Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: Love_in_London_night    28/11/2012    8 recensioni
Una promessa difficile da mantenere, quella del titolo. Difatti è una promessa infranta.
Una scelta da cui ne conseguono tante altre, molte obbligate.
Quindi c’è Pemberley, che non si è fermata un attimo negli ultimi dieci anni e non sa quale direzione ha preso la sua vita.
C’è Nathan che è il suo passato, il suo primo grande amore. Il custode di quel cuore che poi la proprietaria si è ripresa con la forza.
C’è Rhys, che non è perfetto e lei mai si sarebbe vista con un tipo simile, ma qualcosa tra loro sta succedendo.
E c’è Naive, l’ago di una bilancia troppo delicata, come l’equilibrio che tutti questi personaggi faticano a trovare.
Rhys è l’occasione di Pem per voltare pagina dopo anni, ma cosa succede se il passato, con le fattezze di Nathan, ritorna, anche se non proprio per lei? E se ci fossero nuove responsabilità per qualcuno a complicare il tutto?
Una storia, un grande inganno su come la scelta sbagliata possa essere quella giusta.
Dalla storia:
“«Mi piace il buio» sentenziò Pemberley dopo poco.
«E perché?» lui la trovò strana come affermazione.
«Perché può essere sempre illuminato».”
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A



Video Trailer di Ti ruberò il cuore


Capitolo 3

Grandma said

L’aria odorava di buono e inaspettato, adorava il profumo delle esperienze che doveva ancora provare.
Fermarsi a riflettere, però, era deleterio. Capire in che giorno la tua vita era cambiata, e guardarlo a posteriori era come rivivere a più riprese quel momento e non potere far nulla. Non si poteva cambiare ciò che era stato, era troppo tardi.
Eppure non riusciva a pentirsi di ciò che era successo, perché la sua vita, nonostante tutto, era bella così. Non perfetta, ma appagante, anche se le mancava qualcosa. Pemberley si poneva sempre dei traguardi, perché se non si avevano scopi da perseguire e raggiungere non si viveva più. Ogni giorno era una scoperta e stupirsi delle piccole cose era il modo migliore per godere appieno di ciò che veniva offerto a una persona, e lei lo sapeva bene.
Ecco perché aveva accantonato i pensieri che riguardavano la sua vita oltreoceano per abbandonarsi alla compagnia di un ragazzo sconosciuto. Avrebbe ricordato per sempre il suo profumo, forse una colonia costosa, come l’odore della novità.
Si avviarono a passo lento per le strade illuminate e festanti, mentre Pemberley digitava un messaggio a Silene.
 
Faccio un giro con Rhys, il ragazzo che era con me nella cabina della ruota. Non ti preoccupare, tutto ok, è carino! Ci vediamo in Hotel, a dopo.
E quello secondo lei era un messaggio esauriente riguardo le circostanze?! Se ne stava andando con uno sconosciuto chissà dove! Solo lei vedeva la gravità della situazione?
Sospirò sconsolata, in fondo era quello che si augurava per lei: passare dei giorni divertenti e magari sperare in qualche fortuito incontro. Per una volta, sembrava che Pemberley le avesse dato ascolto.
«Cosa succede?» Colton le si fece vicino. Non era male fisicamente a suo avviso, ma era il fascino che contribuiva a renderlo più bello agli occhi delle donne. Purtroppo però non ai suoi. Lui, nel tentativo di conquistarla, aveva esagerato, passando così per il classico uomo pieno di soldi e di sé da non lasciare posto ad altro se non al suo ego.
In quel giro sulla ruota panoramica aveva parlato dei suoi viaggi, delle sue case, della sua barca di quindici metri e del suo stipendio. Tutti argomenti che non avevano fatto presa su Silene, che puntava più alla sostanza rispetto all’apparenza.
Inoltre era urtata dagli altri due amici che, quasi posseduti, si toccavano in modo spudorato e indecente. Era quello il modo di comportarsi in pubblico?
«Succede che la mia amica ha deciso di fare un giro per Lione con il tuo amico» l’ultima parte della frase venne sputata come un’offesa atta a ferirlo e mortificarlo.
