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Autore: Sophie_Lager    20/04/2012    9 recensioni
AVVISO AI LETTORI:
MI SCUSO IN ANTICIPO PER IL RITARDO CON CUI POSTERO' IL PROSSIMO CAPITOLO
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Le avventure di Sophie Lager!
Questa FF è ambientata dopo il Quinto libro di Percy Jackson, e quelle che vedrete saranno le cose dal punto di vista di un nuovo personaggio...
Bè, che dire? Spero vi piaccia! Fatemi sapere! ^^
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*Premetto che mi fanno molto piacere sia recensioni positive che -eventualmente- critiche negative. Solo grazie a queste, e quindi grazie a voi, posso migliorare. Grazie in anticipo!*
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
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LE AVVENTURE DI SOPHIE LAGER

 

Capitolo 1. 

"MI CROLLA IL MONDO ADDOSSO".

 

La farfalla sul mio foglio sembrò prendere vita. 

Era appena iniziata la primavera, il cielo era azzurro e intenso, si riusciva a sentire il primo caldo della stagione, i prati erano verdi e colorati dai fiori. Amavo i colori. Appoggiai il disegno sul vetro della grande finestra che dava sul giardino dell'orfanotrofio. La farfalla si illuminò alla luce delicata del sole del primo mattino. 

Ero sempre stata molto brava a disegnare, mi piaceva e mi rilassava. Riuscivo a pensare solo così. Anche se a volte, più che pensare, mi chiudevo nel mio modo fatto di colori e fantasticavo. E a quel punto riportarmi alla realtà era difficile, e Mister Murdok, il mio prof di matematica, ne sapeva qualcosa. 

Mi piaceva arrivare in classe prima degli altri ragazzi, mi dava il tempo per riflettere e per pensare… e per disegnare. Anche oggi, probabilmente, non mi sarei accorta dell'inizio della lezione se qualcuno non mi avesse riportato alla realtà prima. Appunto.

«Hei, Monet!» Mi voltai di scatto, e per poco non caddi dalla sedia. Ma tranquilli, mi succede spesso, quando vengo riportata nel mondo reale così bruscamente. Ma sono molto agile: tra i miei difetti c'è quello di essere iperattiva. 

Comunque, a chiamarmi era stata Lucy, la mia migliore nonché unica amica. 

«Ciao, Lulù» Le risposi. Lei mi sorrise, raggiante come sempre, come se non ci fosse niente al mondo che potesse farle cambiare umore: «Che cosa ha disegnato il nostro pittore, oggi?» 

Allora, forse adesso è il caso che mi presenti. Non mi chiamo ovviamente Monet. Mi chiamo Sophie Lager, ho 15 anni e sono in questo orfanotrofio da… bè, diciamo tutta la vita. Anche se forse non è corretto, visto che nei miei 15 anni ho vissuto in 3 città diverse: sono nata in Italia, ma non chiedetemi dove perché non saprei rispondervi. Sono rimasta in una cittadina toscana per circa 4 anni, in un orfanotrofio che avevo ribattezzato "casa", non avendone una. Poi, a 4 anni, sono stata portata in Francia, in un piccolo orfanotrofio vicino a Orléans, nel cuore del Paese. Infine a circa 11 anni sono stata trasferita a New York, in uno dei più grandi orfanotrofi presenti in zona. 

Perciò, si: parlo discretamente italiano e francese, e naturalmente inglese. 

Ora vi chiederete: CHI mi ha fatto viaggiare così tanto e in così poco tempo, visto che non ho mai conosciuto né mia madre né mio padre, e visto che secondo i miei documenti i miei genitori sono morti poco dopo la mia nascita? 

Ebbene, non lo so. Sembrerà strano, ma all'epoca ero piccola, e non mi ero mai posta una domanda simile. Gli altri bambini avevano tutte storie simili alla mia, con genitori sconosciuti o morti in incidenti d'auto, lasciando i figli senza parenti. Ma almeno loro sapevano come erano morti i loro genitori. Almeno loro non erano stati trasferiti di istituto in istituto da persone-fantasma. Io non sapevo nulla dei miei genitori, se non che portavo il cognome di mia madre e che prima di morire i miei vivevano in Italia; e non sapevo nulla sul perché fossi stata portata negli Stati Uniti. Non lo sapevo, ma da tempo ormai avevo smesso di interessarmene. 

