercato di dire
qualcosa - e, con occhio critico, la squadrò,
lasciando poi che
un’espressione sorpresa le si dipingesse sul viso
perfettamente truccato.
«Evelyn, cara!» esclamò tutta pimpante,
dimentica di me. «Non ti avevo
proprio riconosciuta! Sono anni che non ti vedo, tesorino! Stai
benissimo!»
Resistetti all’impulso di ficcarmi un dito in gola e
vomitare. Quando
faceva così, utilizzando quella voce, diventava
stomachevole, e a
giudicare dal viso di Edward, avrei giurato che stesse
pensando la stessa cosa.
Ivy sorrise, inclinando un po’ la testa di lato.
«Anche lei, signora Angelica, ha sempre il
bell’aspetto d’una volta»,
ribatté
cordiale, e dovemmo assistere a quello scambio di convenevoli tra donne
per ancora
parecchio tempo. Poi,
ciarliera e divertita, mia madre s’allontanò
da noi
e si portò via anche Evelyn, accomodandosi con lei e
ricominciando a
chiacchierare
come due vecchie amiche.
Io rimasi solo con Jason ed Edward. Quel suo
sguardo dorato sembrava ardere, e nel vero
senso della parola! «Chi
è quella?» mi chiese con voce
esageratamente pacata, ed era
quando aveva quella sfumatura che dovevo cominciare a
preoccuparmi sul serio.
Mi grattati una guancia, sforzandomi di sorridere nonostante
quegli occhi infuocati. Jason
faceva saettare la sua attenzione da me a Edward, come
se cercasse di capire quello che stava succedendo fra noi.
«Ehm... una vecchia compagna
d’Accademia», me ne uscii, vedendo il suo
sguardo assottigliarsi.
S’issò meglio fra le braccia Jaz, assumendo un
cipiglio a
dir poco sarcastico.
«Solo?»
chiese, ignorando la
manina del
nostro moretto che cominciava a giocherellare con i suoi capelli.
Ancora più a disagio, indietreggiai un po’. Meglio
tenersi fuori dal suo raggio d’azione.
«Una... amica?» provai, rendendo la
mia affermazione una
domanda. Lo
sguardo di Edward si intensificò maggiormente mentre una
mano
allontanava quella di Jason, che vidi subito dopo imbronciarsi per quel
modo di
fare. Non
c’era scampo, mi toccava rispondere nonostante mi
immaginassi già la reazione. Addio
serata bollente fra le candide lenzuola. «D’accordo,
d’accordo...» cedetti, ritrovandomi a
deglutire. «É una mia ex...»
A quella mia confessione, lui sollevò un sopracciglio. Il suo
viso sembrava rosso, e non per
l’imbarazzo.
«Ah... una tua ex»,
commentò, prima che
gli occhi di Jaz si
appuntassero su di lui. Lo
guardava incuriosito, soppesando attentamente il suo
colorito.
«Anche tu sei rosso, ‘To-san...» fece
innocente, e fu per
miracolo che resistetti all’impulso di strapparlo dalle
braccia del mio
compagno e correre via il più lontano possibile prima che
potesse dire
qualcos’altro. Sperai che
Edward non dicesse nulla e non chiedesse niente, ma, come
al solito, le mie speranze furono vane.
«Rosso?» gli domandò, perdendosi in quei
laghi azzurri.
Annuendo energico, Jason mi indicò con un ditino, muovendosi
un po’ fra le sue braccia. «Anche
‘Ka-san è diventato rosso,
prima», parve spiegargli. «Guardavamo
la collana della signorina ed è diventato rosso».
Gli occhi di Edward si spostarono dal viso di Jason fino ad
Evelyn, adocchiando con aria tutt’altro che tranquilla la
camicetta che
indossava.
D’accordo, ammettevo che se si guardava bene si vedeva
più
del dovuto, ma... «‘Ka-san
non guardava la collana,
Jaz», fu il lapidario
commento di Edward, che fermò anche i miei pensieri.
«Guardava un altro tipo
d’accessorio».
Ciò detto, con espressione
impassibile, mi
sorpassò e si accomodò a sua volta sulla
panchina, senza
degnare me di
uno
sguardo. Aveva
fatto sedere Jaz sulle ginocchia, facendo finta che
oltre a lui non esistesse nessun altro; però,
quando Evelyn gli rivolse la parola rispose, con il
sorriso dipinto in volto, cominciando a chiacchierare animatamente e
facendola ridere
subito dopo. Mi
guardò, a sua volta con un sorriso sulle labbra.
Perché prevedevo guai soltanto per me? La
risposta era ovvia. Quando
succedeva qualcosa, la causa ero sempre io, indiscutibilmente
vero.
Come un cane bastonato, mi riavvicinai a loro, tenendomi
sempre a debita distanza. Era
meglio stare lontani dal leone,
in quel momento.
«Roy-chan, vieni qua e siediti», mi
richiamò mia madre,
picchiettando il lato vuoto della panchina.
Però scossi la testa come un bambino, soprattutto quando
vidi che il posto libero era proprio accanto ad Evelyn. Ci
mancava solo quella...
«Vada a sedersi, Generale»,
rincarò
la dose Edward, chiamandomi con il mio grado e parlandomi in tono
esageratamente formale. Nemmeno
quando non stavamo insieme aveva mai usato quella voce. Cazzo,
era incazzato davvero.
Stringendomi nelle spalle, strascicai i piedi, ma mi
avvicinai soltanto, senza sedermi. Presi
invece il mio orologio d’argento, controllando
l’ora.
«Come si è fatto tardi», feci,
sperando che mi
lasciassero andare. «Credo sia ora di tornare a casa, Jason
deve mangiare...»
«Ma no, Roy-kun, tua madre e il tuo compagno mi stavano
raccontando così tante
cose...» ribatté Ivy, con voce un
po’ imbronciata.
Stavo per rispondere, quando in un secondo momento mi accorsi di una
cosa. Sbagliavo
o aveva detto... il mio compagno? Ecco
spiegato il perché della sua risata...
l’aveva presa bene, a quanto sembrava. Chi dei
due glielo avesse detto era un mistero, oppure il
termine compagno era retorico e voleva solo
intendere sott’ufficiale? Era
meglio non indagare su quella cosa e lasciar passare
quelle parole.
Così, fui costretto a sedermi e a sorbirmi gli sguardi di
Edward fino alla fine della chiacchierata. Era quasi
il tramonto quando Evelyn ci salutò, tornando a
sua volta a casa dopo aver scoccato un bacetto sulla guancia a Jason
che le
sorrise, agitando una mano.
Nel mio appartamento, l’atmosfera era diventata
opprimente. Seduti
tutti a tavola, mangiavamo, o almeno mia madre
mangiava, mentre io non riuscivo a mandare giù nemmeno un
boccone. Edward
faceva invece mangiare Jaz, che giocava divertito. Quelle
rare volte che il mio biondino veniva a South City,
Jason se ne approfittava quanto poteva. Quando fu
l’ora di dormire fu sempre lui ad infilargli il
pigiama e a coricarlo a letto, tornando poi in cucina con quella solita
espressione vacua.
