Capitolo XXVII.
Che cos’è
l’amore?
Io non ero mai stata innamorata,
dunque non lo sapevo. Non ne
avevo proprio la più pallida idea! Voglio dire, al liceo
avevo avuto modo di
studiare diverse poesie e componimenti vari che trattavano
l’argomento, ma,
tanto per cominciare, erano tutti scritti da uomini: e di conseguenza
non avevo
mai esaminato la visione femminile di tale sentimento. C’era
chi paragonava l’amore
a un dolore che strazia l’anima, chi a semplice affetto o a
qualcosa di
platonico, incorporeo, chi a uno struggimento che portava a desiderare
l’altra
persona in qualsiasi momento e ora del giorno, a desiderare una sua
carezza, un
suo abbraccio, persino la sua risata o il suo sorriso, o anche solo uno
sguardo.
La mia migliore amica, nel periodo di nero cinismo che aveva
attraversato dopo
che il suo ultimo ragazzo l’aveva trattata come uno
straccetto da prendere e
buttare a seconda del momento, e che, per inciso, era durato fino a
quando non
aveva incontrato Riccardo, aveva definito l’amore come
l’alibi che utilizzano
gli esseri umani per giustificare e mascherare il bisogno di sesso.
Non mi era mai piaciuta
particolarmente quella definizione, ma in
mancanza di esperienze personali dovevo farmi bastare le opinioni delle
mie
amiche, dato che andare da mia madre, a diciotto anni suonati, e porle
una
domanda simile avrebbe richiesto una dose di coraggio e faccia tosta
che io non
credevo di possedere.
In parole povere, avevo bisogno di
circoscrivere i miei sentimenti
all’interno di una categoria specifica, di dar loro un nome,
una forma, uno
scopo; se avessi saputo di essere innamorata, o comunque di esserci
vicina,
molte cose sarebbero cambiate. Tuttavia, chi e che cosa mi assicurava
che la
mia non era una semplice cotta? Poteva anche essere. E, se
così fosse stato, io
non avevo nessunissima intenzione di bruciare i migliori anni della mia
vita
per stare appresso a qualcuno che aveva una vita tanto incasinata da
non essere
secondo a nessuno, in nome di una misera ed effimera cotta.
Una cotta avrebbe dovuto permettermi di vivere un’esperienza
allegra, tranquilla, spensierata! Tutto l’esatto contrario di
quello che,
invece, la cosa con Enrico stava
facendo passare a me.
Mentre per un amore vero, di quelli
con la A maiuscola di cui film
e libri si sprecano tanto a parlare, beh, per qualcosa del genere avrei
anche
potuto fare uno o due sacrifici. Ma questo mi riportava al quesito
iniziale:
che cos’era l’amore? Come avrei fatto a
riconoscerlo come tale, accidenti?
Io avevo paura, sì, una
paura marcia – non avevo la forza
necessaria di chiudere gli occhi e buttarmi in una storia seria, in una
storia
di quel tipo in particolare; primo, perché ero ancora troppo
giovane e a dirla
tutta avevo programmato di imbarcarmi in una storia importante
eventualmente
solo dopo l’università, e secondo
perché Enrico non era esattamente il tipo di
ragazzo che io mi ero aspettata di avere al mio fianco, un giorno. Per
carità,
era bello, gentile, ricco – per quanto la sua fortuna
derivasse da dei
“mercati” di dubbia moralità –
però era un criminale, porca miseria, era un
mafioso, come l’aveva più volte chiamato
Alessandra!
Dubitavo che qualche poeta o scrittore
del passato avesse
affrontato un tema del genere. O forse sì? Oddio –
l’improvvisa immagine di
Enrico nei panni di un moderno Don Rodrigo mi balzò in mente
come se stesse
aspettando il momento più opportuno per saltare fuori,
strappandomi una
risatina isterica che dovetti seppellire nel cuscino per evitare di
svegliare i
miei genitori addormentati dall’altra parte del corridoio. In
effetti gli
elementi c’erano tutti, aveva persino i bravi al suo comando!
Era proprio vero
che la realtà superava la fantasia, personalmente non mi
sarebbe nemmeno venuta
in mente una storia del genere, a volerla inventare.
Tirando via le coperte dal letto,
scivolai per terra e mi diressi,
scalza, al piano di sotto. Visto che dormire si stava rivelando
impossibile,
almeno avrei ingannato l’attesa mangiando qualcosa che non
fossero le mie
povere unghie ormai martoriate. Provai, quindi, a passare in rassegna
per
l’ennesima volta i miei sentimenti, mentre spalmavo una buona
dose di nutella
su una fetta di pane – non c’era niente di meglio
che del buon cioccolato per
rinfrancare lo spirito.
