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Autore: Niglia    05/07/2012    5 recensioni
{Vecchio titolo: The Wrong Man}
Giulia è una normale ragazza di 18 anni; va a scuola, esce con le amiche e, quando capita, con qualche ragazzo, ma non è certo alla ricerca del Principe Azzurro.
Sembra l'inizio di un'estate come le altre quando, all'improvviso, compare Enrico: l'erede di un impero criminale, bello e affascinante, che si invaghisce di lei e la obbliga, un po' con le buone e un po' con le cattive, a frequentarlo...
"I tuoi amici non sanno dove sei, però loro sono al sicuro." Mormorò, avvicinando le labbra al mio orecchio e facendomi rabbrividire con il suo caldo respiro. "Cerca di fare in modo che rimangano tali... Se mi disobbedisci in qualsiasi modo, farò loro del male, e ti assicuro che sembrerà un incidente."
Parlava come farebbe un amante nell'intimità di una camera da letto, con la stessa voce calda e rassicurante, leggermente roca: eppure le sue parole erano tutto fuorchè rassicuranti. La sua era una minaccia bella e buona...
[dal Capitolo 7]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo XXVII.

 

 

 

 












 

 

 

Che cos’è l’amore?

Io non ero mai stata innamorata, dunque non lo sapevo. Non ne avevo proprio la più pallida idea! Voglio dire, al liceo avevo avuto modo di studiare diverse poesie e componimenti vari che trattavano l’argomento, ma, tanto per cominciare, erano tutti scritti da uomini: e di conseguenza non avevo mai esaminato la visione femminile di tale sentimento. C’era chi paragonava l’amore a un dolore che strazia l’anima, chi a semplice affetto o a qualcosa di platonico, incorporeo, chi a uno struggimento che portava a desiderare l’altra persona in qualsiasi momento e ora del giorno, a desiderare una sua carezza, un suo abbraccio, persino la sua risata o il suo sorriso, o anche solo uno sguardo. La mia migliore amica, nel periodo di nero cinismo che aveva attraversato dopo che il suo ultimo ragazzo l’aveva trattata come uno straccetto da prendere e buttare a seconda del momento, e che, per inciso, era durato fino a quando non aveva incontrato Riccardo, aveva definito l’amore come l’alibi che utilizzano gli esseri umani per giustificare e mascherare il bisogno di sesso.

Non mi era mai piaciuta particolarmente quella definizione, ma in mancanza di esperienze personali dovevo farmi bastare le opinioni delle mie amiche, dato che andare da mia madre, a diciotto anni suonati, e porle una domanda simile avrebbe richiesto una dose di coraggio e faccia tosta che io non credevo di possedere.

In parole povere, avevo bisogno di circoscrivere i miei sentimenti all’interno di una categoria specifica, di dar loro un nome, una forma, uno scopo; se avessi saputo di essere innamorata, o comunque di esserci vicina, molte cose sarebbero cambiate. Tuttavia, chi e che cosa mi assicurava che la mia non era una semplice cotta? Poteva anche essere. E, se così fosse stato, io non avevo nessunissima intenzione di bruciare i migliori anni della mia vita per stare appresso a qualcuno che aveva una vita tanto incasinata da non essere secondo a nessuno, in nome di una misera ed effimera cotta. Una cotta avrebbe dovuto permettermi di vivere un’esperienza allegra, tranquilla, spensierata! Tutto l’esatto contrario di quello che, invece, la cosa con Enrico stava facendo passare a me.

Mentre per un amore vero, di quelli con la A maiuscola di cui film e libri si sprecano tanto a parlare, beh, per qualcosa del genere avrei anche potuto fare uno o due sacrifici. Ma questo mi riportava al quesito iniziale: che cos’era l’amore? Come avrei fatto a riconoscerlo come tale, accidenti?

Io avevo paura, sì, una paura marcia – non avevo la forza necessaria di chiudere gli occhi e buttarmi in una storia seria, in una storia di quel tipo in particolare; primo, perché ero ancora troppo giovane e a dirla tutta avevo programmato di imbarcarmi in una storia importante eventualmente solo dopo l’università, e secondo perché Enrico non era esattamente il tipo di ragazzo che io mi ero aspettata di avere al mio fianco, un giorno. Per carità, era bello, gentile, ricco – per quanto la sua fortuna derivasse da dei “mercati” di dubbia moralità – però era un criminale, porca miseria, era un mafioso, come l’aveva più volte chiamato Alessandra!