Colton, al posto di sentirsi oltraggiato, scivolò sulla panca per avvicinarsi ulteriormente alla ragazza, sulla faccia il ghigno soddisfatto e seducente di chi aveva la vittoria in tasca.
«Quindi questo vuol dire che hai tempo per stare un po’ con me…» non era nemmeno una domanda, solo la conclusione di una persona troppo sicura delle sue possibilità di riuscita.
Silene spostò il braccio che le aveva posto dietro le spalle e gli rispose a tono «Significa, caro il mio presuntuoso Colton, che appena sarò fuori di qua – a breve, visto che siamo in dirittura d’arrivo – tornerò dai miei amici, perché di te ne ho avuto abbastanza».
Lo scansò con grazia e decisione, giusto per essere chiara ma non scortese, e tornò a guardare fuori. Stava odiando il destino per il brutto tiro mancino che le aveva giocato. Perché a lei tre pazzi fuori controllo mentre all’amica un bel ragazzo con cui proseguire la serata?
Anche lei era da un po’ che non aveva un ragazzo accanto, non solo Pemberley. Poi sorrise, ricordandosi che lei non aveva bisogno di quella pausa dalla realtà, mentre l’amica sì.
Abbandonò al volo la cabina, salutando quegli estranei e ringraziandoli – con un velo di ironia – per la compagnia che le avevano riservato.
Tornò dai suoi vecchi colleghi con un sorriso e una nuova speranza nel cuore riguardo Pemberley; non era Jacques, ma era comunque un buon inizio.
 
Avevano camminato seguendo la massa per le vie della città. Palazzi che diventavano quadri o facce che si muovevano, fontane che si coloravano e mostravano le proiezioni di persone in movimento, tutto era diventato luce e azione, lasciando la gente senza fiato per l’emozione.
Parlando del più e del meno, ma non sbilanciandosi mai troppo, erano arrivati in una parte imprecisata della città. I giochi di luce si erano fatti radi, così come la fiumana di persone che riempiva ogni viale. La vista era meno spettacolare, ma le orecchie godevano di quel rinnovato silenzio e dell’inaspettata tranquillità, una bella differenza tra le musiche e il chiacchiericcio della vie principali.
«Dove siamo finiti?» mormorò divertita Pemberley, rendendosi conto che non aveva mai visto una simile piazza o strada, nemmeno di giorno.
Rhys si guardò intorno, spaesato. «Non lo so».
Una folata di vento più gelida delle altre fece rabbrividire Pemberley, costringendola a rintanare la faccia nella sciarpa e a stringere il cappotto all’altezza del collo per non lasciar passare il freddo. Rhys fece la stessa identica cosa.
Si guardarono nello stesso momento e scoppiarono a ridere per la casualità di quei gesti.
Pemberley guardò l’ora, d’improvviso il cuore sprofondò nello stomaco. Erano quasi le due e, contando il fuso orario, a New York mancava qualche minuto alle nove, non aveva molto tempo per fare la chiamata a cui non avrebbe rinunciato per nessun motivo.
«Devi andare?» era cortese, non freddo come l’aria che li aveva colti prima, ma distaccato come la mezza stagione che raramente si mostrava per come doveva essere davvero. Rhys aveva la stessa tendenza a nascondersi dietro una bella visuale, facendo dimenticare quanto in realtà, come le foglie rosse e arancio che riempivano i prati di Central Park, fosse arido e secco.
L’impronta che gli avevano dato i suoi genitori, con il loro essere distanti. I precetti che aveva fatto suoi come se fossero delle vere e proprie ragioni di vita. Le uniche certezze che conosceva e che applicava con facilità a ogni campo da lui conosciuto.
Il successo del suo potere, l’aridità della sua vita; una cosa che avrebbe scoperto solo con l’aiuto di Pemberley.
«Sì. Non è a causa della tua compagnia, credimi, è che non voglio far preoccupare Silene, e devo fare una telefonata importante» cercò di scusarsi, come se gli dovesse realmente qualcosa.
Lui sembrò prenderla meglio del previsto. Anche lui viveva di telefonate importanti, e vedere quanto la ragazza gli somigliasse riguardo a puntigliosità lo stuzzicava, oltre che fargli molto piacere.
