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Autore: Callie_Stephanides    13/04/2012    7 recensioni
Leya di Trier ha sette anni, la notte in cui il Destino le regala un fratello: ha le pupille verticali e la coda di un rettile; nelle sue vene scorre il sangue degli uomini-drago. Due decadi più tardi, quando l’armata dei liocorni neri è ormai a un passo dallo stringere d’assedio la Capitale, l’inevitabile scontro tra gli ultimi discendenti di una stirpe perduta è solo l’inizio di un profetico riscatto.
(...) Per questo ora scrivo, in uno studio pieno d’ombra e all’ombra della mia memoria.
Scrivo perché nessuno possa celebrarmi per quello che mai sono stata: coraggiosa e nobile e bella.
Scrivo perché nessuno dimentichi di noi l’essenziale: che l’ho odiato di un amore dolcissimo e amato di un odio divorante.
Come un drago (...)
Genere: Avventura, Drammatico, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Epilogo
Il cuore del drago nero

“Sono… Sono qui…”
 
Raggiunsi il Collegio infangata fino alle cosce: i capelli ridotti a un nodo di alghe stillanti, somigliavo più che mai allo spirito irrequieto di un annegato.
Nephyl e Rael, piegati sul tavolo che tante volte avevo presieduto, impiegarono qualche istante a registrare il silenzio che aveva salutato il mio avvento.
Mossi ancora qualche passo incerto. Mi tremavano le ginocchia e temevo di crollare da un momento all’altro; il mio feroce orgoglio, tuttavia, vinceva la guerra del buonsenso e mi teneva in piedi.
 
“Le ho detto che avremmo dovuto trovare prima un guaritore ma…”
 
Jail mi afferrò per il braccio sano e mi costrinse a sedere.
Davanti ai miei occhi, i volti degli antichi compagni sfumavano in nebbia.
“Sono tornata…” balbettai, e sul volto di mio fratello si aprì il sorriso che credevo di aver dimenticato.
“Leya…”
Scandiva il mio nome con la tenerezza che usò per sfiorarmi i capelli e le guance madide. Cercai i suoi occhi e vi lessi un sollievo che sapevo di non meritare.
“È troppo tardi per chiedere scusa?”
Si avvicinò anche Nephyl e, con il Generale, molti soldati che avevo mandato a morire senza domandarmi mai – proprio mai – se anche quello non fosse un vile assassinio.
“No, non è tardi.”
“Lo spero.”
Tentai di rialzarmi, ma non vi riuscii.
“Non vi sforzate, Magistra,” disse Nephyl. “Siete ferita e…”
“Non sono più la Magistra. Forse non lo sono mai stata.”
Cercai il braccio di Jail e abbandonai la sedia.
Ero un soldato e un soldato non combatte mai da una posizione di svantaggio.
“Voi conoscete la guerra, Nephyl. Voi e questi soldati…”
Mi mancava il fiato e il dolore vinceva l’eloquenza. “Io… L’ho conosciuta tardi… Tardi, ma qualcosa ho imparato…”
Confuso, il Generale cercava con lo sguardo mio fratello, perché Rael, più di ogni altro, sapeva decifrarmi nelle ombre e nell’interlinea. Lo fece anche in quell’occasione, salvandomi dall’incomodo di confessare un colpevole, maledetto amore.
Lui come sta?” disse.
“È tanto evidente?”
Rael si piegò su di me e mi sfiorò l’orecchio con le labbra. “Il tuo odore…”
 
Me lo portavo addosso, dunque: non avevo bisogno di un marchio per appartenergli.
 
Sorrisi. “Non so come tu abbia fatto a vincere questa partita, fratello, ma sì… Bel colpo.”
Mi volsi al generale. “Vinus di Venusya è dalla nostra parte. Non so quando tornerà, ma tornerà… Da nord.” Strinsi i denti. “I suoi uomini…”
“Li ho fatti liberare,” annunciò Rael. “Sono pronti a combattere al mio fianco.”
Annuii. “Allora… Resistiamo.”
Jail mi sostenne, perché le gambe non mi obbedivano più.
“Indossa il Drago Nero,” fu quanto riuscii ad aggiungere, prima che il buio m’inghiottisse. “Il Drago Nero… Non muore mai.”

