PROIBITO

La luce della luna, sinistra e misteriosa, filtrava tra i rami spogli dei giovani alberi. L’ora convenuta era giunta.

Rosalie procedette lenta, verso il punto d’incontro: da direzione opposta arrivò Jasper, con la sua camminata nervosa ed Emmett sbucò da uno stretto sentiero nella macchia.

La bionda sorrise loro: da un lato della bocca carnosa colava un sottile rivolo scarlatto. Si ripulì con l’orlo della manica sdrucita.

-Dobbiamo ringraziare i Volturi per questo-, sibilò, guardando i due davanti a lei.

-I Volturi e quel bastardo di Edward Masen-, le fece eco Emmett, con la sua voce sensuale e roca.

-Io dico che dobbiamo ringraziare quella puttana della mia ex moglie-, disse Jasper con sprezzo, accogliendo tra le sue braccia, con un sorriso ferino, una giovane scalza dai riccioli neri e gli occhi vermigli, che li aveva raggiunti.

Sopra di loro qualcosa si spezzò e in un istante cadde al suolo una pioggia di frammenti di legno secco, accompagnati da un tonfo poco più pesante.

I vampiri si voltarono insieme per guardare l’ultima arrivata. Indossava una camicia che un tempo doveva essere stata di seta immacolata e che oramai era sporca e strappata in più punti. Sotto ad essa un’ampia gonna nera.

-Ti avevo ordinato di lasciarlo a me quello col fucile!-, tuonò rivolta alla giovane selvaggia stretta a Jasper con occhi neri pieni di rabbia.

-Perdonami, Esme-, disse piano quella, con una punta di sarcasmo nella voce.

-Andiamo adesso-, ordinò la donna, voltandosi e indicando la strada ai quattro, che la seguirono senza opporsi. –E comunque penso che in fondo dobbiamo ringraziare solo Carlisle, che ci ha ingannati tutti quanti…-

Nessuno aggiunse altro e i cinque vampiri avanzarono nella notte, addentrandosi nella foresta buia e grigia che non aveva niente di familiare con quella dei luoghi in cui erano stati una famiglia.

***

... to be continued...

***

Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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PROIBITO

Dal salone adiacente provenivano strazianti urla di terrore e il rumore atroce di un gruppo di bestie feroci intente a spartirsi la preda.

Bella cercava invano di isolare la sua mente e si stringeva sempre più al petto marmoreo e gelido del suo unico amore. Il freddo che provava era nulla, in quel momento, al confronto con l’orrore che stava vivendo. Il respiro di Edward portava ai suoi sensi odore di fiori e misteriose terre lontane, il suo abbraccio saldo e delicato la faceva sentire protetta, come se restando aggrappata a lui nulla potesse più accaderle.

Eppure era terrorizzata.

Alzò gli occhi liquidi di pianto su quelli dorati e brillanti del giovane, implorando parole di conforto. Edward la strinse un po’ più a sé, chinò la testa sulla sua e la baciò dolcemente sulla fronte.

-Andrà tutto bene…-, sussurrò nel suo orecchio chiudendo gli occhi e lasciò che la ragazza affondasse nuovamente il volto sulla pelle nuda del suo petto.

Doveva andare per forza tutto bene…

Edward si sforzò di leggere nella mente di Alice, in guardia vicinissima a loro e dell’umana che sedeva dietro al bancone della lunga sala ovale, vestita come una segretaria, impassibile di fronte alle urla disperate che la investivano con la forza di una condanna a morte.

Gianna si voltò verso di lui, come se avesse percepito lo sguardo su di sé e gli sorrise appena, educatamente. La sua mente era buia come la notte senza luna. Edward si domandò se anch’ella possedesse la stessa particolarità di Bella, ma capì subito che la situazione era diversa: Gianna non aveva pensieri. Gianna era stata istruita dai Volturi a non pensare. Gianna sapeva del loro arrivo e che, con Edward Cullen nei paraggi, pensare sarebbe equivalso a condannarsi a morte certa.

Il tempo sembrava essersi cristallizzato in quel limbo straziante: l’incertezza del futuro era chiara agli occhi di Alice, che si sentiva impotente. In quel luogo tutti loro erano in pericolo, ma se fosse accaduto qualcosa a Bella, sarebbe stata solo colpa sua.

Edward la avvicinò a sé e accolse anche la sorella sotto il suo abbraccio ristoratore.

Rimasero immobili in attesa, tutti e tre, mentre il cuore di Bella accelerava fino alla pazzia e poi rallentava quasi fino a fermarsi, in un ciclo che pareva non dovesse finire mai.

Poi, d’un tratto, contemporaneamente, Edward ed Alice si irrigidirono e le loro espressioni mutarono dalla preoccupazione al terrore.

Bella comprese subito: i Volturi non avevano rispettato i loro accordi.

Oltre il portone di legno massiccio il frastuono si era acquietato, ma un sinistro silenzio ne aveva preso il posto.

Poi, lentamente, rumore di passi serrati.

I Volturi stavano venendo a prenderla.

I Volturi stavano venendo a prendere tutti e tre.

Quello che accadde immediatamente dopo fu troppo veloce e sfuocato: l’unica immagine sicura che Bella registrò fu il volto dolcissimo di Edward vicino al suo e un ultimo, indimenticabile, straziante bacio di addio.

Non le concessero il tempo di salutare Alice, né di fare tesoro dei suoi ultimi due anni di vita.

Isabella Swan si risvegliò da sola in un ospedale straniero, in una stanza affollata di malate e parenti, durante l’orario del passo.

La sua mente era annebbiata, i ricordi sembravano evaporati.

L’unica cosa di cui era sicura è che suo padre Charlie si sarebbe seriamente arrabbiato…

Vennero i medici e le domandarono quale fosse il suo nome, prima in una lingua sconosciuta, poi in un inglese stentato.

Rispose di essere Bella Swan, e questo fu sufficiente. Poi arrivò un uomo in uniforme, forse un poliziotto.

-Come mai si trovava da sola di notte sul greto dell’Arno?-, le domandò l’uomo, che parlava un po’ meglio l’inglese.

Chiese cosa fosse “Arno” e capì di essere in Italia. Il pensiero di suo padre, a quasi diecimila chilometri di distanza, che la cercava, la fece gemere.

Le domandarono se ricordava qualcosa degli ultimi tre giorni.

No: non ricordava nulla… si sforzò di pensare e si rese drammaticamente conto di non ricordare niente neanche del motivo per cui si trovasse in Italia, del come ci fosse arrivata e di cosa stesse facendo a casa sua, prima di partire. Non ricordava neanche quando era tornata nel paese di suo padre, quando si era trasferita lì da Phoenix…

Le domandarono se era stata violentata e un’ondata di malessere la avvolse in un attacco di panico.

Cercarono di calmarla con dei farmaci che, per un po’, la fecero dormire profondamente.

In fondo era meglio così: con la poca logica rimastale calcolò velocemente che si trovava in un luogo lontanissimo, senza sapere perché e come ci era arrivata. Senza sapere da dove era partita, senza ricordare nulla degli ultimi… quanti? mesi della sua vita. Sicuramente, qualunque cosa fosse, le era accaduto qualcosa di mostruosamente brutto. In fondo dormire e dimenticarsi di essere mai esistita era solo un bene.

Rimase nell’ospedale per pochi giorni ancora, lasciandosi esaminare e rivoltare come un calzino. La conclusione era sempre la stessa: non aveva nulla che non andasse, salvo i postumi di una frattura scomposta ad un femore risalente a non troppo tempo prima –ma non agli ultimi giorni in cui era stata in Italia- e una orrenda cicatrice bianchiccia sul braccio destro.

-Si può togliere?-, domandò una volta al medico biondo e affascinante che l’aveva visitata, indicando quella mezzaluna fredda e spessa sul suo braccio sottile.

-Teoricamente sì… ma sei proprio sicura di volerla cancellare?-

Bella pensò che fosse una procedura particolarmente dolorosa e non rispose.

Quando venne suo padre Charlie a prenderla in Italia, dopo che i medici gli consigliarono di non tentare di entrare nella sua testa per qualche tempo e poi, magari, provare a portarla da uno psicanalista per cercare di sondare i suoi ricordi perduti, la prima cosa che gli domandò lo lasciò interdetto.

-Papà, per favore, puoi portarmi da un chirurgo plastico per togliere questa cicatrice?-Voglio dimenticare di averla mai avuta...

Non parlarono molto durante il viaggio verso l’aeroporto di Pisa: Charlie aveva chiara la situazione precaria della figlia e si tormentava condannandosi per non esserle stato vicino in quel tempo che avevano vissuto insieme. In fondo, però, considerate le novità che c’erano state a Forks negli ultimi tempi, la sua amnesia non poteva essere che un regalo dal cielo: Bella non ricordava assolutamente i Cullens e, visto che tutta la famiglia era sparita, la sua piccola non avrebbe avuto alcun motivo di tornare a soffrire, come nei mesi precedenti.

Avrebbero potuto ricominciare da capo.

Dopo, forse, l’avrebbe aiutata a recuperare la memoria dei mesi dolorosi che l’avevano straziata.

Forse…

Salirono su un volo dell’Air France e decisero di chiudere così quella triste e incognita parentesi italiana.

***

Quando il loro aereo si fu staccato dal suolo, l’uomo alto e biondo si allontanò dalla vetrata panoramica del piccolo aeroporto. Strinse le mascelle ed inspirò profondamente. Il volo successivo sarebbe stato il suo: sarebbe tornato ad Anchorage e lì avrebbe dovuto fornire delle valide spiegazioni alla sua famiglia.

Ma come avrebbe potuto consolare Esme del fatto che i suoi figli più amati, Edward ed Alice, si erano uniti ai Volturi, vittime di un ricatto che aveva visto posta su una bilancia crudele la vita di Bella da una parte e la loro libertà dall’altra? Come avrebbe potuto spiegare a Jasper che Alice aveva visto tutto e sapeva quello a cui andava incontro, e che era stato solo per amore che aveva deciso di abbandonarlo, pur di tenere al sicuro la sua famiglia? Come avrebbe reagito al volto sconvolto di Rosalie e all’espressione delusa di Emmett, che lo avrebbe considerato un codardo?

Lui era stato chiamato a Volterra solo per prendere atto della decisione dei figli e per portare via l’umana. Non aveva avuto alcuna possibilità di favorire la loro fuga, perché Alice ed Edward non sarebbero mai scappati, sapendo che ciò si sarebbe rivoltato contro Esme, Rosalie, Emmett e Jasper. E Bella.

Era andato là solo per salutarli per l’ultima volta ed obbedire al volere dei signori dei vampiri. Solo per chinare la testa davanti a loro.

Le reazioni dei suoi familiari lo trovarono impreparato. Aspettava rancore e incomprensione, non quello che si sgretolò sotto ai suoi occhi.

Emmett e Jasper lo assalirono, furiosi e feriti per la sua codardia, e fu subito chiaro che il dolore inflitto dalle loro frasi avvelenate non era sufficiente per placare la rabbia disperata che ribolliva dentro di loro. Lo colpirono, lo morsero e gli procurarono un dolore fisico che in parte alleviò quello che squagliava il suo cuore maciullato. Rosalie gli vomitò in faccia ogni rancore che si era tenuta dentro per quasi ottant’anni, ferendolo con accuse e recriminazioni sottilmente vere.

Ma Esme… la sua reazione lo disintegrò totalmente.

In un istante in cui i due ragazzi lo tenevano fermo, sconvolti e fuori di sé per il dolore e la delusione, Esme si avvicinò a lui e lo colpì con uno schiaffo violento. Lo fissò con occhi neri come carbone liquido, ringhiò contro di lui e, piano, sentenziò la sua condanna.

-Ci hai traditi tutti. Le nostre esistenze erano legate a doppio filo l’una con l’altra. Soli non valiamo niente. Soli siamo soltanto dei mostri. Non ha più senso che esista questa famiglia, ormai-, poi se ne andò, seguita a ruota dagli altri.

Due giorni dopo iniziarono le strane morti nella zona sudorientale dell’Alaska e proseguirono senza interruzione sempre più a sud, verso il Canada e poi verso gli USA.

Esme aveva ceduto al dolore e, con lei, tutta la sua famiglia era andata distrutta.

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PROIBITO

Con la coda dell’occhio, mentre guardavo la terra imbiancata avvicinarsi sempre di più sotto la pancia metallica e fredda dell’aereo, scorsi il segnale che avvertiva di allacciare le cinture di sicurezza.

Sorrisi sbadatamente, ripensando alle volte che, invece, piuttosto che mettermi in sicurezza avrei preferito alzarmi, chiamare a gran voce l’attenzione di tutti i passeggeri, spalancare il portello e gettarmi nel vuoto. Solo così, pensavo, sarei riuscita a farla davvero finita.

Dubitavo che, nel mezzo del deserto, o sulla cima innevata delle Montagne Rocciose, o sopra le onde calme e scure dell’oceano, lui avrebbe potuto correre in mio aiuto, come aveva fatto a Tampa. Sarebbe stato veloce e indolore: solo un ultimo pensiero confuso ai frammenti di me che avrei lasciato in una valigia rossa, che nessuno avrebbe ritirato all’atterraggio.

Meccanicamente feci combaciare i due ganci metallici e la cintura di sicurezza si chiuse sul mio addome con un ‘clac’ familiare.

Portai la mano all’oblò appannato, per rimuovere la condensa che il mio respiro aveva formato e la osservai: dovevo decidermi a buttare via quell’anello, oppure mi sarei presto trasformata in una di quelle vecchie ex-mogli aggrappate al passato e ad un matrimonio che non esisteva più. Sfilai la sottile fede d’oro che pesava come un fardello.

Frodo Baggins: sì, in fondo quel viaggio poteva essere paragonato a quello di Frodo insieme al suo anello...

Scossi la testa: ma chi volevo ingannare? Il mio non era un viaggio, ma una fuga. Non avevo amici che mi accompagnassero, solo il mio cuore sezionato e ricomposto troppe volte, come un dipinto cubista. E l’anello era solo un peso di cui volevo disfarmi, senza attendere di trovare il mio personale Monte Fato.

Lo soppesai per un istante, poi lo lasciai cadere nella tasca elastica sul retro della poltrona avanti a me. Fu subito inghiottito dai cataloghi patinati con le immagini degli oggetti che era possibile acquistare in volo a prezzi convenienti.

Bella Marie Black era morta: avrei ricominciato da zero, in Europa, la mia vita da Isabella Swan.

Mentre aspettavo che dalla bocca metallica del rullo trasportatore facesse capolino la mia valigia, mi soffermai a riflettere sul gesto irrimediabile che avevo compiuto. Una piccola parte di me gridava vendetta alla mia impulsività per aver gettato via, senza rimpianti, quella fetta importantissima del mio passato.

In fondo io e Jacob ci eravano amati... Eravamo stati sposati più di cinque anni, dopo due di fidanzamento e altrettanti di separazione. Ricordo Bill e Charlie al settimo cielo, quando avevamo comunicato loro, abbracciati, che avevamo intenzione di sposarci.

Eravamo solo io, Jacob e il vuoto che lambiva la mia memoria e che lui aveva colmato con pazienza e infinito amore.

Al mio ritorno dall’Italia la vita a Forks mi era sembrata più aliena di quella di un personaggio di un telefilm che si inizia a seguire solo dalla terza serie. Vecchi amici dai volti sconosciuti mi salutavano timidamente, le giornate si spegnevano in notti insonni o costellate da sprazzi di incubi senza forma, che al mattino si dileguavano dalla mia mente lasciando solo una profonda sensazione di oppressione. Un macigno sul petto, il respiro affannato e la sottile, strisciante consapevolezza che stavo impazzendo.

Avevo terminato il terzo anno, chiedendomi come la mia memoria ridotta ad un colabrodo fosse stata in grado di conservare le nozioni studiate nei mesi precedenti. Non ero viva, sopravvivevo soltanto. E questo era stato sufficiente per scavallare l’anno scolastico e arrivare alla fine del liceo. Poi, dopo l’estate, me ne sarei andata per sempre.

Qualcosa che mi sfuggiva, un pensiero che non riuscivo ad acchiappare, come una farfalla dal volo discontinuo che si muoveva danzando davanti ai miei occhi, mi aveva condotta a ricercare qualcosa di certo a cui aggrapparmi. Era stata la sensazione di pace e fiducia di quel giovane, Jacob, che mi aveva spinto a frequentarlo. Ben presto avevo compreso che, prima che la mia mente andasse in tilt, lui ed io eravamo stati buoni amici, forse, mi lasciava intendere Jacob con i suoi sguardi dolci e le parole attente, anche qualcosa di più. Sembrava contento che fossi tornata con il cervello a tabula rasa, “felice di non vedermi più star male”, mi aveva detto una volta, durante una delle nostre camminate sulla spiaggia della Riserva di La Push.

“Era stata più male di così?”, gli avevo domandato, ma lui non aveva risposto e mi aveva semplicemente abbracciato. Credo che era stato quello il momento in cui per la prima volta il mio cuore aveva sussultato per lui. Dunque avevo ancora un cuore! Ed era perfino capace di battere e riscaldarmi un petto che credevo immobile per l’eternità!

Non persi tempo ad aggrapparmi a quella debole speranza, quella illusione di normalità e pace che la vicinanza di Jacob suscitava in me.

Jacob era costante: la sua presenza non mi abbandonava mai. L’estate con lui a La Push era stata sensazionale, considerando lo stato precario da cui provenivo. Jacob mi adorava ed io adoravo lui: era il mio sole personale che brillava anche quando le nubi grigie si addensavano sulla spiaggia d’agosto. Ci avevo messo poco ad infatuarmi incondizionatamente di lui, della sua pelle ambrata e liscia, dei suoi occhi così profondi e limpidi, del suo abbraccio forte e delicato.

Dei suoi baci, dapprima timidi, quasi colpevoli, poi sempre più appassionati, che avevano rapito la mia fantasia e l’avevano imprigionata in un respiro. Un solo suo respiro mi riportava al mondo, se mi capitava ancora di sprofondare nella voragine che il vuoto degli ultimi due anni aveva lasciato in me.

Poi erano arrivati i problemi, camuffati da un gruppo di amici di Jacob, che fino ad allora si erano tenuti in disparte, osservandoci in silenzio. Ad un certo punto si erano fatti avanti e me lo avevano portato via.

Le sere che Jacob non veniva a casa mia, annunciandosi col colpetto di un sassolino lanciato contro la mia finestra e un sorriso adorabile, sapevo che era con loro. Aveva iniziato ad accadere sempre più frequentemente, iniziando una in cui sera avevo captato poche parole bisbigliate al suo orecchio da Quil, uno dei suoi amici. “Uno di loro è tornato”, aveva detto Quil e da allora era cresciuto il fermento nel loro gruppo.

“Chi è che è tornato?”, avevo domandato qualche tempo dopo a Jacob, dopo che, nel mio letto, ci eravamo ricoperti di baci e carezze che ci avevano infiammato e messo a dura prova la promessa di non cedere troppo presto al desiderio della carne. Più che altro, sapevamo entrambi, era la necessità a fermarci: una necessità che aveva l’aspetto di mio padre Charlie, addormentato a pochi metri da noi, che non avrebbe gradito trovare la sua bambina nuda in atteggiamenti troppo intimi con il suo fidanzato, nella sua casa.

In realtà avevo sempre sospettato che a mio padre, quella storia con Jacob, fosse sempre andata a genio: forse avrebbe anche accettato di alzare il volume della partita per lasciarci fare il nostro comodo. Un’idea simile mi aveva sempre agghiacciata e smontata: non sarebbe avvenuto come nei telefilm. Io e Jacob potevamo trovare qualcosa di meglio per completarci l’un l’altro.

“Nessuno”, mi aveva risposto evasivo e aveva ripreso a baciare le mie labbra arrossate.

“Ovviamente...”, il sarcasmo nella mia voce aveva richiamato la sua attenzione: si era sollevato su un gomito. I suoi capelli lunghi e corvini solleticavano la pelle della mia spalla, scoperta nella canottiera che indossavo. Mi ero voltata dall’altra parte, perché non volevo che mi guardasse. E poi era troppo caldo. Non era normale tutto quel caldo a Forks, anche se era agosto.

Quando Jacob si era stretto a me, abbracciandomi da dietro e aveva di nuovo toccato la mia pelle, avevo sentito una vampata. Era lui ad essere spaventosamente caldo. Come avevo fatto a non capirlo subito?

Mi ero voltata di scatto: qualcosa nella mia mente aveva fatto click. Era da quando aveva iniziato a frequentare di nuovo i suoi amici, da quando “uno di loro” era tornato, da quando ci vedevamo molto meno di prima, che Jacob aveva iniziato a scottare.

Avevo pensato che con i suoi amichetti avesse iniziato a fare uso di chissà quale sostanza.

“Che ti prende, Jake?”, gli avevo domandato, sfiorando con la punta delle dita il suo torace ampio e caldissimo.

Lo avevo sentito rabbrividire, forse più per quello che stava per dirmi, che per il tocco freddo della mia mano.

“C’è qualcosa che devi sapere... qualcosa che sapevi già e che hai dimenticato...”, mi ero sentita trascinare rabbiosamente di nuovo verso il fondo del baratro che stavo iniziando a ricolmare di nuovi ricordi.

“Ci sono delle leggende, tra noi Quileute che... sono più reali di quanto possano apparire...”, e poi aveva continuato tutta la notte raccontandomi la sua storia, rassicurandomi sulla sua condizione, svelandomi segreti che non volevo conoscere. Mi ero sentita travolta dal fiume delle sue confessioni che aveva sgretolato il precario strato di sabbia su cui stavo cercando di riedificare la mia vita. Mi aveva mostrato mondi e storie così assurde che all’inizio non avevo creduto a tutte le sue parole.

Era stato quando si era spogliato sotto ai miei occhi, suscitando in me non poco imbarazzo (non pensavo che sarebbe accaduto così...) e aveva iniziato a tremare come se fosse un geiser sul punto di esplodere, che la verità delle sue parole mi era apparsa ovvia.

Se fosse entrato Charlie in quel momento, probabilmente avrebbe preso la doppietta e impallinato il grosso lupo rossiccio che mi guardava con gli occhi di Jacob. Io, invece, non mi ero ricordata di respirare ed ero praticamente svenuta per la mancanza di ossigeno davanti all’enorme creatura.

Era una cosa che mi capitava spesso, dimenticarmi di essere viva.

Mi ero risvegliata tra le sue braccia. I suoi occhi ansiosi sfioravano il mio volto, troppo preoccupati per soffermarsi sui miei. Le sue braccia mi stringevano delicatamente e il suo profumo era tornato quello che amavo.

Mi ero trovata di fronte ad un bivio, per la prima volta in vita mia, anche se l’oppressione che provavo nel profondo mi era parsa una sensazione troppo familiare.

Dovevo scegliere se scappare o continuare a fidarmi dell’enorme uomo-lupo con il quale avevo diviso giorni e notti e sogni da ormai tre mesi della mia nuova vita.

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 ... to be continued...

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

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PROIBITO

Due giorni dopo ero in viaggio sulla mia Chevy scassata verso il college di Tampa, in Florida.

Lontano da Charlie, lontano da Forks, lontano dalle foreste misteriose e dal cielo coperto di nuvole. Lontano da Jacob.

Sapevo di avergli spezzato il cuore, ma non ero sufficientemente forte per mantenere il suo segreto e continuare a dividere la mia esistenza con lui.

Degli anni passati a Tampa ricordo solo la viscerale ricerca di qualsiasi emozione forte che mi avesse potuto aiutare a dimenticare quello che avevo visto. Avrei voluto trovarmi nuovamente su quel letto di ospedale, in Italia, senza ricordi. La nuova Bella era stata troppo presto ricondotta alla disperazione e gridava vendetta contro il mondo infame che continuava a tenerla in vita.

Avevo scelto medicina. In quel momento, più che mai, la voglia di capire cosa fosse accaduto al mio cervello e cosa invece al corpo di Jacob mi aveva spinta lungo un cammino del quale non mi sono mai pentita.

Avevo scelto medicina per vincere una volta per tutte la mia paura del sangue e degli aghi. L’avevo scelta anche perché, così si diceva, agli studenti era più facile procurarsi sostanze capaci di portare allo sballo. E così avevo fatto, seguendo puntualmente le lezioni e la via costellata di torture che mi avrebbe portato ad annichilire totalmente la mia mente e precipitare nella più dolce delle sensazioni: l’oblio.

Mi ero fatta nuovi amici, avevo allacciato nuovi rapporti amorosi con ragazzi della mia età e uomini più maturi, mi ero lasciata alla spalle la mia presunta moralità e avevo mischiato il piacere dei sensi all’ottenebrazione della mente, saltando da un letto ad un altro e da un rave party agli scaffali dei medicinali del laboratorio accanto al mio.

Mi facevo schifo, ma sentivo che era l’unica via per rimanere a galla.

Altrimenti sarei affondata sotto il peso dei ricordi che si prendevano gioco di me e non sarei più riuscita ad uscire da quella condizione.

Avevo da poco compiuto venti anni, quando, in una mattina di sole, Jacob era apparso davanti alla porta della mia stanza, al campus. Aveva guardato con occhi feriti la mia magrezza, i miei capelli colorati e stinti, il trucco un po’ sciolto e l’uomo, molto più grande di me, che mi accompagnava tenendo una mano sulla mia spalla e uno spinello in bocca.

Credo di aver sentito nuovamente il suolo sgretolarsi sotto ai miei piedi, perdendomi in quello sguardo incredulo e disperato, che gridava vendetta per quello che mi era accaduto.

In quel momento, forse per la prima volta da quando la nuova Bella era tornata col cervello formattato, avevo sentito feroce dentro di me cosa desideravo realmente fare.

Avevo lasciato cadere la mano del mio accompagnatore ed ero corsa vero Jake, aggrappandomi a lui e baciandolo affannatamente.

Ne era derivato un breve siparietto a causa del triangolo che si era venuto a formare, ma, poco dopo, ero nella mia stanza, insieme a lui. Tutto sembrava ruotare solo attorno a lui, come se fosse tornato il sole a splendere nella mia esistenza sbiadita.

Era stato molto duro, per Jacob, accettare tutte le mie confessioni fatte di serate in discoteca passate da sola, appoggiata ad un muro a bere e fumare spinelli, di notti buie in cui avevo concesso ad altri quello che era suo di diritto. Credevo che non avrebbe mai più ripreso con sé e invece, ancora una volta, Jacob Black mi aveva stupita.

“Tu sei sempre la Bella di cui sono innamorato”, aveva detto sfiorando con una mano un ciuffo ribelle che era scappato da dietro il mio orecchio. Poi mi aveva baciata, riportando alla mia mente come una marea che sale piano, tutti i ricordi che avevo voluto cancellare.

