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Autore: Elizabeth_Tempest    10/09/2012    6 recensioni
Nella Danimarca settecentesca, il destino di una testarda contessa e di un misterioso giovane venuto da lontano s'intrecceranno.
"Friederieke guardava fuori dalla finestra, annoiata, rigirandosi pigramente il lavoro tra le mani; il cucito non l’aveva mai entusiasmata, lo aveva sempre trovato noioso dato che non ne trovava una vera utilità pratica –del resto i suoi abiti arrivavano sempre da qualche sartoria della capitale, dove suo padre spendeva un vero e proprio patrimonio per farle avere sempre i modelli più in voga alla corte francese.
Si concentrò sul ricamo, tentando di ricordare cosa fosse di preciso… forse un usignolo? si chiese, lanciando un’occhiata perplessa ai fili azzurri.
Non le sovvenne nulla ed alzò lo sguardo, sperando di poter sbirciare il lavoro della signorina Bernstein che invece pareva tutta presa dalla sua opera e la teneva in modo tale che la fanciulla non potesse vedere cosa stesse ricamando." [dal primo capitolo]
La storia è ambientata prima degli eventi di The Lost Canvas, ed è collegato ad uno dei gaiden.
Genere: Angst, Avventura, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Nuovo Personaggio, Pisces Albafica
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Incompiuta
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Capitolo II

Il Patriarca aveva stretto la bocca in una smorfia amara e preoccupata, continuando a leggere la lettera che gli era stata fatta recapitare. Proveniva dal nord, dalla Danimarca e recava con sé pessime notizie e presagi oscuri, presagi di morte: la mano del mittente aveva tremato nello scrivere quelle righe e Sage, in cuor suo, sperava che fosse solo l’effetto della vecchiaia e non la preoccupazione dell’anziano.

Rilesse la missiva ancora una volta, imprimendosi a fuoco le parole nella mente e continuando a camminare, inquieto; la mente vagava tra ricordi antichi ma mai sopiti, che gli parlavano di amicizie, di compagni caduti e di enormi sacrifici e tra pensieri novelli.

Con un sospiro rassegnato, ripiegò la lettera, volgendo lo sguardo ad Hakurei, il quale era appena giunto dal Jamir proprio per portare consiglio al fratello e che lo osservava di rimando.

-Così Hades sta iniziando a fare le sue mosse.- disse l’anziano cavaliere dell’Altare, scandendo le parole con lentezza.

-No, non ancora. Se fosse tornato sulla Terra in un corpo umano l’avremmo avvertito Hakurei e se non noi, la somma Athena di sicuro ne avrebbe sentito la presenza.- lo corresse il Gran Sacerdote, lanciando una fugace occhiata al trono che la ragazzina soleva occupare durante i momenti più solenni.

Certo, madamina Sasha era solo una bambina, aveva solo undici anni e lo spirito di Athena in lei era ancora in parte sopito, ma non era né sciocca né incapace di controllare il suo cosmo e se il suo più acerrimo nemico si fosse realmente reincarnato nel corpo di qualche sfortunato quanto innocente umano, di certo sarebbe stata la prima ad allarmarsi… e, doveva ammettere, sperava che davvero il signore dell’Oltretomba non fosse tornato prima del previsto: il Santuario non era ancora pronto alla battaglia che si sarebbe prospettata, egli non era realmente pronto e nemmeno Athena, il cui campione ancora non era giunto.

-No, sono certo che ci sia Pandora o uno degli Dei gemelli dietro a tutto ciò.- concluse l’anziano guerriero.

Hakurei annuì, continuando a camminare affianco al fratello. –Potrebbe aver ragione? Jens, dico. Potrebbe davvero essere che qualche creatura maligna stia cercando di mietere vittime innocenti da immolare ad Hades in modo tanto spudorato? Non fraintendermi fratello.- s’affrettò ad aggiungere, quando l’altro gli scoccò uno sguardo truce –So quanto quelle creature siano prive di morale o di cuore… ma senza il pieno potere di Hades, perché rischiare di farsi scoprire?

