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Autore: Koa__    24/10/2013    1 recensioni
Sono passati tre anni dal finto suicidio di Sherlock e da che Gregory Lestrade è stato portato a Pendleton House ed ha scoperto la verità. Tre anni durante i quali ha deciso d'allontanarsi da Londra e da John Watson. Appena fa ritorno della capitale inglese, però, Greg riceve una chiamata dal dottore, proprio prima che lui e Mycroft partano per la luna di miele. A Parigi, mentre sono immersi nell'idillio dell'amore, fanno un incontro che sarà sorprendente.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Di Mystrade, d'amore e d'altre sciocchezze...'
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I diritti di Sherlock non mi appartengo, io utilizzo i personaggi non a scopo di lucro.
Fa parte della serie “di Mystrade, d’amore e d’altre sciocchezze”.
Per leggere questa storia è necessario aver letto le precedenti...
Ok, prima che chiudiate e mi mandiate al diavolo, 
non lo dico per andare alla ricerca di commenti, 
questa storia è leggibilissima da sé, ma ci sono delle cose
che, lo so già, non capirete se non avete letto le altre shot.

Qui sotto trovate i link alle varie parti:
Prima parte, Seconda parte, Terza parte, Quarta parte

Koa



 
Honeymoon in Paris
 


 

Prima parte
 

Londra era particolarmente soleggiata in quel caldo pomeriggio di maggio, una leggera brezza spirava muovendo le fronte degli alberi, là, nei giardini di Notting Hill. Un vento leggero che agitava i petali di rosa appena sbocciati che ornavano le aiuole. Gregory Lestrade si sfilò gli occhiali da sole, guardandosi attorno con fare confuso. Aveva appuntamento con John Watson, ma non era certo che il luogo fosse quello esatto. Sapeva che i giardini di Notting Hill erano preclusi ai visitatori, perché ad uso esclusivo degli abitanti della zona. E anche se lui era in grado di ottenere ciò che desiderava, grazie a Mycroft, si sentiva ugualmente a disagio.

«Greg.» Una voce bassa lo richiamò da lontano; lo yarder si voltò ritrovandosi in quel modo faccia a faccia con la figura del suo vecchio amico dottore, il quale camminava nella sua direzione con un andamento a di poco claudicante.
Lestrade rimase interdetto appena si rese conto di quanto fosse cambiato John. Era sempre la medesima persona, ma aveva un’aria stanca, quasi spossata, che si portava addosso e che non gli s'addiceva affatto. Dopotutto, erano trascorsi tre anni dalla finta morte di Sherlock, da dopo il funerale non si erano nemmeno più visti. Non che Greg avesse avuto qualche problema con Watson, ma dopo che aveva scoperto la verità riguardo il finto suicidio di Sherlock, aveva preso la decisione di trasferirsi altrove e di lasciare Londra. Aveva chiesto a Mycroft il favore di mettere una buona parola perché potesse essere trasferito e il suo fidanzato aveva fatto pressione, senza nemmeno fare un eccessivo sforzo, a che venisse mandato nell’Eastbourne. Greg aveva quindi vissuto a Pendleton House per quasi tre anni, ma appena due mesi addietro aveva ricevuto una telefonata dell’ispettore capo White che gli chiedeva il favore, personale, di rientrare a Scotland Yard.

Lestrade, oltre ad esserne rimasto sorpreso, aveva indugiato a lungo riguardo la decisione da prendere. Alla fine aveva semplicemente pensato che non ci sarebbe stato nulla di male nel tornare a vivere nella capitale. Dopo qualche giorno dal suo ritorno, aveva infatti appena disfatto le valige nell’appartamento di Whitehall di Mycroft nel quale avrebbe vissuto, quando aveva ricevuto un messaggio di John. Gli era sembrato strano che lo contattasse dopo tutto quel tempo, non si erano mai sentiti dopo che gli aveva comunicato d’aver preso la decisione di sparire da Londra. E il fatto che si fosse fatto vivo appena aveva fatto ritorno, gli era sembrato strano fin da principio.