L’ultimo anno di college lo avevamo passato facendo i pendolari tra l’aeroporto di Seattle e quello di Tampa, riappropriandoci piano piano di abitudini dimenticate e scoprendone di nuove. Il mio aspetto trasandato stava tornando quello di un tempo.

La prima volta che avevo fatto l’amore con lui, a La Push, mi ero sentita sporca e disgustosa per non avergli concesso di essere il primo. Me ne pento ancora, ma non posso tornare indietro e cancellare quel periodo. Fa parte di me e mi ha aiutata a capire cosa fosse giusto e cosa sbagliato.

Mi aveva presa tra le sue braccia e mi aveva portata fino alla sua stanza. Bill era con mio padre a pesca. I suoi amici non lo disturbavano più.

Eravamo solo io e lui. I suoi segreti e i miei rimpianti.

Ci eravamo amati come se fossimo stati creati per quell’unico scopo e poi buttati a caso nella selva di altri pezzi di un mosaico che avevamo provato a confondere, ma che aveva avuto la forza di tornare a posto.

Era quello il mio posto, accanto a Jacob.

Accanto all’uomo che avrei sposato, due anni dopo.

Il giorno del matrimonio avevo lasciato che mia madre Reneé mi agghindasse come una meringa, permettendo al suo sogno di avverarsi. Il mio mi attendeva nel suo smoking all’altare. Per molti anni, quello è stato il mio ricordo più dolce, del quale mi sono riempita a lungo gli occhi, nei momenti più difficili.

Avevo sposato Jacob perché lo amavo profondamente, perché anche lui non poteva più fare a meno di me e perché aspettavo un figlio da lui.

Già me li immaginavo, la piccola manina stretta in quella enorme del suo papà, a camminare sulla spiaggia dove io e Jake ci eravamo promessi amore eterno.

Eterno... l’eternità non esiste, Bella...

Lo sapevano solo in pochi che ero incinta, visto che la gravidanza era solo all’inizio e ancora la mia pancia non si era arrotondata.

Al nostro matrimonio i suoi amici non parteciparono, il branco lo aveva abbandonato. Non approvavano. Non credevano che il nostro amore sbocciato in maniera burrascosa nel tempo, avrebbe potuto resistere al momento dell’imprinting.

Me lo aveva spiegato Leah, una ragazza Quileute, cosa fosse questo fantomatico “imprinting” e avevo subito pensato che si trattasse di una sciocchezza. Ero così certa dell’amore di Jacob...

Ma il nostro matrimonio era stato davvero felice solo per poco tempo: due mesi dopo la cerimonia, una notte di inverno, avevo perso il mio bambino in un lago di sangue che mi aveva costretto in ospedale per settimane.

Era stata colpa mia, lo sapevo. Lo so! Colpa del veleno che avevo buttato nel mio corpo negli anni di Tampa e che si era attaccato alle mie cellule rendendole inadatte ad ospitare la vita.

Nonostante questo e la depressione che ne era derivata, l’amore di Jacob per me non aveva mai vacillato. Mi era sempre rimasto vicino prendendosi cura della mia salute e della mia sanità mentale.

La cosa peggiore erano gli incubi: ogni notte sognavo il mio bambino, il nostro bambino, con tanti capelli rossicci come il pelo del grande lupo che una sola volta mi si era rivelato. Dormiva tranquillo tra le mie braccia placido come un cherubino. Poi, d’un tratto spalancava i suoi occhi e due bagliori color dell’oro mi ferivano, come pugnalate. Lo lasciavo cadere e lui mostrava una fila di denti bianchi come la neve e mi mordeva...

Jacob sopportava di buon grado anche quelli, si lasciava svegliare dalle mie urla disperate e mi teneva stretta a sé, ogni notte, senza domandare nulla. Non avrei potuto durare a lungo in quella condizione.

Rimanemmo sospesi in quel limbo per quasi due anni, finché, una notte, Jacob non mi baciò con più veemenza del solito, cercando la mia pelle, il mio corpo. Ricordo ancora i brividi che mi avevano percorso e che credevo non sarei più in grado di provare.

Se ci eravamo ritrovati, era stato solo grazie a lui e alla sua forza di volontà. Il periodo che era seguito era stato il più bello della mia vita. Avevo ricominciato a sperare, a credere che avrei potuto vivere un’esistenza normale.

Jacob aveva aperto un’officina meccanica e io mi dividevo tra i turni alla clinica di Forks, quelli al piccolo ambulatorio della riserva e lo studio per prendere la specializzazione.

Charlie era orgoglioso del mio recupero e così lo era Jake, tanto che avevamo deciso di riprovare a fare un figlio.

Con mia somma sorpresa, dopo soli due mesi di tentativi, la vita era apparsa dentro di me. Potevamo davvero riuscire a completare il nostro sogno.

Anche quell’illusione, però, era durata poco e all’inizio del settimo mese, quando ormai avevamo già deciso il nome per il nostro cucciolo, di nuovo lo avevo perso.

Con lui se n’era andata per sempre la speranza.

Quil, Sam e altri dei vecchi compagni di Jacob erano venuti a trovarmi in clinica. Li avevo sentiti confabulare qualcosa che mi riguardava. Sicuramente avrebbero ritirato fuori quell’assurda storia dell’imprinting. Jacob li aveva ascoltati, poi, quando se ne furono andati, aveva scosso la testa ed era tornato a coccolarmi.

Tutto questo era successo solo un anno e mezzo prima.

La donna con la quale Jacob aveva avuto l’imprinting, sei mesi dopo, si chiamava Lorena e faceva la parrucchiera presso un piccolo salone di Port Angeles. Ci eravamo passati insieme, per caso, sotto Natale e avevo subito capito quale fosse la causa della sua catalessi.

Adesso vivevano insieme e avevano già un figlio con i capelli neri e gli occhi uguali a quelli di Jake. Avevo firmato subito le carte per il divorzio: lui era felice ed io, ormai, non avevo più nulla che mi legasse a Forks.

La mia valigia spuntò, tra le ultime, dalle fauci del rullo trasportatore. Afferrai il manico al volo e la trascinai fino al carrello che avevo preparato. La esaminai velocemente: incredibilmente aveva retto anche a questo giro senza spaccarsi.

Inspirai profondamente e mi diressi verso il controllo passaporti e, infine, verso l’uscita.

Parigi mi attendeva.

***

 ... to be continued...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
© 'Proibito' Tutti i diritti riservati. 

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Ringrazio molto tutti quelli che hanno letto fin qua la mia storia, le 6 persone che l'hanno aggiunta tra i preferiti e meredhit89 per il suo commento!

PROIBITO

L’ultima volta che avevo visto i miei figli erano vestiti con lunghe mantelle nere. Nere come le loro iridi che non sarebbero mai più tornate dorate.

Mi era stato concesso di parlare con loro per poco tempo: dopo Aro avrebbe letto la mia mente per controllare che non avessimo architettato piani di fuga.

Alice mi aveva abbracciato con foga, piangendo. Aveva letto qualcosa nel mio futuro, qualcosa che coinvolgeva anche il resto della nostra famiglia: qualcosa di terribile. Era consapevole di esserne la causa, ma non poteva più tornare indietro.

Edward, invece, mi aveva implorato di rispettare una promessa: avrei dovuto proteggere Bella, fino a che le cose non fossero cambiate.

Nel mondo dei Volturi questo significava “per sempre”.

L’aveva affidata a me, chiedendomi di vegliare su di lei senza mai farmi scoprire: solo così, pensava, i suoi ricordi non sarebbero mai tornati a galla e la sua vita sarebbe stata al sicuro.

L’avevo portata via con me da Volterra e avevo inscenato il suo ritrovamento nei pressi di Firenze. Poi l’avevo seguita in ospedale, fingendomi un medico dell’Associazione Volontari Ospedalieri. Avevo capito che non era rimasto nulla di noi nella sua memoria.

Aro e Jane avevano fatto un buon lavoro... solo loro sapevano cosa le avevano fatto, come avevano aggirato il suo scudo mentale riuscendo a cancellare ogni più piccolo ricordo di noi.

In seguito l’avevo tenuta d’occhio, a distanza, quando era tornata a Forks.

Mi ero rintanato nella nostra vecchia villa fuori città, andavo a caccia lontano, soltanto la notte, nascosto dal buio.

Alice non vedeva più il futuro di Bella, non se era così distante da lei o c’erano licantropi. Era diventata un’estranea per lei.

Edward mi aveva chiesto, se ci fossero stati cambiamenti, di tornare in Italia, come un semplice turista e di fermarmi sufficientemente vicino a Volterra da far sì che lui riuscisse a leggere i miei pensieri.

Ero tornato tre volte: quando Bella era rientrata a casa, mostrandogli le immagini del suo smarrimento, quando aveva deciso di vivere a Tampa ed era irriconoscibile nell’aspetto e tormentata nell’anima e infine quando era tornata a Forks. Non avevo potuto fare a meno di fargli sapere del suo legame con il licantropo.

Dopo non avevo più avuto il coraggio di tornare a mostrargli Bella, la sua unica ragione di vita, sofferente per la perdita di due figli, per l’abbandono di quel marito che non aveva saputo farla felice.

Non volevo che Edward vedesse che ormai la sua Bella non era più la ragazzina che aveva amato, ma una donna di ventotto anni, tanto bella da levare il fiato. Ormai troppo grande per lui e i suoi infiniti diciassette anni.

In realtà non volevo che vedesse che lei era di nuovo sola e libera di rifarsi una vita.

Non avevo mai avuto segnali da Edward e il suo silenzio poteva significare soltanto che soffriva mostruosamente. Oppure che l’aveva dimenticata, ma questa seconda ipotesi non riuscivo a crederla possibile…

L’unica cosa per la quale potevo ringraziare il Cielo, in tutta questa distruzione, è che i miei cari erano rimasti tra loro uniti: Edward aveva Alice ed entrambi leccavano le ferite dei loro cuori; Esme, Rosalie, Emmett e Jasper erano scappati insieme.

Unicamente io ero rimasto solo, con uno scopo: rispettare la promessa che dieci anni prima avevo fatto ad mio figlio.

Stavo tornando in Europa, vicino, troppo vicino ad Edward.

Avevo ancora trent’anni e stavo per diventare uno dei medici dell’ospedale centrale di Parigi.

Lì, finalmente, avrei rivisto Bella.

***

 ... to be continued...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Che bello... ringrazio le persone che hanno messo la mia storia tra le preferite.

Un ringraziamento speciale va a chi ha commentato:
meredhit89, principessa leila,  debblovers (che scrive delle ff bellissime... ♥)

PROIBITO

La sveglia suonò alle sette meno un quarto del mio primo lunedì di lavoro: ero terrorizzata da quello che mi avrebbe atteso all’ospedale. Era la prima volta che avrei lavorato “seriamente” da quando avevo conseguito la specializzazione ed ero certa che avrei mandato subito al Creatore qualche poveretto...

Feci una doccia veloce e prestai particolare attenzione a stirarmi i capelli: da quando li portavo appena sopra le spalle, questa operazione era più sbrigativa di un tempo.

Mi vestii con gli abiti che avevo scelto la sera prima, incrociai le dita per le scarpe che mi avrebbero messo in pericolo durante tutta la giornata, infilai il cappotto, presi la borsa e mi gettai in questa nuova avventura.

“Bella Swan 3.0”: così chiamavo questa nuova versione della mia esistenza. Dopo la Bella 1.0 che aveva dimenticato tutti i suoi ricordi, la Bella 2.0, anche nota come Bella Swan-Black, miseramente deceduta, la nuova release non poteva che pretendere maggiori speranze dal futuro.

In fondo ero ancora giovane e pronta a ricominciare da capo per l’ennesima volta.

Giunsi all’ospedale con la certezza di essere in ritardo, di essermi vestita in maniera non opportuna, di avere i capelli da pazza, di aver dimenticato qualcosa di importantissimo, a partire dal mio francese, ancora incerto. Il cuore mi batteva a mille nel petto, come se fosse il primo giorno in una scuola nuova dove non conoscevo nessuno.

Una rapida sensazione di dejà-vu mi sfiorò la mente, sollevando un filo di polvere da ricordi ormai perduti e che non sapevo di possedere ancora. Rimasi immobile all’ingresso della struttura sanitaria, sentendo solo il frastuono del cuore impazzito che rimbombava nelle mie orecchie e vedendo il lungo corridoio illuminato farsi nero attorno a me.

Due braccia salde mi sostennero prima ancora che potessi vacillare, un odore di fiori misto a colonia e misteri di terre lontane giunse alle mie narici e mi riportò in un baleno alla realtà.

“Tutto a posto, signorina?”, mi domandò l’uomo più bello che avessi mai incontrato in vita mia, più bello di Jacob, più di quel modello cannato con cui ero stata a Tampa più di...

“Gra... grazie. Tutto a posto”, balbettai non riuscendo a distogliere lo sguardo dal giovane che mi stava accanto, sovrastandomi di tutta la testa e parte delle spalle. I suoi occhi, come calamite, mi osservavano incuriositi, balenando nei colori dell’oro e del nocciola.

Me l’ero sognato o il suo francese aveva un lieve accento anglosassone?

“Sono il Dottor Maxwell, lieto di conoscerla”, disse con voce sensuale, porgendomi la mano.

“Dottoressa Swan. Isabella Swan. Piacere di conoscerla Dottor Maxwell”, risposi e strinsi la sia mano. Un brivido elettrico mi percorse e si aggrovigliò attorno mio stomaco, facendo mancare un colpo al mio cuore.

Di nuovo un’immagine sfocata mi si parò davanti agli occhi: un altro dejà-vu. Questa volta non mi colpì impreparata.

La mano dell’uomo davanti a me era gelida, più fredda di un pezzo di metallo. Fuori pioveva e tirava vento e lui indossava ancora un cappotto color cammello che scendeva fin quasi ai suoi piedi. Era appena entrato in ospedale: era normale che avesse le mani fredde.

Più tardi mi domandai perché avessi elaborato tutte quelle giustificazioni in una sola frazione di secondo. Negazione.

“Può chiamarmi Carl”, mi disse con un sorriso irresistibile.

“Può darmi del tu, Carl”, risposi prima che il mio cervello formulasse quelle stupide parole e bloccasse le mie labbra. Sentii che le mie guance stavano avvampando e chinai la testa, riprendendo a camminare nella direzione verso cui stavo andando.

“Sbaglio o non sei francese?”, mi domandò, seguendomi. La scia del suo profumo si perdeva dietro di lui.

“Non sbagli”, risposi senza guardarlo, “E anche Maxwell non mi sembra un nome di queste parti”.

“Vengo dal Canada”, disse, “Da Cowichan Bay,un paesino vicino Victoria, in British Columbia”.

Mi bloccai di colpo e mi rivolsi a lui con un sorriso entusiasta sulle labbra.

“Non posso crederci! Io sono di Forks, un posto vicino a Seattle... a due passi da Vancouver Island!”, esclamai, immediatamente interessata alla piega che aveva preso quella terrorizzante prima giornata di lavoro.

“Sarai abituata alla pioggia, allora!”, scherzò e la sua risata bassa e armoniosa riecheggiò tra le pareti del bianco corridoio. O forse solo nella mia testa... non saprei dirlo.

Non mi ero accorta di essere giunta fino al desk. Lo salutai con non poco rammarico e lo vidi proseguire verso l’ascensore.

Mi presentai alla segretaria in divisa che mi osservava incuriosita e le consegnai il fascicolo con gli incartamenti che attestavano la mia assunzione.

“La prego di seguirmi, dottoressa Swan”, mi disse con tono professionale, e mi introdusse al direttore sanitario.

Dal breve colloquio con lui venni a conoscenza del fatto che, a causa di nuovi accordi sindacali, un discreto numero di medici che lavoravano nella struttura stavano andando in pensione, lasciando sguarnito l’ospedale.

“Per questo abbiamo subito accettato la sua domanda, dottoressa Swan”, quindi era una coincidenza il fatto che io fossi in quella stanza, a ottomila chilometri dalla mia precedente vita.

Era anche una coincidenza il mio incontro col dottor Maxwell, pensai. Sorrisi, uscendo dall’ufficio in radica: per la prima volta in vita mia avevo trovato una bella sorpresa ad attendermi oltre il sipario del Fato.

Mi fu dato un camice, un tesserino magnetico, una scrivania in uno studio a comune con un altro anestesista francese e un pacco di fogli contenenti le normative sanitarie che avrei dovuto presto conoscere a memoria.

Dopo fui affiancata ad un anziano dottore che mi avrebbe introdotta alla professione.

Quel giorno non rividi Carl, se non nei miei sogni, a casa, la notte, rapita in pensieri immaginari.

Avevo appena divorziato dall’uomo migliore che avessi mai conosciuto, l’unico che avessi davvero amato, il padre dei miei figli perduti, il lupo che avrebbe sempre ruggito nella mia anima, il cui odore ormai era entrato nelle mie ossa, nonostante mi avesse abbandonata.

… e già sognavo un altro???

Cosa diavolo mi stava accadendo?

***

 ... to be continued...

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PROIBITO

 Ciao!!!! Che bello avere tutti questi lettori!!!! 

Visto che ho già un po' di capitoli pronti e che il quinto (ufficiale) è un po' cortino, in questo aggiornamento ne troverete 2! ^__^;;

Spero di fare cosa gradita ai miei lettori!!!

Cosa avrei raccontato ad Edward, se avesse letto nei miei pensieri?

Come avrei giustificato la mia presenza a Parigi, accanto a Bella? Avevo giurato di seguirla da lontano, senza farmi mai riconoscere, in modo che nulla la riconducesse a noi.

Avevo promesso di vegliare al posto suo sulla ragazza che amava più della sua stessa vita, più della libertà.

Avevo distrutto la mia famiglia, pur di completare quello che mio figlio mi aveva implorato di fare: come potevo essere stato così impulsivo?

Erano già passati dieci anni: la vita di un umano è breve, un soffio a confronto con la mia. Avrei solo dovuto attendere nell’ombra che Bella Swan invecchiasse, vivesse la sua vita ed infine morisse, come era scritto nel suo destino.

Allora, cosa mi era preso? Perché mi ero scoperto, inventandomi una falsa identità, mostrandomi a lei, seguendola dall’altra parte dell’oceano?

Erano passati dieci anni e la solitudine stava allentando le maglie della mia coscienza.

Dieci lunghissimi anni vissuti al ritmo scandito dal cuore di Bella Swan. Dieci anni a spiarla, vederla soffrire, cadere e rialzarsi. Come una fenice che rinasce dalle proprie ceneri.

Dieci anni guardandola trasformarsi dalla graziosa ragazza che aveva conquistato Edward ed intenerito Esme e me, nella donna splendida e fragile che mi stava rubando il cuore.

Cosa avrei detto a mio figlio, se solo avesse sospettato che era per puro egoismo che stavo mettendo in forse i sacrifici delle vite di sei vampiri che erano stati la mia famiglia?

Come avrei giustificato i pensieri proibiti che, a volte, sfioravano la mia mente, pensando a lei?

 ... to be continued...

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Ecco, come avevo accennato, solo il "5" mi sembrava troppo corto, così ho messo una bonus track con un capitolo "5 e 1/2"... spero che vi faccia piacere!!!

Ed ora.... il nuovo *mezzo* capitolo!

Alice si immobilizzò, per un istante, lasciando fuggire il cinghiale che aveva appena attaccato: il suo sguardo perso nel nulla vide qualcosa che immediatamente riecheggiò nella mia mente.

Lasciai andare anch’io la mia preda che barcollò per qualche metro e dopo cadde a terra, ormai troppo debole per scappare. In un istante fui vicino ad Alice e la sostenni tenendola per le spalle, incapace di credere alla visione che stava prendendo forma nella sua testa.

Mi accorsi che stavo trattenendo il respiro quando lei, espirando debolmente, rilassò il suo corpo e sbatté le palpebre. Subito cercò i miei occhi, sconvolta per quello che aveva visto e si aggrappò a me, stringendo tra le sue esili dita di alabastro la stoffa ruvida del mio mantello.

La tenni stretta al mio petto, perché si calmasse, carezzandole i lunghi capelli corvini e posandovi un bacio silenzioso.

-Edward, lui… sta tornando…-, la sua voce fragile si spezzò prima di finire le parole.

Avevo già visto la scena: sotto una coltre spessa di nubi Jasper ci avrebbe aspettati al limitare del bosco. Poi avrebbe scagliato contro di noi una neonata piccola e selvaggia, che mi avrebbe attaccato mordendomi alla gola. Lui, invece, si sarebbe preso Alice e l’avrebbe fatta a pezzi, sotto gli occhi vermigli di Esme, Rosalie ed Emmett.

-Non accadrà…-, sussurrai al suo orecchio. Poi la sollevai tra le mie braccia e corsi verso il Palazzo, nel cuore pulsante di Volterra.

Feci attenzione a non dare nell’occhio e scivolai silenzioso fino alle nostre stanze, chiudendo la porta di legno pesante dietro a noi.

Alice tremava ancora. La feci stendere sul letto e mi chinai per baciarla sulle labbra esangui.

-Andrà tutto bene-, le dissi con voce il più salda possibile, scostando dalla sua fronte una ciocca di capelli.

Ma non ne ero affatto convinto…

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 ... to be continued...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

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Ancora un ringraziamento speciale ai lettori che mi hanno messa tra i preferiti.

Un ringraziamento speciale va a chi ha lasciato un commento:

meredhit89: Grazie mille per i tuoi complimenti! Mi hanno fatto davvero piacere! Jake ha trovato la donna del suo imprinting... era inevitabile! Compatiamolo!
 principessa leila: Grazie per avermi messo subito tra i preferiti! Spero che continuerai a leggermi!
debblovers: Sono felicissima di avere incuriosito TE, che con le tue ff riempi i miei momenti liberi! Grazie! *__*
novilunio: Grazie Monica e... desolata per non aver saputo scrivere un riassunto interessante... Che dici, si può cambiare? Continua a seguirmi, che mi fa piacere!

COMMENTATE, PLEASE!!!!

PROIBITO

La mia dose di fortuna si era esaurita con la prima giornata di lavoro: per i due giorni seguenti trottai dietro a Bernard, il caposala degli infermieri del reparto di neurologia, che mi fece conoscere alcuni dei miei futuri pazienti, in attesa di essere operati e, quindi, anestetizzati. Bernard diceva che era meglio conoscere i pazienti, prima di infilzarli con aghi senza aver visto i loro occhi carichi di speranza e terrore.

La sensazione di disagio che provai durante quegli incontri, durante i quali i più anziani mi guardavano scettici, le donne storcevano la bocca e solo qualche arzillo vecchietto si mostrava soddisfatto di essere mandato KO da me, non mi abbandonò per tutta la giornata.

Pranzai da sola alla mensa interna, ripensando a tutti quegli occhi umidi e speranzosi che avevo incrociato: quanto sarei stata in grado di rispettare le promesse che avevo fatto loro? Quanto avrei resistito, una volta che fossi stata davvero sul campo?

Lì a Parigi non sembrava che fosse un problema la mia totale inesperienza, perché “da qualche parte si deve pur iniziare” e poi “non diventerai mai un medico finché non ne manderai uno all’altro mondo”, ma io, dentro di me, ero terrorizzata solo a sentir parlare di quella possibilità.

Giocherellai senza attenzione con l’insalata che avevo nel piatto, riducendo in poltiglia i pomodori e macchiando con il loro succo vermiglio le foglie verdi. Mi sarei macchiata anche io la coscienza, con il sangue di qualche innocente?

Allontanai con disgusto il piatto da me e afferrai la bottiglietta di plastica di Evian per aprirla. I miei sforzi si mostrarono inutili, perché i sigilli non cedevano.

-Posso?-, domandò con delicatezza una voce profonda e vibrante accanto a me: mi voltai verso il dottor Maxwell, che aveva allungato una mano per prendere la bottiglia e aprirmela. Sorrideva ed era la cosa più simile ad un miraggio che avessi visto fino ad allora.

Svitò il tappo senza fatica e mi passò l’acqua senza aspettare la mia risposta.

Abbassai lo sguardo: forse quella volta si era accorto che ero diventata tutta rossa...

-Grazie-, dissi piano, portando la bottiglietta alle labbra. Con la coda dell’occhio vidi che lui mi sorrideva. I suoi occhi socchiusi stavano attendendo qualcos’altro da me?

-Vuoi sederti?-, gli domandai. Un’altra volta la mia lingua era stata più veloce della mia testa, maledizione!

-Grazie-, disse sedendosi accanto a me. Indossava ancora il camice bianco sopra ad un completo blu notte... era bellissimo...

Abbassai lo sguardo su di me. Sembravo la parodia di una sexy dottoressa da telefilm: dal camice perfettamente bianco spuntava l’orlo della gonna del mio tailleur grigio; le calze color carne lasciavano intravedere una sottile venuzza che spiccava appena sotto al ginocchio, sul polpaccio. Le decolleté nere stridevano aggressive con il mio stato d’animo.

Mi sentivo adatta a vecchi stivali sformati, di quelli con il pelo dentro, che se ci prendi una storta, male che vada, ti sollevi e ridi, perché non c’è verso di farsi male.

Le decolleté col tacco erano pericolose. Chiamavano sesso. Perché le avevo indossate?

Anche la vicinanza di Carl era pericolosa, lo annusavo nell’aria... il suo profumo ancora intatto, dalla mattina, era veramente pericoloso...

-Tutto a posto, Isabella?-, era la seconda volta che un perfetto sconosciuto, attraente come un magnete nei confronti della limatura di ferro, perfetto come il personaggio di un film in bianco e nero, misterioso come la faccia nascosta della luna, mi ripeteva quelle parole.

Quando pronunciò il mio nome, soffermandosi su ogni lettera, che vibrava della sua voce sensuale, sentii di nuovo un brivido sciogliersi lungo la mia schiena facendomi venire la pelle d’oca.

-‘Bella’, ti prego...!- Ok, ormai la mia voce era scollegata con il mio cervello: era ufficiale. Lo guardai e gli sorrisi ebete, fregandomene se il rossore sulle mie guance si fosse visto. Quando brilla il sole, anche se rischi di bruciarti, ti stendi e ti illudi di ottenere un’abbronzatura dorata... era la stessa cosa.

-Com’è sono andati questi primi giorni?-, domandò. Lo ringraziai per aver iniziato un discorso “intelligente”. Eravamo colleghi, avrebbe capito.

-Agghiacciante…-, risposi e la sensazione del contatto con la sua mano fredda balenò nella mia mente. Scacciai quell’immagine e proseguii. -Tutta quelle povera gente che si fida di me... Non so se sono realmente in grado di fare questo lavoro...-, abbassai la testa.

-Col tempo diverrà tutto molto semplice, stai tranquilla-, disse calmo, sempre sorridendo. Poi fece una cosa che non doveva fare: annullò le distanze e posò la sua mano sulla mia spalla. -Devi solo avere fiducia in te, Bella-.

