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Autore: thefung    14/01/2011    11 recensioni
Isabella Swan è una ragazza di diciassette anni a cui viene diagnosticata la leucemia. Non reagisce male alla notizia, infatti è convinta che la sua vita non abbia senso, che questa malattia sia una 'manna dal cielo', mandata per alleviare tutte le sue sofferenze terrene. All'ospedale di Phoenix incontra un ragazzo dalla bellezza sconvolgente, Edward Cullen, suo coetaneo che, nonostante le carattersitiche fisiche, rimane sempre coi piedi per terra. E' qui per assistere una sua parente in malattia e, giusto per scacciare la noia, decide di scambiare due parole con Bella. Quest'ultima, piuttosto che raccontare al ragazzo il vero motivo per cui si trova lì, inventa una scusa, nascondedogli la sua malattia.
Da quelle che sembrano poche ed insignificanti parole, nasce un'amicizia che ben presto diventa un'attrazione travolgente. Purtroppo però il loro sogno sembrerebbe irrealizzabile, perché c'è ancora qualcosa che Edward non sa e che minaccia di distruggere tutto.
Tratto dal capitolo 11: "Lo sai che dalla calligrafia di una persona si può capire come essa sia?", mormorò Edward fissando il mio foglio scarabocchiato. Mi accigliai. "Mi stai dicendo che faccio schifo?". Sorrise. "No, affatto. Sto dicendo che tu sei diversa, sei speciale."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Your Guardian Angel


*° Capitolo Dieci: Sorriso °*


POV EDWARD

 
“Edward, Edward, sei proprio una femminuccia”, canticchiò Alice, nel tentativo di distrarmi.
“Oh sì, proprio una femminuccia. Guarda caso, ti sto battendo, sorella!”, esclamai sferrando l’ennesimo colpo.
Una battaglia a suon di movimenti di telecomando, ecco cos’erano le partite di tennis con la Wii, anche se noi della famiglia Cullen le consideravamo più sacre di qualsiasi altra cosa, la vittoria fondamentale neanche stessimo combattendo una guerra mondiale.
“Seee, come no. Preparati, perché sto per iniziare a giocare seriamente”
“Tu?”, chiesi scettico non riuscendo a trattenere un ghigno e un’occhiata verso di lei. “Da quando tu giochi seriamente?”
Non mi potevo mai concedere un momento di distrazione con Alice, lo sapevo e continuavo a ripetermelo, ma non per questo riuscivo a rimanere sempre concentrato.
La schiacciata che fece, infatti, fu potente e veloce, sferrata proprio nell’istante esatto in cui mi ero voltato.
“Sì! Te l’avevo detto, Edward, che non mi sarei lasciata battere.”, trillò allegra e soddisfatta.
Grugnii, spostando lo sguardo verso le mie mani. “Cazzo di telecomando”, dissi all’oggetto bianco, giusto per prendermela con qualcuno – o meglio, qualcosa.
“Edward.”, mi richiamò mia madre con voce severa, tipica di quando mi beccava a dir parolacce. E dire che si trovava a ben due stanze di distanza con, per di più, la porta chiusa.
Io e i miei fratelli non eravamo mai riusciti a capire come facesse ad alzare sempre le antennine quando si trattava di parolacce o banali volgarità, finendo per coglierci sempre in fallo.
“Scusa, mamma!”, urlai in risposta, ottenendo il solito sorrisetto divertito da parte di Alice.
Stavamo per riprendere con la partita quando una voce pacata e tranquilla ci interruppe.
“Signorina Alice, signor Edward, volevo informarvi che la cena è pronta”, Siobhan, la nostra governante, era una donna di origini egiziane educatissima e compita: non aveva mai sbagliato una sola mansione da quando era stata assunta nella nostra casa, due anni prima.
Certo, avevo messo un po’ di tempo per convincerla che non doveva chiamarmi ‘signorino Edward’. Mi sapeva tanto di Colin, il cuginetto viziato di Mary Lennox, personaggio de ‘Il Giardino Segreto’ che avevo sempre detestato con tutto me stesso.