«É stata una bella sorpresa trovare Evelyn, vero,
Roy-chan?»
subito attaccò bottone mia madre, proprio per farlo apposta. Siccome
lei e Edward non avevano un buon rapporto se ne
approfittava per provocar zizzania.
É tua madre, mi
ripetei, non puoi darle fuoco. Ma, cazzo!
La voglia era tanta!
«Oh aye, una sorpresa davvero splendida», rispose
per me
Edward, tornando ad accomodarsi prima di lanciarmi
un’occhiataccia. «É una
donna davvero simpatica, Roy-chan».
La cosa stava degenerando, se mi chiamava anche lui in quel
modo. Deglutii
ancor più a disagio, trovando l’acqua che
stavo
sorseggiando fin troppo calda. Anche per
quella mi si era chiuso lo stomaco, perfetto.
«Ci
ha fatto vedere anche le foto dei suoi figlioletti, non
erano due amori?» riprese mia madre senza dar il minimo peso
a Edward,
riempiendosi ancora il bicchiere di liquore. «Sarebbero stati
proprio due
angioletti come nipoti!»
Sentii il sinistro crepitio del vetro e vidi Edward con la
mano serrata sul suo, di bicchiere. Lo
stringeva con l’auto-mail e, se avesse
stretto ancora, l’avrebbe fatto a pezzi.
«A differenza della loro nonna», replicò
lui, con una voce
che mi parve gutturale e davvero spaventosa. «O del loro papà», soggiunse,
scoccandomi un’ennesima occhiataccia.
Perché mi trovavo intrappolato fra due fuochi?
Perché proprio io, maledizione?! In quel
momento io, l'alchimista di fuoco, avevo il
terrore di restare bruciato. Un punto
per me o un punto per loro? Sarebbe
stato difficile dirlo.
«Io non direi, invece», fece ancora mia madre dopo
aver
ingollato un sorso di whisky.
Perché avevo come la vaga impressione che si stessero
sfidando con lo sguardo, adesso? Forse
perché era veramente così.
Continuarono con quel botta e risposta per un tempo che non riuscii
a definire e durante il quale io non misi bocca, sentendo solo una
forte e
prepotente emicrania.
Quando finalmente tutto tacque e ognuno
se ne andò a
dormire, era quasi mezzanotte. Dopo aver
preso qualcosa per far passare il mal di testa ero
andato a controllare Jason, trovandolo saporitamente addormentato nel
suo
lettino con il suo solito pupazzo stretto al petto. Quel
coniglietto non lo lasciava mai. Sorrisi e
gli scompigliai affettuosamente i capelli prima di
uscire in corridoio, dove gettai poi un’occhiata nella mia
camera, ormai
diventata proprietà di mia madre. Andava
sempre a finire in quel modo, tanto. Il divano
letto nel soggiorno invece se l’era accaparrato
Edward, cacciandomi anche da lì. Gli avevo
chiesto dove avrei dormito, e lui se n’era uscito
con un “Dormi sul tavolo della
cucina.”
Mi trovavo quindi seduto su una sedia a sfogliare qualche
libro, uno di quei tomi pesanti che mi avrebbero permesso di
addormentarmi anche
in quella posizione scomoda, però
sembrava che non riuscissi a prendere sonno nemmeno con
quelli. Ero un
vero e proprio caso disperato.
Sbuffando, mi scompigliai i capelli, passando non so quanto
tempo a leggere pagine su pagine. Erano
quasi le due passate quando sentii la presenza di
qualcun altro nella cucina.
«Ancora sveglio, idiota?» mi salutò
la voce di Edward in
tono sarcastico, facendomi voltare
appena verso di lui prima di chiudere il libro.
Sbadigliai, ma non avevo sonno. Era solo
la noia.
«L’idiota in questione non riesce a
dormire», ribattei con
lo stesso tono, decidendo di non dargli peso e far finta di nulla. Okay, mi
stavo comportando come un bambino... ma anche
lui non doveva farmi quella scenata di gelosia, che
diamine!
«Non dormiresti nemmeno se ti tramortissi»,
replicò ancora una volta il mio
compagno, scostando una sedia per accomodarsi. Quel suo
sguardo non era cambiato di una virgola. Mi
ritrovai a sbuffare e a distogliere il mio,
imbronciandomi. Che avrei
dovuto dire, in mia discolpa?
Assolutamente nulla. «Sei
un cretino, sappilo», mi richiamò
ancora lui, e mi voltai per osservarlo. «Non credevo ti
interessassero
ancora i seni
prosperosi».
Borbottai fra me e me. Un attimo
di debolezza e via, venivi
subito catalogato come infedele per aver solo
guardato. «Non
ho detto che mi interessano», trovai
finalmente il
coraggio di parlare.
«Però hai guardato», fece subito,
stroncandomi qualsiasi
altra parola.
«Non farmi un’altra scenata di gelosia,
adesso».
«Io? Scenata di gelosia?» ripeté
scettico, arcuando un sopracciglio. «Non ho alcuna
intenzione di fartela, ma se vuoi trastullarti con le tue ex o altre
fammi il
favore di non portarti Jason».
Ahi, ahi, ahi...
cos’erano adesso quelle parole? Che
credesse che incontravo donne, lì a South City? Mi voltai
verso di lui, serio in volto. «Guarda
che hai capito male», ci tenni a precisare.
«Avevo
portato Jaz a giocare, lei è capitata nel parco per
caso».
«Adesso si dice per
caso?» chiese sgarbato,
con’inconfutabile nota amara nella voce.
«Ed, sto dicendo davvero, perché dovrei
mentirti?» fu il mio
turno di domandare.
Sollevò di nuovo un sopracciglio, forse con aria
pensosa. Prima che
potesse aprir bocca, però, gli poggiai un dito
sulle
labbra, decidendo di prender parola io. Non
volevo che credesse cose non vere sul mio conto.
«Due anni fa, prima di lasciare Central, ti ho detto che non
ci sarebbe stato
nessun altro, no?» gli dissi, riprendendo quel vecchio
discorso. «Perché allora
vuoi dipingermi in questo modo?»
Allontanò il mio dito con fare un po’ nervoso,
corrugando le
sopracciglia come offeso, ma avrei
dovuto esserlo io! «Perché
sei un libertino senza
speranza...» ribatté piccato,
imbronciandosi.
Però vedevo che, pian piano, stava lasciando cadere quella
maschera acida che si era creato.
Mi ritrovai in piedi ancor prima che me ne rendessi conto, andando ad
abbracciarlo, e lo sentii
irrigidirsi un po’, come sorpreso.
«Sei uno scemo...» bisbigliai, chinandomi
verso il suo
orecchio. «Come puoi pensare che riesca a trovare altrove
qualcuno con il tuo
bel culetto?» Provai ad
alleggerire la tensione in quel modo, e fui lieto
di sentire appena uno sbuffo divertito.
