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Autore: Sylphs    28/07/2012    5 recensioni
I Lawrence, antica, ricchissima e corrotta famiglia svedese, si sono macchiati di innumerevoli peccati, il peggiore dei quali è stato l'imprigionamento del figlio quartogenito Raphael, trasformato in un mostro da un patto stretto dal padre e per questo nascosto al mondo. Quindici anni dopo che ha ucciso il genitore e il terzo fratello, fa ritorno alla dimora di famiglia per vendicarsi definitivamente e pretendere di essere riconosciuto e, a questo scopo, rapisce la fidanzata dell'unico fratello rimasto in vita, Jesper, ricattandolo con la vita di lei. Ma Jesper, alleatosi con la cognata Christine, ha bisogno della ragazza per motivi ben più oscuri di un semplice matrimonio, motivi legati al passato, ed è deciso a riprendersela, mentre lei e Raphael si scoprono più complici di quanto credessero e una bambina coraggiosa decide di indagare.
Sequel della mia storia "Follia d'amore e d'oscurità", ispirata al celebre romanzo "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux.
Genere: Dark, Mistero, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Amore di sangue'
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Capitolo 3
 

 
 
 
 
 
Il tepore dei tenui raggi del sole pomeridiano illuminava la stanza, dove Erin sedeva china, i lunghi capelli scarmigliati che le scendevano in una cascata chiarissima sulle spalle. Il viso era nascosto dalla massa della capigliatura, ma si intuiva una smorfia d’ansia su quelle guance piene. I piedi della bambina non arrivavano a toccare il pavimento, ma ciondolavano mollemente a mezz’aria. Un rumore improvviso la spinse ad alzare il capo, e il suo sguardo trepidante e speranzoso si volse di scatto verso la sontuosa porta dalla quale Harriet era appena entrata: “Papà è tornato?”
La giovane osservò il visetto pieno di aspettativa, lo scintillio che era brillato nei grandi occhi azzurri e non riuscì a nascondere il dispiacere: “No, Erin, mi spiace”.
La bimba abbassò nuovamente la testa, e i piedini, che fino ad allora si erano mossi convulsamente, si fermarono.
“Aveva detto che sarebbe venuto. L’aveva promesso! Tornerò in tempo per la festa di Halloween, così aveva detto…come mai non è qui?”
Harriet non sapeva bene cosa rispondere. Jonas era un padre severo e autoritario, ma a differenza di Christine, per la quale la figlia avrebbe potuto anche non esistere, aveva preso a cuore la sua educazione e le era stato spesso accanto, facendole regali e portandola a passeggiare sulla spiaggia o nelle brughiere. Erin gli era molto affezionata e questa sua improvvisa assenza rovinava completamente l’allegria per il ricevimento ormai prossimo. In effetti, non era da Jonas tardare così tanto: aveva provato a chiamarlo due volte ma aveva sempre il cellulare spento.
“Il suo aereo avrà fatto tardi, tesoro” le disse gentilmente, sedendo accanto a lei sul divanetto foderato di velluto verde e tentando di ravviarle la bionda chioma ingarbugliata: “Tu, piuttosto, dovresti iniziare a prepararti per la festa”.
“Non ne ho voglia” ribatté Erin imbronciata.
“Ma come? Non stavi nella pelle!”
“Mi annoierò di sicuro. Non conosco nessuno degli invitati. E poi…” le manine paffute tormentarono nervosamente la stoffa dell’abito rosa indossato dalla piccola (Jonas aveva la mania di abbigliarla come una bambola di porcellana e il suo guardaroba pareva concepito per una Barbie): “Non ho neanche un amico”.
Ci credo, pensò Harriet con una smorfia. Studiare da privatista, con la sola compagnia di un austero professore, non forniva molte opportunità di allargare le proprie conoscenze. Però sorrise scanzonata: “Incontrare nuova gente serve proprio a questo, Erin. Sono sicura che ti farai tantissimi amici alla festa”.
La bimba arrossì leggermente e distolse il viso, nascondendosi dietro ai capelli sciolti: “Io…non saprei cosa dire. Gli altri bambini mi mettono a disagio. Sono così allegri e vivaci e io invece…sto sempre zitta”.
Sì, in effetti Erin non somigliava affatto ai suoi coetanei. Parlava, si muoveva e perfino guardava in maniera molto più matura e intenta, ed era dotata di un’intelligenza precoce, la quale obbligatoriamente la condannava ad un ricorrente isolamento. Anche Harriet aveva accusato problemi simili, ma più nell’adolescenza che nell’infanzia, il suo carattere riflessivo e silenzioso, il suo lessico ricercato, spesso persino la sua incapacità di far fronte alle battute malevole e di difendersi l’avevano resa un’estranea agli occhi dei suoi coetanei ed era stata profondamente sola, circondata da poche amiche a lei simili e da centinaia di libri di ogni genere. A volte avrebbe desiderato essere come Hannah, tormentata da problemi e preoccupazioni estremamente più futili dei suoi ma, in un certo senso, felice nella sua superficialità. Si era lasciata alle spalle la quattordicenne con l’apparecchio ai denti e l’inossidabile sorriso dietro cui covava in silenzio insicurezze e rancori…ma adesso stava per sposare un bastardo innamorato di se stesso. Beh, era inutile commiserarsi, le cose non sarebbero cambiate. Il Principe Azzurro che ogni donna sognava d’incontrare non l’aveva salvata allora e non l’avrebbe salvata adesso. Era troppo disincantata per credere alle favole.
