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Autore: The Theory    15/07/2012    5 recensioni
Questa è la mia primissima FanFiction sul pairing Ben/Gwen! Spero sia di vostro gradimento in quanto la mia esperienza relativa a questo cartone è poca...
La vita di Ben subì un poderoso cambiamento quattro anni prima, quando l'Omnitrix si spense. I sentimenti di Ben sono da allora un altalena confusa tra la voglia di recuperare la sua passata natura aliena e l' abbandonare l'impresa. Una corsa contro il tempo, una pericolosa storia d'amore ed un racconto dal sapore dolce di ciliegia, rivisto in chiave allo stesso modo comica e triste, che spero faccia sorridere sul primo grande amore e le follie che per esso si fanno.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Ciao ragazzi! Perdonate la LUNGHISSIMA attesa ma con la fine della scuola ho avuto le mie. Sono appena tornata dalla vacanza, peraltro, quindi abbiatemene in grazia. Perdonatemi >.< spero solo il capitolo vi aggradi. Prometto che sarò più puntuale! Perdonatemi, perdonatemi! Buona lettura.
 

La maestosa pineta di Bellwood cominciò ad ondeggiare cullata da uno scorbutico venticello invernale. Il parco era semideserto e per strada passava appena qualche macchina; le viottole sassose che portavano ai vari sentieri accoglievano qualche foglia secca, ingiallita, rosicchiata, qualche ghianda, qualche ramoscello adusto.
Ben mormorò stancamente, rivolgendosi all’amica Sienna: – in tutta sincerità, e gliel’ho anche detto esplicitamente, trovo che il nostro più grande impiccio sia il fatto di non riuscire mai a trovarci in accordo. Quando accade, viviamo momenti di supporto, d’una gradevolezza quasi inaudita. Ma per il resto non facciamo che inveirci contro mostrandoci l’un l’altra i lati peggiori dei quali siamo fatti. Trovo la cosa logorante.
Sienna, dopo un istante appena di silenzio, aggiunse: – innegabile. Che sia logorante, è innegabile. Ma credo tu debba sforzarti.
La giovane avvertì una fitta al cuore. In quell’istante avrebbe potuto scegliere; si trovava dinanzi un bivio di cui una delle due possibilità di scelta era assai di convenienza: indirizzare Ben alla presa di posizione a suo favore, ovvero, fargli comprovare definitivamente il fatto che Gwen fosse intrattabile e dalla loro relazione non si sarebbe stati capaci di cavar ragno dal buco. Oppure consigliargli quanto sentiva emergere dal suo cuore, ossia combattere per Gwen.
Sebbene stesse soffrendo immensamente, Sienna non ebbe cuore di giocar tiro tanto malandrino né ad egli, né ad ella, che a conti fatti era pur sempre una sua amica.
Portatasi una mano al petto sussurrò: – pazienta, Ben. Per un animo come il tuo, costerà. Ma te ne prego, pazienta.
Ben sbuffò e acconsentì lievemente ciondolando con il capo, quasi abbandonandosi a tal parole.
Poi disse: – sei una brava ragazza, Sienna.
Nell’ascoltare tal genere di parole, la giovane Butcher rabbrividì. Un tremito gelido le serpeggiò lungo la schiena, irrigidendola in maniera quasi totale.
– Sbagli, Ben. Erri profondamente.
Il ragazzo assottigliò lo sguardo. Le si rivolse corrugando le sopracciglia:– perdona la mia stoltezza, ma non ti seguo.
– Ci sono troppe cose di me che tu non sai. Se fossi approfonditamente a conoscenza del vero e non solo del mio nome ed il mio cognome, molto probabilmente non avresti tale, magnanima e clemente opinione di me.
Ben tentò di ribattere ma Sienna si alzò di scatto.
– Credo sia per me il caso di andare.
– Rimani un altro po’, sento il bisogno di sapere. – la pregò Ben con aria incupita (e forse anche con desiderio che qualcun altro confessasse di suoi svariati impicci, in quanto s’era stufato di sentirsi come l’unico in preda ad un vittimismo – ed una sventura – perenni).
– Ciao, Ben. – lo ignorò Sienna sforzandosi di sorridere in maniera dolce seppur d’un retrogusto infinitamente amaro. Alzò la mano destra in segno di saluto.
Tennyson la vide man mano allontanarsi, seguendola con lo sguardo.
– Quanto sono imbecille. – borbottò orbene passandosi un palmo sulla fronte.