Dubitavo che qualche poeta o scrittore del passato avesse affrontato un tema del genere. O forse sì? Oddio – l’improvvisa immagine di Enrico nei panni di un moderno Don Rodrigo mi balzò in mente come se stesse aspettando il momento più opportuno per saltare fuori, strappandomi una risatina isterica che dovetti seppellire nel cuscino per evitare di svegliare i miei genitori addormentati dall’altra parte del corridoio. In effetti gli elementi c’erano tutti, aveva persino i bravi al suo comando! Era proprio vero che la realtà superava la fantasia, personalmente non mi sarebbe nemmeno venuta in mente una storia del genere, a volerla inventare.

Tirando via le coperte dal letto, scivolai per terra e mi diressi, scalza, al piano di sotto. Visto che dormire si stava rivelando impossibile, almeno avrei ingannato l’attesa mangiando qualcosa che non fossero le mie povere unghie ormai martoriate. Provai, quindi, a passare in rassegna per l’ennesima volta i miei sentimenti, mentre spalmavo una buona dose di nutella su una fetta di pane – non c’era niente di meglio che del buon cioccolato per rinfrancare lo spirito.

Desideravo Enrico? Questa era una domanda piuttosto imbarazzante, e mentre rimproveravo a mezza voce me stessa per essermela posta, realizzai che forse i miei problemi non erano tutti legati a lui. Con un sospiro, mi portai un dito sporco di nutella alle labbra e riflettei attentamente sulla risposta, confidando che il sapore del cioccolato mettesse in moto gli ingranaggi del mio cervello.

Se per desiderare si intendeva un desiderio puramente fisico, va bene, non avevo grossi problemi ad ammetterlo: Enrico era un bel ragazzo, molto più che bello, a dirla tutta, e soltanto un cieco o qualcuno con gusti differenti non l’avrebbe trovato seducente e desiderabile. Persino Alessandra aveva dovuto convenire sul fatto che il mio stalker personale fosse un esemplare della razza maschile di tutto rispetto! Per cui, va bene, mi piaceva e mi sentivo attratta da lui, altrimenti non avrei saputo spiegare il brivido che mi provocavano i suoi baci e le sue lievi carezze, quando le sue mani indugiavano a sfiorarmi i capelli… A quel ricordo mi sentii le guance in fiamme e tossicchiai, riuscendo a farmi andare di traverso anche la fetta di pane. Persino Enrico pareva aver afferrato il succo del problema, quando mi aveva chiesto se, per caso, non avessi paura di desiderarlo troppo. Allora non gli avevo risposto, ma in effetti aveva ragione, che diamine!

Comunque almeno questa cosa l’avevo appurata e, in un certo qual modo, anche accettata.

Un’altra questione di non scarsa importanza era: lo trovavo simpatico? Già qui la faccenda si faceva un poco più difficile. Potevo davvero dire di provare simpatia per qualcuno che avrei volentieri preso a schiaffi un momento sì e quello dopo pure, a causa della sua irritante arroganza e dei suoi modi di fare da “Padrino” della situazione? Va bene, sì, lo ammetto – avevo trascorso delle serate piacevoli insieme a lui, mi aveva fatto ridere, aveva una conversazione sciolta e brillante e con lui si poteva affrontare qualsiasi argomento: se questo me lo rendeva simpatico, che male c’era? Certo, poi c’erano gli atteggiamenti da fidanzato ossessivo e geloso che avrebbero fatto girare le scatole anche a un santo – insomma, mi faceva seguire dai suoi amici per tenermi d’occhio! – ma queste cose, eventualmente, si potevano modificare… no?

Ma non era certo finita così. La domanda più importante in assoluto era questa: che cosa diavolo provavo per lui? Purtroppo, qui nessuno mi avrebbe potuto aiutare.

 

 

 

***

 

 

 

Dato che quella notte, alla fine, non ero riuscita a dormire, finendo con il trascorrere le rimanenti ore di buio a fare zapping alla televisione, decisi che l’unica che poteva davvero darmi una mano era la mia geme; sapevo perfettamente quello che pensava di Enrico – non si era mai lasciata sfuggire un’occasione per rimarcarlo più e più volte – ma allo stesso tempo era anche la sola a conoscermi abbastanza bene da poter cogliere certi segni con indiscutibile accuratezza.