«Allora andiamo. Dove alloggi? Ti accompagno»  girò le spalle alla piazza illuminata di arancio senza quasi prestarle attenzione.
Pemberley, invece, si riempì gli occhi di quella calma colorata, memorizzò ogni cerchio di luce che ricordava il colore delle foglie che ricoprivano il lastricato e, mentalmente, salutò tutto quello. Sapeva che non avrebbe più avuto occasione di rivederla, come sapeva di non aver più occasioni per passare altro tempo in compagnia di Rhys. Le cose belle finivano sempre, e lo facevano prima di tutte le altre; era parte della loro natura essere sfuggenti, durare il tempo di un battito per morire nella loro imperfetta eternità.
«Non ce n’è bisogno, davvero». Alloggiava in un semplicissimo hotel, un tre stelle dall’aria un po’ fatiscente. Un palazzo degli anni trenta lasciato in balìa dell’usura del tempo. Non voleva che il padrone di mezza New York vedesse quanto fosse stata modesta la sua scelta. «Non voglio farti allungare la strada del ritorno».
Ma lui non demorse. Sorrise schietto e genuino prima di rivolgerle di nuovo la parola «Non dire sciocchezze, non lascerei mai una ragazza da sola in giro per una città sconosciuta. In special modo se ha accettato la mia compagnia qualche ora fa» e le porse il braccio.
Era colpita: sentì il cuore accelerare i battiti. Non era da tutti imporsi senza davvero darlo a vedere come aveva fatto lui, mettere gli altri nella condizione di accettare il proprio volere senza che passasse per imposizione. Si vedeva che conosceva a fondo le buone maniere, studiate nei collegi più severi ed esclusivi del paese e, inoltre, aveva un fascino naturale. Dei modi di fare quasi impeccabili, se non fossero stati viziati dalla sua genuinità, così insiti da essere ordinari, per lui.
Modi di fare che non facevano ostaggi, solo vittime; e Pemberley sapeva di star per cadere nella trappola, ma non riusciva a resistere a Rhys, non quella sera. Non voleva.
«Sono vicino alla Soana, alla fine di Rue Saint-Georges, Hotel Des Artists» disse lei cingendo il braccio che le era stato offerto. Trovò confortante il caldo che proveniva dal corpo di Rhys, una piccola tentazione a cui fece fatica a non rispondere. Si domandò come baciasse, a come fosse sotto le coperte, a quanto ci tenesse a far provare eccitazione alla propria partner.
«Il nome è grazioso, ma l’Hotel non l’ho mai sentito nominare. Sarà perché alloggio un po’ più su e di Lione non so nulla, in pratica» alzò le spalle, allontanando quella sensazione di ignoranza che New York non gli dava.
Era da un po’ di anni che non faceva sesso Pemberley, e il pensiero di prima nacque spontaneo. Due anni, per la precisione, da quando aveva smesso di uscire con Paul, il bancario sfigato che in realtà non le era mai interessato.
«E dove alloggi?»
«Al Villa Florentine».
Era chiaro, aveva scelto l’albergo più lussuoso della città, dove peccare non era reato. Tutto ti era concesso, se pagavi, anche l’amore. Ma era così ovunque, nel mondo, non solo negli hotel a cinque stelle.
Cercò di tornare alla realtà, dimenticando i pensieri impuri per dedicarsi alla limpidezza della sua compagnia.
«Dici che ci rivedremo a New York?». Porre quella domanda l’aveva fatto sentire un ragazzino indifeso. Imputò la colpa di quella sua debolezza alle luci che, riflesse nell’acqua della Soana, uno dei due fiumi che divideva Lione, piano si spegnevano sotto i loro occhi, lasciandoli disarmati e fragili nella cecità del buio da cui erano circondati. Quell’oscuro in cui si erano avvicinati per sentirsi meno soli.
Eppure, a Rhys non sarebbe dispiaciuto. Aveva riscoperto l’arte di corteggiare una donna per conquistarla e non sedurla per poi abbandonarla. Era stato il suo orgasmo più soddisfacente di quegli ultimi anni, perché era stato mentale e non fisico.
«Penso che dipenda da noi, no?». Sorrise imbarazzata «Mi hai fatto venire in mente una cosa. Mia nonna diceva: “Non fare in modo che ti noti subito, fa’ in modo che si ricordi di te poi».
