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Autore: Love_in_idleness    14/02/2007    1 recensioni
C'è una sola cosa che accomuna tutti gli uomini in tutto il mondo - il Tempo. Probabilmente, in un angolo del pianeta, nello stesso istante, un’amicizia nasce ed un’altra si spezza; qualcuno porta il lutto, qualcuno ricomincia a vivere; qualcuno muore, qualcuno nasce; qualcuno si innamora, qualcuno si dimentica la passione; qualcuno vive incubi abissali, qualcuno contempla un paesaggio nell’assoluta solitudine. *AVVERTENZA* - la storia è formata da one-shot slegate tra loro. Solo il capitolo II è drammatico e il capitolo X shonen-ai.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Sono tornata

Sono tornata, ahah! Ho avuto qualche problema col piccy, che in realtà è ancora irrisolto, per cui il compuetr è ora gentile disponibilità del mio fratellaccio (che me lo ha concesso solo perché è a letto con trentanove di febbre, povera stella..)

By the by - il nuovo capitolo. Luce Artificiale. E' la morte vissuta in maniera totalmente inversa rispetto a quella del capitolo II, qui è tutto dominato dalla luce, mentre prima c'era solo notte (Vi ho fatto l'analisi del testo, scusate). Commentate, per favore ^_^

VIII.

[New York; Ventuno Novembre 2006, 08.58]

Il tempo è sempre lo stesso in ogni luogo. A volte cambia l’ora, a volte il giorno, a volte la luce. In ognuna di queste sue trasmigrazioni permane la stessa essenza, lo stesso movimento proteso in avanti. È fondamentalmente un attimo cristallizzato nell’infinito, un unico istante vissuto da milioni di anime – quel tempo era una mattina trasparente di Novembre, durante la quale il cielo, trapassato dalle guglie moderne degli enormi palazzi, si dipingeva lentamente di etere e di chiarore.

Beth guardò il suo orologio. Erano le nove. Le otto e cinquantotto, e zero secondi.

- Esprimi un desiderio: - Si disse. – Vorrei scappare dalla mia prigione di luce artificiale. – Giunse le mani in un gesto di distratta preghiera, e, ridendo frivolamente, si lasciò cadere sul letto.

Invidiava un po’ le persone che potevano passeggiare nel parco avvolte dalla luce diafana delle otto di mattina, scosse dalla brezza pungente, dirette chissà dove, chissà per quale scopo. Una cosa che avrebbe da sempre voluto fare era uscire in camicia da notte dall’ospedale, scendere al chiosco che vedeva sotto la sua finestra, comprare un caffè e berselo leggendo un giornale, seduta silenziosamente su una panchina qualsiasi. Se lo immaginava spesso come un piccolo sogno naturale – si vedeva sorridere timidamente, il volto illuminato dal suo pallore, le chiome dei grandi alberi scosse da aliti di vento freddo e mille foglie colorate che piroettavano sospese nell’aria fino a posarsi sul suolo umido della notte appena trascorsa.

Ritornò curiosa a spiare il mondo dalla sua piccola finestra. Socchiuse gli occhi, scrollando un po’ il capo. All’improvviso si ritrasse con orrore e si sedette sul letto disfatto.

La visione del paesaggio quieto sotto la sua finestra era stata abbacinante, l’aveva colpita ed accecata con una violenza che non si sarebbe mai aspettata dai raggi di sole freddi e limpidi della prima mattina autunnale. Fuori, li aveva visti cadere e schiantarsi sui colori delle foglie e del prato, così violenti, così investiti di una forza e di una vitalità misteriose, ed al contempo così caduchi e prossimi alla morte. In un certo senso, legata a quel letto ed abbandonata in quella stanza, si sentiva quasi come una foglia sul far dell’autunno, debole e rossa, fragile e bellissima.

Si rialzò di nuovo, si avvicinò alla tenda, la scostò con delicatezza, e, socchiudendo gli occhi stanchi sull’esterno scintillante, sorrise ancora con una certa dolcezza. Forse aveva visto un colore che le piaceva più degli altri, forse, dall’alto della sua torre d’avorio, aveva scorto un volto tra le moltitudini che transitavano sotto di lei, che per un istante l’aveva fatta innamorare. Un’estasi misteriosa la trascinava fuori dalla sua piccola stanza claustrofobica e le faceva esplorare un mondo precluso. Si ricordò una frase all’improvviso, una frase particolare e magari senza senso, si ripeté nella testa: Homme, la saison de ta migration n’est pas encore venue. O forse per lei era arrivata?