*

Mi riebbi nella casa paterna, nel letto in cui – bambina – m’inebriavo di Dendre senza immaginare quanto coraggio chiedesse l’essere donna; quanta saggezza, soprattutto, ci fosse nelle parole con cui Leonar raccontava di quel dolore diverso che lacera la carne quando ami.
Ero grande, ormai: avevo imparato a fidarmi.
 
“Come ti senti?”
 
Avevo il palato secco e le membra molli. Studiai il volto scavato di mio padre e mi stupì scoprire che era un vecchio fragile, dagli occhi stanchi. Potevo fermare il tempo del cuore, ma non quello che, implacabile, ci sferzava tutti.
Allungai il braccio sano, cercandone la mano. Leonar mi restituì la stretta con dolcezza, quasi fossi ancora la sua bambina.
Sarebbe stato bello, pensai: bello immaginare di aver solo sognato un mondo tanto triste da perdere tutti i suoi colori, un mondo rosso e bianco e nero.
Raccolsi le poche energie residue per sedermi.
Leonar non tentò d’impedirmelo: non ero più sua.
 
“Quanto ho dormito?”
“Troppo poco.”
“Meglio, perché…”
“Leya, tu non puoi combattere.”
 
La voce di mio padre era severa; nei suoi occhi c’era la paura che non mi ero mai concessa di cogliere: paura per me, per una figlia che aveva trasformato il proprio sesso in una bestemmia e il limite in una sfida. Paura per la bestia che mi dormiva nel petto e che era diventata, di giorno in giorno, sempre più ingorda.
 
“Invece devo: lo dobbiamo tutti.”
Leonar abbassò il viso. “Credevo che avessi capito…”
Strinsi i pugni; la spalla bestemmiò in mia vece, ma non me ne curai: finché avessi sentito qualcosa, fosse stato anche dolore, non avrei avuto nulla di cui preoccuparmi.
“Ho capito che la vigliaccheria si paga carissima, padre. Ho capito che davanti al Male non hai solo due scelte… Non sei obbligato a farlo o a subirlo, ma puoi combatterlo.”
Ripresi fiato, perché mai le parole mi erano parse più preziose; mai, la loro scelta, un esercizio di onestà, anziché di retorica.
“Ho guardato negli occhi del nemico e ho scoperto che era come me, che mi era facile odiarlo, anzi, proprio perché mi somigliava, dunque mi costringeva a scoprire chi fosse Leya di Trier, oltre una corazza e un pugno di titoli. E chi ero, io? Un’assassina. Ho speso il sangue di mille per lavare quello di uno solo. Come la chiami una donna così?”
“Leya…”
“Una patetica idiota, padre.”
Sputai quelle parole piena di rabbia, mentre abbandonavo il letto. “Ho bisogno dei miei abiti e di una corazza…”
Leonar scosse il capo. Socchiusi le palpebre e gli regalai un sorriso tristissimo. “Non posso dirti che questa sarà la mia ultima battaglia, poiché voglio vivere e perché la pace chiede sangue più di una lama. Ti deludo, lo so, ma i figli sono fiori che non somigliano mai a chi li ha seminati.”
Mio padre annuì a testa bassa. “E il tuo, allora?”
Sostenni il suo sguardo severo senza paura. “Avrà sangue di drago e sarà gentile. Come Rael.”
 
E Leonar mi lasciò andare: forse poteva ancora avere ragione della donna, ma della madre no.
Le madri sono fortezze impenetrabili.

*

Mi precipitai all’esterno.
Trier era un deserto su cui incombeva una volta grigia, illividita dalla pioggia.
Alcune case erano state abbandonate; aperte come orbite cieche, le finestre gridavano tremori e abbandono.
La speranza aveva lasciato Eleutheria e i miei passi morivano nei vicoli che un tempo avevano accolto le grida delle donne, dei bambini e dei soldati. Cercavo i fantasmi dell’assenza con l’accanimento della memoria, perché lì – lo sapevo – stava anche la sorgente della nostra immortalità.
Noi avevamo un futuro che valeva la vita stessa.
I rumori della battaglia arrivavano attutiti e tanto mi bastava a indovinare che Rael avesse cercato lo scontro aperto per allontanare l’esercito di Koiros dalle porte della Capitale. Era una strategia suicida, perché i soldati di Trier non sarebbero durati un giorno, là fuori: la mia pelle ne aveva avuto un assaggio.
 