“Non sono tutti dei chiacchieroni” rassicurò Erin: “Conoscerai persone sensibili quanto te. Potresti portarli in camera tua, se vi annoiate troppo, e fargli vedere uno dei tuoi dvd…mi pare che te ne sia arrivato uno nuovo dalla Francia pochi giorni fa, giusto?”
La bambina si risollevò un po’ e accennò un sorriso: “Sì, si intitola . È bellissimo!”
“E di che cosa parla?” le domandò Harriet, intuendo di aver trovato un argomento che la distraesse dal dispiacere per l’assenza paterna. Erin era dotata di una fervida fantasia, che si manifestava nei suoi disegni e nei piccoli racconti che scriveva e che le faceva leggere, e amava moltissimo guardare film e ascoltare storie. Aveva appositamente scritto un brano per Christine in occasione del suo ultimo compleanno, chiudendosi a chiave in stanza e dedicandosi al lavoro cuore e anima, arricchendo le tre pagine riempite con la sua miglior calligrafia di ghirigori e cornici, e tutto quello che la madre aveva esclamato a lettura conclusa era stato: “Suvvia, Erin, non è certo farina del tuo sacco! Ammettilo che hai scopiazzato da Dickens!”
La bimba aveva reagito con una risatina forzata, ma Harriet, dopo il ricevimento, l’aveva sentita piangere rabbiosamente nella sua cameretta.
“Parla di un inventore e di un proiezionista parigini che accidentalmente, nel corso di una visita all’orto botanico, ingrandiscono una pulce e la trasformano in un mostro alto due metri” si lanciò eccitata ed entusiasta: “Tutta Parigi cade nel panico più assoluto e il presidente avvia una terribile caccia al mostro, ma lui in realtà è buono e gentile e ha un grandissimo dono per la musica. Una notte capita per caso al cabaret dove si esibisce Lucille, una fanciulla bellissima con una voce stupenda, e lei lo sente cantare la sua vita triste e solitaria, capisce che non è affatto il mostro di cui parlano i giornali e lo accoglie nel suo camerino. Lui si innamora di lei, riescono a liberarsi del presidente e vivono felici e contenti nel teatro dove si esibiscono insieme!”
“È veramente carino e originale” commentò Harriet, sincera: “Sono sicura che le altre bambine non lo conoscono”.
“Ma io mi vergogno!” protestò Erin: “Loro vorranno vedere di sicuro una favola tipo Biancaneve o Cenerentola…e a me sono sempre state davvero antipatiche, così belle, dolci e perfette. Signorine gné gné”.
“Chi sarebbe una signorina gné gné?”
Harriet trasalì al suono di quella voce affascinante e gioviale e sollevò gli occhi di scatto verso la porta. Jesper entrò, con il suo solito sorriso accattivante sulle labbra, reggendo una scatola foderata di carta rossa, già vestito di tutto punto per la festa di Halloween. Un’aderentissima calzamaglia nera gli metteva in evidenza le gambe muscolose e…qualcos’altro…, uno splendido gilet rosso fuoco con ricami luccicanti gli fasciava il torace scolpito e a completare il tutto indossava un lungo mantello di seta scura col cappuccio, dalle maniche ampie come sacchi, che formava una pozzanghera ai suoi piedi. I capelli biondo scuri erano pettinati all’indietro col gel e il viso era ricoperto di biacca bianca, con ombre di kajal sotto gli occhi e le labbra sensualmente dipinte di un bordeaux violaceo. Lunghi canini finti spuntavano dal labbro superiore e affondavano in quello inferiore.
Un vampiro rimuginò la giovane, incapace, suo malgrado, di staccargli gli occhi di dosso, e quasi lo sembra davvero, con quel sorriso troppo largo.
Erin trattenne il respiro e saltò giù dal divanetto, correndogli incontro: “Caspita, zio, hai un costume stupendo!”  
Lui rise e la prese per la vita, sollevandola da terra e facendola volteggiare in aria: “Sta attenta, piccola. Sono un demone che odia la luce del sole e si nutre di bellissime bambine” finse di morderla sul collo e la bimba si dibatté, ridendo a crepapelle.