Le mandai un messaggio non appena sorse il sole, e dovetti attendere giusto un paio d’ore prima che mi rispondesse. Se aveva fatto così in fretta la spiegazione poteva essere solo una: era rimasta a dormire da Riccardo, e io le avevo rovinato il risveglio romantico. Che tempismo! Ma, ehi, se voleva continuare a percepire lo stipendio da migliore amica avrebbe dovuto fare questo e altro.

Ad ogni modo, tenni la mia cattiveria-da-notte-insonne per me e mi limitai a ringraziarla per la sollecitudine con cui si era subito offerta di venire a trovarmi con la sua agenda dei buoni consigli. Ormai credo avesse intuito che la stragrande dei miei problemi derivavano da Enrico, e non perdeva neppure più tempo a dire “Te l’avevo detto” o “Te la sei cercata”: agiva e basta. La nostra amicizia si era notevolmente evoluta in seguito a quella faccenda, il che era un bene, dato che se fossimo state un po’ meno legate avremmo smesso di vederci non appena lei e Riccardo si erano messi insieme, dato che il suo ragazzo e il “delinquente” con cui uscivo avevano lo stesso rapporto amorevole che hanno due galli nello stesso pollaio.

Dunque, Alessandra arrivò da me in tarda mattinata, e come sempre accadeva in quelle occasioni, rimase a pranzo da noi; dovetti rimandare la nostra chiacchierata al primo pomeriggio, tuttavia, ma se non altro l’attesa mi aveva dato modo di mettere un po’ d’ordine ai miei pensieri e di studiare un modo per aprire la conversazione senza risultare né troppo brusca, né troppo terrorizzata e né troppo volgare.

Infatti, ecco come andarono le cose.

“Cazzo, geme, sono nella merda fino al collo.” Sibilai, chiudendo la porta della camera alle mie spalle e poggiandomici sopra alla ricerca di un sostegno.

La mia esclamazione le strappò un mezzo sorriso, che tuttavia sparì non appena si rese conto che io non avevo per niente voglia di scherzare. “Finirai con il mandarmi in terapia, lo sai, vero? Dovrò pagare uno psicologo per i prossimi trent’anni per un trauma che non mi appartiene neanche”, ribatté con tono sostenuto, incrociando le braccia.

Decisi di ignorarla. “Sono andata a casa di Enrico, ieri”, le rivelai tutto d’un fiato.

“Oddio! L’avete fatto?!” Sbottò sorpresa, indecisa se emozionarsi per me o se inorridire.

No! Geme, come ti vengono… cacchio, no!” Ripetei a mezza voce – l’ultima cosa che volevo era che mia madre potesse afferrare frasi a caso dai miei discorsi e intuire chissà cosa. “Dio, non pensi ad altro?”

“Io? Sei tu quella che si lamenta sempre di avere la vita sessuale di un pesce rosso!” Fece lei, incurante delle mie tempeste interne. “Da come l’hai detto sembrava… Anche se non so se dovrei farti le congratulazioni, visto di chi stiamo parlando. Ma grazie a Dio hai detto di no… Hai detto di no, vero?”

Non potei trattenermi dal roteare gli occhi, spazientita. “No, no, certo che no, non abbiamo fatto niente, nada, nisba, rien”, specificai, ormai neanche più imbarazzata.

“Okay, va bene, sei ancora illibata, mi fa piacere”, sospirò sollevata. La mia occhiataccia dovette essere piuttosto eloquente, dato che si affrettò a rettificare. “Cioè, non mi fa piacere in quel senso, voglio dire, mi avrebbe fatto più piacere sapere che ti sei data da fare, cioè no, aspetta, sarebbe carino se anche tu avessi fatto esperienza così avremmo potuto parlarne, no? Insomma, sono contenta che tu non sia incinta di Enrico, ecco, volevo dire questo!”

La fissai come se le fosse appena spuntata un’altra testa sulle spalle, e per giunta verde, brufolosa e vomitante fuoco e fiamme. “Mi sono persa qualcosa? Come siamo arrivate all’essere incinta?” Chiesi, intuendo che da un momento all’altro la testa mi sarebbe scoppiata. Insomma, non avevo neppure dormito quella notte, diamine, e non certo per il motivo che pensava Alessandra!

Lei si concesse il lusso di ridacchiare, mezzo imbarazzata e mezzo divertita, poi cercò di darsi un contegno accarezzandosi la frangetta liscia e ordinata. “Va bene… Possiamo ripetere daccapo, per favore?” Chiese, sorridendo in segno di scusa.