«Sempre il solito, eh?» fece lui in risposta,
voltandosi
appena per incrociare il mio sguardo. «Ma guarda che ci vuole
più di qualche
bella parola con me». E dopo
quella sua constatazione, non potei fare a meno di
stirare le labbra in un sorriso ancor più grande e vagamente
malizioso.
Gli sfiorai il lobo con le labbra quando mi chinai ancora,
sentendolo trattenere un fremito.
«E chi ha detto che ho solo le parole a mia
disposizione?» replicai, in un
rauco sussurro che fece vibrare contro di me il suo corpo. Feci
scivolare una mano lungo tutta la bianca canotta che
indossava, sentendo la consistenza dei suoi capezzoli nascosti alla
vista
indurirsi sotto il tocco delle mie dita. Gli
sfuggì dalle labbra un sospiro mentre, sempre
più piano,
scendevo a carezzargli poco al di sotto del petto fino a scendere ancor
più
giù.
Inarcò la schiena afferrando il mio pigiama, poggiando la
testa contro di me quando cominciai a sottoporlo ad una lenta e
lussuriosa
tortura. Un gemito
gli salì alla gola quando intensificai il
contatto, lasciandolo paonazzo.
«Maledizione a te... Roy Mustang»,
ansimò,
stringendosi fra le mani un lembo del mio pigiama.
«Approfitti del fatto che
non... lo facciamo da tanto...»
Ridacchiai contro la sua pelle divertito, senza interrompere
quelle carezze.
«L’amore è anche guerra...» lo
presi in giro, succhiandogli il
lobo per stuzzicarlo con i denti prima di allontanarmi e soffiargli
nell’orecchio. «E in guerra serve
strategia...»
Lo sentii apprezzare quel mio tono e quel mio modo di fare,
sorridendo piacevolmente soddisfatto quando un bel peso morbido
s’assestò
vulnerabile contro il mio palmo. «Sul
divano letto», fece imperativo Edward,
ansimante e
rosso in viso. «Subito».
Non me lo feci ripetere due volte.
Allontanai la mano per permettergli di alzarsi e, nonostante
le gambe malferme, si spinse contro di me baciandomi con trasporto,
spingendomi
lui stesso fino al soggiorno. Gettatomi
sul divano, s’avventò vorace sul mio
collo,
lasciando che il suo piacere strusciasse silenzioso contro di me.
Sorrisi. Qual modo
migliore per farsi perdonare, in fondo?
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Capitolo 28 *** [ Storia Fuori Serie ] Letture notturne e rare mattine ***
Heart burst into fire_Episode 28
Titolo: Letture
notturne e rare mattine
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 2171 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Commedia
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO 28:
LETTURE NOTTURNE E RARE MATTINE
Mi
costrinsi ad aprire gli occhi con un mugolio, sentendo
una vampata di calore investirmi il viso. La notte,
il caldo che si pativa a South City era
terribilmente afoso; anche con
tutta la finestra spalancata, non un alito
di vento entrava a portare refrigerio.
Assonnato sentii qualcosa contro di me e, quando chinai lo
sguardo, scorsi la testolina mora di Jason, accoccolato fra le mie
braccia con
uno dei suoi pupazzi. Sembrava
aver caldo anche lui visto l’espressione del viso,
ma non aveva intenzione di sciogliere l’abbraccio, dato il
modo in cui mugugnò
infastidito quando cercai di fargli allentare la presa. Quel che
mi rimase da fare fu solo trarre un lungo sospiro sconsolato e sperare
che mi riaddormentassi alla
svelta, ma l'afa era
insostenibile e rendeva il tutto
più
difficile. Quel che
era peggio, era che non potevo muovermi per non
svegliare anche Jaz.
Riuscii a girarmi un po' e affondai il viso nel
cuscino, sentendo le sue braccia stringermi maggiormente i fianchi. Dopo
poco, mi ritrovai letteralmente in faccia il pupazzo che
si era portato dietro, poi le sue mani cominciarono a scuotermi
delicatamente,
simbolo che si era svegliato.
«‘Ka-san...» mormorò nella
penombra, tirandomi qualche
ciocca di capelli per provare a richiamare la mia attenzione.
Corrugai le sopracciglia senza aprire gli occhi, sdraiandomi
a pancia in giù libero dal suo abbraccio.
«Torna a dormire, Jaz...» borbottai,
provando a
riprendere sonno, ma sentii
di nuovo il suo pupazzetto poggiato su una mia spalla. Subito
dopo avvertii anche le sue mani, piccole e calde.
«Fa caldo per dormire, ‘Ka-san...» si
lamentò con voce
morbida, tipica dei bambini della sua età. Ancora
non ci credevo che fossero passati quasi quattro anni,
dacché ci trovavamo lì a South City a vivere
senza Edward. E lui era
rimasto un adorabile frugoletto.
«Non ho più sonno...» aggiunse,
ricominciando a scuotermi.
Con un ennesimo mugolio, voltai la testa nella sua direzione,
scorgendo a malapena il suo viso al di sotto della mia frangia
nera; mi portai
una mano fino alla testa e me la
scostai, ravvivandomi i capelli all’indietro.
«É ancora notte...» mi lagnai in
risposta, come se fossi io
il bambino e non lui. «Domani hai scuola, Jaz, chiudi gli
occhi e mettiti a
dormire».
«Ma non ci riesco,
‘Ka-san...» cominciò a
brontolare, ristringendosi nuovamente al petto il suo orsacchiotto e
imbronciandosi.
Mi ritrovai a distendermi ancora una volta di schiena,
strofinandomi il viso con una mano prima di guardare lui, con le
palpebre mezze
abbassate. Avevo un
sonno bestiale e lui invece sembrava più sveglio di
me.
Gli anni si facevano sentire, forse? Sperai
vivamente di no.
«Sforzati, Jaz, andiamo...» mi ritrovai a
pregarlo, sbadigliando
sonoramente. «Domani ‘Ka-san deve andare a
lavoro, e tu invece a scuola».
Lo vidi imbronciarsi maggiormente e cominciare a
giocherellare con il suo pupazzo, grattandogli la pancia o
carezzandogli le
orecchie.
«Ma se domani non ci siamo, chi aspetta
‘To-san?» mi chiese, cambiando discorso.
Stavolta sospirai invece di sbadigliare, costringendomi con
tutta la forza di volontà che possedevo ad aprire
completamente gli occhi
e guardarlo in viso. Gli feci
cenno d’avvicinarsi nuovamente, perché ad
alzarmi
non ce l’avrei fatta. Troppo,
troppo stanco. Si
accoccolò ancora una volta fra le mie braccia scostandosi
la frangetta corvina, sempre stringendo a sé
l’orsacchiotto di peluche.
«Domani Oto-san verrà direttamente a lavoro,
Jaz», gli
dissi, trattenendo uno sbadiglio. «Non passerà per
casa, tornerà con me».
