Libri > Percy Jackson
Segui la storia  |       
Autore: Emily Kingston    03/09/2012    2 recensioni
Mi chiamo Percy Jackson e sono un mezzosangue.
(...)
La sera del mio compleanno io e Annabeth ci siamo baciati, finalmente, e alla fine dell’estate sono tornato a New York da mia madre e Paul. E tutti vissero felici e contenti, insomma.
Invece no.
Credevo che le mie avventure da semidio fossero finite – o che comunque, mi stessero concedendo una pausa – e pensavo di essere solo un adolescente di Manhattan, figlio di un dio, con una ragazza semidivina, dislessico, con una sindrome di iperattività e disturbo dell’attenzione. Ma ho dimenticato di mettere in conto che sono un mago nell’attirare la sfortuna.

-
Sono passati alcuni mesi dalla sconfitta di Crono e, proprio quando tutti al campo pensavano di poter avere un po' di tregua, Grover si troverà in difficoltà ed un nuovo nemico inizierà a tramare nell'ombra, deciso a distruggere il Campo Mezzosangue. Tra imprese, nuove profezie, bizzarre divinità e strani sogni, riusciranno i nostri eroi a vincere la battaglia?
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Grover Underwood, Percy Jackson, Quasi tutti, Rachel Elizabeth Dare
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

#2. Faccio dei sogni strani

 
I mezzosangue sognano da schifo.
E non intendo che abbiamo problemi a dormire per via degli innumerevoli mostri mitologici che ci danno la caccia, intendo che sogniamo proprio da schifo. Abbiamo visioni del futuro, vediamo stralci di ciò che sta accadendo in altri posti ad altre persone, e ogni sogno è così reale che non siamo mai sicuri se è stato solo un sogno oppure no – nella maggior parte dei casi, ovviamente, non si tratta mai di un sogno e basta.
Quando chiusi gli occhi, mi ritrovai in una grotta.
Faceva freddo e dalle stalattiti che pendevano dal soffitto l’acqua gocciolava sul pavimento roccioso.
Tra alcuni tralci di legna crepitava un fuocherello morente ed una coperta di foglie era stesa ai piedi di un masso.
Non sembrava il posto perfetto per mettere su casa, ma a quanto pareva qualcuno aveva deciso di abitare lì.
Sul fondo della caverna un cunicolo roccioso si snodava verso l’interno, perciò ipotizzai che la grotta si trovasse all’interno di una montagna. Non avevo idea di dove portasse il cunicolo e avevo la sensazione che andare a scoprirlo fosse la cosa meno indicata da fare. Un basso fischio proveniva dalle tenebre, come se una creatura stesse respirando nel buio, profondamente addormentata.
Improvvisamente Nico Di Angelo corse all’interno della grotta. Crollò sulle ginocchia e poi alzò lo sguardo su di me.
“Vuole vendicarsi,” disse, affannato. “Non ci darà pace.”
Mi fissava dritto negli occhi e per la prima volta da quando aveva iniziato a chiacchierare coi morti e via dicendo, vidi la paura nel suo sguardo.
“Gli abbiamo impedito di ucciderlo,” continuò a mormorare. “Non posso fare nulla. È tornato umano.”
La scena della grotta si dissolse in una nuvola di fumo e al suo posto comparve una foresta occupata da arbusti dalle alte chiome.
Grover era nascosto dietro uno degli alberi e tremava, il flauto stretto tra le mani. Aveva gli zoccoli sporchi di fango e l’erba intorno a lui stava seccando. Anche le foglie iniziarono a cadere dagli alberi, gialle e insecchite.
Dei passi scricchiolarono alle spalle di Grover e il satiro balzò in piedi, cominciando a correre verso l’interno del bosco, dove le piante s’infittivano.
“Mi ricordo di te, satiro,” sussurrò una voce profonda.
Aveva un che di familiare, ma non avrei saputo dire a chi apparteneva. Sicuramente non era la voce di Crono e questo mi rassicurò.
In qualche modo sentivo che tra la visione di Nico e quello che stava succedendo a Grover ci fosse un collegamento. Perciò, dato che Nico aveva parlato di qualcuno che era ‘tornato umano’, ero felice che non si trattasse del re dei Titani.
Grover continuava a correre per la foresta, suonando il suo flauto di legno per far spuntare cespugli e radici dal terreno alle sue spalle.
L’ultima volta che avevo fatto un sogno su Grover che fuggiva da qualcuno ero dovuto salpare per il Mare dei Mostri perché lui era stato rapito da un ciclope che intendeva sposarlo (va bene che Polifemo aveva la vista un tantino annebbiata, ma ancora non capivo come aveva fatto a scambiare Grover per una donna ciclope).
L’uomo che stava inseguendo Grover rise.
Non gli vidi né il corpo né il viso, solo i piedi. Indossava un paio di sandali di cuoio e camminava lentamente, come se avesse tutto il tempo per acciuffare Grover.
Rabbrividii. Anche Crono si comportava così.
Intorno al tizio con i sandali volteggiava una strana nebbia densa. Anime.
“Percy!” la voce di Grover era terrorizzata. “Le selve!” esclamò, correndo come un matto tra gli alberi. “Sta distruggendo le selve!”
Il bosco si dissolse in una nuvola di fumo com’era successo con la caverna di Nico Di Angelo e il mio sguardo si spostò sulle rive di un fiume.
Tutt’intorno era buio e il fiume era pieno di sporcizia: quaderni, targhette dorate, rossetti, diademi di plastica, guantoni da baseball…i sogni irrealizzati delle anime.
Mi trovavo sullo Stige, il fiume che scorre negli Inferi.
Nico Di Angelo era inginocchiato a terra e mi stava parlando.
Si trattava di un ricordo e risaliva a qualche mese prima, quando eravamo scesi insieme negli Inferi affinché io facessi il bagno nello Stige e diventassi invulnerabile.
Nel sogno io m’immergevo nelle acque scure del fiume, strizzavo gli occhi e cadevo in acqua dal dolore. Ma non eravamo soli.
All’ombra di un cunicolo, degli occhi ci osservavano.
Se la persona che ci spiava conosceva il rito, allora, probabilmente, aveva capito qual era il mio Tallone d’Achille.
 