Annuii mordicchiandomi l’interno della guancia e presi posto alla sedia della scrivania, sedendomi di fronte a lei che, invece, mi fissava dal bordo del letto, in paziente – più o meno – attesa. “Okay, lasciami raccontare e poi potrai dire quello che vuoi alla fine”, esordii rassegnata, torturandomi le dita con feroce passione.

Le raccontai per filo e per segno ogni cosa, senza tralasciare nulla, a proposito dell’incidente di Enrico, dei suoi traffici – che sì, conosceva, ma solo sotto forma di racconti distanti e freddi fatti dal suo ragazzo, e come a me aveva fatto un certo effetto sentire la versione del diretto interessato supposi che anche lei avrebbe dovuto percepirla diversamente, raccontata da me – e delle sue pseudo rassicurazioni. Le parlai delle mie paura, delle mie sensazioni, dei miei dubbi, e durante tutto il mio sfogo la vidi impallidire sempre di più, mentre annuiva piano in silenzio, e un paio di volte fu sul punto di interrompermi ma si trattenne, memore di quanto le avevo detto prima di iniziare. Le confessai anche certi altri episodi accaduti tempo prima che, per un motivo o per l’altro, mi ero dimenticata di dirle o semplicemente le avevo voluto celare, come quella volta in cui avevo trovato il coraggio di aprire il cruscotto dell’auto di Enrico e ci avevo trovato una scatola di velluto, grossa quanto un dizionario di latino e larga più o meno lo stesso tanto, che conteneva la famigerata pistola. Più volte finii sull’orlo delle lacrime, sfogando finalmente tutto lo stress che avevo accumulato, ma mi sforzai almeno di non piangere, o, ne ero certa, Ale stessa sarebbe andata a dire tutto alla polizia. E io, malgrado tutto, non volevo vedere Enrico in prigione… Ipocrita e contradditorio, forse, ma cosa potevo farci?

Alla fine, tirando su col naso e imputando il gesto ad un raffreddore inesistente, tacqui, aspettando una qualsiasi reazione. Alessandra mi fissò con un’espressione da ‘bocca aperta’ che in altre situazioni avrei potuto trovare divertente, ma che in quella non fece che preoccuparmi ancora di più; poi, con una breve scrollata di spalle e un sospiro, parve riprendersi.

“Forse, dopotutto, in terapia ci finiremo tutte e due”, fu la sua intelligente risposta.

Mi passai una mano tra i capelli, accendendo il condizionatore per l’improvviso calore che mi stava impedendo di respirare. “È tutto quello che hai da dire?” Gemetti, guardandola di sottecchi.

“Che cosa ti posso dire, geme?” Ribatté lei, ancora un po’ scossa. “       Non riesco a capire perché ti ostini a voler sopportare questa situazione. Non avevi detto che sarebbe stato solo il capriccio di una o due settimane, fin quando lui non si fosse stancato? E se lui non si stanca tu cosa hai intenzione di fare, mh? Di vivere con questa angoscia vita natural durante? Di sopportare in silenzio perché hai paura che possa fare qualcosa di terribile a te o a chi vuoi bene? Ti si prospetta una vita esasperante, Giuli, se le tue intenzioni sono queste. Non ti fa bene vivere così”, concluse con maggior gentilezza, piegandosi leggermente in avanti e cercando di sorridere con fare confortante.

A quel punto non potevo più nascondere gli occhi lucidi e le lacrime che premevano per uscire. Mi strofinai le palpebre socchiuse e presi un profondo respiro, senza sapere cosa dire.  Alla fine mi alzai, trovando impossibile rimanere ancora a lungo ferma e seduta composta, e mi affacciai alla finestra, posando la fronte sul vetro freddo e appannando quest’ultimo con il mio respiro agitato. “È solo che… oddio, geme, e se me ne stessi innamorando?” Mormorai pianissimo, chiudendo gli occhi e aggrappandomi nervosamente al davanzale di marmo.

Alessandra non rispose subito, ma mi parve quasi di sentirla trattenere il fiato. Poi, quando la sua voce ruppe il silenzio, lo fece per esclamare: “Oh, cazzo.”

L’ansia mi fece scoppiare a ridere, ma fu una risatina tremula, che di divertimento aveva ben poco. “Hai afferrato il punto”, risposi, senza voltarmi a guardarla.