Come spiegazione non era un granché, ma sembrò
bastargli. Non mi
chiese altro e restò in silenzio, e quasi credetti si
fosse riaddormentato. Nemmeno
controllai che avesse chiuso gli occhi, abbassai
solo le palpebre cercando di tornare a dormire e riprendere il mio bel sogno. Il
protagonista era Edward, e avevo
detto tutto. Ma non ci
riuscii, riaprendo presto gli occhi. Se fossi
stato solo, magari, avrei pure continuato. Non fu
solo quello a frenarmi, però, ma anche Jaz che,
ripreso a scuotermi, mi chiamava insistente alla realtà dal
mio regno di tepore
sonnolente.
Lo guardai di nuovo, sbadigliando per l’ennesima volta.
«Jaz, ti avevo detto di dormire...» borbottai,
strofinandomi
un occhio con il dorso della mano. Si trovava
in ginocchio sul materasso adesso, e aveva il
viso più imbronciato di prima.
«Leggiamo il nostro libro, ‘Ka-san?» mi
domandò con voce sottile e ovattata,
quasi cercasse di essere il più silenzioso
possibile.
Avrei sicuramente imprecato, se non mi fossi morso l’interno
della guancia. Odiavo
farlo davanti a lui. Non
volevo prendesse cattive abitudini ma, cavoli,
l’avrei fatto davvero tanto ero esasperato! Volevo
soltanto dormire e aspettare il giorno seguente,
così,
almeno per quel mese, i miei sogni non sarebbero più stati
tali. Mi facevo
pietà da solo. Ancora una
volta mi strofinai un occhio, incontrando i suoi
azzurri, e cedetti,
come mio solito, a quello sguardo così semplice
ma intenso.
«E va bene, prendi il libro...» bofonchiai, troppo
stanco
per contraddirlo.
Con un sorriso, mi scoccò un
bacio sulla guancia e scese
svelto dal materasso, sgambettando in direzione della piccola
biblioteca che
avevamo e
tornando subito dopo con uno dei tanti libri d’alchimia che
gli avevo comprato
fra le braccia.
Mi drizzai a sedere, sbadigliando
ancora, nell’esatto
momento in cui lui si gettò sul letto e me lo porse, sempre
sorridendomi. «A
che capitolo siamo arrivati?» gli chiesi,
vedendolo girare le pagine
distratto. Anche se
sapeva leggere benissimo, a volte voleva che fossi
io a farlo. Specialmente
quel libro, che ormai stavamo leggendo insieme. Trovata
la pagina giusta, lo girò verso di me e me lo porse,
picchiettando sul titolo.
«I diversi usi dell’alchimia e le varie
provenienze», disse,
come se stesse intrattenendo un altisonante discorso con uomini
acculturati. Nessuno
avrebbe mai detto che aveva soltanto sette anni o
poco più.
Guardandolo ne dimostrava un po’ meno, certo, ma quando
cominciava a parlare d’alchimia erano tutte un
altro paio di maniche. Dire che
ero orgoglioso sarebbe stato poco.
Un po’ più sveglio,
gli sorrisi di rimando,
poggiando la
schiena contro la testata del letto.
«Dobbiamo leggere questo qui, allora?» domandai
ancora, vedendolo annuire. Ben
presto me lo ritrovai ancora stretto a me, infilandosi
sotto il mio braccio quando me lo alzò. Sorrisi un
po’, nostalgico, proprio
come quella lontana notte di anni addietro in cui
ci trovavamo tutti e tre insieme.
Mi imposi di non pensarci oltre, anche perché avevo sentito
un groppo in gola ben poco rassicurante. Forse
avrei pianto se l’avessi fatto, chi poteva dirlo, euindi
diradai ogni pensiero, concentrandomi sulla lettura
di quel libro. Me lo
sistemai per bene sulle cosce, con lo sguardo di Jaz
puntato a sua volta sulle pagine.
Schiaritomi la gola, altro non mi toccò che iniziare a
leggere.
«In altre Nazioni, il processo alchemico si fonda sui cinque
elementi e i due contrari, precisamente yin e yang, associati alla luna
e al
sole e rappresentanti la parte passiva e femminile, e la parte attiva e
maschile...» cominciai, sentendolo farsi più
vicino a me.
Leggevo per lui concentrandomi e interessandomi a mia volta,
scoprendo anch’io i vari usi che venivano fatti
dell’alchimia nei svariati
luoghi d’Amestris se non in altre Nazioni. Cerchi
alchemici per curare le ferite, per ottimizzare il
flusso sanguigno, molte e
varie cose e via discorrendo. Jason
cominciò a pormi domande come suo solito,
interrompendo
così la mia lettura per placare la sua insaziabile sete di
conoscenza e la sua
curiosità, ma una
fra le altre mi stupì.
Mi guardò serio, corrugando un po’ le fini
sopracciglia
scure.
«Perché non mi insegni mai l’alchimia,
‘Ka-san?» mi chiese, con il volto
particolarmente interessato mentre abbandonava per poco la
lettura in cui
ci eravamo tuffati.
Non seppi cosa rispondergli. Il
perché non gliela insegnassi, non lo sapevo nemmeno io. Sapevo
bene che era portato per praticarla e che avrebbe
anche imparato in fretta, ma
c’era un qualcosa che mi frenava e non capivo quale fosse
la ragione. Forse a
disagio, mi passai una mano fra i capelli, guardando
altrove.
«Vedi, Jaz, non sono un bravo
insegnate...» cominciai,
come se quella cosa spiegasse tutto. «Mi piacerebbe
insegnartela, ma non saprei
proprio da dove cominciare...»
«I libri non la insegnano bene?» chiese ancora,
rapendomi lo
sguardo con quegli occhioni azzurri.
Allungai una mano verso di lui e gli scompigliai piano i capelli,
vedendolo
arricciare contrariato il naso quando alcune ciocche gli finirono in
viso.
«Alcuni insegnano le basi», gli spiegai, quasi
eloquente. «Ma
ci vuole soprattutto pratica».
«Allora domani me ne compri
uno?» domandò speranzoso, e non potei
dirgli
di no.
Ancora una volta, gli scompigliai la zazzera mora, ritrovandomi
a sorridere.
«Prima di tornare a casa, io e Oto-san passeremo in libreria,
okay?» dissi, e ridendo spensierato mi saltò al
collo, facendomi sfuggire
il libro di mano.
«Quindi posso iniziare, vero?»
Ero un po’ restio, certo, ma se
voleva imparare non potevo mica impedirglielo.
Così acconsentii, abbracciandolo prima che, incitato da lui,
ricominciassi la mia lettura. Se ne
andarono un bel po’ d’ore, e forse fu solo
dopo l’alba
che ci addormentammo, l’uno abbracciato all’altro
con il libro ancora aperto
sulle mie gambe.
A stuzzicarmi e a risvegliarmi parzialmente, fu un raggio di
sole che filtrava dalla finestra e una voce insistente che mi chiamava;
avevo
sentito altri rumori e mi venne naturale
agitare un po’ una mano, scocciato. «Jaz,
Oka-san è stanco, lasciami
dormire...» borbottai,
continuando a muovere la mano nel vuoto mentre cercavo di
riaddormentarmi, ma fui
costretto ad aprire gli occhi quando un paio di
labbra si posarono sulle mie. Morbide,
piene. Quelle
labbra che ormai conoscevo bene.