 
Kevin Levin passeggiava senza meta tra le principali strade cittadine, dando qualche occhiata alle vetrine, osservando il cielo e rimuginando con aria assorta. A dirla tutta, stava mulinando in maniera particolarmente intensa circa l’accaduto del giorno prima, con Sienna Butcher. La conosceva oramai da molto tempo. Sapeva bene di averle giocato un tiro palesemente mancino ma ne sapeva (quasi) certamente la ragione. Ed essa, si disse, non dipendeva propriamente dal proprio cervello.
Si frugò in tasca. Ne estrasse una manciata di spicci, due banconote da dieci dollari completamente stropicciate ed una bustina di plastica dall’aria vissuta, di quelle a chiusura ermetica. Fissando afflitto i propri possedimenti infilò la mano nella seconda tasca della giubba di pelle ma il risultato fu abbastanza deludente: non vi erano né monetine né banconote, nemmeno bustine. Solo un accendino ed una sigaretta fumata a metà. Si domandò in quale assurdo momento avesse potuto cacciarsi in tascauna sigaretta appena iniziata. E sebbene si concentrò parecchio non parve essere in grado di cavarsi di capo una convincente rimembranza. Sbuffò tossicchiando.
Improvvisamente, avvertì il cellulare vibrargli in una delle tasche posteriori dei jeans, allorché, dopo averle tastate una ad una, estrasse il piccolissimo ricevitore.
– Pronto?
– Ehi, Levin.
Seguì un breve istante di silenzio. Kevin si decise a rispondere:– Oh. Comandi.
– Sei riuscito a riprenderla nel giro?
– Ho avuto alcuni problemi. – si giustificò in tono grave il ragazzo riprendendo a camminare di buona lena.
– Vedi di sbrigarti, la roba non si vende da sola. Siamo troppo pochi. – venne rimbeccato.
– Sarà fatto. – mormorò Kevin.
Riagganciò.
– Al diavolo. Sarà più dura di quanto avessi immaginato.
Detto questo, accese la sigaretta che aveva trovato spenta nella propria tasca.
 
Nel bagno di casa Tennyson, era calato un silenzio fin troppo pesante.
Uccidersi sarebbe stato pressoché veloce, Gwen pensò. Facile. Per un istante la ragazza si convinse fermamente che porre fine a se stessa si sarebbe rivelato perfetto. Spinse il volto ulteriormente sott’acqua, sentendo il respiro venire pesantemente meno. Era la fine. Ed in cuor suo, tra le pieghe di un radicato cordoglio,Gwen si scoprì a sorridere, d’uno di que’ sorrisi ampi, smorfiosi e spensierati, sollevati. Come fosse tornata l’infante gaia la quale era stata in quelli che rammentava essere lontani secoli prima, come se il rimorso e dalla pesantezza degl’ultimi s’attenuassero. Come se fosse tornata a quelle afose estati d’infanzia trascorse in compagnia del cugino e del fido, festoso nonno. Ma di sorpresa si irrigidì. Il volto straziato della madre che la sera prima la pregava di non infierire oltre, rigato, solcato dalle lacrime amare di un pianto insopportabile, le comparve dinanzi, cancellando con prepotenza la parentesi di sollievo che aveva toccato Gwen per quei pochi istanti. Le sue espressioni devastate, intimidite, sconcertate, sempre identiche da anni a quella parte, finirono sotto i riflettori del palcoscenico di conscio ed inconscio di Gwen. Qual’essere immondo sarebbe stata se avesse lasciato la sua genitrice sola al mondo tra gl’artigli sanguigni del padre? Gwen si sentì soffocare, tanto quanto un cane rabbioso cinto ad una catena pesante tre volte tanto la propria stazza. Non l’era concesso neanche morire. Con un profondo spasimo riemerse. Suo malgrado.
Odorando il diffondersi lieve del profumo di ciliegia del bagnoschiuma, raccolse il capo tra le mani e si obbligò a soffocare il pianto. 
 
Sienna Butcher prese a camminare molto, troppo velocemente. Aveva sbagliato a mettere quella pulce nell’orecchio di Ben, se ne rendeva conto ella stessa: la sola idea che egli anche solo avesse potuto avvicinarsi al proprio passato e conoscerne i dettagli la faceva agghiacciare. Eppure nell’istante in cui aveva pronunciatogli quelle parole, – ai suoi occhi col senno del poi tanto inopportune – aveva percepito il sentore di non averne potuto fare a meno. Questo la spaventò. Si impose che d’ora in avanti si sarebbe tenuta tutto dentro ed avrebbe rispettato con ferrea e ligia convinzione la promessa che si era fatta poco tempo prima. Quanto prima avesse cancellato la vecchia se stessa, tanto prima avrebbe vissuto in modo migliore. Strinse un pugno, persuasa. Ad un tratto però vacillò: qualche volta, la debolezza e la paura di quel mostro che le viveva dentro la spingevano a desiderare ancora quelle vie d’uscita così facili. Il passato la torturava, la seguiva come un’ombra, le frusciava dentro, strisciava subdolo lungo i suoi nuovi principi intento a farli vacillare e crollare miseramente.