-L’hanno già fatto altre volte, dovresti saperlo. E se non lo rammenti, lo si potrebbe chiedere alle tue care armature, perché esse di sicuro non l’hanno dimenticato.- lo sguardo di Sage era carico di significati e ricordi, di vite innocenti che ancora piangeva e di corpi martoriati che non avevano mai abbandonato i suoi occhi.

-Hai ragione, ma speravo non fosse come l’ultima volta. Non come in Egitto, due secoli fa. Che intendi fare? Se Jens ha ragione, dobbiamo aspettarci una vera e propria carneficina che verterebbe a vantaggio di Hades e delle sue truppe.

-Spero di giocare di anticipo. Manderò uno dei Gold Saint in Danimarca, per monitorare la situazione, sperando che arrivi per tempo.- annunciò Sage, che aveva già pensato al piano e al candidato perfetto.

Hakurei annuì, rimanendo in silenzio. Se gli specter davvero si stavano già muovendo e a quel modo, la guerra era molto, troppo vicina. C’erano ancora troppe cose da fare, non erano ancora pronti e non potevano più perdere tempo: che Pegasus fosse giunto o no, ormai poco importava, da quel punto in poi, non si poteva più tentennare.

Il cavaliere dell’Altare salutò il fratello, tornando in Jamir e, una volta rimasto solo, Sage mandò a chiamare Albafica.

 

Il Cavaliere di Piscis era in piedi all’entrata del suo tempio, appoggiato ad una delle colonne e lo sguardo perso verso la Prima Casa; chiunque lo avesse visto, l’avrebbe scambiato per una statua, tanto era immobile.

Il Silver Saint inviato dal Patriarca non si avvicinò più del dovuto, rimanendo a distanza di sicurezza, intimorito dal gelo che quell’uomo dalla bellezza ultraterrena emanava: in molti parlavano di un ego spropositato, nato dal quel dono che Afrodite aveva evidentemente elargito al cavaliere, ma il guerriero sapeva -poiché il suo maestro aveva veduto combattere Lugonis, precedente Saint di Piscis e gliel’aveva raccontato- che quell’avvenenza nascondeva in realtà il più letale dei veleni e la più raccapricciante delle morti. Doveva ammettere di non invidiar nulla a quell’uomo venefico e di esserne anche intimorito.

-Nobile Albafica, il Patriarca desidera parlarvi. Vi prega di raggiungerlo nella sala delle udienze.- declamò il Silver Saint, dopo essersi schiarito la voce. Attese qualche istante, poi retrocedette, pronto a lasciare quel luogo.

Aveva già fatto qualche passo, che il suo superiore si voltò a guardarlo, gli occhi azzurri e splendenti velati da ombre insondabili, però non proferì una sola parola, lo osservò semplicemente andarsene, prima di staccarsi dalla colonna e dirigersi verso dov’era atteso.

 

A memoria d’uomo raramente Albafica aveva rivolto la parola a più di una decina di persone: era sempre stato un giovane silenzioso e schivo e spesso il suo atteggiamento era stato imputato ad un animo troppo vanitoso e superbo, cosa che lo rendeva inviso a molti, nel Santuario.

In realtà fin da fanciullo, Piscis aveva rifuggito il contatto umano per via del proprio sangue velenoso, insopportabile l’idea di poter avere sulla coscienza la vita di qualche innocente che, inconsapevolmente, l’avesse toccato, nella sua mente la dipartita di Lugonis, il suo amato maestro, l’unica famiglia che avesse mai avuto, era un dolore ancora troppo forte e un monito indelebile su quanto egli fosse pericoloso.

Bello e mortale, come le sue rose.

Percorse velocemente la scalinata che lo separava dalla Tredicesima Casa e, giunto di fronte al Patriarca, s’inginocchiò.

-Albafica, ti ringrazio per essere accorso subito.- disse Sage, seduto sul trono, osservando il ragazzo.

-É mio dovere.- rispose il cavaliere d’oro.