Continuò allontanandosi da lui, in cerca del panorama. «Non pensi si adatti alla situazione? Dipende tutto da questo. Mi hai notata e basta, o ti ricorderai di me?!» si appoggiò alla balaustra di spalle, e Rhys notò che ormai l’unica cosa a creare riverbero nel fiume era la luna e qualche pallida luce che illuminava la camminata da loro percorsa. Fissò il profilo di Pemberley e, per la prima volta, si accorse che i suoi occhi brillavano più di tutte le luci dell’intera festa.
Si avvicinò incuriosito. Suo nonna le aveva detto una cosa sensata, ma la parte che lo stupì fu quella in cui Pem la fece sua. Quanti nipoti ascoltavano davvero i consigli dei nonni?
«Il mio Hotel è là, in fondo alla via dietro le tue spalle».
Ma Rhys non ascoltava più, si era avvicinato attratto dall’argento che le incorniciava la pelle, dalle labbra piccole e carnose che nel buio erano diventate scure, color della carne diventata preda. Un richiamo in cui non si poteva evitare di affondare i denti.
Mise le mani ai lati del corpo piccolo di lei, delineandone i confini con una piccola distanza. Era più alta della media delle donne normali, ma era sempre lui a sovrastare tutti dal suo metro e novanta abbondante.
Lei si accorse della sua presenza e voltò il viso trovando gli occhi di lui più vicini di quel che pensasse. Il battito accelerò, ma decise di non darlo a vedere, ostentando una sicurezza che non aveva.
«Sta a te. A quanto farai per essere ricordata o solo notata» non c’era malizia nel suo tono, era solo serio, come se fosse stato sul punto di chiudere un affare importante e avesse messo il cliente alle strette, lasciando a lui la decisione.
Pemberley tolse le mani dal muretto dietro di sé e le posò sul bavero del cappotto, facendole scorre su quella lana di ottima qualità. Si protese sulle punte, mise le mani fredde sul collo di lui per avvicinarlo a sé e lo baciò. Un bacio languido, irruento e casto come poteva essere Pemberley. Un bacio potente, che avrebbe lasciato strascichi a Lione come nelle loro vite.
Rhys non si aspettava una simile risposta, ma replicò a dovere, contento di quello che stava succedendo. Le strinse la vita e si abbassò per permetterle di avere un facile accesso alla sua bocca.
Non fu un bacio lungo, perché a Rhys non piaceva la sensazione umida che lasciano i baci prolungati, ma aveva apprezzato ciò che gli era stato offerto. Qualcosa di inaspettato, come lei.
Quando Pemberley tornò con i piedi per terra e si separò da lui, frugò nella borsa. Ne estrasse una biro e un’agenda, scarabocchiò qualcosa su una pagina pulita, infine piegò il foglio e glielo porse.
«La prossima mossa è in mano tua Iron Man, sta a te decidere se con questo bacio mi sono fatta ricordare, o solo notare» disse mentre si allontanava da lui, ancora basito per l’imprevedibilità della ragazza. si stava distaccando da lui e non se ne era nemmeno accorto.
«Iron Man?» non capiva.
«Non sei un multimilionario potente e un po’ cinico, almeno all’apparenza?!» rispose lei divertita.
Annuì poco convinto.
«E allora sei come Tony Stark, o Iron Man. Sono la stessa persona».
Girò le spalle e si diresse verso le uniche luci accese nella piccola via, dove c’era l’albergo. La camminata sicura e sinuosa e una mano che si muoveva nell’aria, salutandolo appena.
Non sapeva il nome della nonna di Pemberley, non sapeva nemmeno se fosse ancora in vita, ma era a conoscenza di una cosa: le parole che aveva detto alla nipote erano vere, e lui si era ritrovato invischiato in quella semplice, quanto complicata, teoria.
Lione non era così facile da dimenticare come pensava. Credeva di averla solo notata, invece, l’avrebbe ricordata per lungo tempo. Forse per sempre.