Desideravo
Enrico?
Questa era una domanda piuttosto imbarazzante, e mentre
rimproveravo a mezza voce me stessa per essermela posta, realizzai che
forse i
miei problemi non erano tutti legati a lui. Con un sospiro, mi portai
un dito
sporco di nutella alle labbra e riflettei attentamente sulla risposta,
confidando che il sapore del cioccolato mettesse in moto gli ingranaggi
del mio
cervello.
Se per desiderare si intendeva un
desiderio puramente fisico, va
bene, non avevo grossi problemi ad ammetterlo: Enrico era un bel
ragazzo, molto
più che bello, a dirla tutta, e soltanto un cieco o qualcuno
con gusti
differenti non l’avrebbe trovato seducente e desiderabile.
Persino Alessandra
aveva dovuto convenire sul fatto che il mio stalker personale fosse un
esemplare della razza maschile di tutto rispetto! Per cui, va bene, mi
piaceva
e mi sentivo attratta da lui, altrimenti non avrei saputo spiegare il
brivido
che mi provocavano i suoi baci e le sue lievi carezze, quando le sue
mani
indugiavano a sfiorarmi i capelli… A quel ricordo mi sentii
le guance in fiamme
e tossicchiai, riuscendo a farmi andare di traverso anche la fetta di
pane.
Persino Enrico pareva aver afferrato il succo del problema, quando mi
aveva chiesto
se, per caso, non avessi paura di desiderarlo
troppo. Allora non gli avevo risposto, ma in effetti aveva
ragione, che
diamine!
Comunque almeno questa cosa
l’avevo appurata e, in un certo qual
modo, anche accettata.
Un’altra questione di non
scarsa importanza era: lo trovavo simpatico?
Già qui la
faccenda si faceva un poco più difficile. Potevo davvero
dire di provare
simpatia per qualcuno che avrei volentieri preso a schiaffi un momento
sì e
quello dopo pure, a causa della sua irritante arroganza e dei suoi modi
di fare
da “Padrino” della situazione? Va bene,
sì, lo
ammetto – avevo trascorso delle serate piacevoli
insieme a lui, mi aveva
fatto ridere, aveva una conversazione sciolta e brillante e con lui si
poteva
affrontare qualsiasi argomento: se questo me lo rendeva simpatico, che
male
c’era? Certo, poi c’erano gli atteggiamenti da
fidanzato ossessivo e geloso che
avrebbero fatto girare le scatole anche a un santo – insomma,
mi faceva seguire
dai suoi amici per tenermi d’occhio! – ma queste
cose, eventualmente, si potevano
modificare… no?
Ma non era certo finita
così. La domanda più importante in
assoluto era questa: che cosa diavolo
provavo per lui? Purtroppo, qui nessuno mi avrebbe potuto
aiutare.
***
Dato che quella notte, alla fine, non
ero riuscita a dormire,
finendo con il trascorrere le rimanenti ore di buio a fare zapping alla
televisione, decisi che l’unica che poteva davvero darmi una
mano era la mia
geme; sapevo perfettamente quello che pensava di Enrico – non
si era mai
lasciata sfuggire un’occasione per rimarcarlo più
e più volte – ma allo stesso
tempo era anche la sola a conoscermi abbastanza bene da poter cogliere
certi
segni con indiscutibile accuratezza.
Le mandai un messaggio non appena
sorse il sole, e dovetti
attendere giusto un paio d’ore prima che mi rispondesse. Se
aveva fatto così in
fretta la spiegazione poteva essere solo una: era rimasta a dormire da
Riccardo, e io le avevo rovinato il risveglio romantico. Che tempismo!
Ma, ehi,
se voleva continuare a percepire lo stipendio da migliore amica avrebbe
dovuto
fare questo e altro.
Ad ogni modo, tenni la mia
cattiveria-da-notte-insonne per me e mi
limitai a ringraziarla per la sollecitudine con cui si era subito
offerta di
venire a trovarmi con la sua agenda dei buoni consigli. Ormai credo
avesse
intuito che la stragrande dei miei problemi derivavano da Enrico, e non
perdeva
neppure più tempo a dire “Te l’avevo
detto” o “Te la sei cercata”: agiva e
basta. La nostra amicizia si era notevolmente evoluta in seguito a
quella
faccenda, il che era un bene, dato che se fossimo state un
po’ meno legate
avremmo smesso di vederci non appena lei e Riccardo si erano messi
insieme,
dato che il suo ragazzo e il “delinquente” con cui
uscivo avevano lo stesso
rapporto amorevole che hanno due galli nello stesso pollaio.