Harriet si alzò lentamente, ostentando un’espressione fredda e composta. Jesper mise giù Erin e si volse nella sua direzione, impigliando lo sguardo al suo e fissandola con curiosa intensità. Finora l’aveva sempre osservata con interesse moderato, come se fosse stata un oggetto raro e prezioso che intendeva aggiungere alla sua collezione e non un essere umano, la sua futura consorte, e spesso e volentieri aveva mostrato nei suoi confronti persino indifferenza, nonostante tendesse ad assicurarsi sempre che non l’aveva abbandonato. Adesso, invece, c’era una nuova luce in quegli occhi che sembravano ancor più grandi a causa dello spesso contorno nero. Non era lo sguardo di un uomo che si accorge di amare la fidanzata…non era neppure una passione improvvisa. Soltanto desiderio, forse? Il calore le affluì alle guance e alle orecchie quando una simile eventualità le attraversò la mente e comprese di esserne lusingata. Ma non voleva provare riconoscenza per la lussuria di un giovane che la tradiva senza sforzarsi di nasconderlo, solo perché l’aveva omaggiata di un’occhiata cupida.
“Ho trovato la maschera adatta a te, Harriet” disse infine il suo futuro marito, appoggiando sul pavimento la scatola rossa: “Voglio che tu sia bellissima stasera. Tutti devono vedere quanto è attraente mia moglie e invidiarci”.
Harriet fece una smorfia. E così si ricordava di lei solo per poterla esibire ai suoi amici? Per farsi bello ai loro occhi? Forse Ingrid e Christine avevano accettato un tale compromesso e si erano arrese al ruolo di ornamento del marito-padrone, ma non erano donne che brillavano per emancipazione. Ingrid era nata negli anni quaranta, quando la società era totalmente diversa da quella attuale, e Christine non poteva farsi tante pretese, dal momento che il matrimonio con Jonas era stato la sua salvezza. Lei, invece…
Io cosa? Sono esattamente come loro. Anch’io salverò me stessa e la mia famiglia grazie alle nozze con Jesper, anch’io devo compiacerlo, per non fargli cambiare idea.
Tirò fuori un sorriso stiracchiato: “Beh, sono ansiosa di vederla”.
Erin capì di doverli lasciare soli l’uno con l’altra e si ritirò con la discrezione che le era abituale, chiudendosi delicatamente l’uscio alle spalle. Essere indesiderata non era una novità, per lei: fin da quando riusciva a ricordare, era sempre rimasta sola davanti ad una porta chiusa a chiave, attendendo invano, per ore, che si aprisse per lasciarne emergere un sorriso affettuoso, uno sguardo di considerazione, quelle tre parole mai pronunciate: “Entra pure, Erin!”
Suo padre aveva adempiuto con coscienza ai suoi doveri di genitore, ma trascorreva la maggior parte del tempo all’estero per motivi personali e i periodi che avevano passato insieme erano stati assai più sporadici di quelli in cui non era a Lawrence Borg. E sua madre non le aveva mai voluto bene, nonostante avesse tentato in tutti i modi di essere buona e brava, di studiare e di non infastidirla con la sua presenza, di conquistarsi anche solo un’oncia del suo affetto. Christine sembrava cieca e sorda a quei tentativi disperati, probabilmente l’attenzione che le dedicava era troppo scarsa per permetterle di intuire l’immenso e desolato amore che la figlia provava per lei e la sua famelica brama dell’approvazione materna. La bambina considerava gli appartamenti della genitrice un sacro santuario e, quando vi passava davanti, veniva invasa dalla stessa reverenza che coglie il pellegrino giunto finalmente alla meta del suo lungo viaggio. Per lei Christine era bellissima e terribile, una divinità da adorare in silenzio e da cui non aspettarsi nulla se non qualche fugace rimprovero o qualche occhiata di fastidio misto ad astio, che la feriva pari ad una frustata. A volte aveva l’impressione che la madre rimpiangesse di averla messa al mondo. Ed era certamente colpa sua, del suo stupido carattere solitario e della sua immaginazione troppo fervida. Senz’altro Christine avrebbe preferito una figlia estroversa e vivace che prediligeva la vita all’aria aperta agli ambienti chiusi del castello.
Harriet era gentile con lei ed Erin le voleva molto bene, anche se la conosceva da poco. Spesso dentro di sé fingeva che fosse la sua sorella maggiore e che insieme condividessero il fardello dell’indifferenza di Christine. Ma lei aveva lo zio Jesper, mentre Erin era completamente sola, troppo impacciata per attaccare bottone con chicchessia. Le piaceva immaginare di essere qualcun altro, una bella principessa prigioniera in una fortezza che sarebbe stata salvata da una presenza buona e premurosa. Non uno di quegli stupidi allocchi alla Azzurro di “Shrek”, un uomo dolce e sensibile capace di apprezzarla per ciò che era e di assecondarla nei suoi passatempi. Magari ne sarebbero venuti due, uno per lei e uno per Harriet, e sarebbero vissute per sempre felici e contente.