Mossi in direzione della torre di Mezzanotte, perché da lì avevo condotto tutte le mie battaglie.
A quanti capi ammontavano le forze di Eleutheria?
Quanti uomini avevo già perso?
Quanti ci avevano abbandonato, perché sicuri di morire?
Il conto non tornava: se le vie tacevano, le merlature brulicavano di vita.
Cominciai a correre, finché non la vidi, al centro del barbacane, caricare una balestra: era Melian. Al suo fianco, come altrettante dee guerriere, le donne di Trier.
Percorsi incredula con lo sguardo quel piccolo esercito in cui adolescenti dai seni acerbi ascoltavano pazienti le istruzioni delle puttane, mentre matrone dai fianchi larghi rifornivano di pane staffette contadine.
“Mancavi solo tu,” disse la figlia di Luthien, prima d’issarsi tra gli interstizi della caditoia. “Ruben mi ha insegnato qualcosa…” bofonchiò, impacciata dalla quadrella che stringeva tra le labbra. La incoccò rapida e poi tirò la leva con perizia sorprendente.
“Non te l’ha mai detto, Rael, che sono un’ottima tiratrice?”
Uno strano calore mi scivolò dentro: simpatia, esultanza, gioia. A un passo dalla fine, c’era chi non si tirava indietro, chi scommetteva, piuttosto, su un nuovo capitolo.
“Fatti da parte, sorella,” mi apostrofò rude una voluminosa puttana, ingombrata da un pentolone d’acqua bollente che avrebbe scoraggiato un fabbro. “Gliela facciamo vedere, a quei brutti musi. Glielo arrostiamo come si conviene, il culo rognoso!”
 
Erano un esercito colorato, compatto, vitale.
Erano madri o sorelle o spose.
Erano donne che rivendicavano con gioia il sesso cui appartenevano, perché era nei loro ventri che sbocciava la vita, dunque tutto il futuro di Eleutheria.
Solo una folle poteva credere che rinunciare al cuore aiutasse a vincere una guerra: quella era davvero l’ultima lezione.
 
“Sembra che qui non vi sia d’aiuto,” dissi, mentre una ragazzina di una decina d’anni zuppava d’olio una bracciata di dardi incendiari. Era magra, legnosa, bruttina: somigliava alla Leya che scopriva l’amore scagliando pietre; una Leya che dovevo ora difendere.
 
Salva Trier.
 
La voce di Vinus mi aveva sfiorato la pelle come il vento d’estate, ma, al contrario di quella tiepida brezza, non l’avrei lasciata fuggire.
Era dentro di me, quasi un nuovo senso.

*

Raggiunsi il dongione, dove si concentrava la maggior parte degli arcieri.
“Magistra…” balbettò una giovane guardia, temendo forse l’ennesimo ordine omicida.
 
Più che una guida, ero stata una tiranna; avevo abbandonato la Capitale senza una parola, salvo comparire all’improvviso, più cencio che donna: il suo stupore non poteva meravigliarmi.
 
“Com’è la situazione?”
“Difficile: sono tanti che non riusciamo a contarli e temiamo le incursioni delle viverne.”
Portai lo sguardo al cielo. Contro la volta plumbea, il profilo scheletrito di quei gallinacci si faceva sempre più evidente.
“Ho capito, vogliono tenerci impegnati su due fronti.”
Il soldato non arrivava ai venti anni ed era terrorizzato.
“Il Generale?”
“È al fianco dei cavalieri.”
Mi sporsi dalla merlatura: il campo di battaglia pareva un formicaio spazzato dal vento. Rael, protetto dall’oscura livrea del Drago Nero e seguito da un manipolo di dracomanni, era un cuneo infisso nel cuore dell’armata di Koiros.
“Allora dovrete seguire ancora i miei ordini.”
 
L’aria era satura del fumo dell’olio bruciato e degli incendi.
La spada di mio fratello cercava il cielo, invito e bestemmia insieme.
Sfidava gli dei che ci avevano abbandonato.
Invocava il drago che doveva salvarci.
Ed io, con lui, spiavo il nord.
 