Non so che cosa mi stesse per rispondere – forse qualche ennesima lavata di capo a proposito del fatto che avrei dovuto smettere di vedere Enrico e dimenticarmelo prima che la situazione si aggravasse ulteriormente – comunque non lo seppi mai, dato che in quel momento lo squillo del mio cellulare rovinò l’atmosfera da confessionale che si era creata e mi riportò con i piedi per terra. Mi staccai dalla finestra, sempre con lo sguardo della mia migliore amica addosso, e presi il telefono, constatando così che il famoso proverbio “Si parla del diavolo e ti spuntano le corna” era eccessivamente veritiero.

“Un messaggio di Enrico”, dissi a mezza voce, tanto per aggiornare Alessandra. Lei non disse nulla, ma io lo lessi prima in silenzio e poi ad alta voce.

Ciao, dolcezza… Ho recuperato il mio cellulare! Che ne dici di venire a casa mia per festeggiare? Mando uno dei miei ragazzi a prenderti, visto che sono ancora un po’ indolenzito per prendere la macchina.

Inarcai un sopracciglio, perplessa. Enrico non mi aveva mai chiamato “dolcezza”, e per quanto potesse sembrare un appunto inutile, in quel momento, trovai la cosa stranamente fastidiosa, anche se non avrei saputo spiegare il motivo di quella sensazione.

“Come al solito, pare che abbia deciso al posto tuo”, ribatté la mia amica, incrociando le braccia sotto il seno e assumendo un cipiglio severo.

“Credimi, geme, il suo atteggiamento dispotico e possessivo è davvero l’ultimo dei problemi”, risposi con una scrollata di spalle, mentre inviavo il messaggio di conferma ad Enrico. Forse vederlo poteva essere una buona idea – magari, alla luce di quanto avevo scoperto, potevo ottenere più materiale su cui riflettere a proposito della mia supposta infatuazione per lui.

“Ascolta, io non credo che tu ne sia davvero innamorata”, disse Ale dopo una pausa silenziosa, cercando di essere prudente e sensibile. “Proviamo a esaminare la situazione. Enrico è il primo ragazzo con cui sei uscita seriamente, giusto? L’hai frequentato sin da subito come se foste già fidanzati, perché questo era quello che voleva lui, e questo potrebbe averti un po’ incasinato le idee. Lui è stato gentile, non lo nego, ricordo come si è comportato quando tuo nonno è venuto a mancare… È stato irreprensibile, davvero! E tutti questi comportamenti potrebbero averti confusa. Non eri tu quella che diceva, all’inizio, che con lui non sarebbe durata più di una o due settimane, che non provavi niente, che lo ritenevi uno stronzo egoista e manipolatore? È come la sindrome di Stoccolma, geme! Era inevitabile che finissi per provare dei sentimenti per lui, visto che sei stata obbligata a frequentarlo praticamente per tutta l’estate. Ma questo non è detto che sia amore”, insisté, accennando persino un sorriso gentile.

Mi limitai a guardarla, avvilita. “E che cos’è, allora?” Mormorai. “Tu che cosa provi per Riccardo?”

Alessandra arrossì leggermente, poi alzò le spalle. “Ho sempre voglia di vederlo”, esordì. “Quando non c’è mi manca, e se è libero messaggiamo. Mi piace ogni cosa di lui, il suo profumo, la fossetta che gli si forma all’angolo della bocca quando sorride, persino le sue mani!” Ridacchiò, con un’aria imbarazzata. “Non so, non saprei come spiegarlo. Ho sempre voglia di toccarlo, e non immaginare cose zozze!, è una cosa che mi da conforto, e quando mi bacia…Oddio, è come se il resto del mondo svanisse.”

Non risposi subito – volevo dare a lei il tempo di riprendersi da quell’espressione sognante e a me l’occasione di riflettere sulle sue parole – ma quando lo feci sorrisi e cercai di sdrammatizzare. “Uao, geme, credo che mi sia appena venuta una carie.”

“Che stronza che sei! La prossima volta che mi chiedi un parere ricordarmi di non dartelo”, sbottò tirandomi un cuscino, ma senza riuscire a trattenersi dal ridere.