Scombussolato, le sbattei, drizzandomi un po’ a mezzo busto
per sorreggere il mio peso su un gomito, mentre con una mano mi
scompigliavo i
capelli. Jason
dormiva ancora accanto a me, abbracciato però al suo
orsetto. Guardai
Edward, come se non me ne capacitassi.
«Non avevi detto che... saresti venuto al
Quartier Generale?» gli chiesi tra uno sbadiglio
e l’altro,
scorgendo fra le ciglia offuscate da qualche lacrima il suo viso
sorridente.
Edward si sedette sul materasso con delicatezza, probabilmente per
evitare che Jaz si svegliasse. «Ci
sono stato, al Quartier Generale», mi disse,
allargando
il sorriso. Senza
capire, mi grattai la testa, cercando di mettere a
fuoco le sue parole, ma ero
troppo stanco per riuscirci.
«Abbiamo anche provato a rintracciarti, sai?»
continuò con tono più ironico. «Il
telefono ha squillato a vuoto per una buona decina di minuti, prima che
decidessi di venire direttamente qui».
Sollevai un sopracciglio, drizzandomi stavolta a sedere. Un altro
sbadiglio mi scappò, e mi coprii la bocca con una
mano. «Ma
che ore sono?» chiesi, strofinandomi entrambi
gli occhi come un bambino.
Si sporse un po’ verso di me sfiorandomi ancora una volta le
labbra con le sue, controllando prima che Jason stesse ancora
dormendo. «Le
undici passate», rispose semplicemente, e a
quel punto
sgranai gli occhi.
«Miseria ladra!» esclamai, e Edward mi
tappò subito la bocca, ammonendomi, ma troppo
tardi. Fu
proprio il mio urlo a disturbare Jaz e a fargli aprire
gli occhi. Se li
strofinò a sua volta con un cipiglio corrucciato
dipinto sul suo bel faccino, borbottando tra sé e
sé per il brusco risveglio,
abbandonando il suo orsacchiotto sul cuscino.
«Stavo dormendo ‘Ka-san...» si
lamentò, alzando gli occhi
azzurri su di me. Tutta
quell’aria imbronciata, però,
sfumò non appena vide
Edward, e proprio come avevo fatto io, aprì del tutto gli
occhi riacquistando
lucidità, ma per un altro motivo. Si
gettò fra le braccia di Edward con impeto, abbracciandolo
stretto. «Che
bello che sei qui,
‘To-san!» esclamò stavolta lui,
strofinando il viso
contro la sua spalla sinistra prima di guardarlo negli occhi.
«‘Ka-san aveva
detto che ci saresti stato solo la sera!»
Edward sorrise e si
chinò un po’ alla sua altezza per baciargli i
capelli,
affettuoso. «Ma
tu e la tua Oka-san avete fatto tardi», disse,
come se c’entrasse qualcosa.
«Quindi sono venuto a casa da solo». In un
secondo momento, si accorse del libro, mezzo
aggrovigliato nelle lenzuola leggere.
Sollevò in modo ironico un sopracciglio biondo, lanciandomi
un’occhiata di sbieco.
«Avete letto di notte?» domandò, quasi
con tono ovvio. Lo
sguardo complice che ci lanciammo io e Jaz non
lasciò spazio
a fraintendimenti. Edward
alzò gli occhi al soffitto, scuotendo come sconsolato
la testa.
«Che devo fare con voi due...» borbottò,
ma in tono
vagamente spassoso.
Che eravamo entrambi un caso perso si sapeva. Quelle
rare mattine che ci trovava a dormire, infatti, era sempre
perché avevamo fatto notte fonda a leggere un qualche libro
d’alchimia. Ma
proprio lui non avrebbe dovuto mettere voce in capitolo. Era il
primo a fare le ore piccole quando si trattava di
quello, e anche di
altro, se il letto lo divideva con me.
Quelli, però, erano momenti a
cui non avremmo mai detto di
no. Noi tre
nuovamente insieme, come se tutto fosse normale, come se non
fossimo divisi ma fossimo insieme. Uniti,
proprio come anni prima.
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Capitolo 29 *** [ Storia Fuori Serie ] Scelte e decisioni ***
Heart burst into fire_Episode 29
Titolo: Scelte e
decisioni
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: One-shot
[ 1875 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Jason Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale, Triste
Rating: Giallo
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FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
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[ STORIA FUORI SERIE ]
EPISODIO 29:
SCELTE E DECISIONI
«Roy,
vieni a letto», mi richiamò Edward
dalla
soglia del bagno, e vidi il suo profilo riflesso nello specchio quando
alzai il
viso dal lavandino. Era poggiato allo stipite della porta con indosso
solo i boxer per
colpa del
gran caldo, il viso assonnato e i capelli ormai quasi del tutto sciolti
sulle
spalle.
Mi trovavo in bagno già da un
po’ di tempo, ad
osservare le mie cicatrici. La cauterizzazione completa era ancora
lenta, soprattutto sulla
palpebra, dove
si vedeva ancora qualche lembo di pelle rosea e un po’
ruvida. Iride e pupilla, ormai, si confondevano con la cornea. Non mi
meravigliavo affatto che di primo impatto facesse ribrezzo, il primo ad
essere rimasto sconvolto ero stato proprio io, ma era successo
più o meno un mese e mezzo prima.
Finii di tamponare con il panno caldo
che reggevo la bianca cicatrice
sulla
guancia, l’unica che era quasi guarita del tutto.
«Arrivo subito, vai a dormire», gli dissi,
asciugando l’acqua dal viso.
Un suo sospiro mi raggiunse, prima che
si avvicinasse. Mi
poggiò una mano su una spalla, togliendomi con quella
d’acciaio il panno
prima di gettarlo svogliato sul bordo del lavandino.
«É
quasi l’una, Roy», mi
ammonì, prendendomi il mento per costringermi a
guardarlo. «Vieni a dormire, ci pensi
domattina». Fui io a sospirare, stavolta, allungando una mano
verso la benda. La sua si posò sulla mia prima che potessi
prenderla, facendomi nuovamente
voltare appena verso di lui in modo da incontrare i suoi occhi dorati.
Sul suo viso un po’ assonnato, s’era dipinta
un’espressione tra il mesto e il
severo. «Lascia stare, dai», mormorò,
sfiorandomi
una cicatrice e
facendomi sussultare. «Se Jaz ti vede così,
si demoralizza, lo sai».
Chiudendo l’altro occhio, gli
scansai delicatamente la mano,
annuendo piano. Già si incolpava di suo, non ci volevo anche
io a rincarare
la dose. «Aye, lo so», feci mesto, sospirando.
«Mi
rimetto la benda e torno a letto, al
resto ci penso domani», soggiunsi poi, vedendolo atteggiare
il viso ad
un’espressione ancor più seria.