Ero sempre stata una bambina timida e riservata, che se ne stava sempre per i fatti suoi e che amava leggere. E crescendo il mio carattere non era cambiato. Adoravo la cultura greca. Sapevo tutto degli dei, degli eroi, dei miti. Anche quando mi ero resa conto di essere dislessica, avevo continuato a leggere, arrivando a sera con un mal di testa terribile. Ma non mi ero data per vinta. 

Il mio carattere però non mi aveva portato ad avere molti amici, finchè non avevo conosciuto Lulù. Lei era il mio esatto opposto: era un genio in matematica, detestava l'inglese, aveva la pelle sempre abbronzata nonostante non amasse molto l'aperto e i capelli scuri. La mia materia preferita era inglese, e lasciamo stare matematica che è meglio. Avevo la pelle chiara, sempre bianca - il che non era un vantaggio quando i compagni parlavano di zombie e ti indicavano ridacchiando - e dei capelli che avrei voluto nascondere: non erano né biondi né castani, ma color miele, quasi dorati. Insomma, avrei voluto passare inosservata, ma capirete bene che era impossibile. 

E, anno dopo anno, mi abituai alla monotonia delle giornate tipiche di un'adolescente in un orfanotrofio: superati i 10 anni, diventava quasi raro che qualcuno ti adottasse, e non potevano uscire dagli edifici e dai giardini se non da 16 anni, per poi lasciare l'orfanotrofio a 18. Ormai contavo i giorni mancanti al 29 aprile, il mio compleanno. 

Neanche la scuola serviva a staccare un po' - se è possibile "staccare" a scuola - perché faceva parte dell'istituto. Fantastico, vero? 

Bene, fine dell'introduzione sulla mia vita. E' stata anche troppo lunga.

Torniamo a noi. 

Lulù si sedette accanto a me proprio mentre suonava la campanella. La classe si riempì in un istante. Non aspettò la risposta sul mio disegno, ma non mi preoccupai. Era fatta così, e mi piaceva proprio per questo: non dava peso a nulla, era libera. Beata lei…Io davo peso a tutto. 

La mattina passò in un lampo, e mi ritrovai a mensa senza aver prestato attenzione a una sola parola di un solo professore. Wow, mi sarebbe toccato studiare gli argomenti di stamani stasera, di nuovo. Che bello. 

Fu a pranzo che notai due facce nuove, e la cosa mi stupì. Nell'orfanotrofio eravamo più di 300 ragazzi, ma ormai ero li da così tanto tempo da conoscerli tutti. Inoltre, le facce nuove non erano di due bambini, ma di due ragazzi, forse addirittura più grandi di me, e la cosa era strana, perché di solito erano dei bambini piccoli i nuovi arrivati. Il ragazzo aveva i capelli neri, la ragazza biondi, ma mossi e di un biondo chiaro e delicato, che le invidiai subito. Fissai parecchio i nuovi arrivati, finchè non ricevetti una spinta da Lulù, che mi sedeva accanto. 

«Hei! Basta fissarli in quel modo. Ti sei innamorata?» Diventai subito rossa in viso e mi voltai dall'altra parte. Non era difficile che arrossissi, ma il ragazzo era veramente carino, e le parole di Lulù mi avevano fatto capire quanto vicina a quel pensiero fossi andata. Incrociai le braccia e tornai a guardare il tavolo della nuova coppia. Volevo sapere qualcosa di più sui novellini. Probabilmente si conoscevano già da tempo, perché stavano parlando fitto fitto. 

Quando la campanella suonò di nuovo, si alzarono e si avviarono dalla parte opposta al corridoio che portava alle classi per le ultime ore di lezione pomeridiane. Notai che si guardavano intorno come con circospezione, per non essere visti. E in effetti, nessuno sembrava fagli caso, se non io. Era strano. Di solito non mi interessavo degli altri, ero troppo concentrata a pensare ai fatti miei; invece quei due ragazzi mi incuriosivano...