Lo guardai inclinando la testa di lato. Sapevo di avere le labbra socchiuse e umide d’acqua. La Bella 2.0 di Tampa non avrebbe aspettato un istante a posarle su quelle dell’uomo davanti a lei.

Mi ripresi dallo smarrimento e gli sorrisi. Una domanda fece capolino dalla coltre fumosa dei miei pensieri.

-Di cosa ti occupi, Carl?-, domandai, interrogandomi sul perché non mi avesse sfiorata prima questa curiosità.

-Sono chirurgo-, disse en-passant, -Prima o poi ci troveremo insieme in sala operatoria-, ammiccò.

Di nuovo mi sentii avvampare.

-Ora devo andare-, disse, se possibile mostrando un’altra sfaccettatura del suo poliedrico sorriso, -Ci vediamo presto-

-Ciao-, lo salutai guardandolo alzarsi.

Avevo bisogno di un tranquillante...

***

Passarono alcune settimane e la previsione di Carl risultò corretta: non ci eravamo più incontrati “da soli”, ma quella mattina era previsto un intervento nel quale eravamo entrambi coinvolti. Ne avevo già affrontati diversi, e la mia parte in ciascuno di essi era sempre stata marginale, sebbene la responsabilità fosse in buona parte mia.

Da quella volta a mensa il mio cervello aveva fantasticato come quello di un’adolescente alla sua prima cotta: di giorno voltavo sempre gli angoli dei corridoi con la sottile speranza di incontrami, o scontrarmi con lui, solo per essere di nuovo oggetto del suo sguardo magnetico. La sera, nel letto, ripensavo al suo volto e ai suoi capelli d’oro. E mi sentivo idiota e perfida.

In fondo Jacob era giustificato dal suo imprinting, ma io? Perché il mio sentimento verso di lui doveva essere mutato? Affievolito, sì... la lontananza e la gelosia avevano lavorato alacremente per farmelo dimenticare, ma non concepivo che potessi cancellare il suo ricordo con un semplice colpo di spugna. Non per uno sconosciuto dall’unico pregio di essere maledettamente bello. E gentile...

La notte prima dell’intervento, non riuscendo a prendere sonno, avevo guardato l’ora sulla mia radiosveglia. Erano le 2 e mezzo: lo avrei trovato in officina...

Composi il numero sul cordless, nel buio: forse stavo facendo la cosa sbagliata. Che diritto avevo, sapendo che lui aveva trovato la sua felicità, di turbarlo con la mia voce?

-Pronto-, aveva risposto dopo due squilli e io mi ero sentita sprofondare nel letto, con il cuore che batteva forte forte nel petto.

-Pronto?-, aveva ripetuto al mio silenzio.

-Jake...-, avevo sussurrato, e lo avevo sentito prendere aria.

-Bells?-

Sì, sono io: chiamami ancora così, ricordati di me, vieni a prendermi e non lasciarmi mai più... ti scongiuro!

-Ciao Jake... ti disturbo?-

Zitto cuore, zitto! Calmati e smetti di torturarmi!

-Bells! Che sorpresa! Come va? Com’è Parigi? Ti stai adattando? Charlie parla sempre di te e anche Billy mi domanda informazioni!-, le sue parole avevano corso veloci e arzille, vitali.

Mi ero sentita morire per il suono della sua voce, che stavo iniziando a dimenticare.

-Tutto ok... piove... strano!-, mi ero sforzata di ridere, ma ne era uscito un suono gutturale che non aveva allentato la mia tensione.

-Ma che ore sono da te...?-, aveva fatto una pausa, per fare il conto. Potevo vederlo, con un braccio appoggiato al muro della sua officina, vicino al telefono, dando un’occhiata alle foto del figlio appiccicate con lo scotch accanto alle chiavi inglesi, socchiudere gli occhi pensando e riaprirli, sorpreso, per la constatazione che non stavo dormendo. E poi strizzarli appena, per capire il motivo di quella telefonata notturna, spostando il peso su una gamba, voltandosi per non farsi sentire dal suo apprendista.

-Bells...? Le due e mezzo? Che è successo?-

No, non preoccuparti amore mio... sto bene, tutto ok, solo che... mi manchi... non voglio dimenticare la tua voce e il tuo profumo sta dissolvendosi nell’aria...

-Tutto ok, Jacob, te l’ho detto... non riuscivo a dormire... per la pioggia-, che pessima attrice che ero.

-Sicura?-, la sua voce aveva riportato alla mia memoria le notti che mi svegliavo per gli incubi, nel nostro letto e lui mi teneva stretta.

-Certo...-

-Ancora i tuoi incubi?-, mi aveva domandato, con delicatezza.

Ecco, stavamo pensando la stessa cosa! Mi stavo torturando minuto dopo minuto...

-No, dormo come un angioletto... se non diluvia sulla mia testa!-

Idiota: le previsioni del tempo esistevano anche a La Push, e negli ultimi giorni non pioveva, a Parigi. Era solo nuvoloso..

-Ti lascio al tuo lavoro, adesso... volevo solo sentirti...-, il cuore stava per spaccarmi qualcosa, là dentro...

-Bells? Se ci sono problemi, chiamami, d’accordo?-, preoccupato.

-D’accordo. Ciao Jake...-, avevo trattenuto il fiato. Stavo per buttargli un bacio. Errore madornale! Mi ero fermata in tempo.

-Ciao Bella... ti voglio bene-

Avevo chiuso la comunicazione e stretto quel maledettissimo telefono al petto, poi lo avevo lasciato scivolare sulle coperte e avevo portato le mani al viso, per massaggiare via la tensione.

Era bagnato di lacrime che non mi ero accorta di aver versato.

Mi ero voltata affondando la faccia nel cuscino e avevo pianto, in silenzio. Da sola.

La mattina avevo delle occhiaie nere e gonfie che mi facevano apparire più vecchia di dieci anni. Lo specchio era crudele.

Maledizione...!

Mi feci come al solito una doccia, ma non riuscii a smaltire la tensione della nottata. Dopo la telefonata con Jacob, ero sprofondata in un sonno nero punteggiato qua e là da immagini e volti sconosciuti, che erano svaniti appena avevo aperto gli occhi. Era rimasta solo la sensazione di aver visto qualcosa.

Mi asciugai la testa velocemente, rinunciando a stirare i capelli: che stessero come pareva a loro! Non dovevo conquistare nessuno. NESSUNO!

Guardai ancora il mio volto nello specchio, indugiando sul tubetto di fondotinta che soppesavo in mano: ero indecisa se utilizzarlo per coprire la stanchezza, oppure apparire in tutto il mio squallore all’intero staff chirurgico.

Optai per la seconda scelta, spazzolai energicamente i denti, mi vestii e uscii nella nebbiolina azzurrognola della mattina parigina.

Persi la metro e dovetti aspettare dieci lunghissimi minuti prima che ne passasse un’altra. Avrei finito col fare tardi. Chissà lui cosa avrebbe pensato di me...

Salii sul treno meccanicamente, mentre la mia mente era volata via dalla mia testa e fluttuava, abbastanza vicina a me per impedirmi di sbagliare fermata, fantasticando sul dottor Maxwell. Non so come i miei pensieri avevano preso quella strada che mi ero imposta di non cercare, eppure andavano avanti da soli, creando e distruggendo castelli immaginari alla velocità dei battiti accelerati del mio cuore.

Scesi dal treno e corsi fino all’ospedale: avevo trentacinque minuti per cambiarmi, indossare gli abiti di sala, lavarmi, bardarmi come una mummia, prendere fiato ed entrare,

Il suo sorriso mi accolse, nascosto dalla mascherina di carta e gli occhiali trasparenti, simili a quelli dei dentisti.

Il resto dello staff, invece, sembrava irritato dal mio piccolissimo ritardo. Il paziente non si era accorto di nulla e attendeva tremante un’iniezione da parte mia.

-Iniziamo?-, chiese piano Carl. Lo guardai dietro i miei occhialini e mi immaginai che orribile aspetto dovessi avere in quel momento, vestita di verde, con le occhiaie e i capelli coperti da una cuffietta maldestramente legata dietro alla nuca.

-Iniziamo-, risposi e preparai la siringa, secondo quanto indicato nella posologia suggerita dal quadro clinico del paziente.

Era solo un’anestesia locale, per un intervento programmato in endoscopia. Dovevo solo bucare, iniettare, restare immobile a controllare i tracciati del paziente ed eventualmente pregare tutti i santi del cielo qualora qualcosa fosse andato storto.

Osservai affascinata Carl lavorare sul paziente, con gesti calmi, forse troppo esperti per la giovane età che dimostrava. Non mi sfuggirono le occhiate di adorazione che la ferrista, ogni tanto, gli lanciava. Mi sentii ridicola e volli sprofondare per quella sgradevole sensazione di gelosia che mi stava bucando lo stomaco.

L’intervento durò poco e nulla andò storto: per un altro po’ ancora avrei potuto stare alla larga dai tribunali...

Ci spogliammo dei camici e grembiuli macchiati di sangue e lavammo braccia e mani nei lavandini attigui alla sala. Quando levai la cuffia, i miei capelli erano schiacciati e in disordine. I suoi luccicavano sotto le luci al neon. Li sistemai con la mano, poi mi accorsi che non era la procedura corretta, e tornai a lavarmi. Lentamente.

Perché stavo perdendo tutto quel tempo?

Attesi che infermieri e assistenti uscissero dal bagno: presto sarebbe andato via anche lui e non lo avrei neanche salutato.

Invece aspettava, come me, temporeggiando immobile: gli altri non sembravano rendersi conto che lui non stava facendo nulla, che rimaneva solo fermo, in piedi, con le maniche della casacca verde tirate su e gli occhi che brillavano.

Rimanemmo soli e io neanche me n’ero resa conto. Asciugai per la quarta volta le mani con i teli sterili a disposizione.

-Hai fatto un buon lavoro, Bella-, esordì, spezzando il silenzio pesante con la sua voce morbida. Lo guardai poco convinta.

-Non ho fatto nulla, Carl... solo un’iniezione!-, mi voltai per uscire. Perché mi stava torturando così?

-Ti ho visto arrivare molto agitata e ho temuto che potessi sbagliare-, disse con grande onestà, -Poi ho visto le tue mani muoversi veloci e sicure e i tuoi occhi spostarsi attenti tra i monitor alle mie spalle e il volto del paziente, tranquillizzandolo-

Non credevo alle parole che stava dicendo e non ne avevo di mie per rispondere.

-Hai tenuta stretta la sua mano tutto il tempo: il suo battito non ha mai avuto picchi-, si avvicinò di un passo a me. -Te ne sei resa conto?-, chiese, titubante.

Scossi la testa facendo ondeggiare i capelli in maniera scomposta, dietro a me. Un ciuffo si staccò dalla massa e mi scivolò sulla fronte. Lo guardavo imbambolata, come una bambina può guardare Babbo Natale appena uscito dal camino.

Fece un passo ancora verso di me. Uno in più e il mio cuore sarebbe schizzato fuori dal petto e dal camice verde, colpendolo.

Allungò la sua mano bianchissima verso il mio viso e dolcemente scostò il ciuffo ribelle dietro all’orecchio.

Chiusi per un attimo gli occhi... cosa mi aspettavo?

-Andiamo?-, disse lui, la sua voce più rapida, meno sensuale di pochi istanti prima, come a scuotermi da un sogno.

Riaprii gli occhi.

-Andiamo-, confermai impedendo alla voce di spegnersi nella mia gola arsa dalla sete, e lo precedetti aprendo con una leggera spallata la porta basculante.

***

 ... to be continued...

***

Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

***

Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
© 'Proibito' Tutti i diritti riservati. 

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Sono strafelice di essere arrivata a quota 23 preferiti: ragazzi, mi riempite di gioia!

PROIBITO

Nota dell'Autrice: questa fanfic ha il rate arancione per quello che succede ai protagonisti della vicenda. In questo capitolo capirete cosa intendo.

Questo capitolo è articolato in due parti: la prima si svolge cinque anni prima dei fatti narrati finora, oppure, se preferite, cinque anni dopo New Moon; la seconda parte, invece, è un ricordo di... beh, lo vedrete, sempre relativo ai fatti precedentemente introdotti!

Ogni storia nasce da una scelta e la mia scelta, sicuramente, non incontrerà il favore di tutti i lettori. Spero comunque che la fiducia prevalga sulla (eventuale) diffidenza, e che continuiate a leggere la mia fanfic, perché di una cosa sono sicura: le cose non rimarranno fino alla fine come sono adesso... succederanno nuovi eventi e nuovi scenari faranno da cornice alle vicende dei vari personaggi.

Ed ora... buona lettura!

-Sto pensando di andarmene, Ed-, lo guardai negli occhi, prendendolo alla sprovvista. Ero stata brava a nasconderglielo fino ad allora, oppure lui non frugava più nella mia mente, come un tempo.

-Ah…-, disse soltanto, e si voltò verso di me.

-Non ce la faccio più a restare qua dentro mentre lui…-

Avevo visto cosa stava cercando di fare Jasper. Lo avevo previsto da subito e lo avevo accettato: meritava di trovare un’altra donna che lo seguisse. Ma faceva male lo stesso.

-E poi ho paura. Di Alec… mi guarda come se…-

-Alice, se te ne vai, li metterai in pericolo tutti quanti, anche lui…-, disse senza convinzione.

Era da qualche tempo che nelle mie visioni continuavo a vedere una tunica nera nel suo futuro: sarebbe diventato come Aro, un Volturo, così lontano da ogni umanità che avesse mai avuto. Non volevo fare la stessa fine. Volevo scappare.

-Mi fermerai?-, domandai diretta. La risposta la conoscevo già.

-No-

Edward si allontanò da me e tornò a scrutare l’orizzonte, oltre la nebbia leggera che circondava la città, aspettando che arrivassero gli ospiti dalla Romania.

Uscii dalla stanza sollevata e con mille progetti in testa, ma, allo stesso tempo, disgustata da come quel posto avesse cambiato ed indebolito Edward.

Dovevo andare a caccia.

***

-Perché mi hai seguita, Alec?-, dissi voltandomi verso di lui. Un cinghiale sfrecciò davanti a me, lontano. Mi aveva fatto perdere la mia preda, maledizione!

-Cerco di capire cosa ci provi a cacciare delle bestie puzzolenti-, mi raggiunse e si squadrò con occhi corvini.

Era alto un po’ più di me, solo che lui era stato trasformato più o meno a quindici anni, io a più di venti. Mi sorrise sfottendomi. Ripresi a correre.

­-Non stai guardando un documentario alla tv-, gli dissi, cercando di ignorarlo. Mi dava sui nervi la sua presenza assillante. Sapevo di interessargli e avevo paura che usasse il suo potere su di me, anche se lo avrei saputo in anticipo.

-Marcus vi controlla-, disse lasciandomi di stucco.

-In che senso?-, domandai, fermandomi di nuovo.

-Sa che il legame tra Edward e te non è quello che cercate di farci credere. Sa anche che è il momento di cementare la vecchia Guardia con i nuovi arrivati e sa che deve diversi favori sia ad Heidi che a me… mentre Chelsea ne deve un paio a lui…-, mi guardò con occhi bramosi, avvicinandosi. Un brivido mi percorse la schiena. Mi voleva per sé. Avevo paura.

Pregai perché Edward sentisse i miei pensieri e mi raggiungesse.

-Il tuo Edward non verrà, adesso. Ci sono troppe cose che deve leggere nelle menti dei Romeni per occuparsi di te-, sapevo che aveva ragione.

Un altro brivido mi assalì.

-Vattene Alec-, dissi cercando di mantenere la calma, poi non sentii più nulla.

***

Quando ripresi i sensi, Edward era chino sopra di me. I suoi occhi mi guardavano spaventati, i pugni, stretti fino a farsi male, premevano dietro la mia schiena.

-Cosa le hai fatto, bastardo?-, ringhiò rivolto ad Alec, che guardava la scena, divertito.

Abbassai lo sguardo su di me e notai che i miei vestiti erano tutti strappati e sporchi di terra.

-Domandalo a lei…-, Alec si passò un dito sulle labbra. Sentii un conato di vomito assalirmi.

-Voglio andare via da Volterra…-, dissi.

Basta, basta con questa prigione!

Alec schizzò via ridendo. Edward si mosse, per inseguirlo, ma io lo trattenni per un braccio, debolmente.

-Ho letto nella sua mente, Alice… stai calma… non ha abusato di te… E’ stato solo un ammonimento-, Edward era furibondo.

Ero sconvolta.

Perché non avevo visto niente? Perché le mie visioni mi avevano abbandonato l’unica volta che avrei potuto proteggere me stessa??

Allungai le mani verso il suo collo, perché mi tenesse stretta e mi proteggesse… volevo solo morire.

-Portami via…-, sussurrai, ma Edward mi aveva già stretta a sé e correva veloce verso il Palazzo.

  ... to be continued...

-Il legame tra loro sta affievolendosi-

-Alec ha confermato: lei vuole abbandonarci-

-E lui cosa farà? Ha troppa paura per andarsene da Volterra-

-Lui la lascerà andare via: è passato troppo tempo e stanno rinunciando a lottare insieme-

-Dobbiamo impedire che se ne vadano. Devono restare e servire la Guardia-

-Un modo ci sarebbe…-

-Alec sarà contento-

-Sciocco, Caius. Quello la porterebbe al suicidio-

-Allora chiama Chelsea, Aro, mi deve un favore…-

Ricordavo quelle parole come impresse a fuoco nella mia anima. Le avevo lette nella visione di Alice, lo stesso giorno in cui l’avevo trovata immobile, per terra, con i vestiti strappati.

Alice si era aggrappata a me, i suoi occhi ancora vitrei per la visione: era terrorizzata.

-Loro vogliono…-

-Lo so…-, era terribile quello che pretendevano da noi. Eravamo fratelli.

Subito dopo, avevo sentito dei vampiri della Guardia bussare alla sua stanza, dove l’avevo portata. Erano venuti a dirci di seguirli da Aro.

L’alternativa ad andare incontro a quello cui eravamo condannati, era scappare ed essere uccisi dai Volturi. Non avrei messo a repentaglio la sua vita, mai…

-Sappi che io lo amerò per sempre-, aveva sussurrato Alice, con gli occhi sgranati, mentre ci avevano fatti entrare nella scura sala dove Aro, Caius e Marcus ci attendevano.

Nell’ombra, Chelsea stava aspettando il suo turno, accanto a lei, Alec ci stava osservando in silenzio, accanto a sua sorella Jane.

Eravamo rimasti in attesa che accadesse qualcosa, ma quello a cui fummo invitati a presenziare era stato solo un banchetto dei Volturi. Fummo costretti a bere sangue umano, assieme a loro, poi ci fu concesso di ritirarci.

E’ difficile ricordare il momento esatto in cui eravamo stati colpiti dall’arma subdola e potente di Chelsea. Tutto quello che ricordo e che Alice, tremante, mi aveva invitato a seguirla nella sua stanza.

Si era seduta sul davanzale della grande finestra che dava sul bosco e mi aveva invitato a seguirla. Avevo sentito uno strano nodo alla gola, ma ancora non avevo capito cosa ci era stato fatto. Lei, invece, aveva visto tutto e sapeva che non poteva andare contro il destino.

Mi aveva parlato con voce bassa, che le avevo sentito usare poche volte, a casa nostra, in passato.

-Sai… se quel giorno non fossi riuscita a trovare Jasper, in quel bar, avevo deciso di cercare comunque la vostra famiglia. Vi avevo visti uno ad uno e avevo pensato che avrei potuto diventare la… tua… compagna… Ma non so se avrei avuto davvero la volontà di farlo, perché tu, per me, sei sempre stato mio fratello… Ma i Volturi… hanno usato l’arma più potente per piegarci… ci hanno costretto a fare qualcosa di proibito…-, poi aveva allungato una mano verso il mio viso ed io l’avevo stretta alla mia guancia, inspirando il suo profumo, mentre le immagini che lei aveva visto, si materializzavano nella mia testa.

Avevo chiuso gli occhi e mi ero rassegnato a quella che sarebbe stata la nostra eternità.

Quella era stata la prima volta che l’avevo baciata non come un fratello. Quella, la notte in cui avevamo tradito i valori in cui credevamo e ci eravamo piegati ad un volere imposto dall’alto, a cui non potevamo sfuggire.

Due giorni dopo che Chelsea aveva usato il suo potere, spezzando i legami che ci legavano a Jasper e Bella e costringendoci a provare attrazione tra noi, Aro, Marcus e Caius avevano ordinato che fosse celebrato il matrimonio tra noi, al quale avevano presenziato anche i Romeni. Noi non ci eravamo opposti: erano stati giorni di totale annientamento delle nostre volontà, giorni in cui la coscienza ci aveva abbandonato e l'unica necessità era soddisfare il desiderio che era stato instillato nelle nostre coscienze.

Gli anni, poi, avevano lasciato spazio all’oblio e, lentamente, ci eravamo abituati al nostro nuovo rapporto.

Ma, in quei primi giorni, la passione che i malvagi Volturi avevano acceso in noi, bruciava come fuoco nelle vene e né io, né Alice avevamo trovato la forza per opporci al loro volere.

Non esistevamo che l’uno per l’altra e, ne eravamo certi, non ci saremmo mai divisi.

Non c’era più un motivo per andarsene da Volterra. Tutto quello di cui avevamo un disperato bisogno era restare insieme. Non avremmo avuto la forza di resistere a quello che era stato creato tra noi, né di tornare a cercare i fantasmi del nostro passato.

Ormai eravamo legati a doppio filo con coloro che avevano distrutto la nostra esistenza.

***

 ... to be continued...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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Un ringraziamento speciale va a chi ha commentato:

Grazie a chi mi ha messo tra i preferiti-.

PROIBITO

Ecco un nuovo capitolo ed eccoci di nuovo nella piovosa Parigi a inseguire il dottor Carl!

Spero che vi piaccia!!!!

Se non fossi stato quello che sono da più di trecento anni, sicuramente, nell’ultimo periodo, avrei commesso errori imperdonabili.

Avevo già un anestesista nel mio staff, ma di punto in bianco aveva deciso di chiedere il trasferimento ad un altra struttura sanitaria e così l’avevano sostituito con lei.

Se non avessi avuto la capacità di controllo e l’apertura mentale di un vampiro, certamente avrei infilzato con il bisturi più di una volta qualche assistente, prima di ammazzare i miei pazienti. Tutto per colpa della sua presenza che riusciva a distrarmi anche se rimaneva immobile in un angolo, osservando e tacendo.

Il suo odore arrivava a vampe ai miei sensi, annebbiando la vista quel tanto che bastava perché trillasse il campanello di allarme nella mia testa. Non avevo mai commesso errori, né lo avrei fatto con lei presente. La mia debolezza era anche la mia forza e la sua presenza vigile e discreta al contempo faceva ribollire un sangue immaginario nelle mie vene e mi rendeva più sicuro nelle mie azioni.

Bella mi osservava rapita: sentivo il suo sguardo su di me e sapevo che era tutto sbagliato. Avrei voluto essere fatto a pezzi e bruciato piuttosto che essere conscio che tutto quello che stava accadendo era solo colpa del mio egoismo.

La stavo deliberatamente portando verso la linea di non ritorno, verso il limite al quale, in un tempo che non riesco più a ricordare, avevo condotto Esme, prima di lei. Prima che il dolore la stroncasse e sopraffacesse quello che provava per me.

Esme...

Pensare a lei era doloroso. Ricordare i suoi occhi densi di odio e delusione annebbiava i ricordi più dolci, di quando il nostro amore, da solo, avrebbe potuto spostare le montagne e la passione che condividevamo non aveva ostacoli davanti a sé.

Avevo sofferto molto per il suo abbandono e, nonostante ciò,non l’avevo più cercata. Alice mi aveva detto che le cose sarebbero avvenute esattamente come era accaduto. Non avevo il potere di cambiare il futuro.

Scrollai la testa come per cancellare quei ricordi e mi accorsi che stavo guidando verso il mio appartamento, in mezzo al traffico, sotto una pioggia battente. Un automobilista stava suonando il clacson e imprecando contro di me per una manovra azzardata.

Mi strusciai gli occhi con il dorso della mano: odorava ancora un po’ del profumo di Bella, quando me l’aveva stretta sorridendo, dopo un caffè che le avevo offerto al bar dell’ospedale.

La portai al mio naso e inspirai per catturare ogni sentore di quel profumo che aveva ottenebrato i miei sensi e mi stava conducendo, lentamente, alla pazzia.

Il mio pensiero corse ad Edward, a Forks, a quel lunedì pomeriggio che era tornato a casa sconvolto per l’incontro con una misteriosa ragazza che aveva squassato la sua esistenza mettendo a dura prova la sua forza di volontà. E ripensai ai suoi occhi, che, da allora, avevano cambiato espressione, alle sue giornate che, da vuote che erano, si coloravano di tanti piccoli sorrisi, inconsapevolmente. Ripensai alla sua disperazione quando aveva deciso di abbandonarla, per il suo bene.

Qualcuno sfareggiò dietro di me. Istintivamente guardai nello specchietto retrovisore mal posizionato ed incontrai gli occhi di Edward che mi osservavano sconvolti e ardenti, come dieci anni prima. Guardai meglio: era il riflesso dei miei occhi. Distolsi lo sguardo, misi la freccia e mi fermai a lato della strada.

Dovevo riprendere aria.

Ero pazzo.

Era troppo rischiosa quella situazione… Bella era in pericolo costante, non riuscivo più a placare la voglia che avevo di lei… l’avrei trascinata con me nel baratro più profondo, ancora più pericoloso di quello da cui era riuscita ad uscire, tanti anni prima.

Dovevo trovare il coraggio di rispettare il desiderio di Edward, lasciarla andare come aveva fatto lui, permetterle di vivere una vita lunga e felice, senza più incubi, senza mostri, senza vampiri. Senza noi dannati Cullen!

Inspirai profondamente e rimisi in moto, deciso ad andare in fondo a quella decisione: avrei lasciato Parigi quella notte stessa, avrei cambiato ancora una volta identità e avrei seguito Bella solo da lontano. Poi sarei tornato da Edward e gli avrei detto che...

Il cellulare squillò nella mia tasca scuotendomi da quei pensieri. Lo sollevai guardando il display: era un numero che non conoscevo. Aprii lo sportellino e lo avvicinai all’orecchio, continuando a guidare.

-Pronto-, risposi.

-Carl...?-, la sua voce mi colpì come un pugno violento alla bocca dello stomaco.

-Bella?-, la mia voce s’incrinò mentre ogni cosa si riempiva del suo nome. Poi un pensiero afferrò la mia coscienza e la scosse: cos’era successo? Perché mi stava chiamando?

-Stai bene?-, domanda senza senso... dovevo cercare di stare calmo.

-Sì... solo... sei ancora all’ospedale? Avrei un favore da chiederti...-, titubava... forse le avevo messo paura...