Dunque, Alessandra arrivò
da me in tarda mattinata, e come sempre
accadeva in quelle occasioni, rimase a pranzo da noi; dovetti rimandare
la
nostra chiacchierata al primo pomeriggio, tuttavia, ma se non altro
l’attesa mi
aveva dato modo di mettere un po’ d’ordine ai miei
pensieri e di studiare un
modo per aprire la conversazione senza risultare né troppo
brusca, né troppo
terrorizzata e né troppo volgare.
Infatti, ecco come andarono le cose.
“Cazzo, geme, sono nella
merda fino al collo.” Sibilai, chiudendo
la porta della camera alle mie spalle e poggiandomici sopra alla
ricerca di un
sostegno.
La mia esclamazione le
strappò un mezzo sorriso, che tuttavia
sparì non appena si rese conto che io non avevo per niente
voglia di scherzare.
“Finirai con il mandarmi in terapia, lo sai, vero?
Dovrò pagare uno psicologo
per i prossimi trent’anni per un trauma che non mi appartiene
neanche”, ribatté
con tono sostenuto, incrociando le braccia.
Decisi di ignorarla. “Sono
andata a casa di Enrico, ieri”, le
rivelai tutto d’un fiato.
“Oddio! L’avete
fatto?!” Sbottò sorpresa, indecisa se emozionarsi
per me o se inorridire.
“No!
Geme, come ti
vengono… cacchio,
no!” Ripetei a
mezza voce – l’ultima cosa che volevo era che mia
madre potesse afferrare frasi
a caso dai miei discorsi e intuire chissà cosa.
“Dio, non pensi ad altro?”
“Io? Sei tu quella che si
lamenta sempre di avere la vita sessuale
di un pesce rosso!” Fece lei, incurante delle mie tempeste
interne. “Da come
l’hai detto sembrava… Anche se non so se dovrei
farti le congratulazioni, visto
di chi stiamo parlando. Ma grazie a Dio hai detto di no… Hai
detto di no, vero?”
Non potei trattenermi dal roteare gli
occhi, spazientita. “No, no,
certo che no, non abbiamo fatto niente, nada,
nisba, rien”, specificai,
ormai
neanche più imbarazzata.
“Okay, va bene, sei ancora
illibata, mi fa piacere”, sospirò
sollevata. La mia occhiataccia dovette essere piuttosto eloquente, dato
che si
affrettò a rettificare. “Cioè, non mi
fa piacere in quel senso, voglio dire, mi
avrebbe fatto più piacere sapere che ti sei data da fare, cioè no, aspetta, sarebbe
carino se anche tu avessi fatto
esperienza così avremmo potuto parlarne, no? Insomma, sono
contenta che tu non
sia incinta di Enrico, ecco, volevo dire questo!”
La fissai come se le fosse appena
spuntata un’altra testa sulle
spalle, e per giunta verde, brufolosa e vomitante fuoco e fiamme.
“Mi sono
persa qualcosa? Come siamo arrivate all’essere
incinta?” Chiesi, intuendo che
da un momento all’altro la testa mi sarebbe scoppiata.
Insomma, non avevo
neppure dormito quella notte, diamine, e non certo per il motivo che
pensava
Alessandra!
Lei si concesse il lusso di
ridacchiare, mezzo imbarazzata e mezzo
divertita, poi cercò di darsi un contegno accarezzandosi la
frangetta liscia e
ordinata. “Va bene… Possiamo ripetere daccapo, per
favore?” Chiese, sorridendo
in segno di scusa.
Annuii mordicchiandomi
l’interno della guancia e presi posto alla
sedia della scrivania, sedendomi di fronte a lei che, invece, mi
fissava dal
bordo del letto, in paziente – più o meno
– attesa. “Okay, lasciami raccontare
e poi potrai dire quello che vuoi alla fine”, esordii
rassegnata, torturandomi
le dita con feroce passione.