Comunque, tornai in classe. Mi sedetti al mio banco, guardai fuori dalla finestra e rimasi a bocca aperta. La bella giornata era finita, il sole era stato coperto da delle nuvole grigie che non promettevano niente di buono e il vento si stava alzando. Di bene in meglio. La giornata era iniziata così meravigliosamente… Uff. Non sapevo che quella sarebbe stata la mia ultima giornata monotona.

Mi misi a scarabocchiare sul quaderno, quando udii il rumore più forte e raccapricciante che avessi mai sentito. Mi tappai le orecchie. Gli altri intorno a me urlarono. A quel punto la scuola iniziò a tremare. Miss Reteyl entrò correndo in classe pochi secondi dopo, proprio quando la scossa finì. 

«Ragazzi! State calmi! Seguitemi, dovete tornare nelle vostre camere finchè il problema non verrà risolto! E' scoppiato un piccolo incendio che verrà domato in poco tempo! E' solo l'allarme-antincendio, non è successo nient'altro!». 

L'allarme? Ero nel panico. Quello che avevo sentito non era un'allarme! NON-ERA-UN'ALLARME! Era un rumore, come il verso di un'animale, ma il più gutturale e spaventoso che avessi mai sentito. E c'era stata una scossa di terremoto! Rimasi in silenzio, anziché gridare inutilmente come facevano tutti gli altri, ma mi guardai intorno con gli occhi spalancati dal terrore. Perchè gli altri non avevano sentito quello che avevo sentito io? 

Quando mi sentii toccare la spalla balzai in piedi, terrorizzata. Ma era solo Lulù: «Sophie, dobbiamo uscire, dobbiamo tornare in camera.» E si avviò correndo dietro agli altri, già più avanti di noi, nel corridoio deserto che riportava ai dormitori. Iniziai a correre meccanicamente, mentre intorno a me c'erano soltanto le grida degli studenti più piccoli delle altre classi che ci seguivano. 

Ma in quel momento sentii di nuovo l'animale. Mi fermai e guardai verso il corridoio che portava al giardino della scuola. Non c'era nessuno, tutti scappavano dalla parte opposta. Dovevo capire cosa sta a succedendo. Perché nessuno sentiva quell'animale? Non ci pensai neanche un secondo, era come se il mio istinto mi spingesse in quella direzione: invertii la rotta e spalancai le porte di emergenza che davano sul prato. 

E a quel punto se non svenni fu soltanto perché probabilmente avevo molta fantasia. 

Avevo già immaginato una scena simile - l'avevo inventata durante una lezione di storia, credo - ma non avrei mai pensato di trovarmi davanti ad un serpente alto circa 3 metri e con delle zanne lunghe di almeno 1, nel parco del mio orfanotrofio. La mia mente si appannò. Non mi stava puntando come fanno i serpenti con le prende, perché non era voltato verso di me, ma rimasi ugualmente paralizzata dal terrore. L'animale si stava muovendo velocemente, a destra e a sinistra e viceversa, intorno alla fontana rotonda al centro del prato, cercando di colpire qualcosa con le sue zanne aguzze. Era ad almeno cento metri da me, ma avevo una vista ottima - era una delle poche cose di cui mi vantavo - e non vidi niente, solo la fontana. Poi il rettile emise un verso, una specie di ruggito unito ad un sibilo, e non ressi più. La mia bocca si aprì, pronta ad urlare, ma qualcosa me la chiuse, immobilizzandomi. Provai ad aprirla, ma era come se delle mani invisibili mi stessero trattenendo. 

Allora una voce sconosciuta mi sussurrò, vicino all'orecchio:«Non ti muovere, e non urlare. Possiamo batterlo se collabori con noi. Adesso ti lascio andare, ma non metterci i bastoni fra le ruote.» La calma con cui pronuncio quelle parole, la sicurezza che sentii, mi fecero fidare di lei. Al momento non mi chiesi com'era possibile che qualcuno fosse trasparente, o come avrei dovuto comportarmi in una condizione simile. Furono domande che mi posi più tardi. In quel momento mi rilassai, per far capire alla donna-invisibile che mi ero arresa. Lei mi lasciò. E un secondo dopo, dove avevo sentito la voce, apparve con una scintillio una ragazza, con un cappellino da baseball in mano: era la ragazza che avevo visto a mensa. 