Effettivamente non ero riuscito a convincerla del fatto che poteva permettersi l’enorme libertà di chiamarmi semplicemente col mio nome di battesimo, ma ‘Signor Edward’ mi sembrava decisamente meglio.
“Mi sa che ci tocca, Alice …”, mormorai sarcastico, sapendo che in questo modo avremmo dovuto lasciar perdere la partita di tennis e, di conseguenza, la sua vittoria.
Lei strinse gli occhi, indispettita. “Ti è andata bene.”
Continuammo a battibeccare anche in bagno, mentre ci lavavamo le mani e ci schizzavamo come quando eravamo piccoli, senza alcun pensiero. Ad un certo punto, però, sentimmo il tipico rumore metallico della serratura e il conseguente arrivo di nostro padre.
“Giusto in tempo per la cena, papà. Come fai ad avere sempre questa precisione?”, scherzai facendo capolino dal corridoio, proprio mentre Carlisle consegnava accuratamente il suo giaccone leggero a Siobhan.
“Edward, figliolo!”, mi salutò felice, con quegli occhi azzurri sempre sereni, nonostante la stanchezza di una tipica giornata di lavoro.
“Ciao, papà”, gli diedi una pacca sulla spalla, rispondendo al saluto mentre ci incamminavamo verso la cucina, desiderosi di gustare le pietanze di Siobhan.
Incredibile come il silenzio, non appena assaggiammo il primo boccone, aleggiasse tranquillo nella stanza ampia, riempito soltanto dal rumore delle posate, dei bicchieri di vetro e delle nostre mandibole.
La cucina italiana era quella che la nostra governante preferiva in assoluto – e anche io, ad essere sinceri – e in cui ci si cimentava più frequentemente.
Quella sera aveva preparato un altro di quei deliziosi manicaretti: le lasagne al sugo.
“Come è andata la giornata, caro?”, chiese Esme con un sorriso tenero in volto, interrompendo momentaneamente l’assalto al piatto ancora fumante.
“Molto bene, nonostante sia stata impegnativa. Ho avuto a che fare con due gravi interventi in mattinata! Ah, Edward, ti ho visto questo pomeriggio …”, esclamò richiamando la mia attenzione. “… in compagnia di una ragazza”, concluse senza riuscire a trattenere un sorrisetto.
Mi ritrovai improvvisamente con tutti gli occhi della famiglia addosso, quelli caldi e comprensivi di Siobhan compresi, come ogni qualsiasi altra volta si parlasse di ragazze per me o di ragazzi per Alice.
La ragazza in questione, senza ombra di dubbio, era Bella, l’unica con cui avevo passato quasi tutta la giornata.
Ci eravamo divertiti molto, quel giorno, nel cercare informazioni sull’innamorato di zia Carmen, tale Eleazar.
“Edward! Non pensavo che portassi le tue conquiste anche in ospedale!”, commentò Alice con una risatina, ricominciando a mangiare immediatamente per non beccarsi una delle mie occhiate assassine.
“Ero con Bella”, risposi piccato e con una punta di orgoglio.
“Chi è Bella?”, ecco che i miei partivano con l’interrogatorio.
“E’ una ragazza molto carina, non c’è da preoccuparsi”, si affrettò a tranquillizzarli mia sorella mentre io aprivo la bocca, in procinto di rispondere.
“Frequenta la tua scuola?”
“No, va in quella di Mike, Jessica, Victoria e Irina. Te li ricordi?”
“Oh, certo! E Mike! Ancora ricordo quando giocavate sempre insieme all’asilo! Eravate inseparabili, davvero due splendidi angioletti!”, esclamò Esme, gli occhi resi improvvisamente lucidi dall’ondata di nostalgia.
“Adesso è un po’ cambiato”, mormorai con ovvietà.
“Be’, sarebbe stato strano se non l’avesse fatto. Sei cambiato anche tu, però, Edward. Ogni sabato sera in discoteca … tante ragazze intorno … come questa Bella, no?”, domandò sollevando un sopracciglio, facendomi capire che era proprio lì che voleva arrivare.