Le raccontai per filo e per segno ogni
cosa, senza tralasciare
nulla, a proposito dell’incidente
di
Enrico, dei suoi traffici – che sì, conosceva, ma
solo sotto forma di racconti
distanti e freddi fatti dal suo ragazzo, e come a me aveva fatto un
certo
effetto sentire la versione del diretto interessato supposi che anche
lei
avrebbe dovuto percepirla diversamente, raccontata da me – e
delle sue pseudo
rassicurazioni. Le parlai delle mie paura, delle mie sensazioni, dei
miei
dubbi, e durante tutto il mio sfogo la vidi impallidire sempre di
più, mentre
annuiva piano in silenzio, e un paio di volte fu sul punto di
interrompermi ma
si trattenne, memore di quanto le avevo detto prima di iniziare. Le
confessai
anche certi altri episodi accaduti tempo prima che, per un motivo o per
l’altro, mi ero dimenticata di dirle o semplicemente le avevo
voluto celare,
come quella volta in cui avevo trovato il coraggio di aprire il
cruscotto
dell’auto di Enrico e ci avevo trovato una scatola di
velluto, grossa quanto un
dizionario di latino e larga più o meno lo stesso tanto, che
conteneva la
famigerata pistola. Più volte finii sull’orlo
delle lacrime, sfogando
finalmente tutto lo stress che avevo accumulato, ma mi sforzai almeno
di non
piangere, o, ne ero certa, Ale stessa sarebbe andata a dire tutto alla
polizia.
E io, malgrado tutto, non volevo vedere Enrico in prigione…
Ipocrita e
contradditorio, forse, ma cosa potevo farci?
Alla fine, tirando su col naso e
imputando il gesto ad un
raffreddore inesistente, tacqui, aspettando una qualsiasi reazione.
Alessandra
mi fissò con un’espressione da ‘bocca
aperta’ che in altre situazioni avrei
potuto trovare divertente, ma che in quella non fece che preoccuparmi
ancora di
più; poi, con una breve scrollata di spalle e un sospiro,
parve riprendersi.
“Forse, dopotutto, in
terapia ci finiremo tutte e due”, fu la sua
intelligente risposta.
Mi passai una mano tra i capelli,
accendendo il condizionatore per
l’improvviso calore che mi stava impedendo di respirare.
“È tutto quello che
hai da dire?” Gemetti, guardandola di sottecchi.
“Che cosa ti posso dire,
geme?” Ribatté lei, ancora un po’
scossa.
“
Non riesco a capire perché ti
ostini a voler sopportare questa situazione. Non avevi detto che
sarebbe stato
solo il capriccio di una o due settimane, fin quando lui non si fosse
stancato?
E se lui non si stanca tu cosa hai intenzione di fare, mh? Di vivere
con questa
angoscia vita natural durante? Di sopportare in silenzio
perché hai paura che
possa fare qualcosa di terribile a te o a chi vuoi bene? Ti si
prospetta una
vita esasperante, Giuli, se le tue intenzioni sono queste. Non ti fa
bene
vivere così”, concluse con maggior gentilezza,
piegandosi leggermente in avanti
e cercando di sorridere con fare confortante.
A quel punto non potevo più
nascondere gli occhi lucidi e le
lacrime che premevano per uscire. Mi strofinai le palpebre socchiuse e
presi un
profondo respiro, senza sapere cosa dire.
Alla fine mi alzai, trovando impossibile rimanere ancora a
lungo ferma e
seduta composta, e mi affacciai alla finestra, posando la fronte sul
vetro freddo
e appannando quest’ultimo con il mio respiro agitato.
“È solo che… oddio, geme,
e se me ne stessi innamorando?” Mormorai pianissimo,
chiudendo gli occhi e
aggrappandomi nervosamente al davanzale di marmo.
Alessandra non rispose subito, ma mi
parve quasi di sentirla
trattenere il fiato. Poi, quando la sua voce ruppe il silenzio, lo fece
per
esclamare: “Oh, cazzo.”
L’ansia mi fece scoppiare a
ridere, ma fu una risatina tremula,
che di divertimento aveva ben poco. “Hai afferrato il
punto”, risposi, senza
voltarmi a guardarla.
Non so che cosa mi stesse per
rispondere – forse qualche ennesima
lavata di capo a proposito del fatto che avrei dovuto smettere di
vedere Enrico
e dimenticarmelo prima che la situazione si aggravasse ulteriormente
– comunque
non lo seppi mai, dato che in quel momento lo squillo del mio cellulare
rovinò
l’atmosfera da confessionale che si era creata e mi
riportò con i piedi per
terra. Mi staccai dalla finestra, sempre con lo sguardo della mia
migliore
amica addosso, e presi il telefono, constatando così che il
famoso proverbio “Si parla del
diavolo e ti spuntano le corna”
era eccessivamente veritiero.