«Tu sei quella nuova». Non era una domanda. Forse non era la frase più intelligente da dire, ma ormai l'avevo detta… 

«Si…» rispose lei, incerta, come se non fosse tutto quello che avrebbe voluto rispondere. «E tu» Continuò «Sei Sophie Virginia Lager.» Neanche la sua era una domanda. Era sicura di quello che diceva. 

Hei, aspetta un'attimo… Come sapeva il mio nome? Cioè, non solo il mio nome, ma anche il mio SECONDO nome, quello che odiavo e che omettevo sempre. Cavolo, o Lulù aveva spifferato qualcosa in giro, o la ragazza-invisibile aveva controllato i miei documenti. Non sapevo quale scegliere. 

Ma non feci in tempo a porle una sola domanda che il serpentone mi riportò con la mente nel parco. Perché, voglio sapere, perché mi distraggo così facilmente? Come potevo essermi dimenticata di quella specie di pitone che adesso stava veramente puntando verso di me? Era lontano, è vero, ma non ci avrebbe messo molto ad acciuffarmi, e scommetto che anche a mangiarmi avrebbe fatto alla svelta… Ma anche la ragazza sembrava essere stata presa in contropiede, come me. Anche lei sembrava essersi dimenticata parzialmente del serpente. … Se era lei quella che doveva ucciderlo, eravamo messi bene. 

Appena si riprese, scattò, e fu velocissima: mi spinse verso una panchina e mi disse di restare nascosta. Obbedii, e mentre lei si metteva in testa il berretto, diventando invisibile, e correva verso il mostro, il mio cervello tornò a galla in quel mare di terrore che mi aveva attanagliato poco prima. Adesso riuscivo a pensare. E la prima cosa che mi chiesi fu: quello che sto vedendo è REALE? Cosa pensereste voi se tutto a un tratto vi trovaste di fronte ad un serpente di 3 metri? Bè, in un primo momento, la mia mente rifiutò di assimilare quelle immagini. Divenne tutto un po' sfocato e mi sembrò di essere davanti allo schermo del cinema, durante la proiezione di un film. Poi una folata di vento mi costrinse a ragionare: quello che avevo davanti era tutto vero. Ma com'era possibile? NON ESISTONO serpenti alti come palazzi. Non esistono. Fine della storia. Altrimenti lo avrei saputo prima, no? Animali del genere non si nascondono sotto i sassi! Eppure, il pitone era li - perché assomigliava proprio a un pitone - e la ragazza si era resa visibile e si era messa davanti a lui, come per distrarlo da qualcos'altro. Qualcosa vicino alla fontana. 

Piano piano, mi alzai e corsi dietro ad un'albero, più vicino al luogo dello scontro. Ora riuscivo a vedere la battaglia da un'altra angolazione. La ragazza cercava di colpire la bestia con un coltello. Ma non era illegale usare armi del genere tra i minorenni? Comunque, quello che mi colpì, e che mi fece trattenere il respiro, era che vicino alla fontana, disteso sull'erba, c'era il ragazzo con i capelli neri, il nuovo arrivato. Sembrava appena essersi svegliato da uno svenimento. Il pitone lo vide e cerco di attaccarlo e contemporaneamente di parasi dai colpi della ragazza. Ma, sinceramente, erano messi male. Accettando il fatto che il pitone fosse vero, c'era da considerare il ragazzo ferito e la ragazza con soltanto un coltello. Allora mi misi a pensare. Avevo già visto quella scena, o forse il serpente, perché l'avevo immaginato già in precedenza… Ricorda, Sophie, ricorda! 

"Ma certo!" Pensai. Cercai di attirare l'attenzione della ragazza, ma era troppo presa dal combattimento per potermi ascoltare. Mi avvicinai ancora un po', spostandomi di albero in albero. Mi fermai quando fui a pochi metri di distanza da lei, che però non riusciva ancora a sentirmi. Ma come diamine faceva a rimanere davanti ad un mostro del genere senza rabbrividire? Poteva diventare invisibile, avrebbe avuto più possibilità di colpirlo senza farsi male, ma avrebbe anche avuto meno possibilità di distrarre il mostro e di salvare il ragazzo. Allora mi venne un'idea. Senza pensarci, scattai. Uscii allo scoperto, corsi verso la ragazza, e con un movimento veloce le sfilai il cappello dalla tasca dei jeans. Me lo misi in testa appena in tempo, prima che il pitone mi riuscisse a mettere a fuoco. Il mio corpo comparve, così tornai dietro la ragazza. 

