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Autore: Dernier Orage    14/09/2012    1 recensioni
Seguito di No Human Can Drown.
Michelle richiedeva le coccole del padre quanto Louise tendeva ad esasperarlo. Forse era genetico oppure una questione di abitudini; Annik Alunir, la nonna delle bambine, trovava come spiegazione la massima “non si sa quale forma possa prendere un desiderio, può manifestarsi in un figlio concepito pensando involontariamente ad un’altra persona” – Stéphane era certo che la madre se la fosse inventata. Quando andava a prendere a scuola la figlia minore tendeva ad accontentare ogni sua richiesta di soste lungo i giardini, tazze di cioccolata calda alla ricerca di un café che le accompagnasse con un piattino di caldi churros.
Genere: Generale, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'No Human Can Drown '
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Your Smile and the Other Lies





Agosto e la pigrizia da spiaggia, il lasciar correre la mente, lo sguardo attratto dalle onde del mare, il vociare dei bagnanti coperto dal vento. Il caldo sulla pelle, la luce riflessa dai cristalli di sale sulle ginocchia e i polsi, i momenti perfetti quando il rombo del motore di una barca diveniva flebile e rimanevano delle onde enormi ad infrangersi contro gli scogli e le pietre, sollevando turbinii di sabbia e sassolini, vetri levigati verdi, blu, trasparenti, ambrati.
Stéphane abbandonava le preoccupazioni, portate dietro fino al viaggio in auto verso Brest, quando ad una stazione di servizio si era fermato per chiamare impensierito Lala, una vicina di casa. Aveva cercato nell’abitacolo un numero di telefono, magari del cellulare, sbuffando aveva trovato soltanto un biglietto da visita della gastronomia senegalese, aveva risposto Bathie, il marito, e lui l’aveva pregato di dare un occhio alla signora Santagata, che quel caldo non le avrebbe fatto bene, non aveva l’aria condizionata in casa e, come molti anziani, non beveva i consueti due litri d’acqua durante la giornata. Ismaël nascosto dall’espositore sfogliava il Libé; dopo uno di quei caffè lunghi dei distributori ripresero il viaggio.
Il sole perpendicolare creava ombre brevi e scure, la sabbia scottava. Ciuffi di sterpaglie gialle adornavano e si arrampicavano sugli scogli, la spuma bianca sollevava legni chiari e nodosi. Le macchie di colore degli ombrelloni distesi, sempre a rischio per la brezza, rossi, bianchi, verdi, gialli, i teloni da mare tenuti fermi da borse di rafia o jeans, da paia di scarpe, libri abbandonati, spiegazzati, aperti e sfogliati dalle folate di vento.
Sebastian e Michelle si rincorrevano sulla spiaggia, saltavano dentro i salvagente come fossero stati degli ostacoli, Louise con l’orologio li cronometrava. Stéphane aveva le braccia e il naso già spellati, gli occhi socchiusi, distratti. Aspettava che si asciugassero i capelli e la sabbia sulle gambe, così da levarla con una scrollata; il brivido successivo all’uscita dall’acqua si era protratto per poco tempo.
Il sonno intenso li accolse a casa, dopo una doccia, dopo il pranzo. Le persiane accostate creavano una penombra dove Louise difficoltosamente cercava di leggere. Il caldo, il sale, il pasto avevano fatto addormentare Michelle e Sebastien sul lettone.
La camera che fu di Stéphane sembrava ogni anno più piccola, raccolta, schiacciata dal mobiletto della macchina da cucire, dal letto a castello di metallo laccato di rosso (non era una struttura solidissima, difficilmente avrebbe sopportato il peso di due adulti). Isolato ricordava vagamente il mobilio di una colonia estiva. Due étagères, una colma di riviste con cartamodelli, album di foto, raccoglitori con ricette battute a macchina, l’altra con dei piccoli adesivi sullo smalto dei ripiani, i nomi delle bambine scritti a penna, per non farle litigare su una maglietta non propria, dei pantaloni troppo lunghi per la piccola, una maglietta troppo stretta per Louise. I vestiti perfettamente piegati erano una profusione di colori confusionari. Davanti alla finestra, tra la scrivania ed il davanzale, era posizionato un vecchio computer senza connessione Internet, ricevuto dalla madre di seconda o di terza mano, quando il figlio del proprietario del bar aveva comprato un modello più recente.
La tranquillità non sembrava una tregua ma un momento di stasi, l’interruzione dello scorrere di un orologio. La sospensione della campionatura delle esperienze, l’impossibilità a riversarle nel lavoro, pagine e pagine. Avrebbe scritto, avrebbe aspettato. Dalla finestra aperta si vedevano ancora le gru e i carriponte, le luci lampeggianti, il verde ed il rosso, gruppi di portuali dalle divise blu stinte e i caschetti bianchi o gialli. Sotto il sole lavoravano lentamente, indicavano percorsi, numeri di container con le dita, comunicavano con delle ricetrasmittenti, dentro i gabbiotti bevevano acqua da bicchieri di plastica e segnavano su gli interminabili elenchi le compagnie di spedizionieri.
All’orizzonte il mare era d’argento, mille bagliori metallici ferivano gli occhi, poco sopra una linea di piombo delimitava il confine del cielo. Se Stéphane avesse socchiuso gli occhi avrebbe notato i vortici blu del cielo non uniforme.