Mi svegliai di soprassalto in un bagno di sudore.
Gettai uno sguardo fuori dalla finestra e vidi che era ancora buio, doveva essere notte fonda.
Ancora scosso dal sogno che avevo fatto, mi misi a sedere sul materasso e guardai la sveglia sul comodino: le due del mattino.
Notai anche che mia madre mi aveva lasciato un hamburger insieme ad una lattina di Coca-Cola. Non ero affamato, ma mangiai comunque.
Le luci di New York illuminavano la mia camera quasi a giorno e in qualche modo vedere la città ancora intatta dopo quello che era successo ad agosto mi rassicurò.
Negli ultimi cinque anni avevo viaggiato in lungo e in largo per l’America, ma nessuna città mi aveva mai affascinato come New York.
Ero stato perfino a Las Vegas, ma non c’era paragone.
Con un sospiro, appoggiai il piatto pieno di briciole sul comodino e lanciai la lattina di Coca-Cola nel cestino.
Ripensai al sogno che avevo fatto.
Nico aveva parlato di qualcuno che voleva vendicarsi e che aveva riassunto la sua forma umana. Grover veniva inseguito da un tizio con i sandali che aveva un esercito di anime al suo seguito. E poi quella visione di qualcuno che ci aveva spiati durante il rito nello Stige.
Apparentemente le cose non sembravano essere collegate tra loro, ma doveva esserci un nesso.
I mezzosangue sognano da schifo e la maggior parte delle volte i loro sogni li costringono ad avventurarsi in imprese pericolose. Però se c’è una cosa buona dei sogni dei mezzosangue è che hanno sempre qualcosa a che fare l’uno con l’altro.
E questo a volte può essere davvero utile.
Decisi che ne avrei parlato ad Annbeth e smisi di rimuginarci, tanto non avrei fatto altro che ingarbugliare ancora di più le cose.
Con un sospiro mi stesi di nuovo sul materasso e chiusi di nuovo gli occhi. Questa volta, fortunatamente, nessuna strana visione venne a farmi visita.
 