Uscì nel vasto giardino che circondava Lawrence Borg, sollevando timorosamente la gonna per timore di sporcarla. Sua madre teneva tantissimo allo stato dei suoi abiti e andava su tutte le furie se le scopriva addosso una macchia o una sgualcitura. Tirava un venticello fresco e gli alti steli d’erba erano piegati di lato, un’ampia distesa smeraldina attraversata da sentieri ricoperti di ghiaia candida e da folte siepi, con qualche statua qua e là e un labirinto di arbusti in un angolo, ormai inutilizzato. Di solito Erin si sedeva sulla panchina di marmo sotto all’albero di pesco, avvolta in un vortice di fiori rosa, e giocava con le sue bambole, inventando fantastiche avventure. Quel giorno, però, la oltrepassò senza fermarsi e si avvicinò all’austero cancello che delimitava il perimetro della proprietà, cercando di non pensare alla festa che si avvicinava. Aveva uno splendido costume da strega ma lo avrebbe indossato principalmente per farsi ammirare da suo padre, e lui non c’era. Quindi l’idea del caos, della gente e delle occhiate le riusciva decisamente indigesta.
Alzando un attimo lo sguardo, avvistò una sagoma scura ferma davanti al cancello di ferro, avvolta in un soprabito che la nascondeva quasi completamente e con il viso celato da un cappello a tesa larga. Quel cappello...era così simile a…
“Papà!” la gioia la invase totalmente, riscaldandole il cuore e i sensi come una medicina benefica, e si lanciò in avanti con impeto da campionessa olimpica, dimentica del vestito e del rischio di rovinarselo sulla ghiaia scricchiolante. Non c’erano dubbi, quel cappello apparteneva a suo padre, lo avrebbe riconosciuto tra mille! Dunque aveva mantenuto la promessa, era tornato!
L’uomo oltre il cancello venne scosso da un lieve sussulto quando il richiamo felice della bambina risuonò per tutto il giardino e scrutò da dietro lo spesso copricapo quella figuretta minuscola che gli correva incontro a braccia aperte, i capelli biondi al vento e un sorriso pieno di sollievo sul visino sottile: “Sapevo che saresti…”
Le parole le morirono in gola e i suoi passi frenetici rallentarono tutto d’un colpo fino a cessare completamente. Nondimeno era giunta accanto alle sbarre d’acciaio e fissò, con un misto di delusione e di sconcerto, la sagoma in piedi di fronte a lei: “Tu non sei mio padre!”
Da lontano era stata tratta in inganno, ma ora vedeva chiaramente l’errore ingenuamente commesso. Jonas era un uomo di corporatura abbastanza massiccia, con le spalle larghe e l’ossatura solida, l’individuo che aveva scambiato per lui, invece, era magro e agile, alto di statura e con un fisico scattante. Inoltre, a differenza del primogenito di Hugo, biondo come Erin, costui aveva ciocche di capelli corvini che sfuggivano al cappello e gli spuntavano da dietro il collo, raccolti in una morbida coda. La bambina non riusciva a vedere nient’altro di lui a causa del fitto strato di indumenti e dei guanti in pelle nera che gli coprivano le mani. Ma era attratta soprattutto dal copricapo, e non si sentiva affatto a disagio, una cosa alquanto strana per lei: “Il tuo cappello è identico a quello di mio padre” disse con semplicità.
Lui portò una mano a toccarlo e le domandò, con una voce bassa e stranamente melodica: “Chi è tuo padre?”
“Jonas Lawrence” indicò l’imponente residenza: “Questo è il maniero di famiglia, Lawrence Borg. Io sono sua figlia Erin”.
L’uomo scrutò da dietro il cappello la bambina e il castello alle sue spalle, passandoli in rassegna varie volte, come se volesse imprimerseli a fondo nella mente. Il fatto che fosse pressoché invisibile gli dava un’aria inquietante ed enigmatica, ma Erin sottostò a quel muto esame senza problemi e lo osservò a sua volta con interesse, convenendo con se stessa che no, non l’aveva mai visto prima e no, non faceva parte degli invitati. Non sapeva bene per quale motivo ma quell’individuo le ispirava simpatia. Beh, era rinomato che tutti i tipi strani affascinassero Erin Lawrence: “Tu chi sei?” gli chiese, sinceramente incuriosita.
Non aveva la possibilità di guardarlo in faccia, ma ebbe l’impressione che sorridesse: “Puoi chiamarmi R” commentò con una punta di macabra ironia. Poi alluse al castello con un cenno del capo: “Dunque i Lawrence vivono ancora qui”.
La bimba annuì: “Adesso ci siamo soltanto io, mia madre, lo zio Jesper, la sua promessa sposa Harriet e le di lei madre e sorella”.
L’uomo chiamato R drizzò il capo di scatto: “Jesper sta per sposarsi?”
“Sì” Erin era gratificata dal suo interesse dal proprio nuovo ruolo di informatrice. Non era abituata ad essere trattata come una persona adulta: “Con una ragazza davvero molto simpatica. Stasera si festeggia Halloween tutti insieme”.
“La notte dei mostri…” ridacchiò R. Erin lo fece a sua volta, senza un motivo preciso. Però quell’uomo la divertiva. Aveva in sé una specie di lugubre umorismo e ogni volta che parlava con quella sua voce profonda e astuta, le veniva da ridere. Improvvisamente fu presa dal desiderio di guardarlo in faccia e allungò la manina attraverso le sbarre per togliergli il cappello, ma lui reagì con prontezza e l’afferrò per il polso, bloccandola. Si era mosso in maniera talmente fulminea che la bambina sussultò e lo fissò con i grandi occhi spalancati.