«Hei!» Gridò lei, quasi offesa, ma non ebbe molto tempo per protestare, perché il suo nemico tornò all'attacco. Allora le andai vicino e le sussurrai all'orecchio. «Quello è Pitone. Hai presente? Pitone! Il serpente ucciso da Apollo!» Pregai che capisse. Lei sussultò appena, spalancò gli occhi e imprecò in una lingua sconosciuta, che però compresi. E ancora la cosa mi stupì. Ma probabilmente tutto questo voleva significare che aveva capito. Allora mi allontanai e lei gridò:«Dobbiamo colpirlo in bocca!» Pensai che stesse parlando con me, ma poi continuò: «Percy, aiutami!» 

Mi guardai intorno, e vidi che il ragazzo non era più steso a terra. Come aveva fatto a riprendersi così velocemente? Era dietro ad un'albero, poco lontano da me, e si stava tastando le tasche dei pantaloni, come per cercare qualcosa e non essere sicuro di trovarla. Anche lui imprecò e per la rabbia batté il pugno contro l'albero. Da lontano mi era sembrato magro e smilzo, invece ora notai come le sue braccia fossero muscolose, come se si allenasse tutti i giorni. Rimasi a fissarlo - naturalmente ero invisibile, non poteva accorgersi di me - finchè lui non infilò nuovamente la mano in tasca e tirò fuori una penna. Una penna? Che ci voleva fare? Firmare un autografo al rettile gigante? Non appena la vide, il suo volto si rasserenò e il suo sguardo divenne duro e sicuro. Tolse il cappuccio alla penna, e questa si allungò fino a diventare una spada, più lunga di un metro. Rimasi a bocca aperta. La spada emanò una luce fioca, ma non potei notare altro, perché Percy (così pareva che si chiamasse) corse sotto la pioggia che nel frattempo aveva iniziato a cadere. 

«Distrailo!» Disse alla ragazza. Lei lo attaccò con delle finte finchè Pitone non aprì la bocca, per attaccarla. Allora Percy lanciò letteralmente la spada verso il serpente, e centro in pieno la gola del mostro. Non cadde una sola goccia di sangue. Appena la spada sfiorò la pelle, il pitone si polverizzò, nel vero senso della parola: si disintegrò come una statua di sabbia al vento, e la spada cadde a terra. Era tutto finito.

I due ragazzi si guardarono attorno, ancora in guardia, ma si rilassarono dopo uno scambio di sguardi. Percy sorrise alla sua amica. 

«Stai bene?» Chiese la ragazza.

«Annabeth, te l'ho detto: non devi preoccuparti per me.» E dicendo questo raccolse la spada, gli rimise il cappuccio e si mise la penna in tasca.

«Già,» Rispose lei, acida. «Se non fosse stato per me, adesso saresti nello stomaco di Pitone.»

«Pitone… che fantasia che avevano ! Come mai c'hai messo tanto a capire che non era un mostro qualunque?»

«Ha parlato l'esperto di mitologia… Non è che ci ho messo tanto, è che non è stata una mia trovata.» Rispose, quasi con disprezzo, come se il fatto che non fosse stata lei a intuirlo la offendesse. 

«Che cosa?» Rispose Percy. «Come sarebbe a dire che non sei stata tu? … E dov'è il tuo cappello?»

«Appunto. Sophie, ti dispiacerebbe restituirmi le mie cose?» 

Mi resi conto di essere ancora invisibile, e che il ragazzo non mi aveva ancora visto. Allora mi tolsi il cappello. Quando lui mi vide, strinse gli occhi, come per mettermi a fuoco. Ma non feci un passo. Ero ancora scossa. E probabilmente la bionda lo intuì, perché sbuffo e si avvicinò a me. Percy fece altrettanto. Mano a mano che si avvicinavano, mi rilassai e li studiai: la ragazza era snella e aveva un fisico scattante, il viso delicato contornato dai capelli chiari. Il ragazzo era subito dietro di lei. Quando fu vicino, lo guardai bene in faccia, e il mio cuore si fermò.