-Che è successo?-, ancora quell’ombra di apprensione sulle mie parole. La mia voce arrivava roca alle mie orecchie

-Niente, Carl! Avrei bisogno di una prescrizione... ma non posso firmarmela da sola-

-Ah…-

Carlisle! Cos’è quest’aria delusa? Pensavi che volesse chiederti un appuntamento? Devi diementicarla!

-Domani faccio il turno di sera, e tu la mattina... così mi hanno detto al desk... volevo chiederti se potevi lasciarmela...-, era intimidita dal mio silenzio?

-Dove sei?-

-Ancora qua. Sei nel tuo studio?-

-Aspettami all’ingresso. Ciao-, chiusi il telefono facendo leva sul mento, guardai rapidamente nello specchietto laterale e feci inversione ad U nel traffico degli Champs Eliseé.

Guidare a Forks era più facile, specie per un vampiro che stava perdendo la testa...

Come può battermi così forte il cuore, se il mio cuore è fermo e nel petto ho solo una voragine?

Come possono sudarmi le mani, se sono morto?

Come mai mi si appanna la vista, le dita stringono tremando il volante e qualcosa di acuminato mi trafigge lo stomaco?

Perché sto correndo da te...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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Ecco le mie risposte alle persone che sono state così carine da lasciare un commento alla mia storia:

eka: eheh! Me lo immaginavo che ti avrei colpita e affondata! Come ho già scritto, 'Proibito' non era riferito solo a Bella e Carl: sono tante le situazioni che, stravolgendosi, portano i personaggi a compiere passi dei quali -volenti o nolenti- si pentiranno, oppure che bruceranno sulle loro coscienze perche sono 'tabù'. Mi chiedi di salvare i personaggi... da cosa? Dalle decisioni che altri hanno preso e il cui peso ricade sulle loro spalle? Oppure dalla solitudine che li attanaglia. Oppure devo salvarli dall'amore? ;-) Cercherò di andare avanti nella storia tenendo conto degli sviluppi che ho pensato, senza farli soffrire troppo... ma ci riuscirò? :-P Grazie mille per il commento e... sono curiosa di sapere che ne penserai in seguito!

sarapastu: ecco un nuovo capitolo... spero di averti accontentata e che la storia ti coinvolga ancora! Torna a trovarmi!

meredhit89: mi fa piacere di aver azzeccato il genere di storia che ti piace! Sì, Edward ed Alice sono vittime di un disegno più grande di loro che, nonostante i loro poteri extra, non sono stati in grado di impedire. Orgogliosissima che la mia storia ti piaccia *troppo*!!! ^__^

WOW!!! 30 PREFERITI!!!!  

RECENSITE, RECENSITE, RECENSITE!!!

PROIBITO

Lavoravo in un ospedale, conoscevo ormai quasi tutti i medici e i trucchetti per ottenere qualche farmaco extra... allora perché avevo chiamato proprio lui?

Avevo bisogno di un sonnifero: non avrei dovuto prenderne di nuovo, ne avevo già abusato nei miei anni bui, in Florida. Ma gli incubi erano tornati ed io... non ne potevo più.

La Bella 3.0 stava soccombendo al fantasma della 2.0... o era la precedente? Non dormivo quasi più, le idee si confondevano nella mia testa.

Mentre indossavo il completo pantalone della mattina, riponendo camice e zoccoli di gomma nel mio armadietto, ripensai all’ultimo periodo che stavo vivendo a Parigi.

Come ero ancora in grado di fare il mio lavoro? Con che coraggio mettevo la vita di innocenti malati nelle mie mani insicure? Eppure l’unica cosa che sembrava essere intera, tra i frammenti in cui navigavo ogni giorno, annaspando tra quelli che credevo incubi e sogni irrealizzabili, era la mia sanità mentale a lavoro.

Compivo gesti automatici prendendo decisioni importanti ogni giorno, nonostante il più delle volte la mia mente fosse offuscata dalla sua presenza in sala.

Se me lo avessero detto dieci anni fa, non avrei mai saputo realmente spiegare cosa significasse “rapporto di lavoro”: Carl ed io, in questi mesi, avevamo stretto un ottimo rapporto di lavoro.

Soldati sullo stesso fronte in sala operatoria, lavoravamo in perfetta armonia, sotto lo sguardo scettico di chi ancora mi credeva una svampita novellina; fuori dalla sala operatoria, invece, scambiavamo ogni tanto classiche frasi di circostanza senza mai esserci realmente conosciuti. A volte mi sembrava di parlare con lui attraverso gli occhi, altre rimanevo incantata a guardare il suo modo gentile e antico di fare con i pazienti di ogni età.

Non era un uomo reale, sembrava uscito da un libro dell’Ottocento: impeccabile, sicuro di sé, umile. Ed ora stavamo incontrandoci nella hall dell’ospedale.

Presi la mia borsa e chiusi a chiave, scesi le scale con il cappotto sottobraccio ed entrai sicura nella sala d’attesa, certa di trovarlo là.

In fondo i sonniferi erano una scusa. Forse era una masochistica vendetta nei confronti di Jacob, che non mi aveva mai chiamata, o di Charlie, che invece mi raccontava di lui e della sua famiglia come se non ricordasse più che eravamo stati sposati per anni e che era stato lui a chiedere il divorzio.

Fuori diluviava. Indossai il cappotto e attesi per un po’, guardando, oltre le vetrate, le auto imbottigliate nel traffico. Quando lanciai un’occhiata al grosso orologio digitale che sovrastava il desk informazioni, notai con rammarico che erano già passati dieci minuti, da quando ero scesa.

Dov’era Carl?

Sospirai e presi a camminare avanti e indietro, in tratti sempre più lunghi, vedendo aumentare il traffico e formarsi l’onda di visitatori che stavano per arrivare all’ora del passo.

Avevo già perso una corsa della metropolitana. Abbassai lo sguardo sulle punte dei miei stivali col tacco e mi rassegnai: tornai al banco informazioni, presi carta e penna e scrissi velocemente un messaggio per il dottor. Maxwell.

-E’ uscito già da mezzora-, mi informò la segretaria.

A telefono avevo capito che era ancora in clinica... probabilmente l’avevo voluto credere...

-Può consegnargli questo foglio, quando arriva, domattina?-, domandai con voce piatta, passandole la carta intestata con i miei dati, piegata in due, su cui avevo scritto quello che mi serviva.

La donna fece un cenno affermativo e mi salutò educatamente, quando mi voltai e presi aria per trovare il coraggio di buttarmi sotto l’acquazzone e trascorrere una nuova, anonima serata da sola.

Uscendo dalla hall scivolai sul pavimento bagnato dalla pioggia introdotta dai parenti che entravano con ombrelli gocciolanti, ma mi ripresi aggrappandomi alla porta scorrevole. Inspirai di nuovo profondamente e uscii, aprendo l’ombrello sopra la mia testa.

Peccato, pensai, quei sonniferi mi avrebbero fatto comodo.

Feci qualche passo e scrollai la testa, come se stessi confutando la tesi di un interlocutore immaginario che camminava vicino a me.

Ma chi prendi in giro Bella Swan? Ti rode solo perché non hai incontrato lui...

La fermata della metropolitana si trovava a poche decine di metri dall’ingresso principale dell’ospedale, dove il marciapiede del viale alberato si allargava in prossimità di un incrocio. L’ultima corsa della notte era alle 23:55.

Mi diressi verso di essa, sforzandomi di concentrarmi solo sul lavoro e su buoni propositi per passare la lunga notte insonne che mi aspettava.

Poi, d’un tratto, una figura si fece largo tra la fila di auto in coda in mezzo alla strada, correndo compostamente sotto la pioggia. Scivolò tra le auto in sosta ai lati del viale e venne verso di me.

Mi raggiunse sotto la luce tremula di un lampione e il mio cuore si fermò per qualche istante.

Fermo davanti a me, inzuppato di pioggia che scivolava dai suoi capelli sul volto d’angelo, le braccia abbandonate lungo il corpo, Carl mi guardava, aspettando che dicessi qualcosa.

Lo fissai in trance per secondi che mi parvero ore, mentre l’oro dei suoi occhi sembrava emanare luce propria.

A questo punto, nei film al cinema, lei lascia cadere l’ombrello, corre in un arcobaleno di schizzi da lui, che la abbraccia e infine si baciano, lasciando che la pioggia lavi le lacrime di gioia che scorrono sui loro volti accaldati e felici. Scorrono i titoli di coda e tutti a casa.

“Carl??”, domandai invece io, con voce strozzata, come una gallina. Lo guardai perplessa, domandandomi se fosse davvero lui o se la stanchezza mi stesse giocando strani scherzi. Mi avvicinai lentamente, la schiena appena chinata in avanti, sospettosa, finché non gli fui vicina.

Era immobile e mi guardava avvicinarmi con un’espressione che non riuscii a decifrare: poteva essere felice –il debole e dolcissimo sorriso in cui erano stese le sue labbra poteva significare quello?-, come sconvolto –i suoi occhi balenavano tra me e l’asfalto che ci divideva, correndo a destra e a sinistra, quasi con colpevolezza-, oppure sorpreso –sembrava stesse trattenendo il respiro-. Non lo so che gli stava passando per la testa...

Nella mia volavano farfalle.

***

 ... to be continued...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
© 'Proibito' Tutti i diritti riservati. 

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 CHE MERAVIGLIA!!!! BEN 7 COMMENTI IN UN GIORNO SOLO!!!! VI VOGLIO BENE!!!!

 eka: sono desolata di strapparti il cuore dal petto, ma... a basket non ci gioco, promesso! Anch'io sono pazza e masochista, a scriverla!!! Grazie millissime per le tue recensioni!

VivianaRossa: onoratissima per ciò che hai scritto! In realtà volevo riuscire a scrivere qualcosa di non convenzionale (Edward+Bella) e cercare comunque di rendere i personaggi coinvolti, sofferenti e ugualmente sinceri come nell'originale. E poi... i 17 per me son passati da un pezzo... diciamo che mi affascina moolto la figura di Carlisle: dovevo rendergli onore!

franci_cullen: non ti scusare se non recensisci: a me fa piacere, ma... ci sono anche gli altri lettori, no? (messaggio subliminale...:-P) Non sai che piacere mi faccia quello che hai scritto... è quello che a me piacerebbe ottenere: far vivere le emozioni, più che bearsi della trama in sé! Grazie!

sarapastu: Anche a te grazie per le tue parole... mi fa piacere se davvero sono riuscita a trasmetterti quello che provano i personaggi... E grazie per quello che hai scritto su Carlisle... a me fa impazzire così!

novilunio: che occhio! Può darsi che tu abbia ragione e che il mio modo di scrivere... quel che è certo è che mi sforzo di *provare* quello che provano i personaggi e poi di tradurlo in parole... non so se risco a spiegare quello che intendo... Felicissima che tu abbia apprezzato anche l'altro filone "proibito" con Edward ed Alice! ^__^

Helen Cullen: Tante grazie per i tuoi complimenti! Sì, in effetti, forse, chi è più in colpa in questa storia, per ora, sono proprio i Cullens che non comprendono la scelta di Carlisle (che poi... mica ha potuto scegliere, lui, porello!) Spero di non deluderti nei prossimi capitoli!

meredhit89: eheh aficionada!!! Grazie mille per i tuoi commenti sempre puntuali e presenti!!!! Felicissima che tu inizi a vedere bene *questo* Carlisle e *questa* Bella!!! Nei prossimi capitoli? Beh, due fronti ben distinti tra quel che accade "agli umani" e quello che accade ai "vampiri"! Continua a seguirmi, che mi fa tanto piacere! ^__^

E INOLTRE... SONO CRESCIUTI ANCHE I PREFERITI!!!

PROIBITO

Mie care lettrici (lettori?) questo capitolo è un po' *troppo* lungo, ma non voglio spezzarlo, perché si spezzerebbe l'atmosfera che ho cercato di creare... chiedo venia...!

Non mi avrebbe aspettato. Sarebbe andata via delusa, perché non le avevo fatto capire niente.

Pensava che fossi anch’io all’ospedale... che ci voleva a dirle che, No, Bella, sono imbottigliato nel traffico dell’ora di punta, ma se mi aspetti corro da te!

Meglio Forks... oh quanto era meglio guidare a Forks, dove il rischio più grande era sorpassare il trattore dei Philips in curva, prima di arrivare a casa!

Stramaledettissimo traffico di Parigi!

Lei non mi avrebbe aspettato ed io sarei rimasto come un cieco a cercarla in una sala d’attesa gremita di gente.

Svoltai a sinistra, in Avenue de Doumesnil, certo che da lì sarei arrivato in pochi minuti e invece la strada era tutta bloccata.

L’autoradio,  dimenticata accesa, trasmetteva le note di una triste canzone di Edith Piaf.

L’ospedale era a poco più di un chilometro dal luogo dove mi trovavo, in coda, la musica graffiava l’aria pesante dell’abitacolo e, nota a nota, sprofondava nel mio petto, perdendovisi.

Era la prima volta che mi sentivo così: impotente, combattuto, disperato. Umano.

Sospirai profondamente, perché qualche riflesso aveva dato l’informazione al mio cervello, o a quel che avevo dentro la testa, che in quel momento, un uomo, avrebbe fatto così.

Avanzai di un metro soltanto, prima che l’auto avanti a me si fermasse di nuovo.

Chiusi gli occhi e mi costrinsi a visualizzare le immagini della mia famiglia. I loro volti sorridenti mi apparivano come catturati in un poster pubblicitario: sei modelli di varie età, elegantemente vestiti, in pose plastiche, con sorrisi bianchissimi e capelli in ordine.

Poi, in un angolo più buio del set fotografico, la mia mente creò l’immagine di un’altra persona: una ragazzina impacciata nei suoi jeans sformati, le mani nelle tasche della felpa col cappuccio di uno sbiadito color lavanda, lo sguardo basso, vergognoso, i capelli in disordine che ricadevano sulle spalle, tenute strette. Lei non era un’estranea. Due guance arrossate e le sue labbra vermiglie.

Bella...

Misi la freccia e fermai la mia BMW di traverso su un passo carrabile, scesi ed iniziai a correre sotto l’acqua, senza un motivo, senza giustificazioni, solo con una meta.

Bella...

Come pensavo: quando scorsi la sua figura, stretta nel cappotto scuro, che si allontanava dall’ospedale, proteggendosi con un ombrellino pieghevole rosso, mi bloccai.[i]

Illuso! Cosa mi aspettavo? Che rimanesse ad aspettarmi tutta la notte? Che mi telefonasse ancora? Le serviva un favore. Stop. Gliel’avrei fatto il giorno seguente e non mi sarei esposto ancora. I volti dei sei modelli, nella mia testa, si erano contorti in espressioni di rabbia.

Ma come era possibile che io, che ero vissuto per quasi quattrcento anni immobile, come una montagna, lasciando che il tempo scorresse mentre mi rintanavo nella mia tranquillità e, dopo, nella stabilità che avevo raggiunto con Esme, io che ero apprezzato da tutti per la mia temperanza, adesso stessi perdendo la ragione, seguendo un’impulsività che non sapevo di avere?

Una ventata scompigliò i miei capelli fradici, ribaltando alcuni ombrelli di passanti lontani e portando con sé l’odore meraviglioso di Bella, perso nell’aria. Chiusi gli occhi inspirando, senza accorgermene.

In pochi passi fui davanti a lei.

-Carl??-, domandò con un sussurro che mi bloccò i pensieri per un istante, per la sua melodia.

Rimasi a guardarla, annientato, sperando che la giovane fanciulla corresse in aiuto del vampiro immortale che aveva perso la lingua.

-Cosa... cosa ci fai qui?-, fu la prima domanda, alla quale non sapevo cosa dirle.

Ne seguirono molte altre, quella sera, e per tutte, tranne una, fu difficile rispondere.

-Sei tutto bagnato... ti verrà il raffreddore...-, e si avvicinò a me, alzando il braccio e coprendomi con il suo ombrellino rosso, attraverso il quale la luce del lampione mutava i colori e li rendeva irreali, come era lei.

Non ci eravamo mai trovati così vicini.

-Grazie...-, riuscii ad articolare, mentre mi imponevo di non respirare e di stare calmo. Montagna, mi ripetevo, Carlisle, sei una montagna!

-Prego. Allora... mi vuoi dire come mai sei tornato qua?-, sembrava divertita. Se avessi annusato il suo odore, sicuramente avrei scoperto sentori di agitazione. Era brava a nascondere le emozioni, però...

Frugai in tasca ed estrassi una penna.

-Ricetta medica a domicilio!-, risposi, imitando il suo modo di fare scherzoso, sebbene terrorizzato.

Rise, e le note di quella risata entrarono nel vuoto del mio petto e lo fecero traboccare come se fosse stata acqua cristallina, di fonte.

-E il ricettario dov’è? Se hai dietro anche quello, ormai è tutto bagnato!-, ma come faceva ad essere così vitale, così maledettamente diversa dalla solita, malinconica Bella che aveva conquistato prima Edward e dopo me. Non risposi subito.

Per un istante scorsi nei suoi occhi divertiti un lampo di paura, come se la maschera d’argilla che si sforzava di indossare avesse iniziato a dissolversi in polvere.

-L’ho dimenticato in macchina-, ammisi, sorridendo imbarazzato. Poi mi rilassai e costrinsi il vampiro a lasciare spazio all’uomo che non era mai morto e aspettava solo un bacio delle favole per svegliarsi dal sonno in cui era sprofondato.

-Potremmo andare a prenderlo e magari anche a bere qualcosa...-, disse quell’uomo, e il vampiro, seppur guardingo, se ne compiacque.

Bella arrossì violentemente e pensò che, sotto quella luce strana creata dal suo ombrello, non me ne fossi accorto. La vidi combattuta, per un attimo.

-D’accordo-, rispose e mi sorrise curiosa: forse voleva sapere dove volevo portarla.

Mi pentii immediatamente del mio invito avventato: non uscivo per locali o ristoranti, non avevo idea di dove andare.

-Perché non andiamo a quel pub in Rue de La Paix, dove suonano dal vivo?-, mi salvò.

-Perfetto-, poi la presi sottobraccio, sfilandole l’ombrello di mano e conducendola verso la mia auto abbandonata. Il suo cuore batteva all’impazzata e anche il mio, o meglio, nelle mie orecchie rimbombava il suo battito, ed era un po’ come vivere delle stesse emozioni, che pensavo di aver dimenticato.

Camminammo veloci: volevamo interrompere quel contatto al più presto. Era troppo pericoloso.

-Complimenti per il parcheggio, dottor Maxwell!-, esclamò quando vide la mia auto con due ruote sul marciapiede. Sorrisi imbarazzato, passandomi una mano tra i capelli bagnati. Quella cosa faceva morire le donne... lo sapevo... non volevo farlo! Non volevo giocare in vantaggio!

Bella abbassò il viso e sparì dentro l’abitacolo che immediatamente profumò di lei e del sangue che era di nuovo affiorato alle sue guance.

Dieci anni fa non avrei mai pensato che avrebbe potuto succedere qualcosa di simile. Una volta avevo accompagnato Bella a casa, con la mia auto, ma c’era Edward, assieme a lei, e la stringeva forte a sé, impaurito per le minacce che si addensavano sul loro amore.

Dieci anni fa Bella era una ragazzina. Adesso, invece...

Misi in moto e svicolai rapidamente dal mio parcheggio improvvisato, infilandomi nuovamente nel serpentone di lamiere e luci che si snodava, lento per le vie di Parigi.

Ogni secondo in più in quella macchina era un secondo in meno che riuscivo a resistere prima di cedere alla tentazione che lei mi offriva. Fortunatamente il locale era vicino.

Quando spensi il motore e aprii la portiera, una ventata di aria fresca e leggera schiarì i miei pensieri: mi resi conto solo allora che né lei, né io avevamo parlato durante tutto il tragitto.

Entrammo nel pub dove l’aria stagnante di birra e fritto appestava l’ambiente scuro, ma accogliente e sedemmo ad un tavolo in un angolo della sala. Il silenzio non poteva durare ancora a lungo, pensai agitato.

Sfilai il cappotto e Bella lo prese prima che potessi trattenerlo: trotterellò fino al grande camino che si appoggiava ad una parete in pietra e lo sistemò su un attaccapanni là vicino, perché si asciugasse. Quel posto ricordava un rifugio alpino.

-I capelli si asciugheranno all’aria. Qua fa caldo-, disse, quasi a rassicurarmi, poi tolse il suo cappotto e anche la giacca del completo, rimanendo con un dolcevita color melanzana.

Sorridendo abbassai il viso e istintivamente avvicinai di nuovo la mano ai capelli. Bella mi guardava, dovevo fermarmi per evitare che le sue difese crollassero e la lasciassero esposta al vampiro che dormiva in me.

Incrociai per una frazione di secondo il suo sguardo, le sorrisi di nuovo e passai la mano tra i capelli, energicamente, scompigliandoli e facendo cadere qualche gocciolina d’acqua sulla tavola di legno scuro e lucido per l’età. Risi come un bambino che ha appena fatto una marachella per ricevere l’applauso dei suoi nonni. Non sapevo resisterle...

Non me ne importava più nulla di essere corretto! La volevo più di quanto potessi ricordare di aver mai voluto qualcosa. La desideravo più di quanto avessi sognato Esme, la giovane maestrina scappata dal matrimonio fallito, a cui avevo comunicato che suo figlio era morto: la vampira che poi era diventata mia moglie.

Cristo quanto desideravo Isabella Swan!

La roccia friabile sotto alla montagna stava iniziando a cedere, la lontananza dai miei simili mi aveva trasformato in qualcosa che non pensavo di poter essere! O forse era solo a causa sua, della sua spontaneità e della malinconia che, a tratti, appannava il suo sguardo e la rendeva nuda, davanti a me, che conoscevo meglio di lei quale fosse stata la sua vita dolorosa.

-Allora, questa ricetta?-, domandò ad un tratto, nascondendosi dietro al menù incrostato che teneva tra le mani. Era più coraggiosa di me. Ma questo lo avevo sempre saputo, me lo aveva detto Edward, quando si erano messi insieme.

Una fitta mi colpì laddove avrebbe dovuto esserci il mio cuore. Traditore.

-Carl...?-, aveva abbassato il menù, guardandomi perplessa.

Mi colpii la fronte con la mano: -Accidenti... la mia borsa è ancora in macchina...-

Sorrise maliziosa socchiudendo gli occhi: -Ammettilo che non vuoi farmela!-

-Dipende da cos’è: la responsabilità me la prendo io. Forse dovrei accertarmi delle tue condizioni fisiche, prima...-, la conversazione era partita e ci stavamo via via sciogliendo.

No –raggelai constatando l’evidenza-, stavamo flirtando!

-So badare a me stessa, dottor Maxwell! Piuttosto... mi sa che un bel raffreddore la costringerà a letto per una settimana! Cosa stava facendo? Fred Astair in “Singin’ in the rain”?-, sembrava stupita lei stessa dalle sue parole, che uscivano fluide come se si fosse preparata la parte a memoria.

-Era tutta una scusa, dottoressa Swan... per portarla a cena fuori...-, risposi ricambiando il suo tono, ma qualcosa nel suo sguardo si sciolse, e non riuscì più a sostenere il mio.

Stava di nuovo arrossendo. O affondavo il colpo, o battevo la ritirata.

-Comunque, se stessi male, potrei contare su di lei, vero dottoressa? In cambio della ricetta che le serve...-, scelsi l’attacco e me ne pentii immediatamente.

Si ritirò sulla piccola panca di legno, portando le mani in grembo e torturandosele per qualche secondo.

-Carl... davvero... non scherzare, per favore... Io non riesco nemmeno a... -, la sua espressione era tornata seria, colpevole, la sua voce si era interrotta a metà di una frase che non aveva voluto proseguire. Ero io quello che avrebbe dovuto sentirsi colpevole.

Io, che avevo deciso di fare qualcosa di proibito...

Alzai le mani come a chiedere una tregua e le sorrisi, facendo appello al vampiro che faceva girare la testa alle donne mortali. Aspettai che fosse lei a parlare, e lei mi stupì.

-Chi sei, Carl?-, puntò gli occhi dritti nei miei, trafiggendomi. Mi fece paura. Stava cominciando a ricordare, o aveva intenzione di farlo?

-Cioè... intendo... cosa facevi a Victoria, dove lavoravi...-, gesticolò, per aiutarsi nell’esprimersi. Tirai un sospiro di sollievo. Voleva solo fare conversazione.

Ma io ne avevo il coraggio? Deglutii e sperai che lei non si fosse accorta di quel gesto sospetto.

-Facevo quello che faccio qua, solo che...-

L’arrivo della cameriera, che mi squadrò rapidamente e voracemente, mi interruppe.

-Volete ordinare?-, chiese cercando di modulare la sua voce in maniera sensuale. La vidi lanciare un fugace sguardo d’odio a Bella, seduta davanti a me, che cercava di ricordare quello che aveva precedentemente scelto.

-Per me un croque monsieur e una Heineken media, grazie-, poi mi guardò, interrogativa.

-No, no... niente per me, grazie-, mi affrettai a rispondere, abbassando lo sguardo su quegli occhi color cioccolato che mi fissavano stupiti.

-Dai, Carl, prendi qualcosa... hanno un ottimo...-

-Del vino rosso, per favore-, parlai interrompendola. Qualsiasi cosa fosse ottima per lei, a me avrebbe certamente provocato disgusto. Il vino, invece, riuscivo a berlo, ogni tanto. Me lo avevano insegnato in Italia i Volturi. “Sa di sangue, se annusi bene”; dicevano e in effetti, sforzandosi e usando una fervida immaginazione, il sentore di ossido e ferro misto alla sensazione di dolce bruciore quando scendeva in gola, poteva, lontanamente, ricordare un surrogato insipido e troppo liquido del sangue, utile per apparire umani in condizioni critiche.

Quella era una condizione critica...

Bella mi guardò con un filo di disappunto: forse pensava che non apprezzassi quel posto, che fossi troppo snob per un pub e una birra. Poi strizzò gli occhi, appena e si rivolse alla cameriera.

-Ho cambiato idea, mi scusi: prendo anch’io del vino rosso al posto della birra-, mi fissava. Non so perché, ma mi era parsa al contempo una tentazione e una sfida.

Aspettammo che la donna si allontanasse, ancheggiando e tornammo ai nostri discorsi.

-Dicevi?-, mi stuzzicò.

-Non ricordo...-

-Cosa facevi in Canada... –

-Sì... facevo il medico, come adesso. Solo che lavoravo in piccole cliniche di paese-, avevo risposto,  no? Perché continuava a fissarmi?

-Lavoravi... e?-

Aggrottai le sopracciglia e fui nuovamente grato alla cameriera che era tornata con due enormi calici di vino.

-Il croque monsieur sta arrivando-, disse senza entusiasmo a Bella, e si dileguò.