Sienna si sentì battere la spalla e sussultò, riemergendo tutt’un tratto dai suoi pensieri foschi.
– Ehilà! Poffarbacco, chi si rivede.
– Non parlare come un idiota sperando di farmi ridere, Levin – rispose tagliente Sienna senza rivolgere sguardo alcuno all’amico (se così ancora si poteva dire egli fosse).
– Andiamo, non te la sarai presa!
Sienna digrignò i denti: – vorrai scherzare! Sparisci dalla mia vista prima che faccia brandelli di te. – minacciò incollerita puntandogli un dito in petto.
Ridendo, Kevin le si avvicinò ancor di più: – sono qui, anche se è stato un caso fortunato, per porgerti le mie scuse, via. Non essere così aggressiva.
La giovane non volle ascoltarlo, sentendo riaprirsi la ferita da egli lasciatale la sera prima.
– Dove dormirai, oggi? In un albergo di lusso? – la canzonò il giovane girandole attorno mentre la ragazza aveva ripreso a camminare intenta a scrollarselo di dosso.
– Non è affar tuo – lo liquidò ella aumentando la velocità delle falcate.
– Dai, perdonami. Infondo sei abituata a sopportare idioti come me.
Sienna non ci vide più.
– Sì, sei un idiota! Un maledetto idiota! Che vuoi da me?! Non mi hai forse preso in giro abbastanza?! Va a mettere le mani addosso alla tua ragazza!
Kevin mosse un passo in avanti: – non prenderla così a male! In quel momento stavo…scherzando!
– Tu…scherzavi…? – sussurrò flebile la giovane abbassando il volto.
Improvvisamente venne assalita dai ricordi e si sentì morire. Senza muoversi d’un millimetro brusì: –  “sei così palesemente inutile e vuota che mi fai venire voglia di scherzare anche quando dico che sei una ragazza, Butcher!”… “fai così pena che probabilmente scherzavo anche quando ti ho detto che ti consideravo una da una notte! Forse sei alla pari di una prostituta! Ma aspetta…non è forse quello che sei?”… “Zia…mi vuoi bene?”, “Certo.”, “Davvero?”, “No, sparisci dalla mia vista, non facevo che scherzare.”…
– Che stai dicendo? – domandò Levin basito.
Sienna si sentì riempire gli occhi di lacrime di dolore. Kevin le sollevò il mento ed ella si scansò urlando: – maledizione! Piangere era l’ultima cosa che avrei dovuto fare! – si lamentò abbassando lo sguardo strozzata dalla rabbia e dal rancore.
Kevin tacque lasciandola andare, quasi spaventato. 
– Io lo so! Lo so benissimo quello che sono stata! Ho cercato di cambiare, di diventare migliore! E nonostante questo non riesco ad esserlo davvero, non ci riesco proprio! E no, non mi piaceva fare la prostituta per pagarmi da mangiare! No, non mi piaceva spacciare la cocaina con cui voi imbecilli vi drogavate! Ma che altro potevo fare?! Dimmelo tu se ti credi tanto migliore da perseguitarmi ricordandomi così impietosamente lo scempio che sono stata! – gridò Sienna col fiato corto per lo sforzo immane cui si era sottoposta, cavandosi di corpo tutte le energie che avesse pur di sfogarsi.
– Sono stata una persona mediocre, squallida, che non ha mai ricevuto un briciolo d’affetto da nessuno! Nessuno mi può insegnare come vivere la mia vita, nemmeno tu con le tue stupide fandonie da perbenista! Ho fatto il viaggio in autostop per trascinarmi fino a qui, ho marinato la scuola per questo, ho con me solo un cambio o poco più, non ho un soldo eppure ho voluto promettermi di ricominciare e darmi una regolata perché mi faccio schifo! Dì! Li vuoi tu, questi polsi?! Le vuoi tu queste ossa?! Questi polmoni neri di tabacco e queste membra insozzate dalla cocaina?! A meno che tu già non le abbia, non sarei che felice a lasciarti tutto questo ciarpame! Il mio corpo è paccottiglia, ed ancora ti burli di me, senza nemmeno il rispetto per un’anima sventrata dalla sofferenza qual’io sono, e tu lo sai!
Kevin Levin non seppe ribattere. Aveva tentato di fare il gran filosofo di vita con lei, il giorno prima. E solo ora notificava di avere fatto la figura del completo cretino.