“Suvvia, piccola Erin Lawrence” sibilò l’uomo col cappello, aumentando la stretta sul polso magro: “Non fare la curiosa. Chi è curioso si caccia nei guai. La conosci la storia di Barbablù?”
Era ovvio che si aspettava una risposta negativa. Ma Erin ribatté, con tutta la sfrontatezza dei suoi cinque anni e con un tono piuttosto saccente: “Certo che la conosco, signor R. Non sono mica un’ignorante. Parla di quell’uomo vedovo di tantissime mogli che si risposa con una giovane e le vieta di andare nella sua stanza. Ma lei, quando il consorte è assente da casa, si fa vincere dalla curiosità e gli disobbedisce, scoprendo che nella famigerata stanza Barbablù tiene le teste decapitate di tutte le sue antiche coniugi, vittime del suo stesso errore”.
Lui tacque per qualche istante, senza lasciarle andare il polso. Erin soggiunse, per nulla spaventata da quella morsa: “A me personalmente piaceva come storia”.
R le domandò a bruciapelo, a metà tra il piccato e l’irriverente: “Tu desideri vedere il mio volto. Ma se sembrassi il Fantasma dell’Opera o un mostro del genere?”
Nuovamente la replica della bambina fu immediata e comicamente candida: “Mio padre mi ha portato a vedere il musical a Londra cinque mesi fa. L’ho adorato. E lui poi non era tanto brutto. Mi piaceva molto più di quell’insipidone prescelto da Christine alla fine. Speravo che cambiasse idea, ma è come mia madre…” un’improvvisa amarezza velò il viso di Erin: “Pensa alla bellezza esteriore”.
Probabilmente si sbagliava, ma le parve di aver colpito quel tipo strano dal bizzarro pseudonimo. Sarebbe stato troppo bello per essere vero. Di solito non osava mai parlare dei film o delle fiabe che conosceva perché le persone la guardavano in modo strano o mostravano un’assoluta mancanza di interesse, e finiva sempre per sentirsi stupida e anormale. Invece lui la stava a sentire per davvero. Come Harriet. L’emozione le fece luccicare gli occhi.
Lentamente, R le lasciò andare il polso. Erin agì con l’impulsività dei bambini e aprì il cancello dall’interno, un po’ affaticata dal peso di quelle vecchie sbarre di ferro. In fin dei conti Harriet non aveva tutti i torti, conoscere persone significava farsi nuovi amici, e non le importava che l’uomo col cappello fosse molto più grande di lei. Era sicuramente più interessante delle sciocche bimbette fronzoli e risatine che si sarebbero presentate quella sera, tutte rigorosamente iscritte a danza classica o a ginnastica ritmica e figlie di gente in vista: “Vuoi venire alla festa di Halloween? Io sono la nipote di Jesper, posso invitare chi voglio!” propose, con entusiasmo appena un po’ insicuro.
R restò un attimo in silenzio, poi si produsse nuovamente nella sua risata macabra e ironica: “Potrebbe essere interessante, in effetti”.
Se Erin avesse potuto scorgerlo senza la protezione del copricapo, avrebbe visto una smorfia di trionfo, eccitazione e vedetta pervadere la sua faccia martoriata dai peccati di un altro uomo. Ma il cappello era ampio e ben sistemato e il sorriso - se così si poteva chiamare – dell’ospite rimase senza echi. Tutta rapita da quell’inaspettata novità, la bambina lo prese audacemente per la mano guantata e lo tirò in direzione del portone d’ingresso: “So io quel che ti ci vuole! Mio padre aveva acquistato il suo costume per la festa ma sicuramente non verrà…” storse le labbra, ma scosse il capo, scacciando ogni pensiero triste: “Quindi penso che potrai metterlo tu! Lui è più grosso di te ma se lo stringiamo ti starà a pennello!”  
R si lasciò trascinare all’interno del palazzo dall’eccitatissima padroncina di casa e, al momento di oltrepassare il portone, passò le dita sulle vecchie mura in una rapida, rancorosa carezza.
Al quarto piano, stagliata contro il vetro della finestra, la figura pallida e livida di Christine Andersson, una macchia bianca circondata dal rosso della capigliatura, non aveva perso una sola mossa del colloquio appena manifestatosi nel giardino sottostante e le sue lunghe mani affusolate si torcevano incollerite sulla camicia da notte.
Sfuggente come un felino, lasciò che la pesante tenda di broccato ricadesse ad oscurare la visuale della sua stanza da letto e si ritirò dalla finestra.
 
“Sei perfetta, min karlek*” sussurrò Jesper all’orecchio di Harriet, le parole una carezza languida sulla sua pelle: “Assolutamente perfetta”.