Ringraziammo e Bella sollevò il calice, tenendolo dalla coppa: il calore della sua mano faceva evaporare parte dell’alcool, diffondendo attorno a lei aromi di tannini e uva. Io lo presi per lo stelo, non perché sapevo come si degusta il vino, ma per non raffreddarlo. Più era caldo, più lo avrei sopportato. Bella osservò il mio gesto e alzò impercettibilmente le sopracciglia, forse considerando che per i suoi standard era già troppo quello che stava facendo.

-Allora... a cosa brindiamo?-, domandò imbarazzata.

Pensai un po’, ma non seppi darle una risposta che non fosse pericolosa, quindi strinsi le labbra e scossi leggermente la testa.

-A due medici soli e disperati, in una notte di pioggia a Parigi... ok?-

Mi aprii in un sorriso. Sì, era ok, Bella: esattamente quello che eravamo, esattamente la sensazione che provavo io, esattamente le stesse parole, sensuali e spaventate.

Ma sentirle dalle tue labbra rendeva dolce persino questo stupido vino e mi ubriacava di te.

Avvicinò il suo calice al mio e lo fece tintinnare delicatamente. Il suono riportò alla mia mente la risata cristallina di Alice, quando volteggiava nella nostra nuova casa di Forks, ancora spoglia e senza mobilia. Abbassai lo sguardo: una fitta di dolore mi bloccò per un istante. Non ce la facevo più a portarmi tutto dentro. Secoli di sofferenze mai esternate e soltanto pochi anni, a confronto, di pace.

-Lavoravo e avevo una famiglia-, ammisi, tornando alla sua domanda. Mi guardò contrita leggendo l’amarezza nei miei occhi.

-Carl...-, avvicinò la sua mano alla mia, abbandonata sul tavolo di legno. La ritrassi prima che potesse sfiorarmi.

-Adesso sono qui-, dissi sforzandomi di sorriderle e di apparire il più innocuo possibile.

Prese il calice con due mani e fece ondeggiare il vino al suo interno, osservandolo e pensando.

-Anche io avevo una famiglia-, disse piano, come se fosse un lamento, -Ma è andata male... e adesso sono qui anch’io-, sorrise come poco prima avevo fatto io, poi osservò la impercettibile riga lasciata dalla fede sulla sua pelle che stava perdendo del tutto la scarsa abbronzatura dell’estate.

-A due medici soli e disperati, in una notte di pioggia a Parigi... analisi perfetta!-, colpii delicatamente il suo bicchiere con il mio e vidi un sorriso nei suoi occhi.

-Com’è finita? ... se non fa troppo male parlarne...-, chiese cauta, sapendo che a domanda, avrei risposto con una uguale domanda.

-Preferisco ricordare com’è iniziata... lei era una mia... paziente e... siamo stati felici...-, quanto era duro parlare di Esme! Per un attimo pensai che i miei occhi scintillarono nel buio. –Poi io l’ho tradita. Ho tradito la sua fiducia lasciando che la nostra famiglia si sgretolasse-, abbassai lo sguardo.

Bella mi guardò: le sue labbra socchiuse, il fiato trattenuto, la fugace ombra di terrore sui suoi occhi... capii che aveva frainteso le mie parole e che mi credeva un libertino.

-Ho lasciato che si prendessero i suoi figli...-, aggiunsi, quasi per discolparmi di accuse che in realtà speravo potessero diventare vere, con lei. In fondo quello che avevo detto era vero. Mi avrebbe guidato Bella verso la verità che voleva sentirsi dire.

Aggrottò le sopracciglia senza capire, poi strizzo i lati degli occhi, come se stesse intravedendo la risposta.

-Lei aveva dei figli suoi e... se li è ripresi il padre naturale?-, domandò esitante. Forse stava ricostruendo tutto un romanzo nella sua testa adorabile.

No, non era andata così: noi avevamo dei figli *nostri* e io avevo lasciato che i Volturi se li tenessero con sé. Loro hanno preferito rinunciare alla loro vita, piuttosto che perdere la tua, Bella!

-Più o meno...-, bevvi il primo sorso di vino. Non era poi così buono come mi ricordavo. Non sapeva più di tanto di sangue. Bruciava soltanto ed era troppo acquoso. Forse la mia espressione impercettibilmente disgustata arrivò a Bella come una richiesta di non fare altre domande, perché stavo soffrendo troppo.

-Ok... tocca a te. Domanda pure-, mi passò la palla, rassegnata, stringendosi nelle spalle. Sapeva cosa le avrei chiesto ed io mi limitai a guardarla un po’ più intensamente.

-Sono divorziata. Lui... io... non ero adatta per lui. Non ho saputo dargli quello che voleva-, chinò la testa, vergognandosi. Io sgranai gli occhi: non potevo credere che Bella pensasse davvero che fosse a causa sua che il suo matrimonio con Jacob Black era naufragato!

Fui io a sentire la necessità viscerale di prenderle la mano. La posai dolcemente sopra la sua e la sentii rabbrividire, ma non disse niente.

-Ho perso il nostro bambino... per due volte-,  si sentiva in colpa come se avesse confessato un efferato delitto. Strinsi la sua mano nella mia, delicatamente, finché non alzò lo sguardo e i suoi occhi lucidi mi dissero che stava meglio. Se le avessi detto che aveva torto, che non era colpa sua, si sarebbe di nuovo più rattristata.

-... e quindi siamo scappati entrambi a Parigi-, conclusi. Il ‘noi’ sottinteso in quella frase mi fece scorrere un brivido sulla schiena.

Poco dopo arrivò il suo panino, che sbocconcellò controvoglia, segno che le era passato l’appetito. I movimenti nervosi con cui portava il cibo alla bocca e le sue labbra rosse posate sul vetro del calice, il profumo che emanava, come una rosa che sboccia piano piano, i suoi occhi che si perdevano nei miei e dopo fuggivano, cercando un altro punto su cui fissarsi, il calore del suo corpo, così vicino al mio, tutto mi faceva lentamente impazzire.

Sapevo di esercitare su di lei un fascino arcano e non avevo più voglia di nascondere questo mio aspetto: più fosse stata convinta che non ero un uomo normale, più si sarebbe lentamente spaventata. Con Jacob era andata così, avrei potuto comunque salvarla, grazie al suo istinto di sopravvivenza...

-Sono contenta di averti incontrato, Carl-, la sua voce calda e bassa, quasi sonnolenta per il vino che stava annebbiando la sua mente stanca e il calore della sua mano, di nuovo stretta alla mia, mi colpirono come uno schiaffo. Il dolore che provai fu solo una carezza sulla mia anima masochista e fragile.

-Sono felice anch’io... sei una donna... speciale-

Le sorrisi dolcemente. Volevo baciarla. Volevo scoprire di cosa sapevano quelle labbra morbide, che in quell’istante stava mordendo, forse pentita dalle sue parole, che si schiudevano in un sospiro caldo, che sapeva di vino, che sapeva di lei.

Scrollai la testa, rassegnato: mi stavo uccidendo lentamente, perché a questa sofferenza doveva pur corrispondere una fine. In quel momento, rigido su una panca di legno di un vecchio pub di Parigi, non potevo pensare di vivere un’eternità senza di lei...

-Eri come una montagna, vero, Carl? Ti sentivi sicuro nel tuo mondo e dopo... dopo il terremoto ha incrinato la roccia... giusto? Io mi sento così, a volte... anzi, io non sono mai stata una montagna, non sono mai stata forte abbastanza...-

Le sue parole mi avevano trafitto come lame incandescenti; la sua interpretazione della mia esistenza... della sua... ero sconcertato che potessimo realmente essere così in sintonia, ben oltre quello che fantasticavo durante la notte senza sonno.

Bella mi aveva letto dentro. Non conosceva i fatti, ma aveva messo a nudo la mia anima, la mia essenza.

-La montagna si sta ancora sgretolando...-, dissi in un soffio che riempii di significato, di sottintesi. Della voglia che avevo di lei.

Cambiò posizione e si appoggiò con le spalle alla parte dietro a lei, accavallando le gambe sotto al tavolo. Potevo vedere solo le sue ginocchia.

-Sonniferi-, bevve un altro sorso lentamente, -Voglio che tu mi prescriva dei sonniferi, Carl-

Lo avevo immaginato. Osservavo la sua vita da lontano da dieci anni e sapevo esattamente quale fosse il suo stato d’animo, anche se non avevo i poteri di Jasper.

-Incubi?-, domandai imitandola e bevendo.

-E’ sempre peggio... credo che sia perché sono così ad Est...-, la sua frase mi aveva colto impreparato. Sembravano le parole di un vecchio stregone di un romanzo fantasy. Poi capii cosa intendeva.

-Ho perso due anni della mia vita, sai Carl?-, un altro sorso. La sua voce si faceva sempre più sensuale, via via che il vino scendeva dalle sue labbra.

-Li ho dimenticati-, fissava un punto davanti a sé, senza guardarlo veramente. Mi sentii un vigliacco per non poterla aiutare...

-Un momento prima ero a Phoenix, con mia madre e il suo attuale marito, un secondo dopo in un letto d’ospedale in Italia, con postumi di una frattura alla gamba, una cicatrice in testa e questa-, fece scorrere la stoffa della sua maglia sul braccio fino a scoprire il punto dove spiccava una cicatrice che conoscevo bene. Avvicinò il braccio a me.

Rimasi immobile.

-Beh? Nessuna reazione? Ti sembra una cicatrice normale, questa? Sembra che sia stata marcata a fuoco come nel medioevo, ma quello che è assurdo è che è sempre fredda...-, spinse ancora di più il polso bianco e delicato sotto al mio naso, finché non lo sostenni con la destra e feci scorrere il dito sulla sua cicatrice.

La vidi provare tre diversi tipi di brivido: non pensavo si potessero catalogare.

Il primo, per il freddo, al tocco della la mia mano.

Il secondo, subito dopo, per l’emozione di quel contatto, delicato e intimo.

Il terzo, infine, che la percorse come una scossa elettrica partita dalle mie dita fino al cuore, dove si fermò, triturandolo. Lo stesso brivido che provai io, in direzione opposta.

Ci perdemmo l’uno negli occhi dell’altra per una piccola infinità. Poi Bella deglutì e ritrasse la mano.

-Tu che sei un chirurgo... pensi che si possa togliere?-, mi domandò come aveva fatto quella volta, nell’ospedale a Firenze.

-Teoricamente sì… ma sei proprio sicura di volerla cancellare?-

Ripetei le stesse parole di allora, e la vidi impallidire.

Volevo che ricordasse, che scappasse da me, che mi considerasse solo uno schifoso approfittatore. Volevo che mi scacciasse dalla sua vita una volta per tutte.

Dieci anni prima Bella non aveva risposto a quella domanda.

-Sì. E voglio che sia tu a farlo, Carl-, disse allora fissandomi con determinazione.

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 ... to be continued...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
© 'Proibito' Tutti i diritti riservati. 

PROIBITO

Rieccomi qua: ho aspettato un po' a postare, perché sinceramente speravo che si muovesse qualcosa in più... ma visto che tutto tace, proseguo con la storia di Bella...

Ed ora... buona lettura! ^__^

Ebbi i miei sonniferi e per alcune notti riuscii a scappare agli incubi, ma non fui in grado di resistere ai sogni.

Scoprii immediatamente quanto questi, apparentemente ristoratori, fossero molto più subdoli degli incubi da cui volevo scappare, perché lasciavano dentro di me una sensazione di benessere e solo alcuni frammenti di ricordi, che si mischiavano ai parti della mia immaginazione. La mattina soffrivo a separarmi da quei pensieri, ai quali mi aggrappavo, senza essere sicura se fossero realmente frutto di Morfeo, oppure di quello che volevo ardentemente.

Carl. Tutto quello che volevo era Carl.

Mi sentivo assolutamente drogata di lui, del suo sorriso, del suo corpo perfetto, della sua compostezza, dei capelli che sembravano fili d’oro, dei suoi occhi magnetici, delle sue mani grandi, nelle quali avevo messo il mio cuore rattoppato, dopo essermelo strappato dal petto.

Sognavo i suoi abbracci, quelle mani che sfioravano il mio corpo, le sue labbra sulle mie, il suo cuore battere emozionato insieme al mio, i suoi occhi aprirsi al mattino solo per me.

La sveglia continuava a gracchiare sgarbata, strappandomi inevitabilmente dal quello che stavo sognando. Immagini confuse che si dissolsero non appena aprii gli occhi. La colpii in malo modo per farla tacere.

Mi sollevai stancamente dal letto, tirando fuori dalle coperte prima una gamba, poi l’altra ed infine alzandomi a sedere, con i capelli che calavano come una cortina sul mio volto depresso e stanco. La sensazione di benessere che sapevo mi stava cullando solo pochi istanti prima, stava scivolando via come acqua da un colabrodo, inesorabilmente.

Cercai con i piedi nudi le pantofole, pesticciando il parquet né freddo né caldo. Poi rinunciai e mi diressi scalza verso il bagno.

Sentivo che solo pochi istanti prima mi trovavo tra le braccia di Carl, anche se non potevo dire con certezza che lo stessi sognando.

Da quella sera, quando lo avevo trovato in mezzo alla strada sotto la pioggia ed eravamo stati insieme al Guerrine,  Carl aveva occupato ogni istante della mia esistenza, era diventato la mia ossessione, una droga, dalla quale cercavo in qualche modo di tenermi alla larga.

Se solo avesse saputo quanto avevo bisogno di lui, quella sera! Di come la sua apparizione mi avesse confortata e la sua compagnia illusa.

Sì, illusa: perché era questo quello che stavo facendo. Mi stavo illudendo che un uomo del suo calibro potesse realmente essere interessato a me e alla mia sciattezza.

Lui aveva avuto il coraggio di confessare di essere stato la causa della fine del suo matrimonio, io mi ero nascosta dietro giri di parole pur di mascherare che se Jake non mi aveva voluta era solo perché io non ero alla sua altezza.

Lui aveva reagito con classe alle mie assurde supposizioni sul suo stato d’animo, senza dirmi di impicciarmi dei fatti miei ed era rimasto con me, senza farmi pesare la perdita di tempo.

Ma soprattutto, ne ero certa, aveva rinunciato a qualche impegno più importante solo perché si era imbattuto in me, che uscivo a quel’ora dall’ospedale. E io mi ero illusa che fosse venuto per me.

Non aveva fatto troppe domande circa i sonniferi: era ovvio che nessuno fosse interessato alle richieste di una pazza depressa, ma aveva prescritto dei farmaci meno pesanti di quelli che gli avevo domandato. Forse perché in fondo voleva che continuassi a passare notti insonni illudendomi che le visioni che io chiamavo incubi, sparissero.

Un getto più freddo nell’acqua della doccia mi sorprese ed emisi un gridolino: anche il suo respiro era freddo, anche le sue mani, che stringevano in un moto di pietà le mie.

Oh, Carl... perché hai accettato il mio invito quella maledetta sera?

Quando la musica, nella sala adiacente alla nostra, aveva iniziato a suonare rumorose note rock, lo avevo visto contrarsi: lui era tipo da ristoranti e musica classica, ne ero certa e invece l’avevo portato a vedere una parte del mio mondo, in modo che si disgustasse.

Forse anche il vino era cattivo, ma io che ne potevo sapere? Non sono un’intenditrice, ma lui certamente sì. Eppure l’aveva bevuto tutto.

Se fosse andato via lasciandomi là, ne sono certa, avrei avvicinato la mia bocca sul vetro del calice laddove lui aveva posato le sue labbra, come un’adolescente sciocca.

Invece aveva insistito per accompagnarmi a casa.

L’istinto mi aveva urlato di chiedergli di salire, la ragione mi aveva salvata.

Ma ero stata comunque graffiata sul cuore dalle parole che mi aveva sussurrato, aiutandomi ad uscire dall’auto.

-Sogni d’oro, Bella-

Sì, d’oro come i tuoi occhi, avrei voluto rispondere, ma lo avevo salutato stringendogli la mano energicamente.

Stringendogli la mano???? Parigi gridava ancora vendetta per quel gesto assolutamente inopportuno. Eppure non ero riuscita a fare di meglio.

I giorni seguenti, in ospedale, mi aveva evitata. Ne ero certa, perché, quando mi aveva vista arrivare in un reparto per i miei controlli, o mi aveva incrociato alla mensa, ogni volta mi aveva sorriso e si era dileguato, senza neanche aspettare che il mio cuore si rimettesse in moto e pompasse sangue al mio cervello, per rispondergli. Più volte mi ero trovata a sorridere al posto vuoto dove pochi attimi prima c’era lui, dandomi della deficiente da sola.

A lavoro stavo diventando sbadata. Più volte Bernard, il caposala, mi aveva inseguito fino all’uscita della struttura per comunicarmi che avevo dimenticato di visitare questo o quel paziente. I malati stavano iniziando a diventare numeri, nella mia testa, in fila per essere chiamati per la visita. Anche io avevo un numero stampato sulla testa, lo sapevo. Entro breve mi sarei messa anche io in coda e avrei atteso che qualcuno del reparto di psichiatria mi aiutasse.

Credo di aver raggiunto il punto più basso della mia carriera parigina nel momento in cui, scendendo le scale che collegavano il mio ufficio alla sezione visite, mi ero distratta a leggere della posta che era arrivata per me all’indirizzo di lavoro. Nella sinistra tenevo un bicchiere di caffè bollente, nella destra la lettera dell’Ufficio delle Imposte di Seattle, che mi richiedeva degli arretrati per un periodo di due anni prima. Mi ero distratta a contare mentalmente i mesi e stavo cercando di realizzare se quelle tasse mancate fossero relative al mio lavoro o a quello di Jacob, visto che all’epoca eravamo ancora sposati, quando la mia scarsa memoria motoria era andata in crash e avevo dimenticato l’ultimo scalino della rampa. Maledette scarpe col tacco e maledetto equilibrio!

Ero caduta come un sacco di patate versandomi sul tailleur nuovo e sul camice tutto il caffè bollente e schizzando anche la lettera delle tasse. Ma quel che è peggio è che mi ero slogata una caviglia.

Non c’è cosa più umiliante di essere trasportata su una barella nel proprio ospedale, davanti ai propri pazienti, sporca e puzzolente di caffè, e con le lacrime agli occhi per il dolore. Ora sapevo quale fosse il vero incubo di un medico!

Bernard, che guidava la mia barella più divertito che preoccupato, come farebbe un bambino al supermercato con un carrello della spesa, aveva voluto saltare la fila e passando davanti a tutti, mi aveva presentata ai visi incuriositi dei colleghi del pronto soccorso.

Quel mondo era totalmente diverso dal reparto calmo e pragmatico del terzo piano. Faceva montare allo stesso tempo l’angoscia e l’adrenalina.

Mi ero sentita solleticare la nuca, come se fossi stata avvezza a quel genere di incursione ospedaliera.

-Cosa abbiamo qua?-, aveva domandato una giovane e corpulenta infermiera che mi aveva preso in consegna.

-Anestesista con sublussazione del tendine del collo del piede, con sospetta lesione del legamento e accertato trauma cranico!-, aveva esordito Bernard, facendole l’occhiolino

- Non datele morfina, che se la intasca...-, aveva aggiunto, a beneficio di chi ancora non credeva che fossi realmente ferita.

-Come si sente dottoressa...?-

-Swan-, avevo concluso, -Ho solo male alla caviglia... niente trauma cranico!-, mi ero sforzata di sorridere. Bernard mi aveva lasciato alle loro cure ed era tornato su per avvisare i pazienti del mio ritardo.

Quando ero rimasta sola, ero stata assalita dal desiderio fisico di vedere Carl. All’inizio era stato solo un peso, da qualche parte sul cuore, che si era mosso, richiamando la mia attenzione; dopo, quando Eve, l’infermiera, mi aveva sfilato la scarpa e mosso la caviglia, era stato proprio necessità di qualcuno di forte a cui aggrapparmi per non urlare.

Mi sentivo mancare l’aria al pensiero che lui non sapesse niente di quello che avevo combinato.

Cazzo se mi faceva male il piede! Cazzo se mi ero sentita un’idiota e soprattutto cazzo se non volevo che lui mi vedesse in quelle condizioni, ma... avevo davvero bisogno del suo conforto.

Era l’unico appoggio che avevo trovato a Parigi...

Mi avevano portato a fare delle radiografie, ancora una volta passando davanti alla fila di pazienti con codice verde in coda. I loro sguardi di puro odio non mi furono d’aiuto.

Mi avevano domandato se ero incinta. Sapevo che era una domanda di routine, ma in quel momento avrei voluto levarmi anche l’altro tacco e colpire violentemente sulla testa la donnetta esile che faceva le radiografie e intanto masticava un chewing gum alla fragola rumorosamente.

Avevo battuto ogni record in astanteria e, dopo soli venti minuti, ero già stata dimessa con una prognosi di cinque giorni, una scarpa col tacco in mano, una vistosa fasciatura al piede e i moduli delle tasse in tasca.

Mi avevano scaricato su una sedia a rotelle mezza scassata, dalla quale, mentre stavo cercando di alzarmi, ero stata praticamente sollevata di peso da Bernard: qualcuno doveva averlo avvertito. In quel momento, mentre mi teneva tra le sue braccia, barcollando, in una parodia di staff medico e mi riportava al mio studio, mi era sorto il tiepido dubbio che lui ne fosse contento, che finalmente avesse avuto l’occasione di avvicinarsi a me e provarci.

–Vuole che le chiami un taxi, dottoressa?-, mi aveva domandato.

Avevo risposto che sarei rimasta a fare il mio turno, tanto, se stavo seduta, non c’era nessun impedimento al mio lavoro. Avevo preso una dosa doppia di antidolorifici e mi ero rimessa a lavoro.

–Dovrebbe curarla, quella gamba, invece che far finta di essere di acciaio-, aveva aggiunto prima di uscire, con un filo di rammarico nella voce.

–Ma io sono d’acciao, Bernard. Con tutte le storte e le cadute che ho preso nella mia vita, dovrei essere morta, se non fossi d’acciaio!-

–Esca e vada a casa, ne approfitti ora che c’è ancora questo splendido sole...-, mi aveva salutato con un sorriso più ampio del solito e poco dopo erano iniziati ad arrivare i pazienti, che erano stati deviati dall’ambulatorio al mio studio.

Per tre ore gli antidolorifici e quella routine che avevo acquisito avevano lavorato al mio posto. L’automa Bella Swan registrava le informazioni dei pazienti che si presentavano con tracciati dell’ECG pronti e vecchi referti clinici, compilando moduli e archiviando ogni caso, automaticamente, come un numero.

Il numero 8, tra gli altri, mi aveva particolarmente colpito: non ricordo il nome, ma il viso. Era un ragazzo di diciassette anni, con una malformazione congenita al cuore che gli impediva di divertirsi come i ragazzini della sua età. Era alto, ma gracile e aveva un sorriso triste sul volto. La madre gli aveva tenuto la mano, mentre parlavano con me e lui mi aveva trafitto con i suoi occhi verdi e profondi.

Aveva diciassette anni e stava affidandosi ai medici per tornare a viverli davvero.

Avevo riflettuto un attimo su di lui, il numero 8... io, dei miei diciassette anni, non avevo alcun ricordo.

Quando era finito il mio turno, sorridente come al solito, Bernard si era presentato al mio studio e mi aveva offerto un passaggio fino a casa sulla sua auto.

Avevamo parlato del più e del meno, mentre l’effetto dell’antidolorifico evaporava e una fitta di dolore arpionava sempre più rapidamente piede e stomaco. Arrivati sotto casa mia entrambi eravamo stati folgorati dallo stesso tragico pensiero.

–Ha l’ascensore, vero, dottoressa?-, mi aveva domandato.

–Merde, no! E poi, Bernard... dammi del tu!-, avevo preso le mie cose ed ero scesa goffamente dall’auto. Mi avevano voluto dare a tutti i costi un paio di stampelle e, tra quelle, la mia borsa, il cappotto, il sacchetto con la scarpa malefica e quel che restava delle mie calze e la mia proverbiale goffaggine, non sapevo come muovermi.

–L’aiuto... ti aiuto io, dottoressa-, Bernard era già al mio fianco. Gli avevo affibbiato  stampelle, cappotto, borse e giacca del completo, ma gli avevo impedito di toccarmi.

Era una sfida con me stessa: se non riuscivo a vincere sulla mia natura instabile, avrei vinto sui miei muscoli inesistenti. Così, uno alla volta, lentamente, come se fossero frustate, avevo salito saltellando sul piede buono tutti i centoventotto scalini che portavano alla mia –adorabile…- mansarda. In quel momento avevo pensato che, se mai avessi dovuto cambiare ancora casa, nella mia vita, avrei certamente scelto un piano terra col giardino. E senza scale interne!

Bernard mi aveva seguito, trasportando le mie cose e sfiorandomi con la sua mano la schiena, nel timore che potessi di nuovo inciampare, cadere e morire sotto ai suoi occhi. Quel tocco inesistente mi aveva confuso... non volevo quelle mani addosso! Ma dove diavolo era finito Carl??

Quando la porta si era chiusa dietro la schiena delusa di Bernard, al quale non avevo permesso di controllarmi la fasciatura, di prepararmi qualcosa per cena, di restare a casa mia per cena e soprattutto avevo vietato di disdire i miei appuntamenti per la settimana in corso, mi ero finalmente lasciata cadere sul divano, sfatta e sudata come una bestia dopo che è stata inseguita da un branco di lupi.

Quel pensiero folle e maligno mi aveva ricordato, nell’ordine: Jake --> il modulo delle tasse --> il caffè sul modulo --> il caffè su tutti i miei vestiti!

Mi ero alzata controvoglia, afferrando le due stampelle come fossero mitra e mi ero lentamente spogliata. A parte il camice che era sparito nelle lavanderie dell’ospedale, tutto ciò che indossavo era macchiato: la giacca, la camicetta che avevo sotto, anche la gonna non era stata risparmiata. Avevo messo tutto in un fagotto che avrei portato in lavanderia e avevo indossato la mia divisa da casa costituita da un paio di sdruciti pantaloni di pile, una vecchissima felpa di Jacob, che non avrei mai buttato per nulla al mondo, e dei calzettoni di lana. Un calzettone di lana, per l’esattezza: sull’altro piede spiccava la fasciatura bianca.

Una volta tornata al divano e iniziato nuovamente il rilassamento, avevo imprecato tra i denti, mi ero rialzata, ero tornata al sacchetto, avevo estratto la giacca macchiata e cercato, nella tasca, la lettera delle tasse. L’avevo rigirata tra le mani come fosse l’arma di un delitto, poi avevo afferrato il cordless, la lettera, una copertina imbottita che adoravo e avevo composto il numero di Jake. Là doveva essere mattina.

-Ciao Jake-, avevo detto quando aveva risposto al telefono, con voce un po’ lenta e stanca.