“Un messaggio di
Enrico”, dissi a mezza voce, tanto per aggiornare
Alessandra. Lei non disse nulla, ma io lo lessi prima in silenzio e poi
ad alta
voce.
Ciao,
dolcezza… Ho recuperato
il mio cellulare! Che ne dici di venire a casa mia per festeggiare?
Mando uno
dei miei ragazzi a prenderti, visto che sono ancora un po’
indolenzito per
prendere la macchina.
Inarcai un sopracciglio, perplessa.
Enrico non mi aveva mai
chiamato “dolcezza”, e per quanto potesse sembrare
un appunto inutile, in quel
momento, trovai la cosa stranamente fastidiosa, anche se non avrei
saputo
spiegare il motivo di quella sensazione.
“Come al solito, pare che
abbia deciso al posto tuo”, ribatté la
mia amica, incrociando le braccia sotto il seno e assumendo un cipiglio
severo.
“Credimi, geme, il suo
atteggiamento dispotico e possessivo è
davvero l’ultimo dei problemi”, risposi con una
scrollata di spalle, mentre
inviavo il messaggio di conferma ad Enrico. Forse vederlo poteva essere
una
buona idea – magari, alla luce di quanto avevo scoperto,
potevo ottenere più
materiale su cui riflettere a proposito della mia supposta infatuazione
per
lui.
“Ascolta, io non credo che
tu ne sia davvero innamorata”, disse
Ale dopo una pausa silenziosa, cercando di essere prudente e sensibile.
“Proviamo a esaminare la situazione. Enrico è il
primo ragazzo con cui sei
uscita seriamente, giusto? L’hai frequentato sin da subito
come se foste già
fidanzati, perché questo era quello che voleva lui, e questo
potrebbe averti un
po’ incasinato le idee. Lui è stato gentile, non
lo nego, ricordo come si è
comportato quando tuo nonno è venuto a mancare…
È stato irreprensibile,
davvero! E tutti questi comportamenti potrebbero averti confusa. Non
eri tu
quella che diceva, all’inizio, che con lui non sarebbe durata
più di una o due
settimane, che non provavi niente, che lo ritenevi uno stronzo egoista
e
manipolatore? È come la sindrome di Stoccolma, geme! Era
inevitabile che
finissi per provare dei sentimenti per lui, visto che sei stata
obbligata a
frequentarlo praticamente per tutta l’estate. Ma questo non
è detto che sia
amore”, insisté, accennando persino un sorriso
gentile.
Mi limitai a guardarla, avvilita.
“E che cos’è, allora?”
Mormorai.
“Tu che cosa provi per Riccardo?”
Alessandra arrossì
leggermente, poi alzò le spalle. “Ho sempre
voglia di vederlo”, esordì. “Quando non
c’è mi manca, e se è libero
messaggiamo. Mi piace ogni cosa di lui, il suo profumo, la fossetta che
gli si
forma all’angolo della bocca quando sorride, persino le sue
mani!” Ridacchiò,
con un’aria imbarazzata. “Non so, non saprei come
spiegarlo. Ho sempre voglia
di toccarlo, e non immaginare cose zozze!,
è una cosa che mi da conforto, e quando mi
bacia…Oddio, è come se il resto del
mondo svanisse.”
Non risposi subito – volevo
dare a lei il tempo di riprendersi da
quell’espressione sognante e a me l’occasione di
riflettere sulle sue parole –
ma quando lo feci sorrisi e cercai di sdrammatizzare. “Uao,
geme, credo che mi
sia appena venuta una carie.”
“Che stronza che sei! La
prossima volta che mi chiedi un parere
ricordarmi di non dartelo”, sbottò tirandomi un
cuscino, ma senza riuscire a
trattenersi dal ridere.
Alessandra poteva anche essersi fatta
prendere la mano nel descrivere
quelle sensazioni, ma aveva fatto del suo meglio e io credetti di aver
afferrato il nocciolo del discorso. Ammettere a me stessa di essermi
innamorata
di Enrico era qualcosa che non avrei mai e poi mai voluto fare, ma
forse… Forse
era il caso che guardassi in faccia la realtà e ne
accettassi le terribili
conseguenze. Magari io non mi ero mai soffermata ad osservare le mani
di Enrico
o le varie fossette che poteva avere quando sorrideva, però
dovevo riconoscere
di aver avvertito anche io quell’impellente desiderio di
toccarlo o di
infilargli le dita tra i capelli ogni volta che gli ero abbastanza
vicina.