“No, no, no, no!”, risposi con enfasi e velocità.
“Siamo solo … amici”, mentre queste parole uscivano dalla mia bocca, però, non facevo altro che rifletterci, pensare a come questa definizione poteva essere esatta.
Prima di conoscere Bella, utilizzavo la parola amica per definire una ragazza con cui avessi parlato anche soltanto cinque minuti del tempo meteorologico. Era per questo che non avevo esitato un attimo a chiamarla così il giorno che mi aveva presentato a sua madre o il motivo per cui facevo fatica a ricordarmi di tutti i miei amici: sbagliavo a considerarli tali.
Solo grazie a Bella ai nostri discorsi paurosamente filosofici, avevo compreso che amico era una definizione importante, da non usare a caso e per chiunque.
Ma ora che definizione stavo fornendo ai miei genitori, parlando di Bella? Di quegli amici che non dovevano essere considerati tali oppure di una persona in cui avevo imparato a riporre la mia fiducia?
Mi tornò alla mente, come un flashback, il nostro pomeriggio, proprio nel momento in cui, mentre inseguivamo con finta indifferenza il nonnetto olivastro, i lacci della sua scarpa le avevano intralciato il percorso e, scusandosi, si era dovuta abbassare per annodarli.
Un gesto normalissimo, privo di qualsiasi malizia o doppio senso … e allora perché i miei occhi si erano attaccati senza alcun pudore al suo fondoschiena?
Effettivamente, altre volte era capitato che certe ragazze si chinassero soltanto per mostrare le proprie forme ai miei occhi e mettersi in mostra, ma Bella … nei suoi movimenti c’era sempre una così grande innocenza che non potevo assolutamente permettermi di pensare che avesse un secondo fine.
Era una ragazza molto carina, nonostante si rifiutasse anche solo di pensarlo, e, in quanto a tale, i miei occhi, da quando l’avevo vista per la prima volta, non avevano potuto fare a meno di seguire le curve armoniose del suo corpo, appena pronunciate e nascoste dagli abiti pesanti e semplici.
Quando si era rialzata, mi aveva sorriso non solo attraverso la piega delle labbra, ma anche con gli occhi, caldi e profondi nel loro colore simile a quello del cioccolato.
Una miscela bollente di Nutella fusa in cui sempre più spesso desideravo annegare.
Che sfaccettatura della parola amica avrei dovuto intendere, a quel punto?
Dovevo incominciare a riflettere a lei come una delle mie potenziali conquiste?
Quando avevo pensato a lei in questi termini, il giorno dopo il nostro incontro giusto perché non avevo nulla di meglio da fare, mi ero quasi messo a ridere.
Bella era … totalmente opposta a tutte quelle che erano e rimanevano le mie ragazze, ex ed attuali. Loro avevano una vita sociale decisamente più attiva, avrebbero voluto diventare modelle, non avevano pensieri seri e morali. O, se li avevano, non ne parlavano affatto. Erano diverse.
Anzi, Bella era diversa.
Eccolo, avevo improvvisamente trovato l’aggettivo più adatto a lei.
Era differente da tutte le compagnie a cui ero abituato, faceva sorgere quella parte di me che non credevo nemmeno di possedere, una sfaccettatura comprensiva e sensibile, capace di ascoltare gli altri.
In un primo momento avevo preso l’amicizia con Bella un po’ come una sfida con me stesso e la mia apparente bellezza, nonostante adesso me ne vergogni.
Vederla così agguerrita, seria e testarda era ciò che mi aveva spronato a provarci, a far sì che a poco a poco si sciogliesse, diventasse come creta nelle mie mani, disposta a fare qualsiasi cosa sotto mia richiesta.
Si trattava di una sfida che comprendeva come risultato finale il conquistarla, fare in modo che stravedesse per me, così come ogni altra ragazza – eccetto mia sorella, è chiaro.