-Bella! Quanto tempo! Come stai?-

-Se non ti chiamo io tu non chiami mai...-

-Hai ragione è che... scusami...-

-Perdonato. Comunque non sto bene, ma ti chiamo perché lo Zio Sam vuole i miei soldi e io credo che invece debba richiederli a te...-

Era rimasto in silenzio, imbarazzato, senza capire. – Bells... se vuoi che ti paghi gli alimenti non hai che da cancellare quella ridicola clausola che hai imposto sul divorzio... io...-

-Piantala Jake!-, avevo tuonato, -Non hai capito niente, come al solito!-

-Cosa...?-

-Senti, ti mando per fax questa lettera e gli dai un’occhiata, ok? Credo si tratti di un conguaglio su quello che avevi versato quando hai aperto l’officina-

-D’accordo. Ma... hai detto ‘non sto bene’ ho sbaglio???-, la sua voce era allarmata.

-Stai calmo! Beh, sì... cioè... no... indovina?-

-Sei caduta di nuovo...-

-Bingo! Ma stavolta ho fatto davvero un casino... e poi è successo davanti a tutti i miei pazienti... che vergogna!-

-Che ti sei rotta a questo giro?-, cercava di scherzare, ma io lo capivo che era preoccupato.

-Niente, solo una distorsione fatta bene alla caviglia-

-Sempre la stessa?-

-Sempre la stessa...-, adoravo parlare con Jake... anche a migliaia di chilometri di distanza, ci capivamo ed eravamo in sintonia come se ci stessimo guardando negli occhi.

-Sei sola, adesso?-

Perché mi aveva fatto quella domanda? Era preoccupato o geloso?

-Sì, certo che sono sola... anche se ho dovuto mandare via Bernard, un infermiere, che oggi mi ha servita e riverita. Se non l’avessi scacciato sarebbe rimasto a dormire ai piedi del mio letto, pur di controllare che non rotolassi di sotto!-

Jacob aveva fatto una pausa. Era geloso! Gongolai tra me e me, perfidamente.

-Se vuoi che venga a Parigi, Bells, dimmelo, ok? Io posso chiedere a Frank di..-

-Jacob! Mi sono slogata una caviglia, non sto mica morendo di tubercolosi! E poi... c’è Bernard che mi aiuta...-

-Sei sicura che di lui ti puoi fidare?-, stava davvero facendo il geloso!

-Certo! Si prostrerebbe a terra per farmi camminare sul morbido!-, avevo riso per l’immagine che la mia mente stava creando, Poi ero stata sincera.

-Onestamente? Non vedo l’ora che Berbard si stacchi, perché sta cominciando a diventare appiccicoso. Mi ricorda Mike Newton!-

-Chi??-

Avevo deglutito e un brivido mi aveva percorso la schiena, senza che ne capissi il motivo.

-Mike Newton...-, avevo balbettato tremante.

-E chi è?-

-Non ne h o la più pallida idea...-, avevo ammesso sconcertata e avevo lasciato scivolare il telefono dalla mia mano.

I giorni seguenti al mio incidente erano stati i peggiori degli ultimi anni. Avevo avuto per la prima volta un ritorno dal mio passato perduto, segno che, sotto anni di polvere, i miei ricordi erano ancora lì. Dovevo capire cosa aveva scatenato quel flash nel mio cervello e come dovevo fare per non lasciarmi sfuggire di nuovo la verità che affiorava.

Ma la cosa più terribile e magnifica di tutte era stato quello che aveva fatto Carl per me.

La mattina dopo, la sveglia del mio comodino aveva gracchiato come un'ossessa per chissà quanto tempo prima che mi fossi svegliata, tutta dolorante e ricurva, sul divano. Evidentemente mi ero addormentata lì.

Avevo solo vaghi ricordi di quella nottata convulsa: quello che più di tutti ricordavo era un dolore fortissimo al piede, che, incurante di quello che i miei colleghi mi avevano detto, avevo sforzato troppo, andando e venendo per le due stanze che costituivano la mia casa, per cercare di collegare un volto al nome di Mike Newton. Avevo ripreso le foto del college, vecchie rubriche che non avevo mai buttato via, perché non volevo che parti del mio passato, di nuovo, andassero perdute. Avevo riesumato persino le foto dell'ultimo anno di liceo a La Push, e per ciascuno di quei volti sorridenti avevo già un nome da assegnare.

Che non era ‘Mike Newton’.

Avevo provato anche a chiamare Carl... in un momento in cui mi stavo lasciando andare allo sconforto e la cicatrice che ornava il mio polso aveva preso a pizzicare, come se ci fossero stati dei punti che volevano essere rimossi, ma non aveva risposto.

Forse era stato allora, dopo che avevo iniziato a piangere da sola come una scema, sul divano, con una borsa del ghiaccio sulla caviglia e le mani nei capelli, che avevo preso i sonniferi: la mattina dopo avevo trovato solo il blister vuoto. Ne erano rimaste due dal giorno prima, quindi voleva dire che avevo assunto dose doppia.

Complimenti dottoressa, continua così, aveva detto una vocina nella mia testa, che voleva scoppiare per il dolore. Forse Bernard aveva ragione e avevo davvero battuto anche il capo...

Avevo dato la mia parola che niente mi avrebbe fermato dall'andare dai miei pazienti, seppur zoppa, visto che per tre giorni non avevo neanche interventi in programma e quindi mi ero fatta forza e mi ero alzata. Con le stampelle ero arrivata in bagno e mi ero fatta una specie di doccia, tenendo la gamba destra fuori, perché non si bagnasse la fasciatura, poi mi ero asciugata e vestita.

Quello che non sapevo come fare era scendere le dodici rampe di scale, che mi terrorizzavano.

Avevo chiuso la porta e percorso il breve pianerottolo che portava alle scale, quando avevo sentito il suono del telefono provenire da casa mia. Avevo lasciato squillare: chi mi voleva, mi avrebbe richiamato più tardi.

Avevo preso un grosso respiro e mi ero affacciata all'abisso e poi... il rumore di svelti passi provenienti dalla tromba delle scale mi aveva per un istante fatto trattenere il respiro, come se avessi saputo chi stava salendo. Poi, in un istante, avevo scorto i capelli biondi ed il viso preoccupato di Carl, che mi aveva guardato a lungo, fermo tre scalini sotto a me ed il mio cervello si era dimenticato di comandare ai polmoni di respirare.

Come l'avevo visto, avevo sentito il pavimento franare sotto a me e tutto farsi buio. Poi erano state le sue mani sul mio viso, il suo respiro così vicino al mio a riportarmi a galla.

Era seduto sull'ultimo scalino e mi teneva stretta a sé, disegnando effimere carezze sulla pelle della mia guancia, con il pollice, mentre il resto della sua mano scivolava sotto al mento. Era ghiacciato, come sempre e guardava lontano, oltre il muro che ci divideva dal palazzo vicino.

Ricordo di averlo chiamato per nome e lui aveva voltato i suoi occhi brillanti verso di me e mi aveva sorriso.

-Ciao...-, aveva detto piano, graffiando l'aria con la sua voce sensuale.

-Ciao...-, gli avevo risposto, arrossendo.

-Cosa stavi facendo?-, lo aveva domandato sorridendo, come se mi avesse trovata con le mani nella marmellata. -Dovresti essere a letto... dammi le chiavi-, perché l'aveva chiesto? Che voleva fare?

Mi aveva sollevata tra le sue braccia, alzandosi, come se pesassi due chili e mi aveva ricondotta dentro casa.

Il rumore della pioggia che aveva ripreso a cadere dalla notte ronzava sul tetto sopra a noi.

Mi aveva fatta sedere sul divano, e si era chinato di fronte a me. Poi aveva aperto la zip dello stivale con cui avevo coperto la fasciatura e aveva mosso delicatamente la mia caviglia. Avevo sentito male, ma gli avevo sorriso.

-Posso levarla?-, aveva domandato, prima di iniziare lentamente a srotolare la fasciatura che mi imprigionava.

Poi aveva preso entrambe le sue mani e le aveva avvicinate alla zona gonfia. Che sollievo! Cento volte meglio del ghiaccio, perché erano le sue mani...

Eppure, sebbene sapessi che erano fredde, nonostante il mio corpo desse la conferma di ciò, io mi ero sentita avvampare. Avevo mosso il piede, perché lo lasciasse e, quando fu di nuovo in piedi davanti a me, mi ero mossa in avanti sul divano, abbracciandolo stretto. Forse gli avevo macchiato di mascara un angolo del cappotto chiaro, ma le sue mani che mi accarezzavano dolcemente la testa stringendomi sulle sue gambe come fossi stata una penitente davanti ad un vescovo, mi avevano fatto dimenticare ogni macchia che poteva esistere nella mia esistenza. Poi si era chinato e delicatamente aveva asciugato le lacrime che mi scorrevano sul viso, con i pollici, mentre teneva il mio volto tra le mani.

-Grazie...-, ero riuscita a sussurrargli, poi gli avevo sorriso.

***

 ... to be continued...

***

Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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Ecco le risposte ai vostri commenti!

meredhit89: Mi fa piacere che tu capisca perfettamente la situazione dei vari personaggi della storia e i loro punti di vista... Chissà... forse la tua curiosità, prima o poi, potrebbe essere accontentata... :-P

Helen Cullen: Mi hai fatta morire!!!! :-P Ti ho colpita e affondata, con la posa da modello delle pubblicità di Carl? ^__^ Siamo in due, allora, perché prima di scriverle, me le vedo le scene! Sono strafelice che tu abbia compreso così profondamente la condizione contrastata di Carlisle che non sa come comportarsi e la sofferenza di Bella. Lei è stata ferita e ha paura del futuro... almeno io la vedo così... Continua a recensire, che mi piace molto leggere quello che scrivi!

Balenotta: Eheh! Desolata per farti stare sulle spine... prima o poi ti prometto che la situazione evolve... ma se uno ha... che ne so... ecco, una caviglia malandata, prima di tornare  a correre, inizia a fare passettini e poi passi sempre più grandi... ci vuole tempo o l'equilibrio si spezza! Comunque resisti!!! Grazie!

VivianaRossa: Oddio... ç__ç Io non vorrei dare l'impressione che "Bella se la faccia con quello che era suo suocero"... mi deprime un po' questo punto di vista! Piuttosto posso dire che con l'età Bella scopre di gradire lati della famiglia Cullen che la portano ad apprezzare sempre di più il vino stagionato... o il pecorino... va meglio? ^__^;; Grazie x la recensione!!

eka: In effetti carl si sente un po' pedofilo, ma questo gli capita dal lontano millesettecentoventiquattro, quando conobbe quella biondina tutto pepe che stava all'osteria... Dopo si sentì pedofilo anche con la attempata signora americana nel milleottocentoquarantasei, perché anche se sembrava sua mamma, aveva già quasi due secoli meno di lui. Quando arrivò Esme si fece chiudere in una clinica psichiatrica, visto che la signorina, quando defunse aveva solo 26 anni... cosa che tuttora ha. Bella... beh, sì, ne ha due più di lei, ma ancora non è immortale, sicché di vissuto ne ha poco... Il problema è che il signore s'è un po' immandrillito, negli ultimi tempi, a forza di vedere il dottor house in tivvù... sicché ha deciso di comportarsi da trentenne e chissene! ^__^ Scherzi a parte, sono felicissima per i tuoi commenti e... dopo questa parentesi Bella/Carl riproporrò qualcosa sugli altri vampiretti... ma non ti eri scandalizzata con Eddie & Alice? ;-P

PROIBITO

Non dormivo più da trecentosettantatre anni, non ne avevo bisogno.

All’inizio era stato difficile accettare che la mia mente non potesse mai trovare pace, che le tenebre non l’avrebbero più avvolta, confortandola dai pensieri che si affannavano nella mia testa.

Avevo avuto tempo di fare esercizio, ma ancora, qualche volta, quando anche la luna tramontava oltre i tetti delle case, sentivo la mancanza di quella sensazione che precede l’attimo in cui i sensi abbandonano il corpo, lasciandolo in balia dell’oscurità.

Volevo poter dire che era il mio subconscio a dare vita ai pensieri che mi facevano sentire colpevole e che avevano come unica protagonista, in ogni istante, Bella Swan.

Dopo la serata passata con lei in quel simpatico pub di periferia, l’avevo riaccompagnata a casa.

Se mi avesse detto di salire, non so se avrei trovato la forza di resisterle.

Ma lei era stata più forte di me. Lo diceva sempre, Edward…

Mi aveva salutato con una stretta di mano: avevo apprezzato quel gesto impacciato, perché aveva significato che lei cercava un contatto, ma che ancora non era pronta.

Avevo rispettato la sua volontà, cercando di evitarla, quando ci incontravamo a lavoro. La sentivo avvicinarsi grazie al suo profumo e andavo via, semplicemente.

Scappavo, perché era giusto così, ma invece avrei preferito liquefarmi sotto i suoi occhi ed essere assorbito dal suolo che lei calpestava, pur di restarle accanto.

Trecentosettantatre anni e non mi era mai capitato di desiderare così intensamente di mordere un frutto proibito. Con Esme era stato tutto troppo facile, quasi scontato.

Ma Adamo ed Eva non furono cacciati dal Paradiso per essersi amati… no, fu per aver tradito la fiducia che era stata riposta in loro…

Avrei bruciato nell’inferno, per lei! Mi sarei fatto smembrare e cospargere di benzina, prima di urlarle per l’ultima volta quanto la desiderassi!

Esme diceva che ero il più compassionevole di tutti noi, che avrei saputo resistere in qualunque circostanza al sangue umano. Si sbagliava… ah come si sbagliava! Potevo resistere e non bere il sangue di Bella, ma l’attrazione che il suo odore dolce e sensuale risvegliava in me non ero capace di acquietarla.

Le distanze che mi ero imposto mi ferivano tagliandomi in due come lame affilate e lo sguardo deluso che scorgevo sul suo volto, quando capiva che mi allontanavo da lei, mi stringeva il cuore in una morsa. Mi feriva vedere come la ferivo.

E in più sentivo che il tempo stava mutando. Sarebbe tornato il sole ed io… dovevo allontanarmi assolutamente.

L’avevo aspettata sotto casa sua, la sera prima, quella in cui il vento aveva iniziato a spostare le nuvole, e l’avevo vista rientrare, stanca e delusa. Avevo intuito che fosse stato a causa della mia diffidenza e mi ero sentito meschino ed impotente.

Avrei voluto mostrarmi e prenderle una mano, guardarla negli occhi e domandarle perdono. Poi sarei andato via da Parigi.

Invece l’avevo lasciata infilare le chiavi nella toppa e sparire nel portone che si era chiuso con un colpo secco dietro a lei.

Poco dopo, la sua ombra mi era apparsa sulle tende del suo piccolo appartamento, all’ultimo piano…

Avevo provato una sensazione strana, aggrovigliata alle pareti del mio stomaco… Come uno strano presentimento, come se lasciandola andare, le sarebbe potuto accadere qualcosa…

Dovevo andare via!

Poco fuori Parigi c’era un grande centro benessere, con svariate aree per il fitness, la beauty farm, e le terme. C’era un percorso scavato sotto la collina a cui era addossato, dove piccole cascate d’acqua, vasche idromassaggio e zone più calde, illuminate solo da deboli luci bluastre, conducevano a due enormi piscine: una fredda ed una riscaldata.

Ma la particolarità di quel posto era che non c’erano reception o inservienti pronti ad accoglierti (assalirti) all’ingresso, ma solo un tornello simile a quelli delle banche: entrava solo chi aveva il pass e all’interno gli era garantita tutta la privacy che desiderava. Se voleva, poteva chiamare il personale per un massaggio, o un cameriere per avere un drink.

Il pass di quel centro benessere lo avevano in pochi ed io ero uno di essi.

Arrivai al centro presto, prima che la bruma si dissolvesse ai raggi del sole nascente e percorsi rapidamente la distanza tra il parcheggio e l’ingresso. Feci scorrere la mia tessera magnetica nella fessura ed entrai. Là dentro il sole non mi avrebbe raggiunto ed io avrei potuto perdermi nei miei pensieri senza che l’odore costante di Bella, che era attaccato ad i miei vestiti e che ormai aveva contagiato la mia casa, mi seguisse fin lì.

Avevo bisogno di riflettere, di disintossicarmi da lei.

Avanzai verso il percorso e scelsi la piscina fredda: in inverno era sempre deserta. A volte potevo passarci ore intere senza rendermene conto, perdendomi nei miei ricordi…

-Cosa c’è, figliolo?-, alzo gli occhi dal quotidiano che stavo sfogliando, senza interesse. Edward siede di fronte a me con gli occhi bassi sulle sue ginocchia, aspettando. Tutti gli altri sono a caccia. Perché Edward non è con loro?

-Carlisle…-, si muove sulla poltrona, agitato. Non riesce a trovare una posizione comoda.

No: è quello che vuole dire che è scomodo.

-Carlisle, posso parlarti di… un problema?-, riprende titubante e alza gli occhi su di me. Sono quasi del tutto neri. Non riesco ad impedirmi di aggrottare una sopracciglia, guardandolo. Mi torna in mente il suo periodo da neonato, quando sete e paura lo tormentavano.

Chiudo il giornale e lo piego, lanciandolo sul posto vuoto sul divano.

-E’ la tua ragazza, il problema?-, forse sono troppo avventato. E’ chiaro che sia quello il problema, dovevo aspettare che lo dicesse lui…

-E’ così evidente?-, riabbassa lo sguardo.

-Abbastanza…-, trattengo a stento un sorriso. A che prò? Lui mi legge la mente… Devo controllare il mio pensiero…

-Non farlo. Voglio conoscere davvero quello che pensi-

Mi arrendo.

-Dopo quello che è successo con James… e poi con Jasper… io ho davvero paura di quello che noi rappresentiamo per lei. Chi mi dà la certezza che anche io non le faccia del male?-

-Tu sei più forte di loro. Tu la ami-, Edward, come fai a non capire la differenza?

Mi guarda scettico, cerca ancora la posizione sulla poltrona.

-Non è proprio così semplice, Carlisle…-, mi trafigge con occhi neri, -Tu non puoi capire…-

-Cosa?-

-Io non ho solo… sete del suo sangue… Io… la desidero maledettamente-

Ora sono io a cambiare posizione sul divano. Vuoi un consiglio ‘da uomo’, Edward?

-Sì: proprio quello…-, ancora lo sguardo precipita.

Cerco di non pensare… non voglio che sappia quello che davvero penso di quel legame tra lui e Isabella… Mi sorprende e parla lui.

-Cosa faresti se sapessi che la tua donna ti desidera ardentemente e vuole stare con te… mentre tu, invece…-

Alzo le sopracciglia di nuovo: non riesco a visualizzare la piccola Bella in quel contesto.

-Carlisle…!-, mi rimprovera perché provo ad immaginarla in atteggiamenti intimi con lui. Mi ricompongo.

-Tu hai paura di farle male-, non è una domanda.

-Tu non ne avresti?-, in realtà non è una domanda neanche quella. Sì, ne avrei anch’io… per lo stesso motivo che ne ha lui.

-Cioè?-, stavolta me lo chiede sul serio, non si aspettava quel commento dai miei pensieri.

-In effetti Bella ha davvero un buon odore…-, ammetto e deglutisco, -Più le stai vicino, più ne sei vittima-

Sorride ghignando. –Vittima? Io?-

No, non era la parola più adatta.

-Se la ami, non le farai del male. Penso che tu sia in grado di contenere la tua sete: ti ho già visto farlo a Phoenix…-, gli sorrido.

Ho risposto alla sua domanda, cos’altro vuole? O forse non intendeva quello?

-Non è la sete che mi fa paura… ma il… sesso…-

Mi imbarazza parlare di lui di queste cose: in fondo abbiamo avuto le stesse esperienze, da vivi, cioè nessuna. Non so cosa significhi davvero “stare” con una donna vera. Io ho avuto solo Esme, e con lei è diverso.

Forse dovrebbe chiedere ad Emmett… lui sicuramente lo sa.

-Mi prenderebbe in giro e allora sarei costretto a tirargli un cazzotto-, ride. Rido anch’io, ma siamo entrambi nervosi.

-Insomma… io non ne so nulla, non so cosa posso essere in grado di fare. Non so se… saprei contenermi, non farle male…-

Non posso imprigionare la mia mente stuzzicata dalle sue parole: non me li immagino lui e Bella che fanno sesso, mi sforzo, ma non me li immagino. Anche perché per me, ‘sesso’ non esiste. Per me esiste solo ‘amore’, con mia moglie.

-Scusami…-, metto le mani avanti, tanto so che ha già visto quello che mi ha sfiorato la mente. Prendo aria. Non so che rispondergli.

Mi ripeto: -Saresti in grado anche di contenere la tua forza…-

Si alza deluso dal divano, non l’ho saputo aiutare.

-Ed…! Dai, torna qui-, mi sembro davvero un padre imbarazzato a parlare col figlio, di quelli della tv.

Si volta, se potesse, sarebbe paonazzo. Forse lo sarei anch’io.

-E’ facile, per voi… ma tu hai anche solo minimamente idea di cosa significhi sfiorare la sua pelle morbida e calda? Annusare il suo respiro che sa di… vivo, baciare quelle labbra che sono così tenere e profumate e… sentire l’odore della sua eccitazione che mi invade i sensi, più di quello del suo sangue? Sai cosa significa trattenermi per non farle del male?-, sta quasi urlando.

Non ho argomenti per rispondergli. Neanche la mia mente sa cosa rispondergli, se non che è normale che lui si senta impotente davanti a quella ragazza pulsante di vita.

Mi guarda con delusione e se ne va.

Non lo trattengo: devo sforzarmi di non pensare a quello che ha appena detto di Bella.

L’acqua si increspò appena, accanto a me. Mi risvegliai dai miei ricordi appannati: qualcuno si era tuffato nella piscina che credevo deserta. Chissà che ore erano: avevo perso il senso del tempo, immerso nell’acqua tiepida, aspettando che il sole tramontasse.

Chissà, forse l’immagine di uomo pallido ed immobile, steso a galleggiare sull’acqua con gli occhi chiusi, le braccia aperte, per ore, poteva destare sospetti che fossi morto.

Mi mossi e mi rimisi a nuotare: ogni rumore era sospeso nell’aria immobile e densa dell’enorme cupola di legno e vetro. Alcune voci, alle mie spalle, giunsero come lontane anni luce dalla dimensione in cui ero sprofondato.

Con la coda dell’occhio vidi due donne sulla quarantina avvicinarsi a me, avvolte nei loro costumi interi griffati. Finsi di prendere aria e mi immersi, nuotando a pelo d’acqua, per sfuggire a quelle due. Sicuramente si stavano chiedendo cosa ci facesse un uomo come me da solo. Percepii il loro disappunto e mi diressi verso le scalette.

Quando uscii e percorsi gocciolando il bordo vasca, udii dei risolini ovattati alle mie spalle.

Ci ero abituato, ma mi infastidirono.

Controllai l’ora sull’orologio che avevo lasciato sulla sdraio, insieme alle mie cose, e decisi che potevo azzardare ad uscire alla luce del sole.

Mi sentivo inquieto, come se fosse accaduto qualcosa di brutto ed io ancora non lo avevo saputo.

Andando verso l’auto guardai il mio cellulare: Bella aveva provato a chiamarmi.

Dovevo resistere, dovevo cercare di mantenere le distanze da lei.

Avrei potuto farle male, troppo male. Ero pericoloso. Avevo troppa sete di lei.

Misi in moto e sgommai, dirigendomi verso Parigi, mentre il sole tramontava.

Inconsciamente posai una mano sul sedile accanto al mio, dove quella sera si era seduta lei e un brivido mi avvolse e stritolò, togliendomi il respiro.

Sentii l’auto sbandare, ma ripresi il controllo immediatamente.

Non era la sete che dovevo contenere… Era la voglia di lei…

Imprecai, battei i palmi violentemente sul volante. Sbandai ancora.

Arrivai a casa, mi chiusi dentro e afferrai tutti quei vestiti che conservavano ancora l’odore di quella serata al pub. Li chiusi in un sacchetto e corsi a gettarli nel primo cassonetto vicino casa.

Tornai su, mi sedetti sul divano, accesi lo stereo e lasciai che le note di Chopin mi facessero dimenticare come mi sentivo.

Il mio cellulare trillò, facendomi sussultare. Era ancora Bella…

Lo lasciai squillare e sprofondai per terra, la schiena poggiata al divano. Affondai le mani nei capelli e presi aria.

Mi sentivo svenire.

-Tu hai paura di farle male-

Non è una domanda.

-Tu non ne avresti?-

***

 ... to be continued...

***

Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

***

Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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Che bello che è leggere i vostri commenti... *__*

 sarapastu: Grazie cara che continui a seguirmi, è importante per me... non preoccuparti se non commenti ogni cosa! Sì, Bella inizia a ricordare qualcosa, per caso, ma ancora le tenebre non si dissipano... Le nuvole arriveranno con i ricordi...? Può darsi... :-P Mi paice scrivere i sentimenti di Bella e Carlisle, soprattutto quelli di lui, perché mi è sempre parso un personaggio troppo 'dato per scontato' nei libri della Meyer... non se lo merita! Per sapere qualcosa del resto della famiglia, temo che dovrai aspettare altri due capitoli... perdonami!

meredhit89: Mike Newton: un nome, se lo conosci, lo eviti, se non lo conosci... sopravvive anche alla varichinata dei Volturi! ^__^ La cosa di Mike Newton mi è uscita così... proprio come un ricordo che torna in mente senza un motivo... dai, almeno a qualcosa è stato utile anche lui, no? Speriamo che Carlisle, nel rialzare Bella, non vada a rotoli pure lui! Jake è geloso, perché un conto è l'imprinting 'lupesco', un conto sono gli anni passati con Bella, che non può dimenticare con un colpo di spugna, lupo o no! :-P

eka: Glosh... le minacce!!!! Calma per i ricordi!!!! Vedrai che prima o poi arriva qualcosa... non vuoi che per un po' quei due si frequentino senza che lei sappia cosa gli nasconde il biondone? Vuoi sapere dove abito? Un nome, una garanzia ;-P

Helen Cullen: Sono commossa dalla tua recensione... e mi fa piacere che la pensiamo allo stesso modo su Carlisle! Facciamo così, quando ripassa di qua per la visita, te ne lascio un pezzettino, ok? ;-) L'incidente di Bella, quello 'a cui dovrebbe essere abituata' è la trasposizione in ff di quello che è accaduto a me 4 settimane fa: io ero tra quelli in coda per la radiografia, a cui Bella passa avanti, ok? E mentre ero al pronto soccorso, mi sono divorata tutto New Moon... per fortuna che ce l'avevo dietro! E' amoroso, vero, Carlislino? lui è sempre dolcettoso nei libri della Meyer, ma non emerge mai davvero come sia, cosa pensi, cosa ami... sembra che viva per la famiglia e non abbia una vita sua, invece secondo me c'è tanto di più, da scoprire grattando sotto la superficie. C'è un uomo, innanzitutto, condannato ad avere trentanni per l'eternità. E a trentanni, secondo me, non si può essere solo padri di famiglia per sempre... :-P

Mie care tutte, volevo aspettare un po' a postare, ma poi ho detto... ma chissene! Facciamo contente le aficionadas!