La ragazza, rabbrividendo per il piacere nel percepire il fiato caldo del suo fidanzato che le scivolava giù per il collo, si contemplò immobile nel lungo specchio che aveva di fronte, la cornice lavorata in elaborati stucchi d’oro e di bronzo e la superficie talmente larga da riflettere sia lei che il giovane Lawrence, in piedi alle sue spalle nel suo costume da vampiro. Erano occorsi ben quarantacinque minuti perché la sua vestizione, compresa di trucco e parrucco, fosse completata e l’abilità della cameriera Hunrike e di un esperto estetista pagato profumatamente per prestare i suoi servigi alla celebre famiglia, ma il risultato era senza dubbio qualcosa di…straordinario. Jesper voleva davvero che desse il meglio di sé quella sera, era rimasto in attesa fuori dalla porta per tutto il tempo e aveva esaminato il lavoro concluso con un’attenzione quasi maniacale, un sorriso di compiacimento che lentamente gli si allargava sulle labbra e una luce possessiva negli occhi circondati da false borse scure.    
Harriet fissava l’immagine riflessa nello specchio e stentava a riconoscersi nella creatura esotica e affascinante che ricambiava il suo sguardo con un’espressione sorprendentemente composta. Era sempre andata in giro con ampi maglioni e jeans sformati e il trucco non le era mai piaciuto più di tanto, lo usava nelle occasioni importanti ma per il resto preferiva farne a meno, dal momento che aveva la fortuna di possedere una bella pelle e di non necessitare di cipria o fondotinta. Quella che aveva dinnanzi non aveva nulla in comune con la ragazza semplice, acqua e sapone, che era sempre stata, eppure, allo stesso tempo, era sempre lei, Harriet Ullmann.
L’abito, lungo fino ai piedi, era di una vibrante tonalità blu elettrico, la stoffa ricca e pesante coperta da uno strato di tulle impalpabile che scivolava come onde su una baia increspata sulle generose curve del suo corpo e le fasciava alla perfezione, rivelandole senza sembrare volgare e piovendo giù in guisa di una selvaggia cascata. Sul merletto esterno erano state applicate minuscole pietre verdi, nere, rosse e ambrate, un arcobaleno multicolore che le conferiva un’aura iridescente, e altri preziosi le adornavano le scarpe in tinta. Le maniche erano lunghe, aderenti alle braccia snelle, e terminavano con un ricamo di pizzo nero. I morbidi riccioli castano scuri erano stati acconciati in trecce sottilissime, che s’innestavano nelle ciocche più folte, le quali ricadevano sulle spalle e la schiena, facendo risaltare vistosamente il viso, il corpo e il vestito, e un diadema d’argento e di zaffiri le circondava il capo.
Ma l’opera più mirabile l’aveva certamente portata a compimento il truccatore: la faccia della giovane era stata divisa in due parti con precisione sopraffina e da un lato risaltava una falce di luna in perfetto accordo con l’occhio, il naso e le labbra, dall’altro un sole infuocato. Il risultato finale era selvaggio e ipnotico e le iridi sembravano più verdi e intense che mai, come se facessero parte della composizione. Aveva timore di muoversi, di guastare quella spaventosa perfezione, aveva addirittura timore di starnutire.
“La dea degli inferi, Persefone” commentò Jesper con voce vibrante, facendo scorrere le dita eleganti sulle spalle nude della giovane: “Per due stagioni vive nella luce al fianco della madre…” sfiorò il sole dipinto sul viso liscio: “E per due stagioni nel regno oscuro del marito” passò alla falce di luna. Chinò il capo sull’incavo del collo di Harriet, dov’era allacciata una catena d’argento che terminava in un grosso medaglione incastonato di una lucida pietra azzurra, e premette la bocca sulla pelle morbida e sensibile, strappandole un fremito di desiderio. Come incapace di staccarsi dalla creazione che lui stesso aveva ideato, le depose addosso una scia di baci ardenti che andavano dalla gola agli angoli delle labbra, attento a non rovinarle l’acconciatura e il trucco brillante. I canini finti le pungevano appena la carne.
Harriet socchiuse le palpebre e inarcò la schiena, cercando di resistere al fascino del suo fidanzato e all’atmosfera soporifera che li circondava. Sapeva perché lui si comportava così, perché all’improvviso pareva non volersi più separare da lei: era un amante e un seguace della bellezza pura ed esteriore, la ricercava con l’avidità di un cane affamato e desiderava farla sua, possederla, carpirla, e in quel momento lei ne faceva parte, era divenuta una creatura esotica e fascinosa che Jesper bramava così come avrebbe bramato una bambola a grandezza naturale. La sua visione dell’universo, delle donne, la disgustava profondamente, ma il corpo traditore la costringeva a restare immobile, a godere ancora un altro poco di quelle sensuali carezze, di quell’ardore, di quei baci infuocati sulla sua pelle nuda e piena di brividi. Lo amava? Non lo amava? O era semplicemente vittima dell’incantesimo che aveva irretito ogni donna che aveva posato gli occhi su di lui?