 
Dicembre, con i giorni forsennati che lo contraddistinguevano, era volato come il sussurro di una frase nel vento, lasciando il posto allo scarno gennaio, dove tutto sembrava meno magico, meno illuminato e ancor più frenetico. Le luminarie natalizie erano sparite, riposte chissà dove per la prossima festività, lasciando il posto alle scritte dei saldi che, per quanto invogliassero a comprare, dell’atmosfera che si liberava a Natale non avevano nulla, lasciando nell’animo delle persone un vuoto che si sarebbe riempito con il primo germogliare dei fiori a Central park. Gennaio si era portato via tutto: le luci, gli odori di zenzero e cannella, i regali, le feste e, con esse, i buoni propositi.
Pemberley, nella solita pausa pranzo, si era incontrata con Silene. Non lavoravano propriamente vicine, ma Silene, dall’alto del suo nuovo titolo di associata a un vecchio studio legale, poteva permettersi di staccare quando meglio credeva e, dato che Pemberley da più di un mese a quella parte aveva imparato dopo anni a ritagliarsi degli spazi per sé, avevano deciso di approfittarne.
«Andiamo, sii positiva!» la ammonì l’amica, la persona che vedeva sempre gli aspetti buoni di ogni faccenda, anche la peggiore.
«Forse hai ragione tu» le sorrise appena, facendo rigirare la cannuccia nera nella bibita gassata troppo dolce ma che tanto le piaceva «In fondo ci siamo visti un paio di volte o poco più, stasera non sarà così importante, anche se sarà la prima cena».
Se Pemberley avesse ripensato a dicembre in quel momento, avrebbe strabuzzato gli occhi. Aveva lavorato come una dannata, con tutte le clienti alla ricerca dell’abito giusto proprio dopo Natale, a causa degli anelli ricevuti in dono. Il resto del tempo l’aveva trascorso in famiglia. I suoi e Naive, le cose più preziose che aveva. E, anche quell’anno, Nathan si era fatto notare per la sua assenza, ben più grande del pacco regalo che aveva fatto recapitare nel tardo pomeriggio della sera della Vigilia, puntuale come sempre. Nessuno aveva detto niente riguardo quella mancanza, ma i genitori la guardavano con un misto di pietà, compassione e astio che la rendevano sempre nervosa. Sapeva che quel tacito “te l’avevamo detto” era la parte più difficile da sopportare, nonostante la felicità di quella famiglia ritrovata fosse la cosa più importante per tutti loro, specialmente per Naive.
Per la prima volta, però, quella mancanza aveva trovato modo di essere riempita, almeno nell’animo di Pem. Poco dopo il ritorno in patria, un numero sconosciuto era comparso sullo schermo del suo cellulare touchscreen. Aveva risposto con il cuore in gola, il nodo delle aspettative che la speranza aveva creato in una manciata di secondi.
Con sollievo, aveva scoperto essere Rhys che, con il suo solito fascino da uomo sicuro a cui niente veniva negato, a meno che non lo avesse voluto lui, la invitava a vedersi per un caffè. Si erano ritrovati così in una di quelle catene famose in tutto il mondo per capire quanto di quello provato a Lione fosse volato con loro oltreoceano. Un tavolino tondo e troppo piccolo per permettere alle gambe di lui di trovare agio, due caffè bollenti e il suono di due voci che riempivano i silenzi freddi che si portavano nel cuore: gli ingredienti che avevano formato la loro pausa dai rispettivi lavori. Il suono cadenzato e armonioso di risa che si fondevano in una melodia sincronizzata, come se fosse stata abitudine e non novità, quel primo incontro. Lo sguardo gelido di lui che la scaldava, gli occhi di lei che lo studiavano dentro; una scoperta che aveva lasciato in entrambi un calore inaspettato, come il conforto tiepido che le giornate d’inverno lasciavano nella memoria delle persone.
Era stato facile, se non addirittura naturale, vedersi a inizio gennaio per un paio di pranzi informali. Gli impegni di Rhys non avevano permesso che la cosa accadesse prima, ma era stato ugualmente piacevole. L’attesa aveva innescato una piacevole voglia che si era palesata nelle guance colorite di entrambi al momento dei saluti non appena si furono incontrati.