Quel giorno, quindi, lo rivedeva per la prima volta dopo tanto tempo; tempo che sembrava esser stato terribilmente tiranno con John Watson. Zoppicava vistosamente e si aiutava a camminare con un bastone da passeggio, era più magro e scavato di quanto non ricordasse, ma erano i suoi occhi a sconvolgerlo. Sapeva quanto difficile fosse stato il vivere a fianco di Sherlock, ma quello che lo aveva sempre convinto a credere che John fosse innamorato di lui, e quindi felice, era la luce che aveva negli occhi. A quel tempo brillavano di gioia, ma adesso erano vuoti e spenti.
«John Watson e con i baffi» si sforzò di dire, sorridendo di un bonario divertimento che in quel momento non gli apparteneva di certo. L’immagine che aveva davanti era quella di un uomo distrutto e che, ancora, dopo tutto quel tempo, soffriva per la morte della persona amata. Diavolo, quanto avrebbe desiderato il dirgli la verità… Che Sherlock era vivo e in salute e che si era finto morto soltanto per lui.
«Greg, come stai?» gli domandò John, stringendogli una mano con vigore.
«Tutto bene, grazie; come mai mi hai fatto venire qui? Che adesso vivi a Notting Hill?» [1]
«Abito in Cavendish Place, ma lavoro in un ambulatorio che è proprio qui dietro e posso usare questo giardino perché è annesso al mio studio.» [2]
«Sono contento per te, questo è davvero un posto magnifico! Ma non stare lì in piedi, vieni, sediamoci su quella panchina» disse, indicandone una poco lontano.
«Eh, non sono in più in forma come lo ero una volta» mormorò John poco dopo, lasciandosi cadere pesantemente sulle doghe in legno dipinte di verde.
«Cosa ti è successo alla gamba? Non penso d’averti mai visto col bastone, forse una volta, ma è passato così tanto tempo che nemmeno me lo ricordo.»
«Si è riacutizzato un vecchio dolore» spiegò, «Londra è umida e fredda, Greg e le mie ossa non sono più giovani come lo erano una volta. Ma tu come stai, piuttosto? Mi sembri proprio in gran forma, so che tu e Mycroft vi siete sposati.»
«Come fai a saperlo?» chiese, sinceramente stupito.
«La signora Hudson, ovviamente. Quella povera donna è sola e so che nel vecchio appartamento non ci vive nessuno, quindi di tanto in tanto vado a trovarla; ci sono stato appena qualche settimana fa e mi ha detto di voi due e anche che saresti tornato. Quando è successo? Quando vi siete sposati?»
«L’anno scorso» annuì. «Avrei voluto invitarti, ma sapevo che tra te e Mycroft non correva buon sangue dopo che… Beh, lo sai. E poi, a dirla tutta, credevo che tu fossi un po’ arrabbiato anche con me. Sai, mi sono pentito ogni fottuto giorno di non aver creduto a Sherlock, di aver dubitato di lui, credendolo un criminale.»
«Non ha più importanza, Greg, è passato tanto tempo… Nessuno di voi dovrebbe colpevolizzarsi per quanto è accaduto, nemmeno Mycroft. Perché la verità è che, se Sherlock è morto, è solo a causa mia.» Nel sentire quelle parole, Lestrade avrebbe voluto ribattere. Non riusciva a sopportare lo sguardo triste e perso nel vuoto di John. Le dita che tamburellavano sulla superficie liscia del bastone, gli fecero anche capire che era nervoso e forse non a proprio agio nel rivangare vecchi ricordi. Forse sarebbe stato meglio troncare subito quel discorso sul nascere. Per questo fu stupito appena John lo precedette; Greg quindi si ritrovò quindi nuovamente ammutolito.
«Sai, mi sono sempre sentito orgoglioso del fatto che fossi la sola persona a riuscire a vivere con lui. Sappiamo tutti che non era semplice sopportarlo e, soprattutto, era impossibile venire tollerati dalla sua eccentricità, dalla sua sociopatia, dal suo autismo… Una parte di me è sempre stata segretamente felice del fatto che riuscisse a sopportarmi, ma la realtà è che non l’ho mai capito. E l’ho compreso bene quel giorno sul tetto. Sherlock è sempre stata una persona fragile, prima di conoscere me era un drogato, non sai quanta fatica ho fatto per farlo anche solo smettere di fumare. Io non gli sono mai stato vicino come credevo di star facendo, e proprio nel momento in cui lui aveva maggiore bisogno di me, ho dubitato. Perché l’ho fatto, Greg: c’è stato un momento in cui anch’io ho dato ragione a Moriarty e in cui ho creduto che…»
«Non dire così, John» lo fermò il poliziotto, tornato padrone di sé «è vero era un drogato e forse hai dubitato di lui, ma tu non l’hai conosciuto prima. Quando tu non c’eri era un’altra persona, tu lo hai cambiato, John, lo hai reso migliore. La colpa è solo di Moriarty, non è né mia, né tua e neanche di Mycroft, anche se non ha mai fatto altro che sentirsi responsabile. Credimi, per favore.» Greg vide John sorridere, ma farlo in un modo timido, quasi impacciato e che non credeva davvero potesse appartenergli. Probabilmente il parlare di nuovo di certe cose, riapriva vecchie ferite che gli erano costate tanto sanare.