“Non possiamo agire in difesa e in copertura…”
Le viverne, invocate da Lethor, dipingevano larghi cerchi sul nostro capo.
“Liberiamoci di quelle bestie: solo allora potremo essere d’aiuto alla cavalleria.”
La giovane guardia, immobile, tremava all’ombra della minaccia incombente.
Lo afferrai per un braccio e lo scrollai con violenza. “Riferisci gli ordini, soldato… E vivremo.”
 
Sapevo di mentire, ma la verità non avrebbe aiutato nessuno.
Non, almeno, in quell’ultimo, terribile momento.
 
Se sei morto, Vinus, ti maledirò mille volte.
Abbiamo bisogno di te.
Ho bisogno di te, come di nessun altro.
 
“Adesso!”
 
La viverna si appressò con le fauci dilatate. Gli occhi giallastri mi scrutavano con odio, mentre liberava vapori mefitici. Le zampe rostrate, simili a quelle di un gallo, si protendevano bramose sui tiratori che, pietrificati dall’orrore, non osavano la minima difesa.
 
“D’accordo… Agirò da sola,” dissi, prima d’impadronirmi del corto pugnale di una sentinella.
Mi accanii sul telaio della balestra e ne resecai la corda. L’asta schizzò in direzione della fiera e ne trafisse la gola.
“Al riparo!” urlai, mentre la bestia si abbatteva sul ballatoio. Lo schianto fu tale che mi ritrovai in terra, ma l’ululato vittorioso che esplose tra i miei uomini bastò a restituirmi coraggio: c’erano gli eroi, spiriti liberi come Rael e Vinus.
C’erano quelli che cercavano una guida, come i soldati di Trier, e c’era chi nasceva per condurre gli eserciti: come me.
“Tagliatele la testa, la coda e i denti: sono pieni di veleno e ci tornerà utile.”
 
Un brusio carico di entusiasmo si sostituì al desolato silenzio che mi aveva accolto: erano pronti a seguire i miei ordini.
Ero di nuovo la Makemagistra di Trier.
 
“Caricate la balestra e mirate al cielo. Voialtri, laggiù… Incoccate gli archi e attiratene quante più possibile. Non lasciatevi spaventare. Non fidatevi solo degli occhi!”
 
Usavo le parole con cui Vinus mi aveva istruito, nelle lunghe notti trascorse davanti a un fuoco; notti di paura e di scoperta e di amore.
Notti che non volevo perdere.
 
“Così… Coraggio! Noi ce la faremo!”
 
Non sentivo più il dolore, né la fatica; spiavo con il cuore in gola il campo di battaglia e pregavo che il Drago Nero tenesse fede al mito: non poteva morire, perché la sua eternità era un miraggio a cui ci ancoravamo tutti; la speranza di una libertà più forte delle catene della cattività e dell’orrore.
 
E poi arrivò Koiros.

*

Ricordo con estremo nitore quell’istante, poiché il suo avvento coincise con l’abbattimento dell’ultima viverna: la bestia agonizzava nel cerchio dei soldati, euforici e pronti a portarmi in trionfo, quando ci accorgemmo che il nostro giubilo non trovava eco.
Un silenzio spettrale aveva inghiottito gli eserciti – un silenzio che puzzava di morte.
Cercai con lo sguardo Rael, quasi potesse salvarmi ancora una volta dalle pastoie dell’incertezza. Mio fratello, tuttavia, non ebbe modo di ricambiarmi, perché a fronteggiarlo stava ora una creatura mostruosa almeno quanto colossale.
“L’attesa è finita,” sibilò Koiros – e mi sorprese constatare che aveva una voce umana, persino piacevole. “Potete inchinarvi al cospetto del vostro dio.”
Rael non raccolse la provocazione, né si mosse. Lo Shire sbuffava nervoso, ma il suo polso fermo bastava a controllarlo.
“Io ti conosco…” disse Koiros, piegandosi sino a scrutare nelle feritoie dell’elmo del Drago Nero. “Quello sguardo…”
I dracomanni si raccolsero alle spalle di Rael.
“C’era un ophelide che…”
Mio fratello strinse la presa sull’elsa e sguainò la spada. “Forse è per questo che mio padre mi ha salvato: perché suoi fossero gli occhi che ti avrebbero condannato a morte.”
 