Il Gran Sacerdote annuì; sì, di certo il giovane Piscis era la scelta più azzeccata, per la sua discrezione e per la perizia che aveva sempre mostrato nelle missioni, spesso accanto a quello scapestrato di Manigoldo, il suo giovane allievo, sempre pronto a cacciarsi in mille guai.

-Devi andare a nord, Albafica, in Danimarca. Le armate di Hades si stanno muovendo ed una stella malefica brilla sopra un villaggio di quelle terre.

Il giovane assorbì l’informazione e rifletté, prima di parlare. –Una stella malefica?

-Sì. Dal nord mi giungono notizie preoccupanti, l’influsso di questa stella potrebbe causare seri danni anche agl’innocenti che vivono nei pressi di Frydenjord, la tua destinazione.- spiegò Sage, con la sua solita compostezza imperturbabile -A breve salperà una nave diretta a Venezia su cui ti imbarcherai e poi prenderai una diligenza a Kolding per Århus. Frydenjord è a solo un paio di ore di cavallo dalla città… devo raccomandarti ancora la massima discrezione.- concluse l’anziano Patriarca.

Albafica si rialzò. –Non avete nulla da temere, sarò il più discreto possibile e risolverò la situazione.

-Ne sono certo. Arrivato a Frydenjord, chiedi di Jens Andersen, fu un apprendista del precedente cavaliere dell’Aquila, è lui ad avermi scritto. Ti potrà spiegare tutto e ti aiuterà.- e così il Patriarca concluse l’udienza, infine si alzò e lasciò solo Albafica, che attese che l’uomo se ne andasse per poi fare altrettanto.

Tornò verso il Tempio dei Pesci, rimuginando sulla sua missione, senza ben sapere che aspettarsi. Certo, assieme a Manigoldo –e, qualche volta, a Sisyphus- aveva già combattuto gli specter, erano esseri crudeli, ogni traccia di una passata umanità era stata cancellata nello stesso istante in cui avevano accettato Hades come loro signore e non era raro che, per puro divertimento, distruggessero interi villaggi, ma erano sempre attacchi improvvisi, nulla poteva lasciar presagire una delle loro scorribande.

Perché, dunque, questo Jens Andersen temeva che gli specter stessero tramando qualcosa?

Decise che non valeva la pena porsi troppe domande senza avere la piena comprensione della situazione, se al mosaico fosse mancato un tassello avrebbe potuto giungere alla conclusione errata, partendo già prevenuto. Mise insieme un bagaglio leggero, si cambiò d’abito –scegliendone di più consoni al lungo viaggio- e messosi in spalle la cloth box, percorse la Scalinata.

Giunto presso la Quarta Casa, gli si parò di fronte Manigoldo, cavaliere del Cancro.

-Albuccio! Buondì! Parti?- chiese il cavaliere, con un sorriso divertito.

-Così pare Manigoldo. Posso passare?- rispose Albafica, serio.

Da che conosceva Cancer, era sempre stato un uomo spaccone ed impulsivo, con un eterno sorriso dipinto in volto. Era ciò di più simile ad un amico che avesse.

-E così il vecchio ti manda a divertirti e tiene me a casa ad annoiarmi? Deve avercela ancora per l’ultima missione…- disse il ragazzo, incrociando le braccia dietro il collo e ghignando.

-Hai rischiato di far rompere l’osso del collo a Regulus, direi che avercela con te è quasi d’obbligo.- sorrise il giovane dai capelli color pervinca, divertito da quella specie di Arlecchino vivente che, per tutta risposta, sbuffò con fare fintamente irritato.

-Non è colpa mia se Sisyphus non ha insegnato a quel gattaccio a starsene buono in un angolino… talentuoso stratega… ba’!- disse Manigoldo, facendo segno all’amico di passare e affiancandolo mentre attraversava la Casa –Secondo me quel ragazzino è solo un marmocchio esagitato…

-Di esaltato al Santuario ci sei solo tu, amico mio.- lo riprese Albafica, scrollando il capo divertito.