– Vuoi una sigaretta? – domandò Kevin con un filo di voce.
Gli occhi di Sienna si ingigantirono. Prese fiato e sibilò:– allora non capisci…non ci arrivi! – sbottò divorata dalla collera.
– Ma…pensavo ti avesse potuto dare una mano a rilassarti.
Butcher si raccolse il capo tra le mani indolenzite dal freddo:– No che non la voglio! E non voglio nemmeno te! Levati di torno, drogato del cazzo! Lasciami morire qui dove sono, non lo voglio il tuo aiuto, non voglio il tuo alloggio, a questo segno neanche la tua pena! –  Sienna quasi soffocò, poi aggiunse – Muori, muori! Muori come è morta mia madre, sparisci anche tu dalla mia vita e lasciami crepare sola come un cane!
Il ragazzo rimase zitto e la osservò cadere ai piedi del marciapiede di asfalto. Accomodando la giacca di pelle nera sfilò di tasca interna un pacchetto nuovo di sigarette. Ne mise una in bocca, poi ne lasciò scivolare un’altra a terra.
– Favorisci, se ti pare. Altrimenti fa a tuo comodo.
– Ho sprecato fiato per nulla con te – si lamentò affranta Sienna tra un sospiro e l’altro.
– Butcher: io c’ero. Ti vedevo. Io so. Hai sprecato fiato, sì. Sapevo già tutto. Ti osservavo…barcollare su tacchi improbabili e fumare sigarette una dopo l’altra. Ti osservavo e vedevo Tizio o Caio portarti a letto. Io…so, purtroppo.
Sienna rimase zitta. Doveva recuperare aria.
– Faccio più schifo di te, sai? Non riesco a smettere, di essere così idiota, – aggiunse il giovane Levin – ma ho rinunciato all’idea di cambiare in meglio perché mi rendo perfettamente conto, nei pochi momenti in cui sono lucido, che non ne sarei capace. Ti ho detto un mare di stronzate, ieri. Sono un imbecille che fuma cocaina e che si porta a letto la prima che gli si offre calpestando i sentimenti della propria ragazza. E che beve. Non ho il diritto di giudicare te. Mi accontento di aver gettato la mia vita in questa maniera.
– Hai solo diciassette anni, Levin.
– Non ha importanza. Mi sento debole come un vecchio malato; fumo, bevo, mi drogo…cosa pensi che sia il mio corpo? Un catorcio come il tuo, forse, anzi di per certo, peggio. Probabilmente io ti ammiro. Ti spingi a renderti migliore, io non ci riesco, anzi, ci rinuncio senza nemmeno tentare. Eppure te lo dico: se ti va, vieni a stare da me. Sai più o meno quello che ti spetterebbe, ubriaco o drogato non sono un granché, a livello umano, però…la mia proposta…valutala. Ricorda che siamo sulla stessa barca.
Sienna evitò di rispondere.
– E poi – aggiunse Kevin facendo per andarsene – devo proprio ammetterlo. Io ci sono ancora dentro. E se vuoi la verità, non mi frenerò nel trascinarti con me. Mi è stato dato come compito. E devo ubbidire, perché ho bisogno di soldi.
Muovendo lunghe falcate, la salutò: – ci si vede in giro. Pensa bene a quello che ti ho detto.
E Sienna rimase sola, china su se stessa al bordo della strada con gli occhi rossi di pianto. E un dolore immenso a soffocarla cingendole il collo senza pietà alcuna. Strinse tra le dita il pacchettino rosso che aveva ancora in tasca.
– Perché…? Perché volete ancora me?
 
Ben si alzò dalla panchina dopo mezz’ora buona passata a trastullarsi, a sbuffare e a dar forma a nuvolette di fiato candido. Diede un’occhiata all’orologio di acciaio che si ergeva al centro del parco. Sin da piccolo, trovava quella sorta di ornamento cittadino qualcosa di sinceramente accattivante. Anziché cifre arabe v’albergavano numeri romani incisi su base di marmo, il tutto raccolto in un quadrante sferico elevato tanto in alto da un asta di metallo scuro. Magari aveva un’aria vagamente retrò, o forse era semplicemente un orologio qualsiasi, ma Ben lo ricordava come uno dei migliori portavoce degli istanti più belli della sua infanzia, passata con nonno Max a bighellonare e correre qui e la tra le stradelle sassose del Bellwood Park. Ed anche con Gwen, ammise tra sé incupendo lo sguardo nell’osservare lo scorrere delle lancette scure. Si erano fatte le tre e mezzo del pomeriggio.
– E pensare che per almeno trenta minuti buoni ero riuscito a dimenticarmene.