Pemberley ricordava ancora come l’odore di lui fosse lo stesso sentito a Lione, quello che le faceva chiudere lo stomaco per essere così affascinante e nuovo. L’ebbrezza che solo una cosa inaspettata poteva donare.
Aveva impresso nella memoria come lui, serio, avesse iniziato il discorso più ridicolo mai sentito in una delle due occasioni.
«A Lione mi hai detto una cosa che mi ha colpito molto. Una volta tornato ho comprato i DVD di Iron Man» alzò impercettibile un angolo della bocca «E li ho guardati».
Sorrise beffardo, come se avesse detto qualcosa di divertente, poi si piegò sul tavolo è continuò «Per inciso, ti ringrazio perché è stata la prima sera dopo tempo immemore che ho passato a casa e ho avuto così la scusa per inaugurare il lettore DVD che ho comprato due anni fa e non ho mai usato».
La notizia la sconvolse, se il suo lettore DVD avesse potuto parlare, come minimo avrebbe chiesto pietà. Tra i cartoni e le commedie romantiche su chi si trovava a sospirare ogni sera, non sarebbe durato ancora a lungo. Non capiva come Rhys potesse preferire vestirsi di tutto punto dopo una giornata di lavoro, mangiare fuori casa e vedersi con persone che parlavano ancora di lavoro o che lo accondiscendevano per il ruolo che ricopriva. Si ritrovò a pensare che doveva condurre una vita triste e molto solitaria.
Lei adorava passare le sere con le luci spente, una coperta e il divano, la cioccolata calda e, infine, le risate con Naive. Quello era il suono che più si avvicinava alla felicità che avesse mai sentito.
«Comunque… Davvero non capisco perché tu mi abbia paragonato a lui» concluse infine serafico e distaccato, come se avesse tirato le conclusioni davanti al bilancio annuale della sua società, tanto che Pemberley dovette trattenersi per non scoppiare a ridere.
«Perché dici questo?» voleva capire fino a che punto si vedesse diverso da Tony Stark.
Si schiarì la voce, leggermente a disagio per doversi esporre a quel modo «È vero, Stark ha un cospicuo conto in banca e un immenso potere. Ma lui ha una certa ironia, un’autoironia, che io non posseggo. Io sono più… Asettico, o meno divertente».
Inutile dire che lei aveva già notato quella cosa. Rideva poco, come se fosse stato un male, e non era certo avvezzo a battute che lo rendevano il giullare di corte. Eppure, nonostante tutto quello, Pemberley poteva dire che aveva visto un qualcosa di positivo in mezzo a tutta quella freddezza, una scintilla di solarità che avrebbe voluto scoprire volta per volta, per rimanerne sempre stupita.
Si allungò un po’ sul tavolo, sfoderando la sua aria complice «Ti ho paragonato a Iron Man per il suo conto in banca, anche per il suo potere e la sua influenza, ma non solo: come lui sei d’acciaio, indossi una maschera che non mostra le tue emozioni e ti difende dal mondo. Penso faccia parte di te e del ruolo che ricopri, ma io so che dietro a tutto questo c’è molto altro. E, lo ammetto, mi piacerebbe scoprirlo».
Aveva allungato la mano sul tavolo con fare innocente. Se avesse voluto provare a dimostrarle qualcosa, avrebbe potuto stringerla e giocare con le dita lunghe e magre di lei. Rhys la fissò, provò ad avvicinare la propria ma, alla fine, la ritrasse, perché negare ogni contatto era più forte di lui, era da lui essere così.
In compenso, decise di compensare quella mancanza con delle parole «Sono felice che tua nonna ti abbia detto una simile cosa, una volta. Era una gran donna e aveva ragione. Io non ti ho solo notata».
E le chiacchiere si erano dilungate anche oltre al pranzo, chiudendosi in un timido bacio sulla guancia che Pemberley gli lasciò prima di salutarlo. Un piccolo gesto che doveva provare a sciogliere un po’ la freddezza dietro cui s’era sempre nascosto. Aveva visto gli occhi liquefarsi un poco, persi in quella piacevole sorpresa; gli aveva sorriso contenta, infine si era avvicinata alla fermata della metropolitana con la sua solita naturalezza.