Alessandra poteva anche essersi fatta prendere la mano nel descrivere quelle sensazioni, ma aveva fatto del suo meglio e io credetti di aver afferrato il nocciolo del discorso. Ammettere a me stessa di essermi innamorata di Enrico era qualcosa che non avrei mai e poi mai voluto fare, ma forse… Forse era il caso che guardassi in faccia la realtà e ne accettassi le terribili conseguenze. Magari io non mi ero mai soffermata ad osservare le mani di Enrico o le varie fossette che poteva avere quando sorrideva, però dovevo riconoscere di aver avvertito anche io quell’impellente desiderio di toccarlo o di infilargli le dita tra i capelli ogni volta che gli ero abbastanza vicina. Avevo creduto che volerlo disperatamente baciare fosse solo un qualcosa di puramente fisico, senza altre accezioni, e se adesso dovevo ricredermi tutto cambiava prospettiva. Merda.

Mando Lorenzo a prenderti tra mezz’ora, fatti trovare pronta. Baci dolcezza.

Forse il momento della verità era più vicino di quanto pensassi.

 

 

 

*

 

 

 

Una mezz’ora dopo, puntuale come la morte, una Chevrolet blu scura si parcheggiò sotto casa mia ma non ne discese nessuno, segno che l’autista non aveva intenzione di perdere tempo. Alessandra si era fatta venire a prendere venti minuti prima da Riccardo, così raggiunsi da sola l’auto e mi accomodai nel sedile davanti, provando subito un’istintiva apprensione nel ritrovarmi così vicina a Lorenzo. Forse avrei dovuto dire ad Enrico che quel tipo non mi ispirava una grandissima fiducia – mi ricordavo del modo viscido con cui mi aveva toccato, la notte in cui ero stata per così dire rapita, e di come lo stesso Stefano, l’unico di quella strana cricca che non mi intimoriva, lo avesse rimproverato – ma alla fin fine avevo ben altre cose di cui discutere con lui senza che vi aggiungessi anche l’analisi psicologica dei suoi amici.

Lorenzo mi salutò appena e non parve neppure intenzionato ad intavolare una qualsiasi conversazione, cosa che a me stava più che bene; sistemai la cintura, strinsi la borsa in grembo e tenni il cellulare a portata di mano, tanto per sentirmi sicura. Visto che non dovevo fingermi interessata all’inesistente chiacchierata digitai un veloce SMS a Enrico per dirgli che ero con il suo tirapiedi – ovviamente non usai proprio questo termine – e che stavo per arrivare; dopo cinque secondi udii il rumore di una vibrazione che mi fece sobbalzare, e con la coda dell’occhio osservai il ragazzo al volante. Con una ruga in mezzo agli occhi Lorenzo afferrò il suo telefono dalla tasca dei jeans e lanciò un’occhiata distratta allo schermo, per poi metterlo nuovamente via come se non fosse stato niente. Si mise addirittura a fischiettare e sollevò il volume della radio, dove in quel momento stava passando uno degli ultimi successi dell’estate.

Ma tutto questo passava in secondo piano alla luce del fatto che il cellulare che Lorenzo aveva preso in mano somigliava in modo piuttosto inquietante a quello di Enrico. Certo, potevo sempre essermi sbagliata, ma avrei giurato che era lo stesso – anche se questo non provava un bel niente: anche io e Alessandra per un periodo avevamo avuto lo stesso Nokia, un po’ perché andava di moda e un po’ perché avevamo scoperto che era comodo da usare. Per cui, quei due avevano lo stesso telefono – okay, cosa c’era di male? Nulla. Ma allora perché quella brutta sensazione? Perché ero rabbrividita? E perché Enrico non mi aveva ancora risposto?

Fingendo di guardare fuori dal finestrino, alla cieca cercai il numero di Enrico nella mia rubrica e feci partire la chiamata; dopo due secondi, la musica della radio venne coperta dalla suoneria del cellulare di Lorenzo – no, di Enrico! Quella era la sua suoneria – quante altre coincidenze volevo aspettare? Nel giro di pochi secondi, mentre il telefono continuava a squillare e io, inebetita, non trovavo neppure la forza di spegnere la chiamata, mi turbinarono in mente tutti i piccoli dettagli che avevo finto di non notare.

Sabato sera Lorenzo non era con loro.

La macchina aveva cercato di investirlo…

Enrico aveva perso il cellulare e non poteva muoversi, era bloccato a letto – allora come poteva recuperarlo?

“Porca puttana”, sibilai terrorizzata, chiudendo la chiamata. Mi voltai verso Lorenzo, che aveva a sua volta il telefono in mano nel cui schermo appariva, terribile, l’avviso: Una chiamata persa – Giulia. Lo teneva rivolto verso di me per farmelo vedere, e un sorriso viscido gli aleggiava sulle labbra, con la stessa aria sorniona e soddisfatta che doveva avere il gatto dopo aver ingoiato il topo.