-E di mortalmente noioso tu… e Sisyphus… e Asmita… e anche Dégel, a ben pensarci… e Sion… Aldebaran non saprei, se si escludono le lodi ad Athena e i discorsi ai suoi discepoli –anche più noiosi di quelli del vecchio- direi che non parliamo molto.- elencò il giovane guerriero, tamburellandosi il labbro superiore coll’indice, pensoso.

Albafica non poté trattenere un mezzo sorriso, pensando a quanto il compagno fosse sopra le righe e scanzonato; difficilmente lo si poteva vedere triste o disperato, il suo sorriso, a volte allegro, a volte sarcastico, altre volte venato da crudeltà, era sempre presente su quel viso brunito dal sole.

Giunti all’uscita della Quarta Casa, si separarono, salutandosi.

-Buona fortuna, Albuccio.- sorrise Manigoldo, cercando di dare una pacca all’amico, che prontamente lo schivò, riservandogli uno guardo di profondo rimprovero. –Ah! Che lagna che sei!- detto questo Cancer girò sui tacchi e lo lasciò.

Albafica riprese la sua discesa senza essere interrotto nuovamente e in breve tempo raggiunse l’uscita del Santuario.

 

Il viaggio in nave fino a Venezia era stato, in fin dei conti, abbastanza veloce: il mare era calmo in quei giorni e un venticello fresco aveva gonfiato le vele e fatto procede l’imbarcazione a tutta velocità, quasi la natura stessa comprendesse la fretta del giovane guerriero, che aveva poi corso –con la velocità tipica dei Gold Saint, pari a quella della luce- fino a Kolding, incurante della cloth box che, per un normale umano, sarebbe stato un notevole peso sulle spalle.

Raggiunse una locanda, dove desinò con una modesta zuppa di pesce e richiese una carrozza. L’oste, un uomo vigoroso con una barba simile a quella dei filosofi dell’antichità e dall’incarnato rubicondo, forse dovuto al continuo urlare alle sguattere e ai garzoni o forse al vino che, con poca discrezione, continuava ad ingollare, e con la pelle butterata, forse a causa di una qualche epidemia di vaiolo, gli aveva detto un paio di parole in un tedesco stentato, forse apprese ascoltando le discussioni dei mercanti che si fermavano a desinare e aveva fatto cenno ad un ragazzetto minuto, berciando qualcosa in danese.

Il monello, tutto sporco e lacero, scattò subito, correndo via.

-Lui ora torna. Volete ancora vino?- chiese il taverniere, sforzandosi di mettere insieme le parole in tedesco, mentre il ragazzo gli pagava il conto.

Albafica rifiutò con garbo, andando poi a sedersi davanti al caminetto. In quello che doveva essere il salone principale della locanda, erano radunati molte persone: alcune stavano giocando –d’azzardo, presumibilmente, visti i monticelli di monete sui tavoli- , altre bevevano in compagnia, altre, invece, parlavano e dall’aspetto buona parte dovevano essere mercanti.

Riconobbe, dalla parlata e dall’accento, un paio di bavaresi, un austriaco, tre francesi, un italiano e due olandesi, tutti presi a parlare di affari, di locande a buon prezzo che offrivano ottimo cibo e buon vino e di jolies filles.

Erano tutti uomini, tranne qualche ragazzetta pelle e ossa e con indosso vestiti molto scollati che ogni tanto si affacciava dalla scala che portava al piano superiore, per salutare un cliente, chiamarne un altro o chiede qualcosa all’oste.

Il giovane rimase nel suo cantuccio in ombra, il tricorno ben calcato in testa per cercare di mascherare almeno un po’ il viso; non voleva attirare troppa attenzione su di sé e si trovò a pensare che la bellezza, spesso e volentieri, gli era uno svantaggio.