«Almeno la notte dovresti
lasciarla scoperta»,
esordì lui, prendendola al
mio posto. «Se la esponi, si cicatrizza più in
fretta».
Lo sapevo bene, ma era più
forte di me. Certe volte ancora non riuscivo a vederla senza disgustarmi.
«D’accordo, ma domattina la rimetto»,
cedetti stanco. «Non voglio che Jaz
la veda ancora».
Tornammo a letto qualche attimo dopo,
distesi sul materasso
l’uno tra le
braccia dell’altro senza però riuscir a prendere
davvero sonno. Restai ad osservare un punto indefinito per parecchio
tempo, sentendo
pian
piano Edward rilassare i muscoli nel sonno e allentare quindi la presa
intorno
ai miei fianchi, per cadere piacevolmente addormentato. Sorrisi un
po’, cercando di seguire il suo esempio, ma
inutilmente. Ogni qual volta chiudevo l’occhio destro, il
sonno arrivato
spariva d’un lampo.
Facendo più attenzione
possibile, scivolai via dalla sua
presa, sgusciando
silenzioso sulle scale per raggiungere la cucina al piano di sotto,
dove mi
sarei preso qualcosa per conciliare il sonno; vi trovai la luce accesa,
scoprendo che non ero il solo a non riuscire
a
dormire. Jason sedeva al tavolo della cucina a sorseggiare un
po’ di
latte, con qualche
biscotto a portata di mano se la fame avesse chiamato. Era
così assorto che, quando entrai e mi vide,
sussultò, e per poco non fece cadere il
bicchiere. «Non volevo spaventarti», mi affrettai a
bisbigliare, nascondendomi al contempo
l’occhio con la frangetta come meglio potevo. «Non
riesci a prender
sonno?»
Tornato allo stadio iniziale di placida
tranquillità, lui scosse
la testa,
allungando una mano per prendere un biscotto e intingerlo nel latte.
«Mi sono svegliato poco fa», disse, concentrato
attentamente sulla sua colazione. «Ho
provato a riaddormentarmi, ma fa troppo caldo».
Emettendo un suono d’assenso,
sbadigliai, avvicinandomi al
tavolo per prendere
la bottiglia di latte. «Dovresti esserci abituato»,
dissi ironico.
«A South City era peggio». Non c’era
sera, difatti, che non si morisse davvero di
caldo. Quand’era piccolo e dormiva a volte con
me, molto spesso si scioglieva dai miei soliti abbracci e scalciava via
le
lenzuola, levandosi anche la canotta.
Concorde, Jaz annuì, prima
che vedessi di sfuggita
l’occhiata che mi lanciò. Appena incrociato il mio
sguardo, l’aveva difatti distolto,
forse per l’aver
visto che ero senza benda e l’aver scorto le cicatrici.
Trassi un lungo sospiro accomodandomi, rubando anch’io
qualche biscotto.
«C’è
qualcosa che non va,
Jaz?» gli chiesi senza tanti giri di parole, bevendo
intanto dalla bottiglia. E dovevo essere fortunato che Edward stesse
dormendo. Gli dava un certo fastidio quel mio maledetto vizio.
Jason mi guardò
un’ennesima volta di volata e
scosse la testa, mangiucchiando. «Nulla,
‘Ka-san», fece, poggiando un
gomito sul bordo del tavolo per
sorreggersi il viso. «Te l’ho detto, è
soltanto per il caldo».
«Crediamoci»,
asserii, bevendo un altro sorso prima
di leccarmi le labbra.
Restammo poi in religioso silenzio per
un bel po’,
l’unica cosa che lo rompeva
scandendo lentamente il tempo era l’insistente ticchettio
dell’orologio appeso
al muro. Date le dimensioni della cucina, sembrava quasi assordante. O
forse ero io a vederla in quel modo. La quiete notturna rendeva i suoni
più alti e
netti.
«‘Ka-san?»
mi
richiamò Jason, e alzai l’occhio verso
di lui per
osservarlo. Rivolsi sul suo viso tutta la mia attenzione,
cosicché
decise di continuare. «Dopo il quinto anno, che venga
bocciato o meno, tu e Oto-san
siete disposti a
farmi frequentare l’Accademia?» mi chiese,
abbassando nuovamente gli occhi
azzurri sul tavolino.
Mi accigliai, sbattendo la palpebra.
«Era a questo che pensavi?» domandai in risposta,
vedendolo scuotere la
testa.
«Nay, in realtà mi
è venuto in mente
adesso», spiegò, cominciando a far vagare
le dita sulla superficie di legno. «Mi sono ritrovato a
riflettere un po’
seriamente sulla cosa».
Mi oscurai, a quelle parole. Sapevo che
per l'alchimia aveva un
talento innato, e sapevo anche che sarebbe diventato un ottimo
alchimista, se avesse
fatto
l’esame. Ma dopo quanto era successo, ero un po’
restio dal
farlo
arruolare. Le scelte però erano sue, presto avrebbe compiuto
la
maggiore età e io non
dovevo intromettermi. Il pulcino doveva lasciare
il nido.
«Sei davvero convinto di voler entrare a far parte
dell’esercito?» gli chiesi
ancora, in tono neutro, costringendolo in questo modo a fondere i suoi
occhi con il mio.
Tentennò un po’
alla vista delle cicatrici, ma mi tenne
testa. «Aye, ‘Ka-san», fece
dopo poco, con aria
risoluta. «Voglio dimostrare di saper
fare qualcosa. Non posso dipendere sempre da voi né posso
mettervi ancora in
pericolo».
«Jaz, tu non hai messo in
pericolo nessuno»,
ripresi a quattro mani quel
discorso, scuotendo la testa in un gesto
d’impotenza.
«Ti ho chiesto se
sei deciso a seguire questa strada per un buon motivo. Spesso
l’alchimia non ha
usi benefici, nell’esercito».
«É sfruttata come
arma bellica, lo so»,
mi informò. «Ho
sentito un po’ di cose del genere. Però voglio
comunque diventare un Alchimista
di Stato, ‘Ka-san».
«Jaz...» lo
richiamai ancora corrugando preoccupato
le sopracciglia, come se
volessi farlo desistere.
Lui scosse la testa, forse per
ammonirmi. «É
pure
ora che metta un po’ la testa
sulle spalle», continuò serio, poi mi
fissò con i
suoi occhi cerulei, prima che le
labbra
sottili si stirassero in un mesto quanto triste sorriso.
«Dovrà pur esserci qualcuno che prenda il posto do
alchimista di fuoco, prima o poi... no?» concluse per
sdrammatizzare, nonostante gli vedessi in
viso un’espressione
che conoscevo bene. L’espressione della colpa. La colpa che
poteva sentire solo chi
usava l’alchimia per uccidere, quella
consapevolezza che con un tuo schiocco di dita avevi sottratto
la
vita. E lui, troppo presto, aveva provato quell’orribile
sensazione.