Esistono i colpi di fulmine? Al momento non ci pensai; ma col senno di poi posso dire che si, esistono.

Percy aveva i capelli neri che ricadevano disordinati sulla fronte. Gli occhi azzurri, di un'azzurro stupendo, contrastavano con la pelle leggermente abbronzata; il fisico, come ho già detto, era slanciato e quasi muscoloso. Mi tolse il fiato. 

Lui mi fissò, e nessuno disse niente finchè la bionda non mi strappò di mano il cappello da baseball, riportandomi con i piedi per terra. Scossi la testa per riprendermi.

Percy guardò male la sua amica: «Annabeth, trattala meglio. Ci ha salvato, ha quanto ho capito. Ed è una di noi.» . Lei sbuffò ancora. 

«Una di voi?» Volevano farmi entrare a far parte dei Ghostbusters? Dovevo anche io andare ad uccidere i mostri? 

«Si, bè … E' un po' complicato, veramente…» Percy era in difficoltà. Ma Annabeth - ora potevo smettere di chiamarla "bionda" - lo anticipò. 

«Dopo quello che hai visto, crederesti a qualsiasi altra cosa?» Mi disse, indicando la polvere sull'erba dietro di noi. Io annuii. Anche se veramente non ne ero molto sicura.

«Bene, allora problema risolto: sei una semidea. Una mezzosangue. Metà umana e metà…»

«Divina.» Completai, senza neanche pensarci. Mi cadde il mondo addosso. Non mi rendevo conto di quello che stava succedendo, ne di quello che dicevo. Ma avevo letto così tante volte quelle parole sui libri di testo della scuola che ormai le sapevo a memoria. I semidei, gli eroi. I mezzosangue: per metà sangue umano e per metà sangue divino.

«Si, brava» Disse Annabeth, stupita. Probabilmente non le capitava tutti i giorni di trovarsi davanti a una patita di mitologia greca. 

«Annabeth!» Gridò Percy. Mi fece trasalire. «Cosa ti salta in mente? Te ne rendi conto che non è facile accettare una cosa simile?»

«Non preoccuparti, Percy…» Trasalii pronunciando il suo nome, e non sapevo perché. «…Non vi aspetterete che io creda a una cosa del genere, vero? Cioè, è impossibile…» Ma mi morirono le parole in bocca. Se esisteva quel serpente enorme, perché non potevano esistere anche gli dei? In fondo, Pitone era stato ucciso dal dio Apollo… 

«Te ne sei accorta, eh?» Mi disse Annabeth, stavolta più dolcemente, seguendo il mio sguardo sui resti del mostro. Forse si era resa conto che ero non era facile da accettare una cosa del genere. Ma in realtà non ero spaventata, almeno non come all'inizio. Adesso ne ero affascinata. Avevo sempre immaginato di vivere tra il paranormale. Voi no? Oh, andiamo, non ditemi che se vi dicessero che esistono gli dei non sareste almeno un pochino curiosi di sapere come sarebbe in realtà il mondo! Io mi sentivo così. Non ci credevo molto, era più come un sogno molto reale, ma VOLEVO saperne di più. Che cosa avevano detto che ero? Com'era possibile che fossi una semidea? Perché non avevo mai visto creature mitologiche passeggiare tra i boschi o mangiarsi dei turisti? 

Rimasi per un bel po' in silenzio, finchè Percy non disse, piano: «Non sei una che parla molto, vero?» Io arrossii, ma lui mi sorrise, e per qualche secondo mi fissò, occhi negli occhi.

«In genere me ne sto zitta, ma se inizio a parlare poi non finisco più.» E rivolsi a quei due perfetti sconosciuti uno sguardo timido. 

«Allora forse ti conviene iniziare a parlare» Mi disse Annabeth, di nuovo sprezzante. «Perché hai ancora troppe domande a cui trovare risposta. O sbaglio?» 

  
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