Avevo creduto che volerlo disperatamente baciare fosse solo un qualcosa
di
puramente fisico, senza altre accezioni, e se adesso dovevo ricredermi
tutto cambiava
prospettiva. Merda.
Mando
Lorenzo a prenderti
tra mezz’ora, fatti trovare pronta. Baci dolcezza.
Forse il momento della
verità era più vicino di quanto pensassi.
*
Una mezz’ora dopo, puntuale
come la morte, una Chevrolet blu scura
si parcheggiò sotto casa mia ma non ne discese nessuno,
segno che l’autista non
aveva intenzione di perdere tempo. Alessandra si era fatta venire a
prendere
venti minuti prima da Riccardo, così raggiunsi da sola
l’auto e mi accomodai
nel sedile davanti, provando subito un’istintiva apprensione
nel ritrovarmi
così vicina a Lorenzo. Forse avrei dovuto dire ad Enrico che
quel tipo non mi
ispirava una grandissima fiducia – mi ricordavo del modo
viscido con cui mi
aveva toccato, la notte in cui ero stata per così dire
rapita, e di come lo
stesso Stefano, l’unico di quella strana cricca che non mi
intimoriva, lo
avesse rimproverato – ma alla fin fine avevo ben altre cose
di cui discutere
con lui senza che vi aggiungessi anche l’analisi psicologica
dei suoi amici.
Lorenzo mi salutò appena e
non parve neppure intenzionato ad
intavolare una qualsiasi conversazione, cosa che a me stava
più che bene;
sistemai la cintura, strinsi la borsa in grembo e tenni il cellulare a
portata
di mano, tanto per sentirmi sicura. Visto che non dovevo fingermi
interessata
all’inesistente chiacchierata digitai un veloce SMS a Enrico per dirgli che ero con il
suo tirapiedi – ovviamente non
usai proprio questo termine – e che stavo per arrivare; dopo
cinque secondi
udii il rumore di una vibrazione che mi fece sobbalzare, e con la coda
dell’occhio osservai il ragazzo al volante. Con una ruga in
mezzo agli occhi
Lorenzo afferrò il suo telefono dalla tasca dei jeans e
lanciò un’occhiata
distratta allo schermo, per poi metterlo nuovamente via come se non
fosse stato
niente. Si mise addirittura a fischiettare e sollevò il
volume della radio,
dove in quel momento stava passando uno degli ultimi successi
dell’estate.
Ma tutto questo passava in secondo
piano alla luce del fatto che
il cellulare che Lorenzo aveva preso in mano somigliava in modo
piuttosto
inquietante a quello di Enrico. Certo, potevo sempre essermi sbagliata,
ma
avrei giurato che era lo stesso
–
anche se questo non provava un bel niente: anche io e Alessandra per un
periodo
avevamo avuto lo stesso Nokia, un po’ perché
andava di moda e un po’ perché
avevamo scoperto che era comodo da usare. Per cui, quei due avevano lo
stesso
telefono – okay, cosa c’era di male? Nulla. Ma
allora perché quella brutta
sensazione? Perché ero rabbrividita? E
perché Enrico non mi aveva ancora risposto?
Fingendo di guardare fuori dal
finestrino, alla cieca cercai il
numero di Enrico nella mia rubrica e feci partire la chiamata; dopo due
secondi, la musica della radio venne coperta dalla suoneria del
cellulare di
Lorenzo – no, di Enrico! Quella era la sua suoneria
– quante altre coincidenze
volevo aspettare? Nel giro di pochi secondi, mentre il telefono
continuava a
squillare e io, inebetita, non trovavo neppure la forza di spegnere la
chiamata, mi turbinarono in mente tutti i piccoli dettagli che avevo
finto di
non notare.
Sabato
sera Lorenzo non era
con loro.
La
macchina aveva cercato di
investirlo…
Enrico
aveva perso il
cellulare e non poteva muoversi, era bloccato a letto –
allora come poteva
recuperarlo?
“Porca puttana”,
sibilai terrorizzata, chiudendo la chiamata. Mi
voltai verso Lorenzo, che aveva a sua volta il telefono in mano nel cui
schermo
appariva, terribile, l’avviso: Una
chiamata persa – Giulia. Lo teneva rivolto verso di
me per farmelo vedere,
e un sorriso viscido gli aleggiava sulle labbra, con la stessa aria
sorniona e
soddisfatta che doveva avere il gatto dopo aver ingoiato il topo.