«Se dici così, mi
fai venire ancora di
più il dubbio di darti il permesso di
iscriverti», gli tenni presente, e stavolta fui io a chinare
il capo per non
incontrare più il suo sguardo. «Non fraintendermi,
Jaz, so che hai delle
potenzialità... ma sapere che potrebbe esserci
l’eventualità che tu venga
spedito in una qualche pericolosa missione o in una
guerra...»
Al solo pensiero, non riuscii a
continuare. Il logorio che
lasciava la guerra dentro gli animi era un peso enorme. Per quanto
potesse essere forte di spirito, non sapevo se avrebbe
resistito
davvero. Dai miei pensieri mi distrasse un suo lungo sospiro, e lo vidi
distrattamente
osservare altrove, come se trovasse interessante chissà
quale angolo della
cucina.
«Non è un
capriccio,
‘Ka-san», disse poi, sempre senza
guardarmi. «So che queste cose possono succedere. Ma
io voglio diventare
un Alchimista di Stato anche per aiutare te e
‘To-san».
Quel suo motivo, però, a me
non bastava. Facevo tante
storie sul suo dover essere responsabile e cercare di
crescere un
po’, ma ero sempre stato più bambino di lui. E su
quell’argomento non volevo dargliela vinta, dopo tutta
quella storia. «Lo sai che io e Oto-san ce la possiamo cavare
benissimo da
soli», cercai
ancora di farlo desistere, ma capivo che ormai era troppo tardi. Aveva
preso la sua decisione, ormai. Non sarebbe tornato indietro.
Jaz prese a rigirarsi il bicchiere
ancora mezzo pieno tra le
mani e a
guardarlo non
curante, come se stesse fintamente riflettendo sulle mie parole.
Però, il suo viso intendeva ben altro.
«L’hai detto
tu che ho delle
potenzialità, ‘Ka-san», fece
distante.
«Potrei esservi più utile lì al
Quartier Generale o in missione, piuttosto che a svolgere
qualche normale lavoro».
Era peggio di Edward, indiscutibilmente
vero. Quando si metteva
in testa una cosa era difficile farlo
desistere. Sospirai pesantemente, ben consapevole che aveva ragione. Se
pur avesse trovato un lavoro come la maggior parte delle persone, il
suo
talento per l’alchimia sarebbe stato sprecato e relegato a
futili mansioni. Avevo visto di cos’era capace, sapevo cosa
riusciva a fare con la sua alchimia. E seppur anch’ioavessi
deciso di
diventare Alchimista di Stato per aiutare le persone, ritrovandomi poi
in un
massacro, davvero non riuscivo a veder lui prendere quel titolo. Non lo
concepivo, purtroppo. «Mettiti nei nostri panni,
Jaz»,
dissi, guardando con finta attenzione il
tavolo. «Conosciamo i rischi del mestiere... e ti
dirò la verità, sono
preoccupato già da adesso».
«Hai una scusa in
più per diventare Comandante
Supremo, allora». Il tono non era né sarcastico
né
derisorio, ma più vicino al volermi spronare. Difatti alzai
lo
sguardo con fare confuso se non stranito, vedendogli
appena
l’accenno d’un sorriso dipinto sulle
labbra. Si era alzato in piedi, come pronto a tornarsene in camera sua.
Non aggiunse altro e, posando soltanto i biscotti, si diresse verso la
soglia
della cucina per sparire in corridoio, rivolgendomi appena un veloce e
sussurrato saluto. Io mi ritrovai invece a scuotere il capo, poggiando
i gomiti sul bordo
del
tavolo per sorreggermelo, passandomi una mano fra i capelli prima di
accarezzare piano le cicatrici.
«‘Ka-san?»
Un altro richiamo, la voce un
po’ più leggera. Mi voltai verso la soglia,
vedendo lui
ancora lì in piedi. Non era tornato in camera e si stava
grattando dietro al collo,
vagamente
imbarazzato. «Dici che sono grande per volere un abbraccio
dalla mamma?»
Sorrisi divertito
e, scansandomi dal tavolino della cucina, allargai le braccia,
come
ad
invitarlo. «Gli abbracci non si negano mai, scemo. Non hanno
età».
_Note inconcludenti dell'autrice
Dopo mesi di latitanza, sono tornata anche
io per questi lidi.
Non dirò il motivo del mio allontanamento, anche se alcuni -
per
lo meno le persone con cui parlo più frequentemente e che
frequentano il sito, lo sanno almeno in parte. Ma come si dice:
a buon intenditor, poche parole.
Sono, però, rimasta abbastanza dispiaciuta nel vedere la
desolazione che ormai sembra riempire le pagine di EFP (E non parlo
solo della sezione FullMetal Alchemist), quindi ho voluto comunque
postare
per terminare questa raccolta.
L'ultimo capitolo sarà postato il 10 ottobre, data in cui
verrà celebrato a Tokyo l'evento che porta il nome di RoyEd Mariage.
Spero che le fan della coppia, se si trovano ancora qui in giro,
vorranno contribuire in qualche modo.
Alla prossima.
_My Pride_
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Farai
felice
milioni di scrittori.
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Capitolo 30 *** [ Evento Roy/Ed Mariage › Missing Moment ] Until the end ***
Heart burst into fire_Episode 30
Titolo: Until the end
Autore: My
Pride
Fandom: FullMetal
Alchemist
Tipologia: Flash
Fiction
[ 700 parole ]
Personaggi: Roy
Mustang, Edward Elric
Genere: Slice
of life, Sentimentale
Rating: Giallo
Avvertimenti: Shounen
ai, What if?
Benvenuti al banco dei prompt:
Pacchetto introspettivo › 15. Domani
FULLMETAL ALCHEMIST © 2002Hiromu Arakawa/SQUARE ENIX. All
Rights Reserved.
[
MISSING MOMENT ] EPISODIO
30: UNTIL THE END
We've
always been walking together on parallel lines,
and that's what we'll
keep on doing...
So I won't say goodbye,
'cause I'm gonna live
here and always be walking by your side.
- Love
Letter, chapter five -
Il
graffiare della stilografica sui fogli che stavo firmando rendeva
quel silenzio sordo quasi irreale, esattamente come quando si riusciva
a sentire a pelle la calma prima di una tempesta.
Non più di un paio di giorni
prima quell'ufficio in cui
mi trovavo era stato completamente abbandonato anche dall'ultimo membro
della mia brigata, lasciando completamente vuote le scrivanie che
avevano ospitato proprio i miei sottoposti. Mi ritrovai a sospirare
pesantemente, a quei pensieri, pronto a
riprendere il mio lavoro o almeno a tentare di farlo, ma fu un pesante
bussare alla porta e il rumore della stessa che si
apriva a richiamare la mia attenzione, tanto che alzai rapidamente lo
sguardo verso di essa, sbattendo più volte le palpebre
quando
vidi Acciaio.
Non potei nascondere a pieno lo stupore che si era dipinto sul mio
viso, nel vederlo dritto in piedi sulla soglia del mio ufficio. E
forse, polemizzò la mia mente, era proprio quella stessa
figura bionda che stavo osservando in quel preciso istante che mi ero
aspettato di vedere qualche giorno addietro. Adesso che era
lì, però, uno strano senso
d'oppressione e
dejavù sembrava dirmi che la scena già accaduta
con
Hawkeye si sarebbe ripetuta.