Il ragazzetto mandato a chiamare la carrozza tornò nel giro di qualche decina di minuti e il giovane Saint si alzò in piedi –nonostante fosse più basso di molti suoi parigrado, aveva comunque un’altezza considerevole, che attirava molto l’attenzione assieme ai lungi capelli pervinca- e si caricò il pesante bagaglio appena questi gli fece segno con la mano.

-Viene, viene!- aveva squittito il monello ed il ragazzo l’aveva seguito in strada, dopo aver rivolto un saluto all’oste: una carrozza scura lo aspettava e il cocchiere, un ometto mingherlino e con un lungo naso, berciava qualcosa al bambino. –Lui porta a Århus!- continuò.

Allungò una manina tozza e lurida, con le unghi rosicchiate e sporche e Albafica, facendo ben attenzione a non sfiorarlo nonostante i guanti, fece cadere due monete nel palmo del ragazzino, che prontamente lo richiuse e biascicando un grazie, scappò a gambe levate nella taverna.

Albafica caricò, rifiutando l’aiuto del vetturino, la cloth box nella carrozza e, chiuso lo sportello, l’ometto mingherlino diede una sferzata ai cavalli, che partirono di buona lena.

Il paesaggio della Danimarca sfilò davanti al suo finestrino per ore: campi, prati, boschi, fiumi e stagni, villaggi piccoli e grandi o semplici fattorie sparse qua e là, altre carrozze o carri di qualche contadino carichi di sacchi o bestie, alla cui cassetta c’erano uomini dall’aria vissuta, ragazzini e donne coi pargoletti stretti al petto, ed altrettanta povera gente camminava sul ciglio della strada, i piedi gonfi negli zoccoli e le schiene curve sotto il peso dei bagagli che trasportavano, coi figli piccoli appesi al collo delle madri e quelli più grandicelli indaffarati a correre qua e là o a badare a qualche animale.

Era passata forse l’ora del pranzo quando entrarono ad Århus. Diede indicazioni al vetturale di portalo ad una locanda ed infine lo licenziò, pagandogli il dovuto ma senza dire una parola di più.

Entrò nella taverna, che di certo aveva passato momenti migliori, a giudicare dalla sporcizia e dalla polvere accumulata ovunque e subito una donna piuttosto anziana –o forse solo sciupata da una lunga vita di lavoro e da numerosi parti, a giudicare dal petto prospero e floscio, messo in mostra da una scollatura profonda, che la diceva lunga sul lavoro praticato in passato- uscì da dietro un vecchio e malandato bancone di legno e gli si fece incontro.

-Siete in cerca di una camera?- chiese, in un buon tedesco, adocchiando subito il suo abbigliamento inequivocabilmente olandese.

-Sì. Mi chiedevo se voi aveste una stanza per me, non so ancora quanto dovrò trattenermi in città, sperando che questo non vi sia di disturbo.- disse il giovane uomo.

La donna si mise a ridere. –No, quale disturbo! Vedete anche voi che qua non c’è nessuno… ormai questa città è morta, non arrivano più mercanti, non partono quasi più navi…- sospirò la donna –Ma venite… e lasciate il bagaglio… Ulrik! Ulrik! Benedetto ragazzo! Ma dove si sarà cacciato?- sbottò l’anziana ostessa.

Reprimendo un sorriso, Albafica scrollò il capo. –Posso portarlo da me, non si preoccupi.

La donna, dopo l’ultima occhiata alla stanza, gli sorrise. –Venite…- iniziò a salire le scale lentamente- Se vorrete mangiare, sappiate che la cuoca, cioè la sottoscritta, è sempre disponibile, il cibo è buono ed il vino…- s’interruppe, lanciandogli un’altra occhiata e decidendo che il suo ospite era un signore di classe -be’, è un buon vinello davvero, vino del Reno, ottimo ma non si deve mai esagerare, ché altrimenti si finisce sotto al tavolo. Questa è la stanza, le mie ragazze verranno a rifarla a breve… ah, signor…- riprese la matrona, interrompendosi subito.

-Van Dijk.- le venne in soccorso Albafica, dandole l’identità fittizia che usava sempre in missione.