Beth era piuttosto sconvolta. Sapeva perfettamente dove la portava questa corrente di pensieri, ci aveva riflettuto molto tempo stancandosi fino ad addormentarsi. Ma quella mattina si era svegliata con il desiderio impellente, irrefrenabile di uscire dalla sua gabbia, di riguadagnare la sua libertà, la sua vita. Come una foglia sbattuta dal vento sul terreno bagnato di un prato autunnale.

Trattenne il respiro per un secondo che gli sembrò eterno. Il suo cuoricino stanco batteva paurosamente forte. Tra i corridoi della clinica si espandeva solo un denso, pesante silenzio.

- Non vogliono farmi uscire? – Si diceva, -Allora cercherò una via, una strada alternativa che mi porti ad esplorare nuove regioni del mio spazio. -

Gli occhi le scintillavano con lo stesso barlume di pazzia delle sue crisi. Solo che non c’era più un medico. Non c’era più un’infermiera. Non c’erano più nemmeno i suoi genitori amorevoli. C’erano solo Elisabeth e la sua urgente voglia di caffè, di sole, di aria aperta.

“Non posso più –” Mormorò. “Non vedi che non posso più sopportare questa luce artificiale? O no? – No. La stagione della tua migrazione non è ancora arrivata! Allora devi rimanere qui ed aspettare un segno che spalanchi per te le porte della conoscenza ed i cancelli dell’eternità – Ma io non riesco a sperare ancora, e ancora, mentre tutto il mondo scorre sotto il mio sguardo assente e vive anche la mia vita! Io sono come quelle foglie che stanno sugli alberi ma sono già morte, e che raggiungono la loro massima bellezza, la loro gloria suprema solo nel momento della loro caduta! – Tu non sei come le foglie.” Beth si prese la testa scossa tra le mani e strinse gli occhi quasi dolorosamente. Sembrava che il bianco nitido ed asettico di quella camera d’ospedale la stesse ferendo interiormente e spezzasse un incantesimo importante per la sua preservazione. Gridava, ormai, in preda a qualche delirio: “Tu non sei come una foglia che muore! Non cadrai in questa vertigine! – io sì, posso cadere, e posso liberarmi dalla mia prigione d’avorio. Posso ricominciare a vivere ed essere immensamente bella nel momento in cui il mio corpo prenderà il volo verso l’ignoto – la tua migrazione – “

Beth fu interrotta. Il dottore entrò di corsa assieme a due infermiere nella camera della ragazzina gracile e sofferente, traslucida nella sua malattia come una sfera di alabastro. Ma lei non li vedeva più. Li guardava sospesa sul cornicione, ma passava loro attraverso, come se non fossero lì, o fossero solo dei miraggi lontani di qualche parvenza astratta. Sorrise di nuovo con quel suo sorriso gentile e un po’ frivolo, dicendo: “Non posso vivere qui. Io non sopporto più la vostra luce artificiale.”

Si lasciò scivolare oltre l’orlo estremo, e cadde con un tonfo sordo contro il prato verde, macchiato qua e là dei colori delle foglie autunnali. In quell’istante, mentre pensava alla sua elevazione, alla sua liberazione, Beth si sentiva veramente felice –aveva trovato una vita in quella morte perfetta, silenziosa, aggraziata, esteticamente bella, si era liberata della sua prigione e della sua esistenza simulata. Ricominciava a respirare, si disse, in un’ora qualsiasi di un qualsiasi giorno di Novembre, trafitta dall’aria fredda dell’autunno newyorkese e dalla luce vera del sole del mattino.

[Lux Artificiale]

___

"Uomo, la stagione della tua migrazione non è ancora venuta" - Chateaubriand, Réné.

Fine del capitolo... io non lo vedo come drammatico, questa mi sembra una happy ending, ma è un parere personale. Grazie a Federico che lo ha letto e ha detto che di tutti e dodici è il migliore. E scusate se continuo a cambiare sezione, ma sono una disordinata mentale. Questa è l'ultima volta, lo giuro, lo giuro, lo giuro.

   
 
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