- Attenzione alla ferita, non credo che vada d’accordo con la vernice.- Aveva proferito Ismaël alle dieci di mattina, i resti della colazione in bicchieri di carta, briciole e fazzoletti stropicciati sopra una consolle.- Ci mettiamo un cerotto? Dovrei averne nel portafoglio.-
- Con i bambini si iniziano a tenere i cerotti invece che i profilattici.- Rise Anais porgendogli il dorso della mano destra e cercando con l’altra il pacchetto delle sigarette nella tasca dei pantaloni. Aveva le occhiaie marcate e gonfie. Non era riuscita a scacciare il nervosismo nel tempo di dipingere un’intera parete, aveva tenuto la scala ferma mentre Ismaël passava il rullo sul soffitto.
Finire in un unico giorno era una buona media, sarebbe dovuta bastare per comprendere, dopo anni, quale ruolo Anais dovesse attribuire ad Ismaël. Pensava che fosse un innamoramento adolescenziale, ognuno a casa propria, forse non sarebbe nemmeno riuscita a viverci insieme, a domarlo, a non farsi ferire – poi ragionava che non avesse molto senso pensarci. Se il destino aveva scelto così, c’era qualche motivo; le situazioni non si risolvono a metà. Era indecisa tra l’accettare di rimanere sola, desiderare la forza per riuscirci, o aver il coraggio per trovare una relazione. Nel frattempo, osservava.
Nel tardo pomeriggio avevano finito di tinteggiare tutte le pareti portanti, le cornici delle finestre, avevano levato i cartoni di protezione dai pavimenti e lasciato circolare l’aria.
Il grande appartamento aveva cambiato completamente volto: dopo il portone si accedeva in un lungo corridoio, sulla sinistra una prima porta per un locale, una sorta di lavanderia con una lavatrice ed un’asciugatrice, un lavandino e la centralina elettrica; una seconda porta per la grande prima casa di Neven e Gwenna, il salone enorme, uno studio, due bagni, una cucina e le camere al piano superiore, collegati tramite una scala a chiocciola – avevano già installato un piccolo cancelletto per quando il bambino, o la bambina, avrebbe cominciato a camminare. Sul lato destro c’erano le porte dei tre monolocali, differivano di poco sulla pianta ma nell’arredamento erano quasi opposti. In particolare i due da mettere in affitto, il mobilio funzionale e minimale da catena di arredamento, colori accesi e coordinati; adatti a delle giovani coppie, qualcuno a cui fosse agevole la camera da letto in un soppalco.
La porta in fondo al corridoio era dipinta di un colore che Anais aveva definito verde persiano, alcuni arabeschi dorati decoravano i cardini e la serratura; un cartellino gemello a quello della pulsantiera del citofono riportava entrambi i cognomi, Alunir e Chalm, ordinati secondo l’alfabeto.
La disposizione e il restauro dei mobili non aveva risentito, come invece era accaduto per l’appartamento di rue Deparcieux, del feng shui di Cricri, della povertà, della poca voglia e della solitudine. Due credenze speculari in mogano esibivano fiere il sostegno di due, quattro sfingi accosciate, all’interno lo spazio era conteso da camicie di cotone mal piegate, latte di zuppa pronta, qualche bottiglia di superalcolico, bicchieri, tazze e piatti spaiati, qualche volume sgualcito di poesia.
Disposti in modo simmetrico, due divani di un verdeblu freddo e i cuscini di velluto nero riempivano la stanza. Non c’era una televisione o una radio, le porte del piccolo bagno e del cucinino erano chiuse, all’interno avrebbero rivelato due stanzette dai soffitti bassi e due piccole finestrelle orizzontali. Le scale erano ripide e conducevano alla camera da letto; il parapetto di ottone era un pezzo originale di inizio Novecento, precedentemente collocato nel primo pianerottolo. La struttura del letto non era alta, si accordava al soffitto, le lenzuola nere. Nel complesso la stanza era spoglia ed appena adatta a brevi soggiorni.
Ismaël aveva socchiuso le palpebre disteso sul divano, i minuti si erano trasformati in quarti d’ora, i quarti d’ora si erano trasformati in un’ora e mezza. Qualche immagine si era rincorsa: una cravatta allentata, un paesaggio invaso dalla luce, un vertiginoso abisso dai colori seducenti e i profumi dolci. Si era svegliato sotto il peso e il solletico di Sebastien. Il bambino faceva il diavolo a quattro, urlava, lo scuoteva; appena vide gli occhi aperti si allontanò, forse temendo di essere sgridato.
- Tu devi esserci al mio compleanno. Tuo marito ti lascia venire?- Domandò Sebastien aggirando il divano, appoggiò i gomiti sulla spalliera, con le mani lisciò il velluto di un cuscino.
- Mio marito mi lascia andare?- Ripeté Ismaël ad alta voce, non trattenendo un incerto sorriso.
Stéphane dalla cucina cadde dalle nuvole, tossì per l’acqua andata di traverso.
- Sebastien…- Cominciò lo scrittore, non seppe andare avanti per spiegargli che no, non erano propriamente sposati. Non seppe farlo o se fosse giusto farlo, come il dare per scontate certe situazioni, certi modi di fare.- Certo che verrà.-
A quasi quarant’anni si erano risolti bene. Avevano sciolto dei nodi, districato dei fili, assestato qualche curva ad una retta immaginaria. Avevano tinto un maglione di lana, da azzurro a blu, ma era solo un estremo simbolismo.