Lestrade non aveva mai riflettuto sul fatto se conoscere o meno la verità, fosse un aspetto positivo. Sapeva che Sherlock non si era suicidato e che non era un pazzo assassino, quello sì, ma era da quel giorno a Pendleton House che non lo vedeva, che non aveva la minima idea di dove si trovasse. Riceveva di tanto in tanto qualche informazione da Mycroft, ma il più delle volte aveva l’impressione che lo stesso maggiore degli Holmes non avesse la minima idea di che cosa Sherlock stesse facendo. Sicuramente però, il non saperne nulla di nulla, essere all’oscuro di tutto senza conoscere la verità, proprio come lo era John, doveva essere terribile. Se solo Waston avesse saputo… Se solo si fosse immaginato cosa aveva fatto per lui il sociopatico Sherlock Holmes, probabilmente si sarebbe sentito meglio.

Lo yarder spiò nuovamente le sue espressioni: ora non sorrideva più, ma lo guardava con curiosità, forse se ne stava zitto da troppo tempo. Infatti, fu proprio la sua voce a fermare il corso dei suoi pensieri.
«Basta parlare del passato, Greg, sono trascorsi quasi tre anni e la vita va avanti, senza di lui, ma va avanti. Ho un bel lavoro e mi vedo con una ragazza.»
«Hai una ragazza?» chiese, stupito.
«Si chiama Mary e l’ho conosciuta un paio di anni fa, è carina e simpatica e…»
«State insieme?» lo incalzò.
«Sì, da un po’ di tempo; volevo anche chiederle di sposarmi.»
«Beh, se la ami, è una bella notizia!» esclamò Greg, forzando un sorriso.
«Certo che la amo, lei è carina ed è davvero una brava persona, mi ha aiutato parecchio, sai da dopo la morte di Sherlock mi sono lasciato un po’ andare.»