Borbottando annoiato mosse qualche passo verso il cuore della città.
 
Gwen cominciò a respirare più profondamente, recuperando un grano di forze. All’improvviso un’ aroma fresco di ciliegia –  sicuramente derivante dalla profumazione del bagnoschiuma e molto più intenso di quello avvertito precedentemente –  salì sino alle proprie narici, inoltrandolesi sornione in ogni dove del corpo. Aperte piano le palpebre, Gwen sentì di star rievocando qualcosa. I suoi occhi si persero nei giochi di schiuma dell’acqua, ora ammansita dopo il suo tanto dimenarsi e sporca di lei, della sua collera. Le sembrò di rivedere un episodio, una sorta di reminiscenza frammentaria a confondersi tra le pieghe della memoria. Assottigliò lo sguardo.
– Una…ciliegia – sussurrò rinvenendo spaesata.
Gwen si rattrappì a bordo della vasca.
Canticchiò flebilmente:– La petite Cerise…ma petite Cerise…et ma Fraise…ils sont tous mes amis…
 
Sienna alzò il capo, dopo pressoché venti minuti passati a raccoglierlo disperatamente tra le mani. Non v’era passante che circolandole accanto non la guardasse in maniera strana o sospettosa ma ad ella la cosa non interessava minimamente. Anzi, nemmeno la indispettiva, preferiva ignorare tutti nella maniera più assoluta possibile, lasciandosi trascinare dalla propria sofferenza.
Un tuffo così doloroso nel passato la aveva distrutta. In quei venti minuti le era tornata alla mente una gran quantità di rimembranze, nemmeno una un briciolo felice. Od anzi sì, a dirla tutta. Il volto di Ben Tennyson si era insinuato tra i suoi lugubri ricordi, portando un po’ di luce in quel buio devastante. La sua cara Cerise. Sienna sorrise dolcemente guardando il cielo con occhi arrossati. Ah, quanto dolce e felice era stata quella gaia infanzia trascorsa con i cugini Tennyson nella gradevole Bellwood. Sienna deglutì evitandosi un singhiozzo. L’ennesimo. E poi, era colato tutto a picco, si disse mesta.
Lo sguardo le cadde poco lontano, laddove giaceva la sigaretta lanciatale da Kevin, rotolata tra il fango e i sassolini dissestatisi dall’asfalto. Allungò una mano.
Non fumava da…tre settimane? Probabilmente. Osservò la sigaretta, ne percorse la forma con sguardo caliginoso, ne annusò l’odore forte di tabacco, che la pervase. Ventuno giorni prima si era promessa che avrebbe smesso. Sentì di star rivivendo quei momenti del passato la cui memoria la uccideva giorno dopo giorno.
– Chissà se Ben fuma…? – sussurrò piano senza staccare gli occhi dal filtro, come sotto ipnosi.
– No…impossibile. – aggiunse dopo un po’.
Mormorò con voce fioca: – perché lui è un bravo ragazzo.
Introdusse una mano nel taschino interno del cappotto. Ne sfilò un accendino.
Messa in bocca la sigaretta biascicò: –…lui è bravo e buono…
E proteggendo la fiamma con la mano l’accese.
– Ed io sono una puttana.
 
Ben si accorse che si era effettivamente fatto un po’ tardi. Dopo aver abbandonato il parco di Bellwood aveva vagabondato alla cieca per la città e le ore erano passate senza che se ne accorgesse. Si decise a rincasare.
– Già, rincasare – si disse Ben ad alta voce.
– Ma in quale casa? – aggiunse cinico.
Notificò di stare visitando una parte di Bellwood nella quale mai prima d’ora era stato, abbastanza lontana da casa propria. Diede dunque un’occhiata nei dintorni.  Notò all’improvviso un piccolo negozio di frutta e verdura, a livello architettonico dall’aria antica. Si lasciò scappare un lievissimo sorriso, osservando la merce esposta aldilà della vetrina lucida, curata ed organizzata in maniera impeccabile ed incredibilmente deliziosa. Decise di entrare.
 
Gwen si alzò, s’avvolse nell’accappatoio di spugna e si asciugò con cautela, sedendo in quanto avvertì il capo vorticare. Stesa a fatica la crema idratante, vestitasi ed accomodati i capelli alla meno peggio, decise che avrebbe fatto meglio a darsi una mossa e scendere al pianterreno. Aveva già quasi scordato la canzoncina che stava canticchiando con voce sottile pochi istanti prima, sebbene le fosse parso, per un breve lasso di tempo, di conoscerla alla perfezione. Ma non volle soffermarsi troppo a mulinare, in quanto il capo pareva starla minacciando di scoppiarle d’un istante all’altro.