Non so dire come, con il passare del tempo, questo scopo sia cambiato. Non so davvero come fare, come capacitarmi del fatto che adesso la mia priorità non è solo quella di vederla sorridere una volta ogni tanto, ma che quell’adorabile smorfia, quella testimonianza della sua felicità, rimanga sul suo volto tutto il giorno, ogni giorno.
 
 
POV BELLA
 
“Zia, è inutile che continui a far finta di nulla. Sappiamo tutto.”
Edward le si muoveva leggiadro intorno, sempre con quella sua aria scanzonata a senza pensieri. Da Peter Pan, l’avevo mentalmente definita.
Trattenni una risata per il tono solenne che aveva usato, limitandomi a rimanere seduta sulla barella di Carmen, proprio vicino a lei.
Edward mi aveva spronato ad approfittare dell’assenza della donna che condivideva la stanzetta con sua zia per poterle parlare.
Il giorno prima c’eravamo dati parecchio da fare per riuscire a capire chi fosse l’uomo a cui erano rivolti costantemente i suoi pensieri dato che era spesso e palesemente assente con la testa e … forse anche con il cuore.
“Edward, perché continui a dire queste cose? Non c’è assolutamente nulla che dobbiate sapere!”, rispose stizzita lei, arrossendo ed abbassando lo sguardo sul suo grembo.
“Non sono sempre stato il tuo preferito? Non ti ho sempre detto quali ragazze mi piacevano?”, continuò imperterrito con sguardo tenero.
“Sì, sì. E’ vero. Ma questo cosa c’entra?”
“Vede, Carmen,”, m’intromisi, “abbiamo capito qual è il motivo dei suoi sbalzi d’umore e del suo essere perennemente in un altro mondo”
“Ah … sì?”, gracchiò stringendo la presa sui braccioli della sedia rotelle.
“Eh, già. Sa com’è, anche suo nipote è dotato di intuito femminile …”
“Ehi! Non è vero!”, si lamentò dandomi una gomitata mentre Carmen ridacchiava.
“E sappiamo anche chi è la causa”, continuai piegando la testa di lato.
La sua risata si interruppe di botto mentre gli occhi si strabuzzavano. “L’avete pedinato?!”
“No, assolutamente!”, esclamai nel momento esatto in cui Edward rispondeva ‘Sì’ con molta nonchalance.
La carnagione dorata del viso della donna si tinse immediatamente di rosso mentre tentava di capacitarsi della cosa. “Lui … io non so nemmeno se sia sposato o …”
“E’ vedovo, zia, proprio come te. Ormai da tanti anni”, la interruppe  gentilmente il ragazzo.
Carmen sbatté le ciglia, frastornata. “Eleazar è vedovo?”, mormorò quasi tra sé e sé.
“Vedi che è Eleazar? Non poteva certo essere il broccolo che si porta sempre dietro!”, mi disse concitato Edward, desideroso di far emergere la sua ragione, per una volta che la possedeva.
“Guarda che nemmeno Alistair è così male!”, ribattei.
Il giorno precedente avevamo avuto dei seri problemi nell’individuare chi fosse l’uomo per cui Carmen si era presa una cotta. Avevamo notato subito che il suo sguardo, non appena passavamo per il corridoio, si fiondava verso una coppia di uomini dalla pelle olivastra, i due fratelli Eleazar e Alistair.
Il primo aveva un fascino indiscutibile grazie a quegli occhi neri, i capelli brizzolati, la carnagione e quell’aria da misterioso principe del deserto. Si trovava all’ospedale per seri problemi di cuore. Il secondo invece, molto simile al fratello per tratti somatici, non aveva nello sguardo quella calma tipica degli orientali, al contrario, era molto agitato e nervoso, spesso colto da tic alla testa e alle mani.
“Dovreste provare a parlargli”, la incitai con un sorriso.
Carmen era una donna molto bella ed elegante, nonostante le sue continue lamentele sulla salute e la situazione della sua gamba e non avrebbe avuto nulla da perdere se avesse scambiato qualche parola con l’affascinante egiziano.