“Bene bene, a quanto pare mi
hai già smascherato”, disse, parlando
praticamente per la prima volta da quando ero salita in macchina. Notai
distrattamente che il contachilometri segnava una velocità
impossibile – dunque
anche la mia folle idea di aprire lo sportello e gettarmi sul bordo
strada era
fuori discussione. Davvero, avrei dovuto smetterla di guardare tutti
quei
polizieschi.
“Che cosa vuoi, Lorenzo? I
soldi di Enrico?” Mormorai sforzandomi
di non sembrare troppo aggressiva, mentre nello stesso tempo cercavo di
appiattirmi
contro la portiera.
Mi lanciò
un’occhiata infastidita. “Ma per favore. Ne ho in
abbondanza di soldi, senza aver bisogno di quelli di Enrico”,
ribatté,
rallentando leggermente per non prendere una curva in quinta.
“E allora?
Cos’è, vuoi fargli uno scherzo?”
Ribattei sarcastica,
senza riuscire a tenere la bocca chiusa. Dio mio, che cosa voleva da
me? Che
cosa c’entravo io con lui? Ci eravamo a malapena scambiati
due parole da quando
ho iniziato a frequentare Enrico!
Per tutta risposta lui
ridacchiò, sembrando quasi normale. “In un
certo senso, sì. E tu mi darai una mano, se non ti
dispiace”, rispose, sempre
con quell’odioso tono mellifluo. “Carino quel
vestito, a proposito…” Aggiunse
lanciandomi un’occhiata di orribile apprezzamento –
perché diavolo non mi ero
cambiata prima di uscire di casa? Fu con un crescente orrore, poi, che
vidi la
sua mano spostarsi dal pomello del cambio per poi posarsi leggera sul
mio
ginocchio, e da lì cercare di risalire, spostando il lembo
dell’abito.
“Ma che cazzo
fai!” Gridai quasi, allontanandomi il più
possibile
e fissandolo sgomenta.
Come unica reazione ottenni di farlo
ridere ancora di più, anche se
la sua mano tornò a stringere il volante. “Quante
storie, dolcezza…
Vedrai, ti piacerà quello che ho in mente per te”,
mormorò, con un finto tono suadente.
Non sapevo che cosa replicare, ero
letteralmente pietrificata dal
terrore. Se questo era uno scherzo, Dio mio, quanto mi sarei incazzata
con
Enrico per averlo permesso… Eppure, il fatto di essere da
sola con Lorenzo, il
suo sguardo, il suo tocco, cavolo!,
non mi lasciavano presagire nulla di buono. Stavo tremando. Mi guardai
intorno nervosamente,
cercando qualcosa che – non so – mi sarebbe potuta
servire per tirargliela in
testa, gettarlo fuori dall’auto e tornare in paese da sola
– non avevo ancora
la patente, ma mio padre mi aveva già fatto guidare in un
paio di occasioni, e
poi che cazzo, stavo scappando da un potenziale stupratore, ero sicura
che non
mi avrebbero arrestato!
Era come se avessi momentaneamente
staccato l’interruttore dalla
realtà, così non mi accorsi subito che la strada
presa da Lorenzo era quella
che conduceva alla casa in campagna di Enrico. A quel punto, osai quasi
sperare
che fosse tutta una messinscena – ma quando il bastardo
parcheggiò davanti alla
veranda vidi che non c’erano altre macchine, che tutte le
finestre erano chiuse
e che, in poche parole, non c’era nessuno. Con
un’incredibile nonchalance
Lorenzo spense il motore e scese dall’auto, e io decisi tutto
in una manciata
di secondi: avevo già slacciato la cintura, per cui
spalancai lo sportello e mi
precipitai fuori, cercando di correre il più velocemente
possibile. Purtroppo
il modesto tacco delle mie scarpe non tollerò la corsa sopra
la ghiaia
scivolosa, e non avevo fatto che pochi metri quando mi storsi una
caviglia e
crollai per terra.
“Cazzo”,
singhiozzai, cercando di rimettermi in piedi. Uno sforzo
che si rivelò inutile: Lorenzo mi aveva raggiunta e mi
agguantò senza troppa
delicatezza per le braccia, tirandomi su e afferrandomi poi i capelli
con
furia. Li strattonò facendomi strillare e mi
piegò la testa all’indietro, in
modo da costringermi a guardarlo in faccia.
“Dove pensavi di andare, eh,
puttanella?” Sibilò, la sua bocca
troppo vicina alla mia. “Non farmi passare la voglia di
essere gentile, ti
avverto!”