Non riuscivo ad allontanare lo sguardo dai due contendenti. Se Vinus era terrorizzato da Koiros, come avrebbe potuto il mio ranocchio…
Avvicinai la sentinella. “Cerca il Generale, allerta tutti i tiratori. L’unica speranza che abbiamo di abbattere quel…”
Koiros rise.
Il soldatino si pisciò addosso.
 
“Tu mi piaci, dunque ti ammazzerò per ultimo: assaporerai l’agonia pezzo dopo pezzo…”
La coda del mostro saettò con rapidità sorprendente e trafisse al petto uno dei picchieri, lo sollevò quasi fosse un fuscello e poi lo schiantò al suolo, riducendone il povero corpo a una poltiglia sanguinolenta.
Il plotch con cui il cranio si sgranò esplose nell’aria ferma e ci paralizzò tutti.
“Il prossimo…” sussurrò Koiros.
I suoi occhi da insetto ci irridevano maligni.

*

Di Vinus avevo conosciuto la ferocia e la forza e il coraggio: ora incontravo la paura e comprendevo perché persino rinunciare a vivere gli paresse poca cosa.
Koiros era la Morte nella sua accezione più devastante, una bocca che triturava e non lasciava nemmeno polvere da piangere.
Koiros era quanto un bambino terrorizzato aveva fissato prima di sollevare una spada che era più grossa e pesante di lui: una terribile metafora della storia di cui si stava facendo carico.
“Mi dispiace… Mi dispiace,” singhiozzai, quasi potessi percorrere a ritroso gli anni e salvare il cucciolo; quasi a me, alla feroce donna uccello, fosse restituito all’improvviso quel gran dono che è la pietà.
Invece il tempo era una cascata scrosciante che conosceva un solo verso; la compassione, un lusso da vincitori.
Scrutai l’orizzonte a sud-ovest.
Ritta sulla caditoia, la balestra abbandonata lungo il fianco, Melian guardava e taceva.
Come lei, immobili, gli arcieri del dongione erano il coro muto di un’imminente disfatta.
 
“Che aspettate?” La mia voce echeggiava stridula. “Prendete la mira!”
 
Koiros tese il braccio e mi indicò. “Ho sentito parlare di te… La strega rossa…”
Rael sferzò i fianchi dello Shire, ma il cavallo rifiutava di muoversi.
 
Le bestie sono più sagge degli uomini, avrebbe detto Vinus.
Ma tra le bestie non ci sono eroi, avrebbe replicato mio fratello.
 
Le loro voci s’inseguivano nella mia testa e pungevano il cuore, perché lì avevo scelto di renderli immortali.
 
“Arretra, Rael!” urlò Nephyl, irriconoscibile nella pesante corazza dei picchieri.
Alla mia destra, il gruppo dei balestrieri armò finalmente le noci. I cordini sfrigolavano attorno alle guide, producendo uno zri zri che vinceva persino il battito del mio cuore terrorizzato.
La pioggia di quadrelle esplose e inghiottì la rada luce come un’eclissi improvvisa; i miei occhi ne seguivano la parabola e ne preconizzavano i bersagli, sognando, chissà? Un improbabile miracolo? Avevo chiesto di mirare, perché combattere avrebbe comunque esorcizzato la paura, ma sapevo che quel colosso ci avrebbe annientati.
Ai suoi occhi eravamo un patetico formicaio: proprio come Vinus aveva confidato a Rael.
 
Eppure anche le formiche mordono e combattono e sanno far male.
 
Koiros aprì le braccia, quasi l’ipotesi d’essere ferito lo incuriosisse, anziché spaventarlo.
Quale mezzo migliore per umiliarci, che non dare libero accesso a un corpo-fortezza?
Non uno dei dardi poté raggiungerlo, poiché quelli che la sua coda non sciabolò via, furono polverizzati dalla fiammata che eruttarono le sue fauci.
 
“È tutto quel che sapete fare? Credevo che la vita valesse almeno il disturbo di una clessidra, ma…”
“Tu parli troppo!” ruggì Rael e abbandonò l’inutile Shire. Gli altri dracomanni lo imitarono, sfilando ai suoi fianchi come una guardia d’onore.
 