Lestrade rimase per un istante a pensare a quelle parole, John che si vedeva con un’altra persona, con una donna e che si dichiarava innamorato di lei, dicendo di volerla sposare. Che doveva fare? Cosa dire ad un uomo che cercava disperatamente di ricostruirsi una vita senza sapere che la persona che amava, e che credeva morta, in realtà era viva e vegeta? Quanta voglia aveva di dirgli la verità, Greg Lestrade, quanta di dirgli di lasciare quella donna e aspettare che Sherlock tornasse, tanta da mordersi la lingua pur di non parlare. Tutto ciò che fece quindi, fu annuire e sorridere ovvero mettere in atto ciò che Mycroft gli aveva consigliato di fare, se mai avesse rivisto il buon dottore prima del ritorno di Sherlock. Mentire, nonostante lui si detestasse il dover dire delle bugie.
«Sono contento per te, John, questa è una buona cosa e tu meriti di essere felice.»
«Grazie, Greg, conta molto per me la tua opinione. Sai avevi ragione, quella volta a Baskerville: io amavo Sherlock, ma non gliel’ho mai detto. Avrei dovuto farlo, ma temevo di farlo scappare o spaventarlo. Lui non è mai stato tanto incline a certe cose come i sentimenti; più di una volta ho addirittura creduto di non essere nemmeno un amico per lui. Un uomo così che si innamora e di me, l’ho sempre ritenuta un’ipotesi improbabile.»
«Già» disse, ora accalorato «ma prova a pensare: se Sherlock fosse qui adesso, in questo momento e ti dicesse che ti ama, tu che faresti?»
«Beh, dovrei controllare i miei esami tossicologici, perché sarei di certo drogato» disse in un pallido tentativo di fare ironia.
«Che faresti, John?» insistette.
«Gli direi che vederlo gettarsi da quel tetto è stata la cosa peggiore che io abbia mai visto in vita mia, che per tutti questi anni ho rivissuto quel giorno nella mia mente, cercando il più piccolo dettaglio che mi facesse capire che mi sono sbagliato, anzi, che tutti ci siamo sbagliati e che in realtà lui non è morto. Lo odio, Greg, lo odio con tutto me stesso, perché si è buttato da un palazzo e ha preferito morire piuttosto che stare con me. Non ha lottato per salvare la sua reputazione. Io gli sarei stato sempre accanto, anche se avesse dovuto smettere di lavorare. E invece, le ultime parole che mi ha detto, sono state che Moriarty aveva ragione e che era un impostore. Quel maledetto bastardo è morto dicendomi una bugia e se lo avessi sotto mano lo ucciderei, Greg, lo farei per davvero.»

In quel momento il cellulare di Lestrade squillò, vibrando nella tasca della giacca leggera che portava. Il poliziotto sussultò, nonostante fossero in un parco in pieno giorno, era come se lui e John si trovassero in un altro mondo. Si era come risvegliato all’improvviso e sapeva anche chi era stato a destarlo. Quella era la suoneria di Mycroft.
«Scusami» mormorò prima di prendere il telefono e leggere il messaggio.



 
Controllo, Gregory, controllo.



«Te ne vai di già?» chiese John dopo che Lestrade fu scattato all’impiedi e che ebbe gettato il telefono nella tasca della giacca.
«Mi dispiace, ma io e Mycroft partiamo per la luna di miele la prossima settimana e devo sbrigare certe faccende in ufficio prima d’andar via.»
«Luna di miele? Ma non vi siete sposati un anno fa?»
«Sì, ma non l’abbiamo mai fatta. Sai, con il suo lavoro e poi Sherlock, beh…»
«E dove andate di bello?»
«Parigi» annuì, «non so altro: ha voluto organizzare tutto da solo. E con “organizzare” intendo non alzare un dito e far fare tutto ad Anthea.» Entrambi ne risero, ma la risata di Greg si smorzò immediatamente e le sue espressioni del viso si fecero subito serie. «Mi dispiace dover scappare tanto in fretta, ma appena torno ci vediamo. D’ora in poi sarò qui a Londra, nel mio vecchio ufficio a New Scotland Yard e poi hai il mio numero di cellulare, per qualunque cosa, non so una birra o una pizza o anche solo per parlare, basta chiamare. Mycroft sarà felice di aiutarti per qualunque cosa tu abbia bisogno, e dico qualunque.»
«Grazie, lo apprezzo davvero.»
Lestrade fece per incamminarsi, ma ritornò subito sui propri passi, voltandosi di nuovo verso di lui.
«So che lo amavi, John e so che non potrai mai smettere di farlo. Ma tu non colpevolizzarti troppo per quello che è successo, cerca di essere felice o quantomeno più sereno.»
«Lo sono, con Mary sto bene e la mia vita adesso è tranquilla. Niente più violini nel bel mezzo della notte o corse disperate per Londra o discussioni infinite sul disordine o sulle parti del corpo che mi metteva in frigorifero; Mary è una brava ragazza e io sto bene con lei.»
«Capisco» annuì Greg, gli suonava tanto di auto convincimento quel discorso. Non poteva certo leggergli nei pensieri, o nel cuore, ma non gli servivano parole per comprendere che John non era affatto felice come voleva fargli credere. Ma, ancora una volta, si sforzò d’essere quello che non era: ovvero contento per la sua nuova vita. E sorrise, di nuovo falsamente, di nuovo con finta gioia e, di nuovo, il suo stomaco si rivoltò e un senso di nausea gli rivoltò le membra.
«Voglio conoscere questa ragazza, appena torno ci organizziamo» disse, accelerando il passo come se fosse inseguito.
«Arrivederci, Lestrade.»