Spero che quest'altro spaccato di Carl vi sia piaciuto!

GRAZIE MILLE AI MIEI 42 PREFERITI (al momento)

PROIBITO

Un capitolo a duetto...

***

Bella

***

Entrai in ospedale con un'ora di ritardo, portata letteralmente in braccio da Carl, come se fossimo due novelli sposi che entrano nella loro casa, la prima notte di nozze. Ero paonazza e sentivo il sangue straripare dalle mie guance e inondare anche le orecchie, da quanto mi vergognavo.

Se anche avessi avuto il potere di leggere nel pensiero, le occhiate meravigliate e invidiose delle centraliniste al banco accettazione erano così evidenti che i loro pensieri potevano essere solo di morte, per me, che osavo stare abbracciata al dottor Maxwell e di completa adorazione per lui.

Lui mi sorrise, tranquillizzandomi e con una mossa rapida fece scorrere entrambi i nostri tesserini nel lettore di badge all'ingresso. Poi, stupendomi, scelse le scale invece dell’ascensore e mi portò fino al mio studio.

Quando ci vide, Bernard diventò di tutti i colori possibili, nelle sfumature dal rosso al bluastro, incapace di credere che io, inamovibile nella mia decisione di fare tutto da sola, me ne stessi abbarbicata come una scimmietta al collo dell'uomo più invidiato di tutto l'ospedale.

'Il dottor Kildare', lo chiamava qualcuno.

Per me era solo Carl.

Lo ringraziai imbarazzata, pensando alla fatica che aveva dovuto fare quella mattina, trasportandomi prima per sei piani di scale, e dopo per tutta la traversata dall'ingresso dell'ospedale alla mia scrivania.

Mi disse che sarebbe tornato a trovarmi e che mi avrebbe riportata a casa, alla fine del turno. Poi, uscendo, bisbigliò all'incredulo Bernard qualcosa tipo "Tienila d'occhio e se ci sono problemi, chiamami".

Crollai alla mia scrivania affondando il viso paonazzo tra le mani, mentre Bernard, più nervoso che divertito, ridacchiava alle mie spalle, farfugliando qualcosa che alludeva alla volubilità delle donne, uscendo.

La mattinata passò abbastanza tranquillamente e, all’ora di pranzo, Bernard letteralmente mi sequestrò, aiutandomi a saltellare fino alla saletta riservata agli infermieri (che casualmente era vuota...) e portandomi un vassoio con il pranzo.

-Cosa ci faceva stamattina il Dottor Maxwell a casa tua?-, domandò sforzandosi di apparire il meno interessato possibile, mentre azzannava un tramezzino.

Abbassai il volto, conscia che stavo arrossendo: se non fosse squillato il telefono proprio in quel momento, se Bernard non mi avesse chiamata, preoccupato per il mio ritardo, se non avessi afferrato maldestramente il cordless e non lo avessi fatto cadere a terra dopo avergli risposto che sarei andata comunque a lavoro, se Carl non lo avesse raccolto e avesse parlato lui con Bernard, dicendogli: “Grandier? Sono Maxwell. Ci penso io ad accompagnare la dottoressa all’ospedale”, se solo io avessi avuto più coraggio, forse quella mattina avrei osato allungare la mia mano fino al suo volto e baciarlo.

Invece biascicavo tramezzini pieni di maionese per far contento Bernard.

-L’avevo chiamato io, perché mi faceva molto male la gamba-, mentii, e Bernard non perse l’occasione di fiondarsi come un segugio su una pista e di insistere per controllare la caviglia. Provai a controbattere, ma non ci fu verso: ormai mi aveva presa di peso e fatta sedere sul tavolo dove fino a poco prima stavamo mangiando.

Provai uno strano sussulto a quel contatto e l’unica cosa che pensai fu “Mike Newton!”. Forse per questo la mia espressione di sconforto gli apparve come di dolore. Mi aprì lo stivale e lo estrasse senza farmi male.

-E la fasciatura???-, domandò scandalizzato.

Non risposi.

-E’ stato il dottorino, eh? Ma che bravo, ci sa proprio fare con i pazienti!-

Prima che potessi ribattere si era già alzato ed era schizzato fuori dalla porta, gridandomi “Resta ferma qua!”.

Dopo pochi istanti tornò con l’occorrente per fasciarmi la caviglia e un collega, che lavorava nel reparto di ortopedia. Mi costrinsero a stare ferma e me la immobilizzarono di nuovo.

-Ora però lo stivale non entra...-, mi lamentai, sconfortata e stanca, ma nessuno dei due mi ascoltò.

Passai il pomeriggio contando i minuti che mi separavano dal ritorno di Carl, sovrappensiero.

Quando bussò al mio studio, avrei voluto buttarmi al suo collo e farmi coccolare.

Con mia delusione, Carl si presentò con due stampelle, visto che le mie le avevo dimenticate a casa.

Cosa pensavi, sciocca, che ti portasse di nuovo tra le sue braccia?

Mi aiutò ad indossare il cappotto e ad arrivare fino alla sua auto.

-Cosa ho fatto per scatenare le ire di Grandier?-, domandò divertito uscendo dal parcheggio riservato al personale ospedaliero.

Alzai le sopracciglia, prendendo aria.

-Credo sia perché non avevo più questa inutile fasciatura-, risposi atona, -Me l’hanno voluta rifare. E’ anche più stretta di quella di ieri. E poi... sto già quasi bene-

Provai a roteare il piede, ma era immobilizzato.

-E stasera che fai?-, domandò dopo, senza spostare gli occhi dal volante. Sentii il cuore schizzare via dal petto e spiaccicarsi sul cruscotto.

-Penso che mi cucinerò qualcosa che ho in casa: pasta, o forse uova. E poi crollerò a letto-, cercai di rimanere il più possibile calma. Non sarebbe successo niente, non avevo motivo di agitarmi.

Carl non rispose.

Quando arrivammo a casa, mi aiutò ad uscire dall’auto e si offrì di riprendermi tra le sue braccia per salire.

Rifiutai e mi convinsi che salire a saltelli era diventata una cosa simpatica.

Mi seguì sorreggendomi da sotto le braccia, comunque aiutandomi con la sua spinta, facilitando i piccoli salti. Lo lasciai fare.

In realtà gli avrei lasciato fare qualsiasi cosa...

Arrivati in cima io non lo invitai ad entrare e lui non chiese niente.

Lo salutai ringraziandolo e lo osservai svanire dietro l’angolo del pianerottolo.

Una lacrima scappò alle mie ciglia e cadde sul parquet davanti alla porta di casa.

Entrai sbattendo per terra stampelle, cappotto e borsa e mi lasciai cadere sul letto.

Cosa mi stava succedendo? Perché stavo così male e allo stesso tempo mi sentivo perennemente come se stessi volteggiando tra le nuvole? Quella sensazione... mi apparteneva come se l’avessi già provata nella mia vita, in un passato che non potevo ricordare.

La cicatrice pizzicò di nuovo, ma io stavo già per crollare addormentata e non me ne curai.

***

Carlisle

***

Rientrai in casa e scagliai rumorosamente le chiavi sul mobile dell’ingresso, lasciando cadere la borsa per terra.

Mi tolsi il cappotto e lo gettai in un angolo, il più lontano possibile da me, e così feci con la giacca.

Mi diressi verso il bagno, allentando la cravatta che mi opprimeva come fosse stata il cappio per l’impiccagione. Accesi la luce e mi guardai allo specchio.

I miei occhi erano scuri, troppo scuri. Maledettamente neri.

Colpii con un pugno il lavandino, quasi lo spezzai.

Passai convulsamente le mani tra i miei capelli e poi le lasciai scivolare sul mio viso: odoravano pazzescamente di lei.

Mi guardai ancora: le ombre scuse sotto agli occhi erano più evidenti che mai.

Per il resto apparivo come un uomo sulla trentina, normale.

Ma a chi vuoi darla a bere, Carlisle? Normale? Tutto di te attrae le tue prede: l’odore, la pelle diafana ed irreale, i lineamenti perfetti. Tutto di te è fatto per ingannare...

Avrei voluto dimostrare tutti e trecentosettantatre gli anni che avevo: vecchio, decrepito, totalmente immondo agli occhi della gente.

Così, almeno, sarei stato in pace con me stesso.

Mi lavai le mani con foga, strusciando fino a che non arrivai a consumare la saponetta. Volevo che non odorassero di lei...

Ancora una volta, quel giorno, lei mi aveva salvato, ma mai come quella mattina era stata così vicina al pericolo, perché se solo... mi ero deciso... io... stavo per avvicinarla ancora di più a me, stavo per allungare una mano al suo volto, per sollevarlo, per baciarla... per rubarle l’anima...

Il telefono mi aveva fermato, ma il pericolo permaneva aggrovigliato al desiderio che bruciava sempre più forte dentro di me.

A nulla era valso starle lontano... faceva più male di prima.

Sbottonai la camicia e la feci cadere per terra. Mi guardai ancora allo specchio. Lo stesso sguardo di Edward...

Finii di spogliarmi e infilai nella doccia. Sarei rimasto lì finché ogni traccia di lei si fosse dileguata.

***

 ... to be continued...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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 Un grazie di cuore a:  meredhit89,novilunio, eka per i loro commenti... mi fanno sempre molto piacere e vedere che eistono persone che mi seguono mi riempie di orgoglio e felicità!

meredhit89: come disse "un mio caro amico"... il figlio diventa padre e il padre diventa figlio... ehhh... Sì, speriamo che qualcuno trovi il coraggio di sfangare da questa storia... sennò diventa la novella dello stento, sìsì! Grazie!

novilunio: Rispondo come ho risposto a meredith... corsi e ricorsi, ma ci tengo a precisare che Edward è Edward e Carlisle è un'altra persona... è ovvio che il rimorso e le paure siano le stesse... anche solo per la testa grossa come un pallone che Eddie ha fatto a Carlisle dieci anni prima! ^__^ La caduta... per l'esattezza è la versione cinematografica di quello che è successo alla sottoscritta nel mentre che era intenta a pensare a vampiri & Co! Al pronto soccorso ci sono andata per davvero, ma un medico come Carlisle non ce l'ho trovato! :-( sigh sigh!

eka: ooops... fuori tempo limite! Sorry, ma anch'io ho avuto un monte di cose da fare in questi giorni! Vabbè, mi aspetto le tue impressioni al tuo ritorno!!! Divertiti a Londra anche per me! Eddie tornerà tra un pochino sui vostri schermi! Bye!

PROIBITO

 Ecco un nuovo capitolo: si apre una nuova avventura in quel di Parigi che potrà portare a rafforzare il legame tra Bella e Carlisle, oppure a distruggerlo... Il seguito nei prossimi 3 capitoli!

Ed ora... buona lettura! ^__^

***

Panico 1 - Bella

***

-Numero 8: Olivier Loumiere ... mi ricordo di lui-, posai la cartellina sul tavolo e mi legai i capelli con un elastico.

Erano passati alcuni giorni e alla fine arrivato anche il suo turno: dovevo a tutti i costi fare in modo che la sua operazione andasse a buon fine.

Era la mia prima operazione a cuore aperto. Quella notte non avevo dormito, ripensando al suo sguardo spaurito e alla fiducia che riponeva in noi.

-Allora saprà che i rischi sono molto alti-

Uscendo dall’anticamera della zona operatoria, le parole del dottor Moraine mi travolsero come un treno in corsa.

-Ma lei ce la farà, vero?-, gli urlai quasi nel corridoio, ma non ebbi risposta.

Mi preparai con il rito del lavaggio e della vestizione per la sala, scrupolosamente, con un macigno al posto del cuore. Le parole del chirurgo a cui Olivier aveva affidato la sua vita rimbombavano nella mia testa.

Ma perché non avevano scelto Carl? Con lui sarebbe stato diverso.

Accolsi il ragazzo cercando di apparire il più calma possibile. Dovevo anestetizzarlo prima di entrare in sala operatoria, secondo la procedura in operazioni di quel calibro. Poi lo avrei lasciato nelle mani di Moraine e di Dio.

-Lei ha paura-, mi disse Olivier frugando nella mia testa, con il suo sguardo abbattuto, quando mi voltai dopo aver preparato i farmaci.

-Nessuno ha paura, cerca di stare tranquillo anche tu-, gli risposi, soddisfatta del tono che avevo usato. Il mio cuore, però stava esplodendomi nel petto.

-Lo sento dal suo battito, che ha paura-, insistette. Poi vide il mio viso perplesso.

-Chi non ha un cuore su cui contare, si aggrappa a quelli degli altri... e ora sento che lei ha paura-, andava incontro ad un rischio mortale, eppure era tranquillo.

Mi avvicinai a lui.

-E’ vero, Olivier, ho paura. Ma so che chi ti opererà non ne ha ed è sicuro delle sue azioni-, gli sorrisi e iniettai la prima dose di valium nelle sue vene.

Quando lo vidi socchiudere gli occhi, rigirarli all’indietro e calmarsi, procedetti con l’anestesia vera e propria.

-E’ pronto-, dissi allo staff attraverso l’interfono della sala operatoria e spinsi il lettino su cui stava disteso al suo interno.

***

Paura 1 - Carlisle:

***

Era stato Bernard Grandier a chiamarmi.

Non immaginavo che si sarebbe rivolto proprio a me, non dopo che avevo capito che mi vedeva come un ostacolo nel suo tentativo di conquistare Bella, ma dovevo ringraziarlo comunque.

Mi ero precipitato da lui e poi, insieme, eravamo andati dalle ragazze dell’accettazione, che controllavano ingressi e uscite di tutti.

-La dottoressa Swan se n’è andata da un pezzo. Era piuttosto agitata: si è perfino dimenticata di timbrare il cartellino-, ci disse una nuova.

-Dov’è andata? Che ti ha detto?-, Bernard era realmente preoccupato.

-E che ne so dov’è andata? Non ha detto niente. E’ solo scappata... non aveva neanche il cappotto, né l’ombrello...-, battei il pugno sul bancone di legno, misurandomi appena per non sfasciarlo.

Mi voltai verso Bernard.

-Aveva un’operazione difficile, oggi... con Moraine...-

In un attimo stavamo entrambi correndo verso lo studio del cardiochirurgo, più anziano di almeno vent’anni rispetto a Bella, per capire cosa fosse successo.

Lo trovammo che si stava sistemando la cravatta guardandosi ad un specchietto posto dentro l’anta del suo armadio.

-Moraine... lei ha visto la dottoressa Swan, oggi? E’ sparita... se n’è andata e chi l’ha vista ha detto che era sconvolta-

L’uomo non si voltò e rispose continuando a sistemare il nodo della cravatta.

-Si era affezionata al paziente. Probabilmente si sente in colpa per avergli dato false speranze. L’ho dovuta allontanare dalla sala-

Mi sentii assalire dallo sconforto: avevo già visto Bella Swan in preda alla disperazione, undici anni prima, e sapevo che era capace di lasciarsi andare incontro ai pericoli, senza riflettere. Per lei la vita era una cosa incerta, come il filo di un funambolo sul quale restare in equilibrio. Un passo falso e ad attenderla trovava la morte. Le era già sfuggita troppe volte, in passato e si era sempre ripresa, eppure continuava distrattamente a sfidarla, dimenticandosi della volontà di andare avanti. Era fragile: bastava poco perché si rompesse.

Liquidai Grandier all’uscita dell’ospedale. Se l’avesse trovata, mi avrebbe chiamato.

Se l’avessi trovata io, non credo che avrei perso tempo per lui. Ero troppo preoccupato e troppo egoista.

Sentivo le mani prudere sul volante mentre guidavo oltre i limiti consentiti per le strette vie di Parigi.

Corsi a casa sua, entrai nel suo appartamento dalla finestra che dava sulla corte, arrampicandomi da fuori, ma lei non era lì. A giudicare dall’odore, non era mai tornata a casa.

Pensai al pub dove mi aveva portato quella sera, ma, quando arrivai, non aveva  ancora aperto.

Tornai in macchina, senza accendere il motore. Sedevo schiacciando la schiena contro lo schienale in pelle. Dal sedile dietro a me, l’odore di Bella attaccato al suo cappotto e alla sua borsa mi faceva diventare pazzo. Mi accorsi che avevo il respiro affannato solo quando sul vetro si formò una debole condensa, all’esterno.

Mi tornarono alla mente le immagini di Bella a Tampa: una ragazzina magra e malridotta, con i capelli tinti e lo sguardo spento. Una ragazzina pronta a farsi del male, pur di dimenticare lo shock che aveva subito.

Il primo pensiero che mi balenò nella testa fu sconvolgente. Telefonai immediatamente a Grandier, sperando che fosse ancora all’ospedale. Gli dissi di controllare con attenzione se mancavano farmaci.

-Che tipo di farmaci?-

-Valium, morfina, tranquillanti-

-Ah...-

Riagganciai sperando che non avesse fatto pazzie e rimisi in moto. Solo allora pensai che forse Bella aveva potuto scendere nella metropolitana.

Uscii dall’auto mentre la pioggia riprendeva a scrosciare rumorosa su Parigi.

Appena giunsi alla banchina, sentii debole il suo profumo: sapevo che era il suo, avrei potuto riconoscerlo tra un milione. Dopo dieci anni passati a vegliare sulla sua vita da lontano, era l’unico profumo che realmente potevo dire di aver mai annusato.

Dunque Bella era passata di là... ma quando? E dove era diretta?

***

Panico 2 - Bella

***

E’ freddo, la pioggia violenta infradicia la mia coscienza a brandelli, mi scorre negli occhi. Non vedo più niente.

Vorrei che mi inghiottisse, che mi sciogliesse e mi trascinasse con se, liquefatta, nelle fogne e poi, da lì, mi disperdesse nell’oceano.

Nessuno deve più trovare un solo atomo che appartenga a me, nessuno deve ricordarsi che esisto. Mai più.

Quello che tocco, lo distruggo. La mia volontà è fragile come un filo d’erba.

Lo so quello che è successo prima, l’ho visto esattamente cosa gli hanno fatto.

Si sono arresi al primo intoppo, come se la sua vita fosse solo una perdita di tempo per la loro boria e il loro prestigio. Si sono arresi e le mie grida li hanno infastiditi.

Non hanno voluto che tentassi con i farmaci, non hanno provato neanche a rianimarlo.

Le sue ultime parole le ha dette a me. Io avevo paura e lui l’ha capito. Forse anche lui si è arreso, invece di lottare.

Perché dovrei farlo io... perché dovrei ancora lottare per restare aggrappata ad una vita che non mi vuole abbandonare? A cosa servo, nel mondo? Qual è la mia utilità?

Nessuna. Non servo a niente. Non sono capace di tenermi niente. Ogni cosa, ogni situazione scappa dalle mie mani e io resto impotente ad osservare la mia vita che viene fatta a pezzi mescolati e buttati via.

Un’altra fermata.

Altra gente che sale e mi guarda, fradicia, aggrappata ad un palo del metrò. Forse sembro una pezzente.

Ecchisenefrega.

Sputatemi addosso, calpestatemi.

Abbandonatemi in un angolo e andate via.

Anzi, no... vado via da sola... vado a cercare un posto dove addormentarmi, in pace, grazie alle mie amichette...

Cazzo... un’altra storta... non sento neanche più dolore...

L’acqua torna a bagnarmi, i passanti si scansano da me.

Non posso, non mi accascerò in un vicolo.

Non lascerò che mi guardino ancora come una bestia.

Voglio dissolvermi...

Voglio bere, voglio stordirmi di alcool e morfina, voglio tornare a tempi del College, voglio annientarmi...

Olivier... i suoi occhi... la mia paura nei suoi occhi...

Vigliacca! Io l’ho solo illuso....

Un altro treno... un’altra stazione. E poi ancora un’altra. E di nuovo la pioggia che cade sulla mia anima sbiadita. Non sento più niente...

Ed ora... un luogo familiare, sì... un luogo familiare dove tornare a morire, a perdere la coscienza che non merito di avere...

Spero che ci sia musica pesa e tanta birra... spero che qualcuno paghi per me...

Perché io...

Io non ho più niente...

***

Paura 2 - Carlisle

***

La seguii per ore, restando sempre un passo dietro a lei, senza riuscire ad acchiapparla e a tenerla stretta a me. Ogni volta cambiava percorso senza una logica apparente.

Mi chiamò Grandier, per dirmi che non sapeva più dove cercarla e che le mie supposizioni erano corrette: aveva preso della roba, molta più di quella che temessi. Tranquillanti. Dovevo fermarla prima che andasse tutto distrutto.

Poi, alla fine, quando la luna era già alta nel cielo e la mia disperazione batteva impotente nel mio petto vuoto, la scia si fermò là dove tutto era iniziato: davanti a me le porte di vetro e legno del Guerrine, da dentro proveniva musica house, assordante.

Entrai mescolandomi alla folla di ragazzi con tagli alla moda e jeans attillati, che guardavano me e il mio cappotto chiaro come se fossi un alieno caduto dal cielo.

Chissà da quanto Bella era a spaccarsi i timpani in quel luogo...

Poi la sentii, in un angolo, e rividi la stessa ragazza di dieci anni prima, disorientata e stanca della vita. Stringeva in una mano un bicchiere mezzo vuoto, e, con l’altra, portava alla bocca uno spinello. Devastata come allora.

Sorrideva fatua con la schiena poggiata al muro, davanti a lei, due ragazzi più giovani con berretti da baseball la radiografavano esortandola a bere e fumare sempre di più. Non avevo bisogno dei poteri di Edward per interpretare i loro pensieri...

Corsi subito da lei. I due ragazzi si allontanarono immediatamente, quando mi videro incombere su di loro e su quei cappellini da deficienti.

Bella mi guardò, senza mutare espressione. Mi chiedo se mi stesse davvero vedendo.

Deglutii e avvicinai una mano al suo volto, per farle una carezza. Non speravo più di trovarla... ringraziavo Dio che me l’aveva riportata.

Bella scacciò la mia mano e parte del suo drink si versò per terra. Chiuse gli occhi e ruotò indietro la testa, disgustata. Poi fece cadere per terra il bicchiere, che si schiantò in mille piccole schegge e quello che stava fumando. Lentamente sollevò le braccia fino al mio collo e cercò di aggrapparsi, o di tirarmi verso di lei. Capii cosa voleva quando infilò le dita tra i miei capelli e mi tirò più in basso, verso il suo viso. Non mi guardava. Si sollevò sulle punte. Voleva baciarmi. Si fermò e alzò ancora lo sguardo verso di me: era sconvolta.

I suoi occhi si spostarono e ruotarono velocemente all’indietro.

Poi la sentii sciogliere l’abbraccio e la vidi cadere.

***

 ... to be continued...

***

Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

***

Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
© 'Proibito' Tutti i diritti riservati. 

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Rispondo alle vostre recensioni, che mi hanno riempito di gioia!

 Grazie alle persone che hanno incluso questa storia tra i loro preferiti e che sono saliti addirittura a quota 50!!!!

PROIBITO

Eccoci qua... questo capitolo sarà diviso in 3 parti, a loro volta suddivise in più parti, a seconda di chi parla.

Si va un po' più sul serio, tra i due... non voglio dirvi altro... leggete e... fatevi un'idea...

Circa gli altri vampiri sparsi nel mondo... abbiate fede e vedrete che presto si tornerà a parlare anche di loro.

Nel frattempo, beccatevi sti due dottorini che... giocano a fare i dottorini! ^__^

Ed ora... buona lettura! ^__^

***

Je t’aime - Carl

***

Bella… l’avevo trovata! Finalmente!

Finalmente…

Avrei voluto prenderla tra le mie braccia e correre via con lei, lontano dal caos di quel pub, lontano dalle nostre vite costruite a tavolino a Parigi, lontano da Forks, dai Volturi e dai ricordi. Lontano da Edward e da Esme.

Dovevo toccarla, assicurarmi che fosse realmente davanti a me. Provai a farle una carezza, ma mi allontanò da sé.

Non importa, non importa Bella se non mi vuoi. Basta che tu stia bene, che sia viva…

Si strinse a me e mi cinse il collo con i suoi polsi sottili; avvicinò il suo volto al mio ed io…

Un istante solo e il contatto era scomparso.

L’afferrai prima che potesse farsi male e la presi tra le mie braccia, come avevo fatto quella mattina, per portarla a lavoro, e tanti anni prima, quando James l’aveva morsa e la sua gamba era ferita.

La strinsi forte a me e corsi via. L’avrei portata a casa mia e non avrei permesso che le accadesse più niente.

Vomitò senza neanche rendersene conto, poi si accasciò tremante a me e la trasportai sul letto, mai usato.

Nelle tasche aveva ancora quasi tutti i farmaci che Bernard mi aveva detto che mancavano dal reparto. Fortunatamente non aveva preso tanta roba.

Lo chiamai quando si fu addormentata e lo pregai di tenere per noi la storia del furto. Sembrò onorato di coprire la ‘sua’ dottoressa e di avere qualcosa di segreto da condividere con lei.

Mi sedetti sul letto, accanto a lei, e la guardai dormire per ore.

Sembrava un angelo con un’ala spezzata. Giocherellai con i suoi capelli sparsi sul cuscino, drogandomi del suo odore. La vidi rigirarsi, agitata, sicuramente in preda agli incubi da cui cercava di fuggire, poi si calmò e iniziò a parlare nel sonno.

Mi tornarono alla mente le parole di Edward, che diceva che non c’era niente di più bello che osservarla mentre dormiva, perché solo allora apriva il suo cuore ed era davvero sincera, senza le paure che la attanagliavano ogni giorno.

Ascoltai frammenti di frasi senza senso, ma quello che ritornava, periodicamente, erano i nomi di persone che erano state importanti nella sua vita.

Chiamò suo padre, Jacob, mormorò altri nomi e infine evocò i fantasmi del suo passato che animavano i suoi incubi e che al risveglio non riusciva mai ad afferrare.

Sussurrò il nome di Alice e quello di Edward, come in una litania, a lungo, con voce tremante, stringendo convulsamente il lenzuolo.

Le presi una mano facendole allentare la stretta sul lenzuolo e la portai alla mia bocca. La baciai delicatamente e desiderai di morire in quell’istante, su quel letto, vicino a lei, perché non avrei resistito al peso di mentire ancora, né a quello che la verità comportava.

Ripresi a giocare con i suoi capelli, carezzandola piano, per non svegliarla.

Mi presi cura di lei, come se fosse un pulcino caduto dal nido, un oggetto di fragile cristallo che poteva rompersi tra le mie mani e mi parve la prima vera cosa buona che avessi fatto nella mia vita. Ma anche la più dolorosa.