“No, non posso.”, rispose rassegnata, sul volto un’ombra di tristezza infinita. “Suo fratello gli sta sempre alle costole e la mia gamba … no, non posso. Non sarei mai degna di lui”
Nonostante la situazione non fosse certo allegra, mi ritrovai a sorridere, riflettendo su come ogni persona, giovane o no, avesse sempre dentro di sé una parte adolescente, difficile, permalosa, pessimistica.
L’avevo imparato da tantissimo tempo, ormai, dato che proprio mia madre ne era la prova. Renée era un po’ differente dalla maggior parte degli adulti: non tentava nemmeno di nascondere questa parte da teenager, anzi, la teneva a pari livello di quella matura e risoluta che, anche se spesso, scherzando, dicevo non esistesse, faceva comunque parte di lei.
“Scusatemi, adesso vorrei restare un po’ da sola”, mormorò con gli occhi bassi, muovendo freneticamente le mani sudate sulle ruote della sedia a rotelle e allontanandosi da noi.
La porta della stanzetta che le era stata assegnata era socchiusa, perciò le bastò una lieve spinta per aprirla e avviarsi nel corridoio, sempre costretta su quella particolare seggiola.
Edward sospirò, afflitto, sedendosi accanto a me sulla barella.
“E adesso cosa facciamo?”, chiese sconsolato.
“Edward, se un tuo amico non avesse il coraggio per chiedere di uscire alla ragazza che gli piace cosa faresti?”
“Be’, prima di tutto mi accerterei dell’identità della ragazza. Sia mai che un mio amico si interessi ad una che mi piace.”, rispose schioccando la lingua e ritrovando l’ironia di sempre, dopo un attimo di perplessità.
“Dopo questo tuo accertamento?”, continuai alzando gli occhi al cielo.
“Proverei ad aiutarlo, in qualche modo.”
“Vedi che non sei così deficiente, in fondo?”, chiesi ridacchiando e alzandomi in piedi.
“Bella, non c’è che dire, i tuoi costanti complimenti mi lusingano”, esclamò sarcastico.
“Dobbiamo aiutare tua zia a superare questa crisi del ‘non sono degna di lui’ e … sì, prendere in mano la situazione”
“Hai in mente qualcosa, vero?”, domandò retorico, inarcando un sopracciglio e sorridendo sghembo.
Annuii solenne, imitando la sua espressione di poco prima. “Forse per la prima volta”.
Pronunciando queste parole, mi resi conto che erano vere, che non mi ero mai impegnata in nulla, che non avevo mai progettato nulla.
Ma, come si dice, c’è sempre una prima volta.
 

* * * * * *
 
Il vento tra i capelli, le luci calde e tenui della sera, il rombo della moto …
Erano queste le uniche cose a cui pensavo, le uniche cose che mi circondavano in quel momento.
E mi chiedevo perché.
Perché in quel momento, con le braccia attorno alla vita di Edward, sulla sua Ducati, i miei unici pensieri fossero cose normali, felici, serene. Mi domandavo come mai le ansie per la mia solitudine, la mia malattia, la mia estrema voglia di morire fossero lontane.
Eppure la sentivo l’aria fresca tra i capelli, quei capelli che in ogni istante mi ricordavano stessero cadendo a ciocche, sempre di più, sempre più spesso. Li ritrovavo la mattina appena sveglia, sparpagliati sul cuscino su cui avevo appena dormito oppure sul pavimento della mia camera, del bagno, ammucchiati in angoli.
Perché in questo momento è tutto così semplice?
Perché pensare a come risolvere il piccolo problema amoroso della signora Carmen riusciva ad alleviare questi tormenti, a farmi dimenticare?
Non li consideravo illusioni come quei libri che leggevo, però. Edward era reale, infatti, non era frutto della mia fantasia, era una persona in carne ed ossa che si era intestardito con me, per qualche motivo. Ma non sapeva della leucemia.
A volte pensavo a come sarebbe stato se glielo avessi detto così, subito, senza pensarci. “Sono qui all’ospedale perché ho il cancro, qualche problema?”