 
oOo



Greg affrettò il passo, percorse i viali del parco quasi di corsa e dopo che ne fu uscito si lasciò andare contro il muro di cinta, sospirando pesantemente. Si sentiva un bastardo! Un maledetto stronzo e lui detestava lo stare così; se n’era andato da Londra proprio per non vedere più John, lui gli voleva sinceramente bene e poteva sul serio considerarlo come suo amico, e il non potergli dire la verità lo faceva star male.

Quando una berlina nera si fermò davanti a lui ed una portiera si aprì dall’interno, Greg si risvegliò. Aprì gli occhi, spiò nell’auto ed intravide le scarpe in pelle marrone di Mycroft e l’ombrello blu, perfettamente piegato, premuto contro i tappetini color tortora.
«E dovrei entrare?» chiese, alzando la voce di modo da farsi sentire.
«A meno che tu non voglia percorrere l’intero tragitto da qui a Whitehall a piedi, Gregory, suppongo che tu debba farlo, sì.»

Lestrade fece una smorfia, lui e i suoi maledetti discorsi sensati, pensò. Si ritrovò suo malgrado ad obbedire, chiudendosi la portiera alle spalle con mala grazia e si mise a sedere di fronte lui. Si lasciò quindi andare contro i morbidi sedili, sopraffatto da tutte quelle emozioni che ancora gli facevano sussultare il cuore ed esplodere il cervello.
«L’incontro con il dottore ti ha agiato più di quanto pensassi, Gregory.»
«Sono uno stronzo!»
«Oh, non essere tanto severo con te stesso» lo ammonì Holmes.
«Mycroft, quell’uomo è distrutto e s’incolpa per la morte di Sherlock e io cos’ho fatto? L’ho consolato come si fa con le vedove, gli ho detto che non era colpa sua e che doveva cercare di essere più felice: ho mentito.»
«Hai detto il vero, non è colpa del dottor Watson se Sherlock ha fatto ciò che ha fatto.»
«A quanto pare si vede con una donna, una certa Mary. Io l’ho addirittura spinto a farsi una vita con quella donna, pur sapendo che la persona che ama, e che crede morta, in realtà è viva e sta benissimo. Tu sai qualcosa di questa ragazza?» domandò poi, senza celare d’essere morso da una qual certa curiosità.
«Mary Morstan» esordì suo marito, lasciando trasparire un lungo sospiro, che faceva capire quanto quel discorso lo irritasse. Le ragioni per cui quella signorina Morstan non piaceva a lui, dovevano essere le medesime per le quali nemmeno a Mycroft piaceva. O perlomeno, quella era l’impressione che aveva osservando il suo viso contrariato e presa sul suo ombrello, ora più salda.
«Trentasei anni, insegnante privata, ha sempre lavorato per famiglie dell’alta società che preferiscono non mandare i rispettivi rampolli in una scuola pubblica. Attualmente ha un impiego presso la famiglia di Lord George Stanford, due gemelli di otto anni, maschio e femmina, lei ha problemi di timidezza e lui di iperattività. Il suo stipendio medio è di tremila sterline al mese, ma al momento è di quattromila e duecento. Lady Stanford ritiene che il suo impegno sia doppio a causa dei suoi problematici figlioli e la gratifica spesso, anche con costosi regali.»
«Accidenti» sbottò Lestrade, rizzandosi sul sedile.
«Si frequentano da più o meno nove mesi, si sono incontrati al cimitero dov’è sepolto Sherlock, lei andava a pregare sulla tomba del suo primo marito, morto una quindicina di anni fa in un incidente d’auto in cui guidava lei; lo fa una volta l’anno. Si sono frequentati per qualche mese e ora si vedono regolarmente; il dottore ha intenzioni serie.»
«E tu da quanto tempo sai queste cose?»
«Ricevo un rapporto sul dottor Watson ogni due settimane. Proprio come Sherlock voleva, John è costantemente sorvegliato e l’identità di chi lo avvicina, controllata. Fino a che l’organizzazione di Moriarty non sarà sgominata, queste misure sono necessarie.»
«Mary Morstan…» ripeté Greg, meditabondo, guardando fuori dal finestrino mentre prendeva a tamburellare contro i sedili chiari. «Lui lo sa?» chiese poi.
«Non parlo con mio fratello da sei mesi, so solo che è vivo perché la scorsa settimana mi ha fatto avere un messaggio, ma non ho idea di dove si trovi o di che cosa stia facendo e la cosa, se devo essere brutalmente sincero, inizia a seccarmi. Ma vorrei invitarti a non angustiarti ancora con questioni del genere, Gregory, abbiamo una luna di miele alla quale pensare» concluse il maggiore degli Holmes, sorridente.