Scese le scale con aria stanca, si strofinò il volto, trascinò le gambe dietro sé.
Decise che stendersi sul divano non sarebbe stata un’idea poi tanto malvagia e dunque, con aria un poco stordita, vi si accoccolò. Fu invasa da un fitto sciame di pensieri.
Guardò l’orologio. Ben mancava da ore, ormai. Si sentì indosso un misto attaccaticcio di preoccupazione e noncuranza. Non poté però fare a meno di guardare fuori dalla finestra. La mancanza di Ben la suggestionava forse un po’ troppo. Avrebbe benissimo potuto fregarsene, per quanto le importava. Ed invece si sentiva in terribile apprensione.
Chiuse gli occhi, li strinse forte sperando che a quel segno ogni brutto sentore svanisse. Ma così non fu. Si sentì costretta a riaprirli, seppur con amarezza. Lasciò correre le dita sulla fodera lucida di pelle del divano. Riprese a riflettere, ma questa volta raggranellando i ricordi, che presero a danzare formando una spirale infinita.
“ Siete pur sempre degli adolescenti”.
A Gwen tornarono alla mente quelle parole. Forse avrebbe fatto meglio a considerare quegli sciocchi sentori solo un ammasso indistinto di melma sentimentale, tipica dell’adolescenza. Ben era suo cugino, punto e basta. Non era particolarmente carino, era un grande incapace, seguiva un’alimentazione ed uno stile di vita sregolati, non aveva norme da rispettare, molte volte si comportava con troppa boria e si lavava poco – o perlomeno, circa quest’ultimo ambito, quella era l’impressione di Gwen. In poche parole, era un gomitolo intrecciato di difetti,uno peggiore degli altri. Dopo aver tratto tali conclusioni, quasi le parve di vedere uno spiraglio di luce.
Mugugnò:– Ho ben altri problemi che pensare a quell’idiota.
Vide improvvisamente il volto di sua madre comparirle in mente. Rimase zitta per un attimo, poi si alzò in piedi sentendo il capo vorticare e gli occhi bruciarle. Prese in mano la cornetta lucida del telefono fisso.
 
Sienna aveva fame. Se n’era accorta quando aveva smesso di fumare quella maledetta sigaretta. Si alzò in piedi e si frugò in tasca, cacciandovi le mani anche per il gran freddo. Le rimanevano una decina di dollari.
– Oh, meraviglioso! – si lamentò cinica abbassando il capo.
Spostando le dita si accorse di stare sfiorando una superficie di metallo. Estrasse di tasca la chiave che aveva sottratto dall’appartamento di Kevin Levin quel mattino prima di sparirsene. La osservò cautamente. Poi la ricacciò da laddove l’aveva estratta.
– Preferisco patire la fame e morire di gelo sotto un ponte.
Tossendo, prese a camminare, stringendo forte tra le dita quei suoi ultimi dieci dollari.
 
Il cellulare di Lily Tennyson prese a trillare, allorché rispose flemme: – Lily Tennyson.
– Mamma.
– Oh! Gwen! Perché mai mi chiami, è capitato qualcosa? Lo sai che le telefonate internazionali costano abbastanza,no?
Gwen rispose: – temevo per te. Non ti ha fatto nulla, vero?
Lily ammutolì. Fissò Frank di sottecchi e mormorò: – no, non aver paura.
– Non mi fido.
Lily sorrise mestamente: – te lo giuro. È piuttosto quieto, a dire il vero. Vuoi…che te lo passi?
– Affatto.
La madre di Gwen gelò. Anche se, infondo, comprese.
– Non me ne importa nulla, che se ne rimanga laddove se n’è andato.
Lily abbassò lo sguardo.
– A me basta sapere – aggiunse Gwen – che tu stia bene. Avevo uno strano sentore.
– Va tutto bene, Gwen.
– Ne sei sicura? Per davvero?
La porta di casa Tennyson si aprì e ne comparve Ben.
Gwen si affrettò: – ti richiamerò. A presto.
Lily salutò la figlia: – ciao, Gwen. Mi raccomando, non stare in apprensione e bada a guarire.
Gwen rispose: – e sia.
Ripose la cornetta sospirando.
Ben chiese: – chi era?
– La nostra compagna di classe Susan Connor – mentì Gwen.
– Che diavolo voleva quell’oca? – domandò Ben poggiando un sacchetto di carta ricolmo sul tavolo.
– Non voleva nulla.
Ben fece spallucce e tolse la giacca. Gwen si vergognò di aver mentito. Ma non del fatto di aver chiamato la madre; piuttosto non voleva che Ben ficcanasasse negli affari della sua famiglia. Sentì una stretta al cuore. Era forse troppo egoista da rifiutare così preventivamente di farsi aiutare?