Jesper le posò le mani sul seno colmo e l’attirò più vicina: “Sei mia, Harriet” bisbigliò, possessivo, sfiorandole l’ovale del volto e facendole girare la testa nella sua direzione: “E sei bella…giovane…innocente. La mia dolce Persefone. Non permetterò a nessuno di portarti via…di rovinare tutto”.
C’era qualcosa di ambiguo in quelle parole, un significato nascosto, ma in quel momento premette le labbra sulle sue, rapendole in un bacio profondo e autentico, e la confusione della ragazza svanì, offuscata da quel contatto insopportabilmente intimo che finora egli non aveva mai cercato. Mai l’aveva baciata e mai aveva dato l’impressione di volerlo fare, con il tempo si era persuasa che il momento sarebbe giunto il giorno delle nozze, quando le avrebbe sollevato il velo e sarebbero risuonate le parole famose: “Puoi baciare la sposa!”
Quell’assalto la coglieva del tutto di sorpresa e non riuscì a difendersi. Non era la prima volta che le succedeva, c’erano stati altri giovani, altre storie, altri scambi di quel tipo, e mai nessuno l’aveva coinvolta più di tanto. Rimase immobile tra le braccia di Jesper, consapevole della delicatezza con cui la teneva stretta per non guastare la sua creazione (dunque lui non partecipava pienamente al bacio, se pensava ancora a simili cose) e semplicemente lo lasciò fare, senza rispondere e senza spingerlo via. La sua lingua era fredda ed esperta nella sua bocca e le sue carezze professionistiche…chissà quante volte aveva offerto quei piaceri ad altre donne e se lo aveva fatto con quella gelida abilità.
Tu non mi ami, pensò Harriet con disperazione, ribollendo di desiderio e di dispiacere ai baci del fidanzato, se mi amassi non mi baceresti in modo così impersonale.
Jesper si scostò, la guardò negli occhi verdi e angosciati, aggrottò la fronte magnificamente modellata e allungò una mano verso il suo viso. Come per magia il cuore della giovane accelerò i battiti e lo stomaco le si strinse per la tensione e l’aspettativa. Forse intendeva farle una carezza, una semplice, affettuosa carezza? Oh, se lo avesse fatto, se si fosse accontentato di un gesto tanto semplice dopo il bacio elaborato di prima, forse lei…
Le dita del giovanotto le sistemarono con fare infastidito una ciocca che era sfuggita alla complicata acconciatura e raddrizzarono il diadema: “Cerca di ballare con moderazione alla festa” borbottò: “Altrimenti disferai l’opera a metà serata”.
Le spalle di lei si incurvarono e abbassò lentamente il capo, detestandosi per il peso delle lacrime che premevano contro le palpebre. Non gli avrebbe dato una simile soddisfazione, non avrebbe pianto per lui. E poi probabilmente non si sarebbe dispiaciuto per lei quanto più per il trucco, che si sarebbe sciolto a causa delle lacrime.
Le offrì il braccio con affettata galanteria: “Vogliamo andare, mia bella Persefone?”
Non era affatto pronta ad affrontare le luci, la musica e il caos che sarebbe imperversato nel corso della festa, non con il sapore dei suoi baci estranei ancora sulle labbra. Ma non aveva scelta. Doveva mostrare carattere, sostenere gli sguardi che avrebbe attirato in quanto fidanzata di Jesper e anche semplicemente grazie al magnifico costume e superare quella maledetta serata. Aveva un cattivo presentimento, una sensazione sgradevole dentro, di cambiamento, di svolta negativa, di cose che crollavano e che nascevano.
Scacciò quelle sciocche fantasie, infilò il braccio sotto quello di Jesper e con la mano libera sollevò l’ampia gonna blu: “Andiamo” disse con determinazione.
 
Quando l’uomo chiamato R emerse dalla stanza da letto di Erin, la bambina era seduta in anticamera e non la smetteva di dimenare i piedini dall’eccitazione, abbigliata del suo vestito da strega e con i capelli biondi raccolti in un’ampia crocchia sulla nuca sotto un cappellaccio nero trapuntato di stelle e lune argentee. Il suo costume era color della notte, con lacci di cuoio che si incrociavano sul corpetto e una gonna che s’allargava a mo di corolla in mille pizzi e merletti, ed era completato da una calzamaglia di raso nero e da ballerine ricoperte di lustrini. Si era truccata le labbra con un rossetto viola scuro e applicata sulla guancia uno strass a forma di ragno, e andava molto fiera della sua maschera semplice e tradizionale. Pensava che avrebbe fatto il suo ingresso in sala senza suo padre ad accompagnarla, sola sotto tutti quegli sguardi, e invece era riuscita a trovarsi un cavaliere per puro caso e l’aveva invitato di sua iniziativa, come un’adulta. Tutta la sua smania di divertirsi si era freneticamente ridestata.