Erano quanto restava di Venusya e, nel suo nome, si apprestavano a morire.
Erano i figli, i compagni, i padri degli eroi che la Storia aveva già combusto. Il loro era lo sguardo postumo di chi corre incontro alla morte e non ha che il passato da chiamare ‘futuro’.
 
“Tu, invece, come tutta la tua maledetta razza, dovresti imparare ad ascoltare la voce del padrone!”
 
E poi… Un tuono? Uno schianto? Un ruggito?
Guardai a nord e con me si volsero due eserciti e il colossale tiranno.
 
“L’ho appena sentito,” fu la replica di Rael, mentre puntava la spada a una volta da cui scendevano, insieme, la morte e la vita.

*

“Nel sacro nome della dea…” mormorò la guardia che non aveva più abbandonato il mio fianco.
“Vinus…” bisbigliai, ma già intuivo che il principe di Lephtys aveva smesso di esistere, poiché chi contemplavamo era Amon.
Un drago.
Un dio.
 
L’entusiasmo dei dracomanni polverizzò la bolla d’incredulità che aveva congelato il tempo.
 
“L’esercito a noi!” ruggì Rael. “Respingiamo gli invasori!”
 
Vinus era stato di parola: ora spettava a mio fratello mostrare al principe che sì, era pronto a raccogliere l’eredità di Freil.
Koiros, d’altra parte, non aveva occhi che per l’ultimo venuto, ed io con lui.
 
 
Bambina, sognavo i draghi come immensi serpenti, perché anche l’immaginazione si nutre di similitudini. La creatura che incombeva sugli eserciti in lotta, tuttavia, non possedeva nulla dei figli di Elithia; nulla, almeno, di cui avessi letto o sentito dire.
Il muso, orlato da peduncoli che parevano liane di hydrargyrium, era quello di un rettile; il corpo, candido come la neve e sostenuto da immense ali rostrate, ricordava un leone. La possente coda, coperta di scaglie perlacee, tracciava indolenti volute tra i nembi gonfi di pioggia.
Ne cercai gli occhi, perché là dietro immaginavo di ritrovare il mio Vinus, ma dovetti rassegnarmi ancora una volta all’onestà di una terribile profezia: qualunque memoria o istinto possedesse quella creatura, io non c’ero.
 
“Figlio…” sibilò Koiros. “Bentornato… Figlio.”
Il drago schiuse le fauci e sulla lingua crebbe una sfera che pareva un cuore pulsante.
 
“Il fuoco sacro!” urlò il più anziano dei dracomanni, prima di cadere in ginocchio.
Rael, la spada ancora immersa nelle viscere di un Infero, sollevò il capo, ma non riconobbe in quell’essere terribile il principe che aveva salvato.
“Giù!” gridò, non appena lo sferoide purpureo puntò al suolo.
La terra si spezzò e una crepa simile a una bocca inghiottì uomini e bestie. Un terribile lezzo di carne bruciata ammorbò l’aria, ma non fu tanto a riempirmi gli occhi di lacrime: era incredulità pura; era la frustrazione di una donna che continuava a perdere, perdere, perdere.
 
“Vinus, che tu sia maledetto! Avevi promesso di salvarci!”
 
Protesa oltre le merlature, cercavo il fantasma di un amore e respiravo zolfo, mentre l’ilarità di Koiros perdeva ogni freno. “Infine hai capito, figlio! Hai compreso che il potere…”
E il drago fissò il mostro e il mostro lesse nei suoi occhi un sentimento mille volte più pericoloso dell’odio: il disprezzo.
“… Possiamo dividerci questo mondo. Possiamo…”
La coda di Vinus frustò l’aria e si preparò ad abbatterlo, ma Koiros meritava la fama che aveva riempito di terrore l’Eumene: evitò il cozzo con estrema facilità e si armò, come voleva il costume dei dracomanni.
Vidi il suo corpo possente estroflettere irti aculei e le fauci vomitare le ganasce di un ragno.
 
“Spinnerkras…”
 
Il ventre si gonfiò e mutò nella bulbosa sacca che avevo già visto, gli ispidi peduncoli che la orlavano divennero zampe, la coda perse le scaglie per vestirsi di una lucente corazza. La cuspide con cui terminava, simile a quella di uno scorpione, stillava dense gocce di veleno.
Il drago che chiamavamo Amon aveva la compostezza degli idoli e un’espressione altrettanto distaccata; solo quando Koiros scattò in avanti, schiuse le fauci e ne cercò la polpa molle, tra il collo e la clavicola. Il terrore del Nord, tuttavia, gli sputò addosso bava bollente. La creatura rispose con una fiammata color della pece.