Ben le si parò davanti.
– Gwen. Scusami. Sono un idiota.
La ragazza rimase totalmente spiazzata.
– No. – lo interruppe allora – l’idiota sono io. Sono maledettamente immatura.
Ben dunque sorrise: – dici che resistiamo qualche ora senza litigare?
Gwen sorrise: – direi che si può fare.
– Hai fame? – le chiese Ben afferrando il grembiule della zia appeso ad una gruccia accanto la dispensa.
– Un po’…–  ammise Gwen.
– Allora siedi. – le intimò Ben.
Gwen sgranò gli occhi: – perché mai, se mi è lecito?
 – Ho pensato che avrei perlomeno dovuto ringraziare per l’ospitalità preparando la cena. E magari cucinando anche qualcosa di salutare per te, cugina.
La ragazza sentì un tumulto.
– Hai fatto la spesa per me? Ma…
Ben si voltò con il grembiule indosso: – taci – le sorrise con aria particolarmente malandrina.
– Sei ridicolo con quella roba addosso! – rise Gwen additandolo.
– Sarà, ma voglio proprio vedere cosa dirai quando avrò finito!
– Perdonami ma...almeno…sai cucinare? – lo interrogò corrugando la fronte Gwen.
Aggiunse: – non voglio morire giovane!
– Sta zitta, grande chef dei miei calli – la rimbeccò Ben mostrandole la lingua.
– Che orrore! – ribatté schifata Gwen.
– Dì – la ignorò Ben – ti piace il porro?
Gwen ci pensò su come a cercar di rammentarne il sapore, poi gli rispose: – direi di sì.
– Molto bene.
Ben salì le scale: – non toccare nulla in mia assenza.
– E perché mai? – chiese Gwen quasi ferita nell’orgoglio.
– Perché sei malaticcia e infetteresti questi lindi doni di Madre Natura. – ridacchiò Ben sparendo in bagno.
– Ehi! Dove vai? – strillò Gwen tossicchiando.
– Me le laverò pure le mani, o no?! – ribatté Ben stizzito.
Gwen si fermò a riflettere. Solo poco prima si era detta che era poco dedito all’igiene personale ed ora…le pareva di doversi evidentemente ricredere.
Poco dopo Ben tornò al piano di sotto lindo e pulito. Si portò nei pressi del lavandino e chiese: – dove tenete le terrine?
Gwen si morse un labbro meditabonda: – guarda alla tua sinistra, nell’anta centrale. Dovrebbero essere impilate assieme ai piatti.
Ben controllò. Estrasse una terrina di plastica blu e vi rovesciò dentro delle patate e dei porri, il tutto pervenuto dalla busta di carta posta sulla tavola. Procedette azionando il rubinetto ed inondando d’acqua il contenitore. Si voltò: – hai del bicarbonato?
– Suppongo sia in dispensa.
Nell’afferrare un cartoccio di bicarbonato e nel versarne una cucchiaiata nella terrina, Ben attaccò:– è bene che tu sappia, cara cugina, che vi sono alcuni ortaggi, quelli invernali, per l’appunto, che proteggono la propria struttura vegetale contro le scarse temperature, in modo da resistere alla diminuzione della luce del sole e superare le variazioni del clima tipiche di questa stagione. – spiegò con aria dolcemente saccente.
Gwen non riuscì ad irritarsi per tanta alterigia ,un po’ per stanchezza un po’ per affaticamento da malattia. Ma borbottò: – come fai ad essere così esperto in campi simili se a scuola sei un allievo mediocre?
Ben scosse il capo delicatamente:– Gwen…devi toglierti dalla testa il fatto che la scuola sia la principale componente di una vita. Sì, sono uno studente mediocre. E allora? Non mi insegnano a scuola a cucinare, l’ho imparato da solo. So queste cose un po’ per le fissazioni in campo di alimenti biologici e prodotti naturali di mia madre un po’ perché mi diverto. Non credo proprio che quello che siamo lo dobbiamo proprio tutto alla scuola, sai.
Gwen rimase lievemente colpita da tali parole.
Dopo una decina di minuti, Ben scolò il porro. Poi domandò guardandosi intorno con aria smarrita.:– Non ricordo…dove sono le padelle?
– Secondo scompartimento a destra – rispose Gwen alzandosi claudicante da tavola.
Il ragazzo ne estrasse una abbastanza capiente e, una volta aver sbucciato dell’aglio, lo versò con il porro all’interno del recipiente metallico, accendendo la fiamma del fornello sicché raggiungesse una media espansione.