Lestrade sorrise a sua volta, si protese verso di lui e ne baciò delicatamente le labbra. Una luna di miele, una vacanza nella città dell’amore: Parigi. Era passato davvero troppo tempo da che lui e Mycroft non si prendevano delle ferie e non vedeva l’ora di partire e lasciarsi alle spalle tutto e tutti. La capitale francese era quel che ci voleva: loro due soli, nella luna di miele che non avevano mai fatto, per tutte quelle ragioni che Lestrade faticava a ricordare. Il lavoro e la finta morte di Sherlock, e poi la crisi coreana e il problema in Iran e chissà che altro ancora.
«Dimmi un po’» esordì poco più tardi, folgorato da una questione che gli premeva sulla punta della lingua. «Non è che staremo da tua madre, eh? No, perché non mi va di passare una settimana a discutere di caviale, politica estera e lucido per candelabri d’argento.» Kathleen Holmes infatti, aveva un appartamento a Parigi nel quale abitava da tutta una vita.
L’ultima volta che avevano fatto una vacanza insieme, era accaduto due anni prima, avevano trascorso due settimane con la signora Holmes e, Lestrade, aveva rischiato letteralmente di dare di matto. Per carità, era una brava donna, generosa ed estremamente cordiale, ma vivere sotto il suo stesso tetto, quello davvero Greg non lo avrebbe sopportato. Non una seconda volta.

«Alloggeremo all’One by the Five, ovvero l’albergo più esclusivo di Parigi.» [3]
«L’One by the Five?» ripeté, incredulo. «Quello con una camera sola? Mycroft costerà un occhio della testa quel posto.»
«Io voglio solo il meglio, Gregory, dovresti saperlo.»

Lestrade si ritrovò a sorridere, dopo tanti anni riusciva a leggere dentro di lui e capire i messaggi nascosti tra le righe. Non era più il Mycroft freddo di quando si erano conosciuti, era probabilmente più umano, ma manteneva sempre una qual certa compostezza che lo contraddistingueva, specie quando erano in pubblico. Non aveva idea di cosa avesse organizzato di tanto speciale, ma era certo che sarebbe stato bene, perché ciò che aveva appena detto corrispondeva  a verità: lui voleva solo il meglio.

 
Continua…

 
[1] “Che adesso vivi a…” è un espressione tipicamente colloquiale (forse addirittura dialettale) e mi rendo perfettamente conto che non è italiano corretto, ma in un discorso diretto mi prendo delle libertà.
[2] Notting Hill è uno dei quartieri di Londra, è residenziale ed è conosciuto per i suoi famosi giardini che per la maggior parte sono privati e ad uso esclusivo dei residenti. Tipo giardini di ville o palazzine…
[3] L’One by the Five (ho mantenuto il nome originale senza tradurlo), è l’albergo più esclusivo al mondo e si trova a Parigi. È un hotel composto da una sola stanza, ovviamente una suite, ed offre una vista unica sulla Torre Eiffel. Inutile dire che è costosissimo.
   
 
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