-Signor Van Dijk… se doveste gradire compagnia di notte, non esitate a chiedere. Le mie ragazze sono belle e pulite e san fare il loro mestiere.- concluse la locandiera.

Il ragazzo dovette proibirsi di avvampare, rimpiangendo l’assenza di Manigoldo, che avrebbe di certo ribattuto con qualche frase sagace. –Penso che non avrò né l’opportunità né il bisogno di avvalermi di tali servigi, signora.- sussurrò.

-Sono Solveig. Ebbene, se cambiaste idea, avvertitemi. C’è altro che posso fare per voi? Volete desinare?- chiese la donna, con fare materno.

-No, non ce n’è bisogno. Poserò i bagagli e uscirò.- rispose il giovane.

-Se mi permettete, siete in città per affari?- inquisì la donna.

Di nuovo la risposta fu negativa. –Diciamo che sono ad Århus per motivi privati.- le disse e quella parve accontentarsi, perché con una riverenza si congedò e scese le scale, i gradini di legno che scricchiolavano sotto il suo peso.

Albafica entrò nella stanza, guardandosi attorno. Certo, non era come i suoi appartamenti al Santuario, ma non pareva nemmeno così male: il letto pareva pulito –ma non ci avrebbe giurato e sperò ardentemente di non trovarci pulci o cimici-, il catino per la toeletta e la brocca erano di ceramica e non vi erano sbeccature né crepe, un tavolino di legno con la sua seggiola era posto davanti al caminetto, con la sua brava catasta di legna di lato ed in un canto vi era uno scrittoio, mentre ai piedi del letto era stata posizionata una cassapanca dall’aria consunta. Un tavolino era accanto al letto e su di esso c’era una bugia in cui era infilata una candela smoccolata, mentre alle finestre vi erano tende pesanti, che lasciavano passare solo un tenue raggio di sole.

Posò in un angolo la cloth box, coprendola con una coperta trovata nella cassapanca, dove infilò i pochi vestiti che aveva portato con sé, quindi uscì, sistemandosi meglio il giustacuore e il tricorno.

Con poca fatica trovò un cavallo –voleva passare inosservato e non era certo il caso di farsi notare da un possibile nemico correndo alla velocità della luce- e partì quindi per Frydenjord.

 

Già intorno al villaggio, l’atmosfera si fece strana: il cielo era nuvoloso, pesante di pioggia e dava una sensazione di oppressione, il bosco ai lati del sentiero polveroso pareva malaticcio e non incontrò anima viva finchè non si trovò a costeggiare un fiumiciattolo.

Da quel punto in poi si estendevano alcuni campi e qua e là vi erano contadini al lavoro o pastori con le proprie bestie al pascolo, un paio di ragazzini pescavano e alcune donne si recavano dai familiari maschi per portar loro da mangiare, ma tutti alzarono lo sguardo al suo passaggio, guardandolo ad occhi sgranati: mai in quel luogo si era visto un uomo tanto bello e le donne bisbigliarono fra loro che anche Ludvig Frydendahl sfigurava in confronto allo straniero.

Albafica abbassò il capo, continuando a cavalcare finchè le prime case apparvero, assieme alla sagoma lontana di un maniero medievale. L’atmosfera nel villaggio era così strana, pensò il giovane; pareva che tutto dormisse, come se ci fosse una calma eccessiva, anche per un luogo così piccolo.

Tirando le redini fermò il cavallo e smontò davanti ad una casa meno modesta delle altre: una donna secca ed alta, coi capelli acconciati alla francese e l’aria arcigna, si affacciò, stringendosi al petto un bimbetto piccolo, col viso rosso per il gran pianto che faceva.

Sì sfilò il tricorno in segno di saluto. –Buondì madama. Sarebbe così cortese da potermi dire dove trovare Jens Andersen?- chiese, augurandosi che conoscesse il tedesco.