Probabilmente si sarebbe allontanato, si sarebbe scusato per aver fatto troppe domande e non gli avrei più rivolto la parola. Oppure, se nonostante questo avrebbe tentato di approfondire la conoscenza, ero sicura che avrebbe assunto un atteggiamento di compassione, pena, lo stesso che a volte leggevo negli occhi di mia madre, o di Phil, o di papà.
Può una malattia cambiare tutto?
Senza che riuscissi a trattenermi, qualche lacrima sgorgò dagli angoli degli occhi, andando a inumidirli.
Edward dovette accorgersene, spiandomi dallo specchietto retrovisore, perché la sua mano abbandonò il manubrio ed andò a sfiorare gentilmente le mie, ancorate ai suoi fianchi senza stringere troppo.
Com’era facile per lui.
Nonostante fosse un ragazzo, spesso vedevo in lui un bimbo insicuro, ignaro delle sofferenze della vita, della delusione. Ed è giusto così, mi dicevo, dovrebbe essere così. Che non fosse a conoscenza del dolore, ma di quelle piccole cose – il Luna Park, il giro in centro, Peter Pan, la scrittura di un libro, un sorriso stampato sempre in volto, battutine e risate allegre – che, secondo lui, rendevano la vita degna di quel nome, degna di essere vissuta.
E a volte mi sorprendevo ascoltando queste sue idee di speranza, ricordando che aveva la mia stessa età e non tante differenze rispetto a me se non degli amici su cui contare e la salute, elementi che mai avevo considerato così tanto come allora.
Forse, quando già dall’asilo me ne stavo per i fatti miei, lontano dalle bambine e dalle loro barbie troppo costose, avevo preteso troppo dalla vita. Un principe azzurro pronto ad arrivare ad ogni schiocco di dita, tanti amici che non mi giudicassero né rimproverassero, dei genitori che andavano d’amore e d’accordo, un universo il cui centro ero io.
E allora come mai in quel momento ero felice?
Strofinai la guancia umida contro la spalla di Edward, ascoltando il suo respiro calmo e sorridendo, ricordando che era proprio una sua frase la risposta alla mia domanda.
Non c’è bisogno di ricchezza e popolarità per essere felici, basta avere dei punti fermi, delle piccole gioie anche di un solo momento. A quel punto non avrai bisogno di sogni irrealizzabili: sarai contento così come sei, con un sorriso.



*Spunta da un angolino con un sorrisino angelico e l'aureola sulla testa*
Perdono!!!
Chiedo umilimento perdono per il ritardo!
Durante le vacanze ho avuto un bruttissimo periodo e anche se sono stata a casa in questi ultimi tre giorni e avrei potuto scrivere, non ci sono riuscita per colpa della febbre >.<
Il capitolo sarebbe dovuto durare di più, ma se avessi aggiunto anche l'ultima parte sarebbe risultato estremamente lungo perciò l'ho concluso con le riflessioni di Bella.
Penso di aver scritto un capitoletto abbastanza ricco di informazioni non solo dalla parte della nostra eroina ma anche da quella del nostro mito (permettetemi di chiamarlo così! XD) mettendo in luce i suoi pensieri su Bella, la sua condizione economica e familiare ... a proposito di quest'ultima: vi sembra manchi qualcuno nel quadretto familiare dei Cullen? Un qualcuno che non è nemmeno mai stato nominato?
Vi lascio alle vostre riflessioni ù.ù
Il giorno precedente a quello descritto, Edward e Bella hanno fatto un giretto all'ospedale per scoprire qualcosa su questo Eleazar e origliando qualche conversazione hanno saputo i motivi per cui è lì all'ospedale e chi è quella piovra che gli sta sempre accanto (XD). Di conseguenza hanno voluto far aprire la zietta e far sì che confidasse loro la sua cotta per il principe del deserto. Come dico io, il fascino del capello brizzolato colpisce ancora ... XD
Le risposte alle recensioni arriveranno piano piano, sperando che la febbre mi lasci un po' di tregua!
Recensite, per favore!!!!!
Ringrazio immensamente tutte quante, per ogni bella parola ed ogni sorriso che mi regalate.
Vi voglio bene!
Bacioni,
Ele :***

   
 
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