*

“Magistra… Forse dovremmo…”
 
L’invito della vedetta era la voce del buonsenso: dovevamo abbandonare i mostruosi combattenti al loro destino e, con loro, lasciare Trier.
Ci aspettava una vita di esilio, ricordi e rimpianti, ma sarebbe stata comunque vita.
A restare sulle torri, invece…
 
“… Aiutare il drago,” risposi, poi imboccai a rotta di collo le scale e, senza guardare indietro, corsi sino alle scuderie. Niktos sonnecchiava accanto a una piramide d’ossa – mezzo topo agonizzava ancora tra gli unghioni.
“Coraggio, bello… Non è finita.”
Il liocorno sbuffò e scrollò riottoso la criniera, prima di rendere le armi.
“Un ultimo sforzo…”
Montai in sella e attraversai una Trier irriconoscibile, illuminata da radi fuochi e bivacchi improvvisati. Tutto taceva, ma era un silenzio eloquente: una disperata preghiera alla dea che avevamo tradito.
Rael e i cavalieri sostavano tra il barbacane e la porta.
“Mi dispiace, Leya, temo che…”
“Non siamo i suoi obiettivi, credimi… Vinus… Amon, nemmeno ci vede. È Koiros che vuole.”
L’espressione di mio fratello si fece più attenta.
“Forse è un dio, ma anche gli dei muoiono e lo sappiamo… Quel che ti chiedo è follia, eppure…”
Rael fece un cenno ai dracomanni: non uno si tirò indietro.
Erano gli ultimi Schlagen e combattevano per il drago.
Come draghi.
 
Resistere o morire era la legge di Venusya.
Era il motto che aveva fatto grande il Drago Nero.

*

Come Amon si lanciò in avanti, pronto a mordere, gli ophelidi superstiti si mossero con lui, quasi fossero un’unica massa.
Le fauci del drago si strinsero attorno alla gola di Koiros, che, pronto, sollevò la coda per sfruttarne la cuspide. In luogo dell’unghia velenosa che la ornava, nondimeno, stillava ora un moncherino: Rael gliel’aveva tranciata di netto.
 
“Che voi siate…”
 
Non ebbe nemmeno la consolazione di maledirci, perché Amon maciullò tendini, nervi e ossa sino a decollarlo.
 
Avrei potuto concedermi almeno un grido di esultanza, invece rimasi in silenzio. Tutto era stato troppo rapido o forse era il mio cuore a prendersi ancora una volta gioco del tempo.
Vinus – o quel che restava di lui – si volse allora nella mia direzione. Non so se mi vide, ma ricorderò sempre quanto catturò il mio sguardo: una fiera candida, tra le cui fauci stillavano brandelli di carne.
Un umore colloso gli colava dalle labbra e scivolava lungo il petto, là dove un tempo riposavano l’anima di un uomo e il coraggio di un eroe.
Ora, sotto quella pelle tanto sottile da parere trasparente, s’indovinava un’ampia massa nerastra e pulsante: un nuovo cuore.
 
Abbandonai il mio rifugio, determinata a raggiungerlo, ma la creatura non mi aspettò: spiegò le ali e svanì nel vespero, sfuggente come una cometa.
Rimasi a fissare il cielo tetro, i cui toni morivano inghiottiti dalla tenebra, l’uno dopo l’altro.
 
Rael mi allacciò le spalle e divise al mio fianco il vuoto sgomento di quell’ora.
“Adesso… Adesso cosa sarà di noi?”
“Non posso dirlo con sicurezza… Ma, se ti conosco, presto avrai qualche buona idea.”
Cercai i suoi occhi dorati.
“Mio figlio… Avrà la coda, secondo te?”
 
 
E varcammo abbracciati le porte di Trier: fratelli, di nuovo, nel sangue e oltre la sua legge.
 
“Io… Inventerò un modo,” bisbigliai, quando eravamo ormai quasi al barbacane.
Rael mi baciò la fronte. “Sì, so che lo farai.”

   
 
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