La donna lo guardò, parecchio impressionata dai tratti raffinati del giovane e dovette umettarsi le labbra, prima di parlare. –Tornate indietro e prendete il primo ponticello sul fiume, quello che va al mulino e continuate sulla strada. Non potete sbagliarvi, è la catapecchia al limitare del bosco.- gracchiò.

Albafica prese congedo e rimontò a cavallo, seguendo le indicazioni della donna arcigna. Aveva ragione, non poté sbagliarsi perché proseguendo oltre al mulino non vi erano altre case.

 

Avendo udito un cavallo avvicinarsi, Jens uscì di casa, sorreggendosi sul suo bastone, mentre il suo cane, un bestione di razza e colore indefinito che aveva semplicemente chiamato Cane andò incontro al visitatore, abbaiando. L’anziano lo richiamò con un latrato secco e la bestia tornò da lui, accucciandosi ai suoi piedi.

Quando il visitatore smontò da cavallo, il vecchio stalliere non ebbe dubbi sulla sua identità: una tale bellezza poteva appartenere solo ad un uomo solo in tutto l’universo e questi non poteva essere che il cavaliere di Piscis.

Senza proferire parola, rientrò il casa, facendo cenno al giovane di seguirlo e fu solo dopo aver chiuso la porta col chiavistello, che si decise a parlare.

-Il nobile Piscis, suppongo. Un viso così non può che appartenere al cavaliere d’oro della costellazione dei Pesci.- disse, indicando ad Albafica una delle sedie sbilenche attorno al rozzo tavolo.

-Sì, sono Albafica dei Pesci. E voi, a meno che la gentil dama che mi ha qui indirizzato non si sia ingannata, siete Jens Andersen.

L’uomo prese una bottiglia da un pensile dalle antine quasi scardinate e due tazze sbeccate, le mise sul tavolo e poi si sedette.

-Grappa. Davvero scadente e disgustosa, ma non ho altro. Sì, sono Jens. E così il Patriarca ha mandato voi? Bene, il sommo Sage sa sempre ciò che fa.- borbottò tra sé e sé.

-Ne sono certo, la sua saggezza e la sua lungimiranza sono doti che ben pochi possono affermare di condividere.- disse il ragazzo, osservando il vecchio versarsi del liquore e tracannarlo.

-Ah, nessuno lo mette in dubbio ragazzo, il Patriarca ne sa sempre una più del Diavolo! Non vi dispiace se bevo? Alla mia età fa bene alle ossa.- affermò l’anziano, facendo una carezza a Cane, che invece osservava Albafica, tra il curioso e l’intimorito. –Sì, gli animali la sanno proprio lunga.

Il giovane non disse nulla, pensando che però il vecchio Jens aveva ragione: nessun animale gli si avvicinava, consci istintivamente del pericolo che rappresentava. Ma gli umani era ammaliati dalla sua bellezza e cercavano sempre un contatto che non potevano avere, a meno di pagarlo con la vita.

-Avete scritto al Sommo Sage dicendo che accadono cose strane in questi luoghi, fatti legati ad Hades.

Il vegliardo guardò intensamente il fondo della sua tazza. –Già. Sono iniziate quando il vecchio pastore, padre Peder, è venuto a mancare. Un vero sant’uomo lui. È stato quando è arrivato il suo sostituto, padre Hans che il tempo è cambiato.

-Il tempo?- chiese il cavaliere, senza capire.

-Il tempo. L’avete visto il cielo, no? Sono mesi che succedono cose strane: il fiume che straripa, invasioni di topi e bisce, un’epidemia di polmonite che ha mandato al campo santo sei bambini, il raccolto che marcisce mezzo nei campi, il vecchio Øve che si prende in pieno un fulmine nemmeno avesse sfidato il Cronide in persona… e la gente si rifugia in chiesa. E dove, altrimenti? E cambia. Siete stato in paese, avete visto anche voi che mortorio. Una volta… ah, c’erano ubriachi pure a mezzodì e i bambini facevano un gran bel baccano, ora invece sono tutte pie persone di chiesa, tranquille e… morte dentro. Gli unici che paiono salvarsi sono gli abitanti del maniero.- concluse l’anziano, alzando lo sguardo.