«Non
mi aspettavo una tua visita»,
ammisi poi in tono quasi incolore, riprendendo almeno in parte il
controllo di me stesso. «Pensavo
fossi ancora alla ricerca di quello strano gatto».
«È proprio per
questo che sono qui»,
si giustificò semplicemente, avanzando di qualche passo in
direzione della mia scrivania. «Mi
è parso giusto doverla avvisare della mia partenza».
«Partenza?»
ripetei, saggiando bene quella parola come se la stessi assaporando
sulla lingua. Quel bizzaro senso di inquietudine che avevo provato
pochi istanti
prima ritornò prepotente, schiacciando quel poco di speranza
che
sembrava essermi rimasta. Ma gli regalai uno dei miei migliori e falsi
sorrisi, forse
più per rassicurare me stesso che lui. «Sei
deciso ad andare, dunque?»
gli domandai retorico, ben conscio della risposta.
Difatti annuì, rendendo il
suo sguardo dorato duro e deciso,
ardente come in quella lontana mattina di quasi sei anni addietro.
«Devo
farlo»,
mi rispose, con voce quasi rotta dall'emozione che cercava di contenere.
«È
la sola e ultima speranza a cui io e Alphonse ci siamo aggrappati».
Quelle
sue parole non mi stupirono affatto, quasi le avessi previste. Mi
limitai dunque ad annuire appena a mia volta e ad alzarmi,
abbandonando la mia postazione per avvicinarmi a lui e dargli una
leggera pacca sulla spalla. «Allora
fa'
attenzione, Acciaio», mi sentii quasi in dovere di dirgli,
nonostante sentissi, in cuor mio, che quelle semplici parole di
circostanza valessero ben più di quanto sembrava.
Come colto un po' alla sprovvista, lui
sussultò, facendo scorrere
quel suo strano sguardo ambrato dal mio viso alla mia mano, come se non
se ne capacitasse, dando vita ad una piccola smorfia che faticai a
comprendere. Annuendo nuovamente, si sistemò la
camicia nera che indossava - e che aveva ormai sostituito il
sempre onnipresente cappotto rosso che si portava continuamente dietro
-,
socchiudendo appena gli occhi prima di darmi le spalle e cominciare ad
avviarsi alla porta.
«Non
dico di volerla incontrare nelle vesti di
Comandante Supremo»,
lo sentii dire poi «ma
mi aspetto di trovarla almeno Generale, quando
sarò tornato».
Mio malgrado, mi ritrovai a sollevare un
angolo della bocca mentre lo
seguivo con lo sguardo, con quell'ansia sempre più crescente
che
aveva ormai completamente invaso il mio cuore. Ma, nonostante tutto,
ero tranquillo. Forse perché sapevo - o volevo convincermi
di sapere - che
quel
ragazzo che avrei visto andar via sarebbe realmente tornato, un giorno.
«Anche se
forse ci vorranno anni per far sì che questo avvenga,
Acciaio, mi sosterrai e resterai sempre al mio fianco?»
domandai di getto, non riuscendo a frenare il fiume in piena che
sembravano essere diventate le mie parole.
Ormai pronto a lasciare l'ufficio si
fermò sulla soglia, con
una
mano poggiata sullo stipite della porta e lo sguardo rivolto nel
corridoio. Lo vidi voltarsi poco a poco e, sul viso di quel bambino che
avevo
praticamente visto crescere e diventare il ragazzo che avevo dinnanzi,
sorse appena l'ombra d'un sorriso.
«Fino alla
fine, Colonnello. Fino
alla fine».
HEART
BURST
INTO FIRE: SHATTERED SKIES { STAND BY ME }
- TWO YEARS TOGETHER -
~
END ~
_Note conclusive (E
inconcludenti) dell'autrice
Eccomi,
esattamente come promesso, nel giorno del RoyEd Mariage
con
l'ultimo capitolo di questa raccolta durata oltre due anni.
Sono
passati due anni da quando quest'idea di fare una raccolta, nata
da un semplice commento di chamaedrys
su Proposal
of Marriage,
è cominciata.
Abbiamo riso insieme, affrontato i momenti di vita quotidiana - non
sempre da definire normale - di Fuoco e Acciaio, e visto l'evolversi
del loro rapporto giorno dopo giorno e anno dopo anno, negli attimi
più disparati possibili. Avete conosciuto Jason, nato in un
giorno lontano di ormai quasi tre
anni
addietro, a cui molti di voi - per vostra stessa ammissione - si sono
affezionati, trovandolo il figlio perfetto di Ed e Roy.
Potrei spendere milioni di parole per ringraziarvi uno per uno
per aver
apprezzato questo personaggio, e per averlo amato con tutti i
suoi
pregi e difetti. Altrettante ne potrei spendere per i sorrisi che mi
avete regalato con
le vostre recensioni, molte delle quali, proprio perché
quasi complici, mi hanno fatta ridere divertita, ma le parole non
basterebbero comunque, dopo questi due anni che ci
siamo lasciati tutti dietro. Anni in cui, ammettiamolo, il livello di
EFP era maggiore.
Non voglio però trasformare queste note in un dibattito su
quanto sia calato il livello di scrittura amatoriale rispetto gli anni
scorsi (Prima ancora di iscrivermi lo seguivo da visitatore, quindi
sono praticamente sei anni che bazzico qui in giro e ho notato troppo
bruscamente il cambiamento), quindi passo a spiegare questa shot.
Trovata nel mio quadernetto degli orrori, originariamente questa storia
sarebbe dovuta essere una piccola drabble, ma sistemandola, visto lo
stile molto immaturo con cui era stata
scritta, è diventata una specie di flash fiction. Non segue
la restante linea della raccolta, consideratela infatti una
specie di missing moment del manga, visto che l'avevo abbozzata quando
uscirono le scan del volume 16.
Ho pensato che sarebbe potuta essere perfetta per chiudere la raccolta.
Non si capisce esattamente cosa provino i due protagonisti l'uno per
l'altro, se semplice ammirazione, gratitudine o amore, e ho voluto
appunto giocare su questo. Persino la frase pronunciata da Edward
è in linea con una
possibile storia fra loro, o forse è solo come una frase
detta da un
sottoposto fiducioso del suo superiore.
Chiudo
qui, adesso, abbracciando anche chi sta solo leggendo.
A chi mi
ha seguita fin qui e a chi si è perso per strada, a
chi commentava sempre e a chi si è aggiunto dopo, a chi ha
solo aperto un qualsiasi capitolo per dare una sbirciata e a chi senza
commentare leggeva soltanto... grazie.
~ Ringraziamenti
~
«Farewell?»
_My
Pride_
Messaggio
No Profit
Dona
l'8%
del tuo tempo alla causa pro-recensioni.
Farai
felice
milioni di scrittori.
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