Ma io volevo di più…

Non mi ero mai soffermato a guardarla così a lungo, indugiando sul suo corpo come stavo facendo allora: le sue curve sinuose, ammorbidite dagli anni che avevano fatto sbocciare la sua giovanile bellezza, si mostravano a me celate dalle coperte che la proteggevano. La linea dei fianchi si piegava sulla vita sottile, sull’addome delicatamente tornito e poi più su, sui seni sodi, costretti nel reggiseno che indossava dalla mattina precedente. La camicia sbottonata sul collo, scopriva la pelle chiarissima e liscia; l’ombra della clavicola terminava in corrispondenza di un piccolo neo, proprio al centro del suo petto.

Sfiorai con la mano tremante la linea del mento: un tocco impercettibile a lei, ma infuocato per i miei sensi confusi e riportati in vita dopo troppo tempo.

Lasciai le mie dita scendere verso il suo collo e poi più giù, seguendo la linea morbida del suo profilo, cercando un impalpabile contatto sotto le coperte, al caldo. Disegnavo il suo corpo rapito anch’io dal tormento e dall’estasi che aveva animato la mano che dipinse Dio[1]; il suo calore fluiva nelle mie vene, come sangue fresco, come la vita che non possedevo più e che non ricordavo di aver vissuto.

Era come se, lentamente, stessi tornando vivo, stessi morendo nella mia natura di mostro e stessi rinascendo grazie a quel contatto, destinato ad un’esistenza che avesse come unico scopo quello di starle accanto.

Mi sentivo avvampare dal desiderio, inebriato dal suo profumo così familiare e nuovo, che ogni volta riscoprivo e sentivo vibrare delle note di un fiore differente, uno per ogni giorno che le stavo accanto. Uno per ogni pensiero che mi riempiva la mente di lei.

Avrei voluto aprire la mano, posarla sulla sua coscia, dove era arrivato il mio tocco sottile, rubare tutto il calore e farla scorrere con più forza sulla sua pelle, tirandola verso di me.

Bella si mosse, voltandosi e mettendosi supina, tirò fuori un braccio dalle coperte, forse le faceva caldo. Dormiva profondamente e sembrava tranquilla.

Non dovresti essere tranquilla, Bella. Non quando il pericolo è così vicino a te e ti vuole... non quando la pietà è stata sommersa dal desiderio che brucia nel mio corpo.

Era impossibile resisterle...

La mia mano tornò su di lei, sempre leggera, ma più fremente per quello che stava lottando dentro di me.

Percorsi verso l’alto la sua gamba, fino al bacino, dove l’osso dell’anca creava un delicato pendio. Sotto la stoffa sentii il bordo dell’intimo che indossava e per un istante pensai di poter morire ancora, là, accanto a lei, perché sopportare quel fuoco, fermare la mia mano, era così difficile...

Respirai riempiendomi i polmoni del suo odore e la testa di mille farfalle variopinte e rumorose, che mi facevano ronzare le orecchie e appannare la vista.

Scivolai con il mio tocco sul ventre morbido e caldo, rubandole quel tepore che non potevo avere.

Il suo petto, scoperto per metà dalla coperta scivolata via, si alzava e si abbassava ritmicamente, lento, ipnotizzante. Sentivo la sua pelle bruciare via via che risalivo sfiorandola.

Ero curvo su di lei, disteso su un fianco, la testa appoggiata alla mia mano. L’altra che esplorava leggera come brezza posti che avrebbero reso il paradiso un luogo secco e inospitale. Sentivo il suo respiro caldo sul mio viso e trattenevo il mio per non raffreddarla. Quelle labbra morbide, quel collo pulsante e caldo... Mi avvicinai ancora: potevo quasi sfiorare le sue labbra con le mie e appagare almeno in parte quella sofferenza che mi dilaniava il cuore.

Inspirai il suo profumo e mi sentii morire.

Volevo baciarla, dovevo farlo!

Aprii la mia mano sulla sua pancia, all’altezza dello stomaco e la posai su di lei, delicatamente, come in un abbraccio.

L’avrei stretta forte a me e non l’avrei mai più lasciata da sola in balia dei suoi fantasmi, delle sue paure, dei rischi che ogni giorno incrociavano la sua strada e la ferivano, come rami acuminati di un viale alberato senza fine.

Deglutii, perché la tensione mi rodeva l’anima, mentre il mio corpo chiedeva solo di prenderla.

La strinsi appena: volevo sentirla mia mentre rubavo un bacio dalla sua bocca arrossata.

Ancora più vicino...

Bella si allontanò da me, appena, muovendo la testa, riprendendo a sognare.

Mormorò di nuovo alcune parole. Poi, per ultimo, disse il mio nome, quello vero, Carlisle e bisbigliò qualcosa che neanche il mio udito riuscì a comprendere.

Staccai la mia mano da lei e mi alzai piano dal letto, allontanandomi da quella stanza, da quell’odore denso che ottenebrava i miei sensi.

Andai in salotto e aprii le porte finestre, uscii sul terrazzo e inspirai profonde boccate di aria gelida ed umida, fino a che non mi fui ricomposto.

Poi rientrai in camera, piano, più calmo, e mi sedetti sulla poltrona accanto a lei, prendendole la mano. Reclinai la testa sullo schienale e mi illusi di dormire.

***

Moi non plus - Bella

***

Quandi aprii gli occhi, mi trovai in una stanza ariosa che mi sembrava di conoscere, ma nella quale non ero mai entrata, prima di allora. Dalle finestre, attraverso i rami degli alberi vicini, filtrava la luce della luna ed era sufficiente per illuminare i contorni delle cose che mi circondavano nel silenzio rotto solo dalle gocce di pioggia che cadevano dalle foglie, dove si erano depositate. Le nuvole si erano un po’ diradate e il vento sembrava essersi acquietato, come dopo una tempesta.

Mi mossi e una fitta lancinante mi strinse il cervello in una morsa, facendomi emettere un debole gemito di dolore. Inspirai lentamente e riprovai a sollevarmi: qualcosa di freddo e liscio bloccava la mia mano. Abbassai lo sguardo e vidi la mano di Carl, addormentato sulla poltrona accanto a me, che stringeva delicatamente la mia. Rimasi immobile, non sapevo cosa fare.

Capii subito che quella doveva essere la sua casa, la sua camera.

Il suo letto.

Lui stava immobile, vicino a me, esausto. Indossava ancora le scarpe e i pantaloni del completo, ma aveva la camicia sbottonata quasi per metà e le maniche arrotolate. Un ciuffo biondo era scivolato sulla sua fronte, fino agli occhi chiusi. La luce della luna lo illuminava tingendo di riflessi d’argento la sua pelle bianca, evidenziando con chiaroscuri ed ombre il suo volto rilassato, le labbra socchiuse, la linea del collo e poi più in basso, il petto scolpito che intravedevo tra i lembi della camicia.

Era meraviglioso, al punto da togliere il fiato.

Il mio invece, si fece affannato per la combinazione di dolore fisico e dolore morale, che vedere un uomo come lui distrutto a causa mia, mi procurava. Mi sentivo girare la testa, ma non avrei saputo dire perché.

Forse non stavo bene.

Sfilai piano la mia mano dalla sua e mi mossi, cercando di non fare rumore. Non volevo che si svegliasse, non dovevo sciupare quell’opera d’arte esposta solo per me.

Mi misi a sedere sul letto, silenziosamente, e mi portai una mano alla tempia che pulsava furiosamente.

Accidenti alle mie manie autolesioniste e alla debolezza che avevo dimostrato! Ripensai alla cazzata che stavo per fare la sera prima... se non ci fosse stato lui... me lo ricordavo appena, a metà tra il sogno e il ricordo, che era arrivato e mi aveva portato via, prendendomi tra le braccia forti e sicure.

Ripercorsi sprazzi di ricordi, la sua voce affannata, le sue mani, di nuovo, che mi sostenevano, mi costringevano a tenere gli occhi aperti, per non svenire, la sua voce che mi chiamava preoccupata.

Mi sentivo sporca sia dentro che fuori. Avrei voluto fare una doccia, ma forse non era il caso di approfittare della sua ospitalità e fare di testa mia, mentre lui dormiva... ma non volevo neanche svegliarlo... era così maledettamente bello.

Era Apollo... Apollo addormentato sul suo carretto dorato...

Allungai una mano verso il suo volto, mi fermai di scatto poco prima di toccarlo, quando il suo respiro fresco sfiorò la mia pelle: un brivido mi percorse mordendomi allo stomaco e scendendo giù, verso le gambe, mozzandomi il respiro, mentre il cuore nel petto galoppava furioso.

Deglutii e ricacciai un gemito che stava per sfuggirmi, ferita da quanto faceva male guardarlo indifeso davanti a me.

Solo poche ore prima mi sarei buttata sotto ad un treno del metrò e in quel momento ringraziavo Dio per esser viva e poter essere l’unica ad assistere alla infinita meraviglia di quello spettacolo.

Inspirai e allungai ancora la mano, fino alla ciocca di capelli sulla sua fronte, la scostai delicatamente, senza che se accorgesse.

Il mio corpo era percorso da brividi.

Scivolai col mio peso dal letto al bracciolo della poltrona dove stava lui, come un gatto. Per una volta il mio equilibrio non mi aveva tradita... forse perché stavo facendo la cosa giusta...?

Non seppi rispondermi, e non resistetti all’attrazione che mi spingeva sempre più vicina a lui.

La sua camicia blu sbottonata, scopriva cose che non dovevo vedere, che mi aggrovigliavano i pensieri e bloccavano il mio cuore e i miei respiri.

La mia mano si avvicinò lenta al suo cuore e vi si posò, un altro brivido mi percorse e mi stordì. Carl era gelido... si sarebbe preso un malanno a causa mia.

Chi ero io per meritarmelo?

Indugiai un istante e feci scorrere le dita sulla sua pelle liscia e compatta: non poteva essere vero. Stavo ammirando una statua di marmo di Carrara, non un uomo, ma la rappresentazione stessa della bellezza più pura e travolgente.

Se si fosse svegliato...? Rabbrividii al pensiero dell’imbarazzo che avrei dovuto soffrire, ma non fermai il mio tocco leggero e lasciai che le mie dita percorressero il suo collo scolpito fino al suo viso.

Non poteva essere vero... Sfiorai piano le sue labbra, sentendo il desiderio crescere dentro di me e attrarmi a lui... le mossi lentamente sul suo volto, le chiusi in una carezza e mi avvicinai ancora di più, fino a sentire il suo respiro fondersi col mio.

Ero come una falena attratta dalla fiamma di una candela e non desideravo altro che bruciare per lui.

Improvvisamente un violento pizzicore mi colpì alla base della gola e non riuscii a trattenere un rumoroso starnuto. Riuscii a voltare la testa prima di starnutire addosso a Carl: lui si mosse ed inspirò più forte, svegliandosi.

Con il cuore in gola, mi alzai di scatto dal bracciolo della poltrona, ma una fitta di dolore alla caviglia destra mi mozzò il respiro, strappandomi un lamento e annientando il mio equilibrio.

Due braccia salde mi impedirono di cadere: Carl mi aveva afferrata ancora una volta, prima che cadessi.

Quella statua meravigliosa, le sue braccia forti e rilassate che fino ad un istante prima pendevano molli accanto a me, mi tenevano stretta... non poteva essere vero... io ero morta e quello era il paradiso... ecco qual era la realtà.

Ma io non meritavo tutta quella grazia... sentii le lacrime prepotenti bagnare i miei occhi, perché era troppo, tutto quel darsi da fare per me, l’ultima arrivata, una donna che era stata abbandonata, che meritava solo di soffrire.

Strinsi i denti e lasciai che Carl, sostenendomi, mi facesse voltare verso di sé. Mi teneva stretta, come se mi stesse abbracciando. Troppo vicina a lui. Ad ogni respiro affannato il mio seno si alzava e si abbassava, strusciando sul suo petto scoperto. Sentivo che stavo per svenire.

Alzai lo sguardo verso di lui e vidi i suoi occhi che mi guardavano come se mi volesse mangiare. Occhi neri come il fondo di un pozzo senza fine.

Avrei potuto morire e sarei stata felice per quel contatto.

Chiusi i miei e mi abbandonai alla sua volontà, reclinando la testa all’indietro.

***

 ... to be continued...

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Disclaimer: i personaggi e gli argomenti trattati appartengono totalmente a S. Meyer. La storia è di mia fantasia e non intende paragonarsi a quella concepita e pubblicata da S. Meyer.

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Twilight, New Moon, Bella Swan, i Cullen, i Volturi, Stefan e Vlad, il Clan di Denali, il Wolf Pack dei Quileute sono copyright di Stephenie Meyer. © Tutti i diritti riservati.

La storia narrata di 'Proibito', le circostanze e quanto non appartiene a Stephenie Meyer è di invenzione dell'autrice della storia che è consapevole e concorde a che la fanfic venga pubblicata su questo sito. Prima di scaricare i files che la compongono, ricordate che non è consentito né il loro uso pubblico, né pubblicarli altrove, né la modifica integrale o di parti di essi, specialmente senza permesso! Ogni violazione sarà segnalata al sito che ospita il plagio e verrà fatta rimuovere.
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 Ecco la parte delle risposte alle persone così dolci e gentili che hanno speso un minuto per commentare la mia storia: Grazie a tutte ed in particolare a:

 Ed ora.... grazie anche ai miei nuovi 55 lettori che mi hanno messa tra i preferiti!!!

1 - acqua1879 2 - amimy 3 - bellemorte86 4 - chitary 5 - debblovers 6 - devo 7 - dreaming_eclipse 8 - eka 9 - enifpegasus 10 - Ether 11 - Fantasy_Mary88 12 - fedev82  13 - Felicity89 14 - Femke 15 - flavia93 16 - francef80 17 - gajta 18 - Gillyna 19 - Helen Cullen 20 - Honey Evans 21 - Kathys 22 - keli 23 - Kia_do87 24 - kikka_la cantante di edward 25 - kix 26 - Lady_Eowyn 27 - lilly3 28 - lupacchiotta_mannara 29 - malaussene 30 - maleka 31 - Malia85 32 - mavi5173 33 - meredhit89 35 - nene1964 36 - nerry 38 - NIKEHOPE90 39 - Nimune 40 - principessa leila 41 - Rain e Ren 42 - ranyare 43 - sarapastu 44 - Sea89 45 - Steffa 46 - strangeuniverse 47 - super vegetina 48 - Syberie 49 - Tom94 50 - twinings 51 - vale1484 52 - valemyni 53 - VivianaRossa 54 - Water Lily 55 - Wind 

PROIBITO

Ecco la seconda parte della lunga nottata di Carl e Bella. 

Sicuramente qualcuno resterà deluso da come evolvono i fatti, forse qualcun altro sarà invece soddisfatto... io personalmente ho la tendenza a dosare gli eventi stile sinusoide (non sapete cos'é??? Noooo!!!! Dovete sapere cos'è!!!!!) insomma, detta alla Jovanotti ad "alti e bassi" (mi si sta rivoltando lo stomaco a riassumere una sinusoide con 'alti e bassi'! :-S), quindi... ecco questa seconda parte del capitolo!

Come vi ho anticipato, dopo la terza parte, che pubblicherò a breve, si cambia aria e si andranno a trovare altri amici vampiri... chi? Eh eh... leggete e capirete!

Grazie a tutti quelli che mi seguono e... prolificate!!!! 

Ed ora... buona lettura! ^__^

***

Moi non plus - Carl

***

-Bella? Bella, apri gli occhi!-, colpii delicatamente la sua guancia con un buffetto, per farla reagire.

Tre volte, in poche ore, Bella era crollata tra le mie braccia. Per il cocktail di tranquillanti ed alcool, nel pub, esausta, poco dopo, dopo aver reso l’anima al Signore rivomitando il tutto e infine adesso, per la febbre che era salita senza che me ne fossi reso conto. Lo stress e la pioggia avevano lavorato in sinergia per portarla allo sfinimento.

Non potevo credere a quello che era quasi accaduto e non soltanto al fatto che lei mi stesse per baciare, ma alla mia reazione possessiva e irrazionale.

Mi ero finto addormentato per spiare i suoi movimenti ed ero rimasto immobile, pietrificato sotto le sue mani timide e il suo respiro caldo.

L’avevo stretta così forte… volevo baciarla, volevo prendermi ogni cosa da lei: il suo corpo, il suo sangue, la sua anima. Se non fosse svenuta io… non so se sarei riuscito a fermare l’istinto della bestia che si agitava silente dentro di me da sempre.

Maledii il desiderio che mi aveva reso cieco di fronte alla sua salute e la coprii come un neonato con il piumino. La sua fronte scottava sotto la mia mano fredda e il suo corpo era percorso da brividi. Dovevo farle scendere al febbre.

Provai a scuoterla di nuovo, perché si svegliasse e quando aprì gli occhi –due spicchi lucidi e profondi- le sorrisi.

-Buongiorno-, le dissi piano, per non spaventarla.

Si guardò intorno, confusa.

-E’… è mattino?-, domandò meravigliata.

-E’ l’alba-, le dissi e le accarezzai i capelli. Stavo accoccolato sulle mie gambe, con il viso alla sua altezza. Sorridevo. –Come ti senti?-

Tirò fuori le braccia dalle coperte e le piegò sul petto.

-Da schifo…-, abbassò lo sguardo, colpevole. –Carl, mi dispiace… io…-

Per cosa ti dispiace, Bella? Per essere nel mio letto con la febbre alta? Per esserti fatta inseguire per tutta Parigi? Perché stavi per fare un grosso sbaglio del quale non mi sarei mai perdonato? Perché ti ho sentita che volevi baciarmi? O perché non lo hai fatto?

-Shhh-, un’altra carezza. Mi alzai e presi un bicchiere e una pillola dal cassettone: -Devi prendere questa-

-Cos’è?-, domandò puntellandosi sui gomiti e alzandosi un po’.

-Tachipirina…-

Gemette e buttò giù la pasticca, bevendo l’acqua. Poi si fece cadere di nuovo sul cuscino. Uno sbuffo profumato mi investì e mi fece vacillare, per un istante.

-In che stato sono ridotta?-, la domanda, detta da lei, un medico, suonava melodrammatica.

Mi venne da ridere, ma le sorrisi soltanto, scuotendo appena il capo e sedendomi sul letto accanto a lei.

-Te le dico tutte insieme, ok?-, le presi una mano, ilare.

-Ok…-, piegò le sopracciglia, rassegnata.

-Hai fatto indigestione di Diazepam e birra, poi ha preso qualche altra schifezza alcoolica e ti sei fumata almeno una canna. Poi hai vomitato, ma qualcosa era già entrata in circolo… Poi ha passeggiato per ore sotto la pioggia, senza cappotto e ti sei fatta venire un bel febbrone da cavalli e infine… hai ripreso una o più storte alla caviglia, che ora è definitivamente KO… e stavolta te l’ho dovuta steccare…-, strinsi le sue dita bollenti nella mia mano fredda.

-Tutto qui?-, domandò, sorridendo timidamente.

-Non ti basta?-, le arruffai i capelli e mi alzai dal letto.

-Ti lascio dormire-, le dissi. -Penso che suderai un po’… vado a cercarti qualcosa per cambiarti-

Chiusi la porta della camera, uscendo e mi lasciai scivolare al suo esterno, affondando le mani nei capelli.

Ero disperato.

Avevo appena fatto il simpatico con lei! Come diavolo avevo fatto a mascherare tutto quello che mi ribolliva nel petto? Avevo di nuovo indossato la maschera del bravo dottore - bravo padre di famiglia - bravo amico - bravo confidente.

Ma io non ero quello!!! Non più! Io volevo solo stringerla a me, cullarla, baciarla, ubriacarmi del suo profumo e della sensazione che il contatto della sua pelle scatenava in me!

Io volevo stare con lei come un amante, non come un collega!

Non come un padre.

Non come il padre di un ragazzo che l’amava quanto me…

***

Je t’aime - Bella

***

Mi svegliai di soprassalto, come se fossi riemersa dal fondo di un lago infuocato, in apnea, rizzandomi a sedere sul letto. Ero madida di sudore e avevo il respiro affannato.

Dalle tende tirate filtrava la luce del giorno, grigia, come sempre a Parigi e illuminava la stanza nella quale ero rimasta sola.

Il letto era al centro della stanza, da una parte, vicino a me c’era la poltrona sulla quale mi ero lasciata scivolare solo poche ore prima, in un ricordo che stava già sbiadendo, come tutti quelli che il colabrodo della mia memoria triturava, rubandomeli per sempre.

Era bianca, come tutto, nella camera, eccetto il parquet, in rovere chiaro.

Sembrava che non fosse mai stata utilizzata, che fosse lì ad aspettare me, il mio sudore e le mie lamentele.

Sentii la porta di casa chiudersi con un tonfo leggero e sperai che Carl stesse rientrando.

Poco dopo bussò alla porta di camera ed entrò.

Indossava il cappotto e si era cambiato camicia e pantaloni.

Aveva i capelli bagnati, evidentemente pioveva di nuovo e lui… ma era allergico agli ombrelli?

Si avvicinò e mi salutò con un sorriso.

-Va un po’ meglio?-, mi domandò la sua voce bassa e sensuale che mi avvolse come una coperta invisibile e morbida.

Annuii e una fitta, al movimento, mi colpì alla testa.

-Ti ho preso un po’ di cose…-, mi disse, passandomi un sacchetto di carta con i manici di stoffa. Dall’aspetto sembrava qualcosa di costoso.

Tuffai le mani nel sacchetto come una bambina che scarta un regalo per il suo compleanno e afferrai qualcosa di stoffa. Aggrottai le sopracciglia e, estraendolo dalla busta, sentii le guance avvampare come peperoni.

Carl aveva abbassato lo sguardo: forse era anche lui in imbarazzo.

-Gra… grazie…-, balbettai, mentre due o forse più completi intimi di varie forme e colori si materializzarono tra me e lui.

-Non sapevo cosa preferissi…-, disse e si voltò, uscendo dalla stanza.

Tornò poco dopo, senza il cappotto.

Mi feci aiutare ad alzarmi per andare a fare la doccia.

-Ah… questa la posso levare?-, chiesi indicando la fasciatura elaborata che mi aveva fatto attorno al piede.

Mi guardò perplesso.

-D’accordo, però poi la rifacciamo-, disse con tono paterno.

Si chinò davanti a me e, rapidissimo, liberò il mio piede. Lo guardai: era livido e gonfio e non riuscii a trattenere un gemito di disappunto.

-Andiamo-, mi disse e mi sollevò ancora, facendomi sussultare per la sorpresa.

Camminò tenendomi in braccio fino ad una porta anch’essa bianca, che non avevo notato sul fondo della stanza ed entrammo nel suo bagno perfetto ed immacolato.

Senza doccia…

Mi fece sedere sul bordo della vasca e alzò il miscelatore dell’acqua calda; mentre la vasca si riempiva, mi porse un accappatoio (bianco) e delle pantofole di spugna nuove (bianche). Poi si sporse davanti a me, prese dal bordo opposto della vasca da bagno un flacone e ne versò parte del contenuto nell’acqua calda. Subito si sprigionò nell’aria un profumo di vaniglia e magnolia, inebriante.

-Ecco fatto…, chiamami se hai bisogno. Io sono in salotto-, mi sorrise e uscì.

Rimasi immobile a guardare la porta chiusa, per qualche istante. Poi mi guardai intorno e, quando fui certa che non era tutto un sogno, mi spogliai e mi immersi nell’acqua calda e profumata.

Cosa ci facevo, nuda, nella vasca da bagno dell’uomo che mi aveva rubato l’anima e che era appena entrato in un negozio di Victoria’s Secret per comprarmi della biancheria nuova???

Avrei voluto annegare in quella vasca!!!!

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 ... to be continued...

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 Ecco le risposte ai vostri carinissimi commenti!  (stavolta sono stati 8: un record!!!) ^__^

... e grazie mille alle 57 persone che hanno inserito la mia ff tra le preferite!!!!

PROIBITO

 E così si chiuse il trittico sulla lunga notte di Carl e Bella...

Vi chiederete che succedrà poi, e io vi risponderò che per un po' lasceremo Parigi e i due dottorini a far acquietare le acque... poi vedremo che è accaduto! ^__^

Vi ringrazio tutti, voi che leggete e voi che recensite e mi fate sentire la vostra voce...

Ed ora... buona lettura! ^__^

***

Tu es la vague - Carl

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Avrei voluto annegare, in quella vasca, piuttosto di sapere che, al di là del sottile velo di legno della porta, Bella, nuda, stava facendo il bagno in casa mia!

Ero andato a comprarle della biancheria… ma che diamine stavo facendo!  

Potevo averle comprato almeno anche qualcos’altro, così per non dare troppo nell’occhio? Una maglia e dei jeans...? Ma che ne capisco io di abiti da donna?! Per Bella poi! So solo che vorrei se li togliesse di dosso... ecco quel che so! “Ma certo, mia cara, porterò i tuoi abiti in lavanderia, anzi, no, li laverò io a mano! E se poi vorrai, entrerò in casa tua, frugherò tra la tua roba e ti porterò i tuoi vestiti! Ma per ora, per favore, strusciati per bene nel mio letto, sulla mia tuta che ti ho lasciato ben in vista, fai entrare il tuo profumo in ogni fibra, così che io possa riempirmi la testa di te, anche quando te ne sarai andata!”

Le ho comprato della biancheria!?! Sono matto... no… sono malato….

Non l’avevo mai comprata neanche per Esme, io, della biancheria! Mi stavo davvero rincretinendo, rinnegando la mia veneranda età e tutta la mia vita fino a pochi anni prima!

Questo non era il Carlisle Cullen che aveva vissuto nel Settecento e nell’Ottocento, attenendosi ai suoi principi di vita!

Pietà, compassione, lavoro, famiglia: li avevo buttati tutti alle ortiche rapito da questa passione malata!

Ero furibondo con me stesso, per non aver voluto trovare la forza di non invischiarmi in quella storia malsana e innaturale e per aver tradito la fiducia di Edward.

Mi accanii con le lenzuola umide del sudore di Bella e disfeci il letto, aprii le finestre per cambiare l’aria e poi risistemai il tutto con delle lenzuola pulite e delle coperte nuove, che avevo comprato chissà dove, chissà perché.

Poi mi fermai, immobile nella stanza, ad ascoltare il lieve sciabordio dell’acqua sulle pareti della vasca.

Scossi la testa, destandomi dalla sensazione di abbandono che quel suono mi aveva provocato e uscii dalla camera.

Mi diressi verso la finestra del salotto, dove una grande vetrata dava sul boschetto che circondava la mia casa.

L’avevo scelta perché mi ricordava la nostra casa di Forks. L’avevo fatta arredare con gli stessi colori, cercando di ricreare la stessa atmosfera, ma del calore della nostra vecchia casa non aveva nulla.