Ormai non riuscivo più a
pensare lucidamente. Cercai di
divincolarmi, ma con una mano continuava a tirarmi i capelli e con
l’altra
stringeva insieme i miei polsi, immobilizzandomi; in più ero
in precario
equilibrio su una gamba sola, dato che l’altra non riuscivo
neppure a poggiarla
per terra visto che la caviglia continuava a pulsare, dolorosa.
“Lasciami!”
Gridai, scuotendo il capo ma peggiorando la situazione –
sentii il rumore di
alcune ciocche che venivano strappate, così ci rinunciai,
lacrimando.
“Lasciami, per favore, lasciami, lasciami,
lasciami…” Continuai, ansimante, con
la voce che andava via via abbassandosi.
Forse credette di avermi in pugno o
comunque confidò che nel mio
stato emotivo non avrei più mosso un muscolo, fatto sta che
per un attimo mollò
la presa sui miei polsi, e io ne approfittai. Lo schiaffeggiai con
tutta la
forza di cui potevo disporre in quel momento – non troppa,
purtroppo, dato che
non ero proprio un’esperta di autodifesa – e
nell’aria risuonò forte lo
schiocco che fece la mia mano sulla sua guancia. Com’era
prevedibile, ottenni
solo di farlo incazzare di più.
“Puttana!”
Ringhiò, ricambiando la cortesia e schiaffeggiandomi a
sua volta. Lorenzo doveva essere di sicuro più esperto
perché il colpo mi fece
ronzare le orecchie, e fu così doloroso e inaspettato
– solo io potevo avere la
stupida convinzione, in quel momento, che lui non avrebbe alzato le
mani su una
ragazza – da lasciarmi stordita e barcollante. Sarei
certamente crollata a
terra se non fosse stato per lui, che mi teneva in piedi
benché le mie
ginocchia avessero ceduto improvvisamente.
La sua mano si chiuse violenta sulla
mia mascella, stringendola e
facendomi gemere, ancora. “Sarà meglio che impari
le buone maniere se vuoi
andare d’accordo con me, hai capito? Hai
capito?” Mugghiò feroce, scrollandomi
rabbiosamente.
Ero ancora parecchio stordita, ma
riuscii a fissarlo attraverso la
patina di lacrime che mi ricopriva gli occhi, e forse anche a
fulminarlo con lo
sguardo – o perlomeno provarci.
“Vaf…fanculo”, mormorai a fatica,
affannata
dallo sforzo di non piangere e dalla sofferenza che, più
passava il tempo, più
diventava acuta.
Il secondo schiaffo giunse
gratuitamente, e avrei anche dovuto
aspettarmelo. Tuttavia ciò non lo rese meno doloroso, e dopo
aver tossito e
sputato un grumo di sangue persi conoscenza.
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Angolo Autrice.
Devo scusarmi di nuovo per il ritardo!
Ero indecisa su come sviluppare questo capitolo, in realtà, e quello che ne è venuto fuori non mi soddisfa particolarmente... comunque, spero di avervi sorpreso ;D E spero anche di non avervi infastidito con l'improvviso risvolto "crudo" della storia, e con le parolacce che qui abbondano :P Anyway. Se non vi ricordate di Lorenzo - cosa altamente probabile - fa un'apparizione nel capitolo 6 (oddio... secoli fa!) Eeee... che cosa accadrà adesso? Ta-ta-ta-taaaa! Non vi svelo nulla, sennò dove sta il bello?, spero di riuscire ad aggiornare in tempi decenti non appena mi levo gli ultimi esami della stagione. Da qui in avanti, la storia dovrebbe procedere più velocemente perché nella mia testolina è tutto in ordine (sparso, ma in ordine) e attende solo di prendere forma sulla pagina bianca!
E adesso che vi ho confuso con le mie chiacchiere, passiamo ai ringraziamenti :)
Grazie mille a savy85, SenzaFiato, jede, Ellyra, M_CarpeDiem, Oasis, gikki__, Beadeisentieri, Ibelieveinniley, rodney, Eleanor_Rigby, mockingjay182 e Mery55 per aver recensito lo scorso capitolo - siete state gentilissime, mi fa un immenso piacere vedere che c'è ancora qualcuno che segue quest'odissea e che soffre e gioisce insieme ai miei personaggi! :) :) E poi un grazie infinito anche a tutti coloro che continuano ad aggiungere la storia alle Preferite, alle Seguite e alle Ricordate - grazie, grazie, grazie!
Con questo passo e chiudo, ho fatto il mio dovere di buona samaritana anche oggi :D Un bacio e un abbraccio a tutti, sempre vostra
Niglia.