-In effetti pare tutto molto sospetto.- concordò il giovane guerriero. Fuori iniziò a piovere e il rumore delle gocce che s’infrangeva sul tetto gli parve un fosco presagio.

-Pare? Ve lo dico io, è! Vivo qua da quando mi ruppi la gamba e finì storpio, qua vivevano i miei genitori e qua ho vissuto con la povera anima di mia moglie Maria e non ho mai visto nulla del genere. E se il Patriarca vi ha mandato è perché ho ragione e una stella malefica brilla su Frydenjord.

Albafica aprì la bocca per rispondere, ma venne bloccato da un insistente bussare alla porta e da una voce femminile.

L’anziano scattò in piedi con un’agilità sorprendente per la sua età, che rivelava almeno in parte il suo passato al Santuario ed andò ad aprire borbottando, seguito dal suo animale.

-Signorina Iedike! Entrate, entrate! Ma non avete visto che tempo fa? Voi volete proprio ammalarvi!- esclamò, aprendo la porta e lasciando entrare una giovane donna. Cane iniziò a farle le feste, cercando di strapparle l’involto che teneva in mano, mentre Albafica studiava la nuova venuta.

Poteva essere tutto, fuori che una contadina: nonostante l’incarnato non fosse diafano come la moda esigeva, la pelle era liscia e ben curata e i capelli, anche se un po’ spettinati per via del rozzo cappuccio di lana nera, erano acconcianti alla Fontanges. Le falde della mantella si aprirono, rivelando una robe andrenne verde tenue di raso, il cui bordo era schizzato di fango e gli venne spontaneo chiedersi come mai una nobildonna si recasse di quella maniera nella casa di un anziano. Davvero solo per fare una cortesia alla sorella?

Quando gli occhi della giovane –di un incantevole azzurro cielo che si sposavano alla perfezione coi capelli corvini- si posarono sui suoi, si spalancarono per l’evidente sorpresa e subito la giovane fece una riverenza.

-Che sbadata… mi dispiace di non essermi accorta prima della vostra presenza, monsieur.- si  giustificò la giovane donna, in tedesco. I suoi abiti proprio non lasciavano dubbi sul fatto che fosse straniero.

Albafica si alzò, eseguendo a sua volta un perfetto inchino. –Non è stata una vostra colpa, avrei dovuto palesarmi.- rispose, tornando a sedersi, mentre l’anziano Jens faceva accomodare la ragazza e le prendeva la mantella.

-Iedike, non avreste dovuto uscir di casa! Non con questo tempo.

-E voi avreste cenato di nuovo con un tozzo di pane raffermo? Giammai!- protestò la giovane, lanciando un’occhiata sconsolata dalla sedia. –Nessuno di voi si offende se rimanessi in piedi? Il panier è piuttosto scomodo.

L’anziano si mise a ridere. –Ah, piccola Friederieke, voi non cambiate mai. Perdonatemi se ancora non vi ho introdotta. Lei è Friederieke Amalie Maria Frydendahl, contessina di Frydenjord, che tutto sembra fuorché una nobildonna- aggiunse, scatenando una risata alla ragazza -mentre il mio ospite…

-Sono Albafica Van Dijk, per servirvi.- concluse il giovane cavaliere, captando l’occhiata perplessa della ragazza quando udì il suo nome.

 

 

 

 

Eccomi col secondo capitolo e... Albafica! Yes, è lui!

Ringrazio ancora petitecherie per i consigli sulla Danimarca, altrimenti mi troverei l'esercito danese in casa ad arrestarmi per villipedio.

Che aggiungere? Ah sì, le note!

  • Frydenjord è totalmente inventato, mentre le altre città danesi citate esitono davvero (e il nome l'ha suggerito petitecherie).
  • Qua e là ho leggiucchiato che Albafica è olandese, dunque in questa ff ha finito per usare un cognome olandese e la moda di tale paese.

 

 

   
 
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