– Cosa fai ora? – domandò Gwen incuriosita, fissando la scena un poco attonita.
– Imbiondisco il tutto aiutandomi con l’aggiunta di un po’ d’olio. Una quantità modica, così non ingrassi come una balena! – rise Ben canzonando la cugina.
Gwen tirò fuori la lingua e, con espressione cinica, borbottò: – davvero molto simpatico, cugino.
Ben non le prestò attenzione preferendo darsi da fare con le patate, che cominciò a pelare dopo averle estratte dalla terrina di plastica nella quale le aveva messe a lavare.
– In merito a quel che dicevi…in tutti questi anni ho sempre pensato tu fossi un perfetto imbranato, ai fornelli, sai cugino? – asserì Gwen osservandolo come catturata.
Il giovane ribatté: – non ci siamo frequentati in maniera così approfondita perché tu te ne potessi accertare, cugina.
La ragazza tacque, un po’ imbarazzata.
Ben tagliò a cubetti ogni patata ricordandosi periodicamente di controllare lo stato di porri ed aglio. Ci volle qualche minuto perché s’ammorbidissero al punto giusto per potervi aggiungere anche le patate, del rosmarino ed il brodo che Ben aveva chiamato “vegetale”.
Improvvisamente Ben si rivolse a Gwen, ammutolita per lo stupore ed un briciolo di vergogna residua dalla figura di poco prima:– Il mixer…?
– Oh, ehm…dovrebbe essere nello scomparto accanto alla dispensa.
– Infatti. – confermò Ben estraendo l’oggetto con cura da parte sua definibile persino sospetta.
Posato sul piano lucido, Tennyson si accertò che si fossero ammorbiditi anche i tuberi. Allorché trasferì il composto nel mixer, poi azionandolo.
Gwen ne rimase ammirata. Quello che Ben ottenne fu un variegato morbido, una crema invitante ed omogenea alla quale egli, una volta riportatala in pentola, aggiunse un paio di foglie di salvia e un pizzico di sale e pepe, questi ultimi trovati accanto al fornello negli appositi spargitori.
Coprì dunque la pentola con il coperchio debito ed attese, approfittandone per raccogliere l’umido prodotto e svuotarlo nel cestino apposito. Successivamente si mise ad affettare del pane che estrasse dalla dispensa (molto probabilmente trovato per puro caso).
A quel punto incoraggiò la cugina :– Prepara almeno la tavola, Gwen.
La ragazza sbuffò ma ubbidì.
Ben cominciò a riflettere. Forse non avrebbe dovuto farla sforzare, ma infondo un po’ ci stava godendo. Le diede un’occhiatina furtiva. Notò che, sebbene stesse visibilmente male e fosse altrettanto spossata, Gwen si impegnò al massimo persino per compiere un’azione di importanza sommaria come quella. Ed appunto, in breve Gwen stese la tovaglia ed apparecchiò in maniera al solito impeccabile. Dunque sedette, quasi sfinita.
Tornando a se, Ben estrasse una padella antiaderente e, posizionatala su un nuovo fornello, vi fece scivolare i quadretti di pane appena tagliati. Tornò alle verdure e mescolò delicatamente con un cucchiaio di legno che poco prima se ne stava appeso accanto la saliera. Riposizionato il coperchio si accertò anche che il pane stesse tostando. In quanto così evidentemente era, aggiunse una modica quantità di olio e dell’origano.
Gwen chiese timidamente: – ti serve una mano?
Ben scosse la testa: – no, hai fatto abbastanza – e le sorrise leggermente, riprendendo a dare attenzione alle varie padelle.
La ragazza si arrese e si abbandonò sul divano poco lontano avvertendo: – ti dispiace se me ne resto qui? Mi gira la testa.
– Ti chiamerò poi. – asserì Ben.
Passati dieci minuti il ragazzo versò la vellutata in una fondina e ripose i crostini in una piccola terrina di ceramica ricoperta da carta per fritti.
– Gwen, muoviti. – Ben avvertì la cugina come promesso, la quale si alzò e sedette a tavola.
– Ecco a te, – annunciò Ben servendo a Gwen il piatto fumante – hai davanti una spettacolare vellutata di porri e patate alla Tennyson. Con tanto di crostini tostati con olio e origano. Buon appetito.
– Accidenti sembra anche buono…! – ammise Gwen sgranando gli occhi.
Ben ridacchiò ringalluzzito e prese tra le mani una bottiglia d’acqua. Versatosene un po’ disse:– mangia o si raffredda.
Gwen infilò in bocca una cucchiaiata di vellutata.
– Oh, diamine. Quanto ti odio Ben.
 
Continua!
   
 
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