L’eccesso di tristezza di Louise fu altamente spiegabile. Il velo che rendeva gli occhi opachi, la felpa leggera che si era voluta mettere nonostante fosse fine Estate e facesse discretamente caldo, quei sospiri fatalisti e arrabbiati, autocommiserevoli mentre smangiucchiava una tavoletta di cioccolato al latte.
Stéphane avrebbe dovuto portare le figlie e Sebastian al mare, per gli ultimi bagni prima del ritorno a casa e a scuola. Avevano preparato tutto, come ogni giorno di sole, i costumi e i teli si asciugavano in appena due ore; era passato a prendere il nipote, aveva lasciato l’auto in seconda fila in rue Neuve. Annik gli aveva chiesto di salire, doveva parlargli.
Dieci minuti dopo Ismaël aveva sentito le chiavi girare nella serratura, il vociare del corridoio.
- Louise è diventata signorina.- Stéphane aveva imitato la voce e il tono della madre, appoggiandosi alla porta, pronto ad andar via.- E sì, è intrattabile.-
- Papà, non è vero!- Sbottò la piccola dallo sguardo disperato ed imbarazzato.
- Hai cambiato stazione radio ogni cento metri, sei intrattabile.- Aggiunse Stéphane prima che la porta venisse chiusa.
Ismaël pensò che non avrebbe potuto dirle che si sarebbe abituata, che era una cosa normale, forse sì di non aver imbarazzo. Le preparò una tazza di latte freddo e tagliò una fetta della torta di pere e cioccolato che Annik aveva sfornato.
- Possiamo giocare a scacchi.- Propose trasportando il vassoio di legno fino al tavolino davanti al divano. Louise si stringeva nella felpa, socchiudeva gli occhi sorseggiando il latte o studiando le mosse. Aveva gli occhi lucidi di lacrime e opachi di tristezza, come se vergognasse o cercasse un’estrema scusa all’esser cresciuta, come se fosse un momento di stordimento, come se quel miscuglio che stava provando rimbombasse contro la cassa toracica.- Vuol dire che stai bene, anche se noiosa, non è una brutta cosa. Però avrai una scusa in più per rimanere a casa.-
- Con papà? Preferisco la scuola.- Aveva declamato Louise con un’espressione buffa, togliendo tutte le sue pedine, vicina all’ennesima disfatta. Stando attenta a non sporcare la carta aveva aperto un blocco da disegno, sfilato una matita incastrata nella spirale di fil di ferro.
- Potrai venire con me in negozio.- Accennò Ismaël.
- Si comincia a ragionare.- Borbottò Louise mentre con perizia cercava di stabilire il centro del foglio. Era carta-cotone, elegante, bianchissima, adatta agli acquerelli, anche senza conoscere il prezzo del blocco, Louise percepiva il suo valore, inconsciamente tentava di non sbagliare, di trovare la perfezione al primo colpo. Indugiava con la punta della matita, premeva appena per tracciare un’ossatura fatta di ovali, di cerchi leggeri.
Ismaël si sporse per tracciare una lunga riga con la penna blu.
- Lou, è inutile. Non puoi avere paura di un foglio; devi contaminarlo.- Ismaël poggiava i gomiti sulle ginocchia, i pantaloni della tuta che Stéphane indossava le rare volte che andava a correre. Erano macchiati della vernice bianca e quella color carta da zucchero.
Lei lo guardò imbronciata, poi dubbiosa. Con concentrazione disegnò dei fiori confusi, sbiaditi, trepidanti.
Dei papaveri, da riempire di rosso.















   
 
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