Ovviamente non aveva detto a nessuno di R. Non ancora, almeno. Preferiva tenerlo tutto per sé ancora un po’, godersi in santa pace la novità senza che sua madre o lo zio Jesper gliela strappassero, e poi condividerla con loro. Peraltro non era sicura che avrebbero acconsentito a farlo venire alla festa, ragion per cui aveva deciso di agire in segreto. Tanto non faceva nulla di male, giusto?
Udì la porta della sua stanza aprirsi e poi richiudersi e subito si girò, trattenendo il respiro: “Wow!” batté le mani, felice come ben poche volte era riuscita ad essere: “Ti sta a pennello, signor R!”
Il “signor R” l’aveva seguita fin lì con la sicurezza di chi conosce l’ambiente e aveva detto ben poco, limitandosi ad aiutarla con il costume, la crocchia e il trucco. Non dava l’idea di gradire la compagnia della bimba e sembrava covare qualcosa, ma non l’aveva interrotta mentre discorreva a raffica di mille futili cose e per Erin era stato un fatto così raro e inaspettato che si era guadagnato, senza volerlo assolutamente, l’imperitura gratitudine della più piccola dei Lawrence.
Il costume che avrebbe dovuto indossare Jonas e che Erin aveva ceduto all’ospite gli stava perfettamente, come se fosse stato creato apposta per lui. Il completo da gentiluomo dei primi del Novecento rivestiva il suo corpo alto e asciutto aderendo perfettamente alla pelle e non facendo neanche una grinza e l’ampio mantello di velluto nero lo avvolgeva come un vortice, il cappuccio calato sulla fronte e le mani nascoste nei soliti guanti. Ma la vera opera d’arte era la maschera, acquistata in una bottega veneziana a costo di fior di quattrini: di fine porcellana candida, tanto lucida da riflettere il lucore del lampadario, gli ricopriva soltanto la parte destra del volto e lasciava esposta la sinistra, ma egli era riuscito a sistemare il cappuccio in modo che anche quella rimanesse immersa nell’ombra, per cui era del tutto anonimo e invisibile. L’occhio che la scrutava attraverso il foro era di un azzurro chiaro e penetrante, la stessa tonalità, in effetti, delle sue iridi, le iridi di Erin.
“Ora sei davvero come il Fantasma dell’Opera!” sentenziò la bambina, eccitata.
L’idea le era venuta non appena R aveva nominato il celebre titolo e non era riuscita a rinunciarci. Jonas aveva prescelto quel costume perché erano andati a vedere il musical di recente, ma forse, ammise Erin tra sé e sé, al suo nuovo accompagnatore stava ancor meglio che al padre assente. Pareva addirittura nato per vestire i panni di uno dei famosi mostri della letteratura. Sarebbe stato bello creare un’accoppiata e, a questo punto, abbigliarsi da Christine Daaé, ma Jonas ai tempi le aveva negato il suo consenso poiché sarebbe stato di cattivo gusto comparire in sala in veste di “innamorati”, e adesso non aveva tempo di cercare un altro costume. Poco male, nei loro contrasti, sarebbero risaltati entrambi.
R si volse verso lo specchio da parete e si contemplò, sfiorando la maschera di porcellana e il magnifico mantello. Le sue labbra accennarono un sorriso storto, ambiguo, quasi amaro: “Ottima scelta, piccola Erin Lawrence” fu il laconico commento. La bimba lo raggiunse, luminosa come un piccolo sole, e si aggrappò intrepidamente al suo braccio: “Avanti, scendiamo!”
“Certo” ribatté il suo sinistro cavaliere: “La tua famiglia attende”.
 
Angolo autrice: Beh, dovevo far travestire Raphael da Fantasma dell’Opera. Non ho resistito alla tentazione ed eccolo qui, abbigliato della maschera che tutte conosciamo : ) vi starete chiedendo perché aggiorno come se avessi il diavolo alle calcagna, ma ho una risposta: il due parto per due settimane e purtroppo non potrò scrivere né andare su internet, per cui sto cercando di farlo il più possibile adesso, probabilmente prima di quella data posterò il capitolo sulla festa di Halloween, in cui ne accadranno delle belle…spero che continuerete a seguirmi perché il vostro appoggio mi è davvero prezioso! Che altro dire? Non ci crederete ma Erin mi sta davvero simpatica, di solito nelle storie non vado matta per i bambini ma lei mi piace, spero davvero che condividiate la mia opinione! E ho citato anche “Un mostro a Parigi”, film delizioso che consiglio a tutte le amanti del genere e che il raccontuccio della piccola non rende abbastanza (scusa, Erin, scherzo XD). Raphael sta per scatenarsi di nuovo come suo solito…e conta su di voi! (“Aiuto, scappiamo!” Ndr Voi) XD anche se è profondamente offeso per essere stato paragonato a E.T. e al mostro di Frankenstein nelle ultime recensioni, sebbene io abbia riso parecchio alle sue spalle e abbia avvertito decisamente meno la tensione assassina della storia grazie alla vostra ironia ;)
Un grazie di cuore a tutte quante, come sempre vostra
Elly    
 
*Borg= castello in svedese.
*Min karlek= amore mio in svedese. 

  
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