“Bene bene, a quanto pare mi hai già smascherato”, disse, parlando praticamente per la prima volta da quando ero salita in macchina. Notai distrattamente che il contachilometri segnava una velocità impossibile – dunque anche la mia folle idea di aprire lo sportello e gettarmi sul bordo strada era fuori discussione. Davvero, avrei dovuto smetterla di guardare tutti quei polizieschi.

“Che cosa vuoi, Lorenzo? I soldi di Enrico?” Mormorai sforzandomi di non sembrare troppo aggressiva, mentre nello stesso tempo cercavo di appiattirmi contro la portiera.

Mi lanciò un’occhiata infastidita. “Ma per favore. Ne ho in abbondanza di soldi, senza aver bisogno di quelli di Enrico”, ribatté, rallentando leggermente per non prendere una curva in quinta.

“E allora? Cos’è, vuoi fargli uno scherzo?” Ribattei sarcastica, senza riuscire a tenere la bocca chiusa. Dio mio, che cosa voleva da me? Che cosa c’entravo io con lui? Ci eravamo a malapena scambiati due parole da quando ho iniziato a frequentare Enrico!

Per tutta risposta lui ridacchiò, sembrando quasi normale. “In un certo senso, sì. E tu mi darai una mano, se non ti dispiace”, rispose, sempre con quell’odioso tono mellifluo. “Carino quel vestito, a proposito…” Aggiunse lanciandomi un’occhiata di orribile apprezzamento – perché diavolo non mi ero cambiata prima di uscire di casa? Fu con un crescente orrore, poi, che vidi la sua mano spostarsi dal pomello del cambio per poi posarsi leggera sul mio ginocchio, e da lì cercare di risalire, spostando il lembo dell’abito.

“Ma che cazzo fai!” Gridai quasi, allontanandomi il più possibile e fissandolo sgomenta.

Come unica reazione ottenni di farlo ridere ancora di più, anche se la sua mano tornò a stringere il volante. “Quante storie, dolcezza… Vedrai, ti piacerà quello che ho in mente per te”, mormorò, con un finto tono suadente.

Non sapevo che cosa replicare, ero letteralmente pietrificata dal terrore. Se questo era uno scherzo, Dio mio, quanto mi sarei incazzata con Enrico per averlo permesso… Eppure, il fatto di essere da sola con Lorenzo, il suo sguardo, il suo tocco, cavolo!, non mi lasciavano presagire nulla di buono. Stavo tremando. Mi guardai intorno nervosamente, cercando qualcosa che – non so – mi sarebbe potuta servire per tirargliela in testa, gettarlo fuori dall’auto e tornare in paese da sola – non avevo ancora la patente, ma mio padre mi aveva già fatto guidare in un paio di occasioni, e poi che cazzo, stavo scappando da un potenziale stupratore, ero sicura che non mi avrebbero arrestato!

Era come se avessi momentaneamente staccato l’interruttore dalla realtà, così non mi accorsi subito che la strada presa da Lorenzo era quella che conduceva alla casa in campagna di Enrico. A quel punto, osai quasi sperare che fosse tutta una messinscena – ma quando il bastardo parcheggiò davanti alla veranda vidi che non c’erano altre macchine, che tutte le finestre erano chiuse e che, in poche parole, non c’era nessuno. Con un’incredibile nonchalance Lorenzo spense il motore e scese dall’auto, e io decisi tutto in una manciata di secondi: avevo già slacciato la cintura, per cui spalancai lo sportello e mi precipitai fuori, cercando di correre il più velocemente possibile. Purtroppo il modesto tacco delle mie scarpe non tollerò la corsa sopra la ghiaia scivolosa, e non avevo fatto che pochi metri quando mi storsi una caviglia e crollai per terra.

“Cazzo”, singhiozzai, cercando di rimettermi in piedi. Uno sforzo che si rivelò inutile: Lorenzo mi aveva raggiunta e mi agguantò senza troppa delicatezza per le braccia, tirandomi su e afferrandomi poi i capelli con furia. Li strattonò facendomi strillare e mi piegò la testa all’indietro, in modo da costringermi a guardarlo in faccia.

“Dove pensavi di andare, eh, puttanella?” Sibilò, la sua bocca troppo vicina alla mia. “Non farmi passare la voglia di essere gentile, ti avverto!”