La scuola di Annabeth era un edificio grigio come tanti altri.
Non era tra i palazzi più alti e tutta la facciata era occupata da file di finestre. Ogni tanto, da una delle finestre del secondo piano, riuscivo a scorgere Annabeth che prendeva appunti (e ci riuscivo perché io esco da scuola quindici minuti prima di lei, non fatevi strane idee).
Quando suonò la campanella una marea di studenti si riversò in strada, investendomi in pieno.
La vidi uscire dall’edificio parecchi minuti dopo gli altri. Stava chiacchierando con un suo compagno di classe, David Walesh.
Quando mi vide mi sorrise e mi fece cenno con la mano di aspettare.
David Walesh era il classico ragazzo perfetto. Alto, biondo, intelligente, con due belle spalle da giocatore di rugby ed un paio di luccicanti occhi azzurri. E io lo odiavo, ovviamente.
Non mi piaceva come guardava Annabeth, tanto per cominciare. Ogni volta che erano insieme la osservava come se volesse mangiarsela con gli occhi – che poi era il modo in cui la guardavano tutti e non potevo certo biasimarli. Però non sopportavo chelui la guardasse così.
Annabeth sapeva perfettamente che quel tipo non mi piaceva, perciò pensai che la sua fosse una specie di vendetta per essermi presentato in compagnia di Rachel il giorno precedente al cinema.
Dopo qualche minuto si salutarono e David disse qualcosa che fece arrossire Annabeth. Sperai per il suo bene che non gli venisse mai l’idea di farsi un bagno al mare.
“Ciao!” esclamò, piazzandosi davanti a me.
Lanciai un’ultima occhiata fulminante alla schiena di David e poi portai la mia attenzione su di lei.
Annabeth sbuffò.
“Ancora con la storia di David?” gemette, infilando nella borsa a tracolla alcune carte.
Io incrociai le braccia al petto. “Non mi piace quel tipo.”
Di solito a questo punto Annabeth iniziava a dirmi che mi facevo troppi problemi per nulla, che David era un bravissimo ragazzo, che erano solo compagni di classe e che io ero paranoico. Quel giorno, però, doveva essere particolarmente felice di vedermi, perché rise divertita e mi baciò di slancio, appoggiando le mani sulle mie braccia incrociate.
“Sei un idiota, Testa d’Alghe.”
Io mi imbronciai, ma le passai comunque un braccio intorno alle spalle mentre ci avviavamo verso il suo appartamento.
Improvvisamente, mentre camminavamo in mezzo al traffico di New York mi tornò in mente il sogno che avevo fatto quella notte.
Abbassai lo sguardo. Annabeth aveva appoggiato la testa sulla mia spalla e sorrideva come una bambina.
“C’è qualcosa che non va?”
Arricciai le labbra, indeciso. Ma Annabeth mi conosceva troppo bene.
Si fermò e mi puntò gli occhi addosso.
“Che è successo Percy?”
Sospirai e le raccontai del sogno che avevo fatto. Lì per lì mi sembrò turbata, poi aggrottò le sopracciglia e mi sembrò di vedere le rotelle del suo cervello che si mettevano in moto, macinando ipotesi.
“Non sei riuscito a vedere la figura nell’ombra?” scossi il capo.
Per quanto avessi provato a mettere a fuoco l’immagine non riuscivo a capire che ci avesse spiati.
“Magari è stato solo un sogno,” dissi, più per convincere me stesso.
Annabeth mi guardò scettica.
“C’è un solo modo per scoprilo: dobbiamo tornare al campo e parlare con Juniper.”
In un primo momento non capii quel che Annabeth aveva in mente, poi mi ricordai della conversazione che Juniper e Grover avevano avuto alla fine dell’estate. Lui aveva promesso di tornare per l’inverno e ormai era quasi dicembre.
Annuii.
Sapevo che mia madre non si sarebbe spaventata troppo non trovandomi a casa – ormai era abituata.
Trascinai Annabeth in un vicolo isolato e lanciai un fischio acuto verso il cielo.
‘Buongiorno capo!’ la voce di Blackjack mi raggiunse prima che lui atterrasse davanti a noi.
“Ehi, bello!” esclamai, accarezzandogli il muso scuro.
Blackjack era un pegaso dal manto nero che avevo liberato quattro anni prima dalla nave di Luke, La Principessa Andromeda. Da allora era diventato il mio pegaso personale.
‘Ho portato Marcello, è uno nuovo,’ m’informò il cavallo, facendo spazio ad un pegaso bianco.
“Ciao Marcello,” gli dissi con un sorriso.
‘Salve.’
Montai in sella a Blackjack e Annabeth salì sulla groppa di Marcello.
‘Dove ti porto, capo?’
“Al campo, dobbiamo parlare con Juniper.”
Blackjack nitrì e spiccò il volo, salendo a tutta velocità sopra le nuvole. Marcello e Annabeth volavano al nostro fianco.
Arrivammo alla Collina Mezzosangue in pochi minuti. Superammo l’albero di Talia, sotto al quale il drago Peleo soffiava fumo dal naso, e Blackjack e Marcello ci lasciarono vicino alle stalle dei pegasi.
Promisi ai due cavalli che gli avrei portato delle zollette di zucchero dopo aver parlato con Juniper e io e Annabeth c’inoltrammo nel bosco.
Il Pugno di Zeus si ergeva minaccioso davanti a noi; sotto di esso alcune rocce coprivano quella che un tempo era stata una delle entrate per il Labirinto di Dedalo.
L’albero di Juniper si trovava proprio lì vicino (era stata proprio lei a dirci che Quintus entrava di nascosto nel Labirinto).
Ci guardammo intorno per un po’ finché Annabeth esclamò: “Laggiù!”
Un albero stava perdendo tutte le foglie e ai suoi piedi una ninfa dai capelli ambrati e gli occhi venati di clorofilla singhiozzava disperatamente.
“Juniper!”
Annabeth le passò un braccio attorno alle spalle per consolarla.
La ninfa alzò lo sguardo su di me e singhiozzò ancora più forte.
“Dov’è Grover?”
A sentire il nome del satiro Juniper nascose il volto tra le mani.
“…ato.”
“Cosa?” tra i singhiozzi non ero riuscito a capire un accidente di quel che aveva detto.
Juniper alzò il viso rigato di lacrime verso di me.
“Grover…” si sforzò di non ricominciare a singhiozzare. “Grover non è tornato.”



-
Velovo ringraziare chi ha recensito il primo capitolo. Davvero, grazie di cuore! :)
Spero che questo secondo capitolo sia di vostro gradimento. 
Qualsiasi critica o comemento sono ben accetti. A presto (e di nuovo grazie), 
Emily. 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Percy Jackson / Vai alla pagina dell'autore: Emily Kingston