Ormai non riuscivo più a pensare lucidamente. Cercai di divincolarmi, ma con una mano continuava a tirarmi i capelli e con l’altra stringeva insieme i miei polsi, immobilizzandomi; in più ero in precario equilibrio su una gamba sola, dato che l’altra non riuscivo neppure a poggiarla per terra visto che la caviglia continuava a pulsare, dolorosa. “Lasciami!” Gridai, scuotendo il capo ma peggiorando la situazione – sentii il rumore di alcune ciocche che venivano strappate, così ci rinunciai, lacrimando. “Lasciami, per favore, lasciami, lasciami, lasciami…” Continuai, ansimante, con la voce che andava via via abbassandosi.

Forse credette di avermi in pugno o comunque confidò che nel mio stato emotivo non avrei più mosso un muscolo, fatto sta che per un attimo mollò la presa sui miei polsi, e io ne approfittai. Lo schiaffeggiai con tutta la forza di cui potevo disporre in quel momento – non troppa, purtroppo, dato che non ero proprio un’esperta di autodifesa – e nell’aria risuonò forte lo schiocco che fece la mia mano sulla sua guancia. Com’era prevedibile, ottenni solo di farlo incazzare di più.

“Puttana!” Ringhiò, ricambiando la cortesia e schiaffeggiandomi a sua volta. Lorenzo doveva essere di sicuro più esperto perché il colpo mi fece ronzare le orecchie, e fu così doloroso e inaspettato – solo io potevo avere la stupida convinzione, in quel momento, che lui non avrebbe alzato le mani su una ragazza – da lasciarmi stordita e barcollante. Sarei certamente crollata a terra se non fosse stato per lui, che mi teneva in piedi benché le mie ginocchia avessero ceduto improvvisamente.

La sua mano si chiuse violenta sulla mia mascella, stringendola e facendomi gemere, ancora. “Sarà meglio che impari le buone maniere se vuoi andare d’accordo con me, hai capito? Hai capito?” Mugghiò feroce, scrollandomi rabbiosamente.

Ero ancora parecchio stordita, ma riuscii a fissarlo attraverso la patina di lacrime che mi ricopriva gli occhi, e forse anche a fulminarlo con lo sguardo – o perlomeno provarci. “Vaf…fanculo”, mormorai a fatica, affannata dallo sforzo di non piangere e dalla sofferenza che, più passava il tempo, più diventava acuta.

Il secondo schiaffo giunse gratuitamente, e avrei anche dovuto aspettarmelo. Tuttavia ciò non lo rese meno doloroso, e dopo aver tossito e sputato un grumo di sangue persi conoscenza.

 

 

 

 

 

 





















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Angolo Autrice.
Devo scusarmi di nuovo per il ritardo!
Ero indecisa su come sviluppare questo capitolo, in realtà, e quello che ne è venuto fuori non mi soddisfa particolarmente... comunque, spero di avervi sorpreso ;D E spero anche di non avervi infastidito con l'improvviso risvolto "crudo" della storia, e con le parolacce che qui abbondano :P Anyway. Se non vi ricordate di Lorenzo - cosa altamente probabile - fa un'apparizione nel capitolo 6 (oddio... secoli fa!) Eeee... che cosa accadrà adesso? Ta-ta-ta-taaaa! Non vi svelo nulla, sennò dove sta il bello?, spero di riuscire ad aggiornare in tempi decenti non appena mi levo gli ultimi esami della stagione. Da qui in avanti, la storia dovrebbe procedere più velocemente perché nella mia testolina è tutto in ordine (sparso, ma in ordine) e attende solo di prendere forma sulla pagina bianca!
E adesso che vi ho confuso con le mie chiacchiere, passiamo ai ringraziamenti :)
Grazie mille a savy85, SenzaFiato, jede, Ellyra, M_CarpeDiem, Oasis, gikki__, Beadeisentieri, Ibelieveinniley, rodney, Eleanor_Rigby, mockingjay182 e Mery55 per aver recensito lo scorso capitolo - siete state gentilissime, mi fa un immenso piacere vedere che c'è ancora qualcuno che segue quest'odissea e che soffre e gioisce insieme ai miei personaggi! :) :) E poi un grazie infinito anche a tutti coloro che continuano ad aggiungere la storia alle Preferite, alle Seguite e alle Ricordate - grazie, grazie, grazie!
Con questo passo e chiudo, ho fatto il mio dovere di buona samaritana anche oggi :D Un bacio e un abbraccio a tutti, sempre vostra
Niglia.



   
 
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