«Scusa puoi ripetere?» in realtà, in tutto il tempo in cui si era persa in piacevoli ricordi, aveva ignorato l’amica che, come un fiume in piena, aveva continuato a parlare, snocciolando teorie, consigli e chissà cos’altro.
Silene la guardò di sbieco, interrompendosi. Chiuse gli occhi, si schiarì la voce e sospirò arresa, conosceva bene la tendenza dell’altra a viaggiare con la mente nonostante stesse affrontando un discorso, era una delle tante cose che la caratterizzavano. Odiava questo lato, perché la portava a ripetersi e non le piaceva per nulla, ma era parte di Pemberley, e non poteva non apprezzare una persona che non smetteva di sognare e fantasticare nonostante la vita per lei fosse stata in salita. Lo trovava ammirevole. Odioso e ammirevole.
«Ho detto, mentre tu eri intenta a pensare a chissà chi, che non è poi da prendere così sotto gamba. È vero, è solo una cena e non è la vostra prima uscita, ma non sottovalutare le potenzialità della situazione».
Pem non riuscì a non sorridere «Non lo faccio, ma hai ragione tu a dirmi che non devo avere ansia».
Silene appoggiò la schiena alla sedia mentre posò la forchetta nel piatto «Perché tu hai avuto la fortuna di incontrare Rhys e io Colton? Perché non è successo il contrario? Lo volevo io quello galante e un po’ freddo che mi porta a cena, al posto di quella colla che ha tentato quasi di copulare con me davanti ai suoi amici. Che, per inciso, secondo me erano sotto effetto di stupefacenti».
Pemberley adorava l’amica, riusciva a mischiare il gergo lavorativo con la vita vera. Non sarebbe stato più semplice per lei dire che erano strafatti?! Si morse l’interno della guancia per non riderle in faccia, altrimenti Sil si sarebbe alzata e l’avrebbe abbandonata a quel tavolo da sola.
«Io so il perché» rispose con un cenno di rossore sulle guance «Rhys era stato attratto da qualcosa di chiaro nei pressi della ruota, erano i miei capelli. Colton poi, oltre a seguire il suo sguardo, aveva notato te e sperava di far colpo».
Silene avrebbe voluto rispondere, lamentarsi a proposito, dato che aveva scoperto direttamente da un’intervista rilasciata al New York Post che Colton Cane si era fidanzato ufficialmente qualche tempo prima, ma il cercapersone vibrò, lasciando vano ogni suo intento.
«Mi rivogliono in studio» sentenziò seria.
«Ok, tanto tra mezz’ora devo rientrare in negozio. Magari in questo tempo faccio un salto da MAC, un nuovo rossetto potrebbe portare il mio umore alle stelle» e le strizzò l’occhio con fare confidenziale.
«Brava, ma non metterlo stasera, magari fai passare la voglia di baciarti» sorrise mentre si infilava il cappotto. Una volta conclusa l’operazione appoggiò una mano sul tavolo davanti all’amica «In bocca al lupo Pem, è da anni che non ti vedo così felice ed emozionata per un appuntamento, sono contentissima per te. Te lo meriti. E vedi di far ballare un po’ la lingua, perché se non vi baciate stasera, dopo Lione, lo puoi pure scaricare. E, ti prego, fammi sapere come va a finire! Un sms, una mail, una chiamata, anche un piccione viaggiatore, basta che io riceva i dettagli subito dopo l’uscita».
L’interessata rise, era proprio vero che le sue caratteristiche si fondevano alla perfezione con il suo lavoro. Come avrebbe potuto, in aula, non incantare e convincere la giuria con quella parlantina?!
«Ok, ti dirò tutto appena torno a casa, ora vai, prima che ti caccino dallo studio!».
Non se lo fece ripetere una seconda volta, la baciò sulla guancia e poi uscì dal ristorante dopo aver pagato la propria parte del pranzo, tempo addietro avevano pattuito che si sarebbero sempre divise i conti, per evitare ogni volta di litigare su chi avrebbe dovuto offrire il pasto all’altra.
Pemberley rimase seduta ancora qualche minuto, crogiolandosi nel profumo di fiori d’arancio, sicurezza e serenità che Silene emanava, infine pagò e si diresse a fare un po’ di shopping prima di tornare a lavoro, la serata si avvicinava sempre di più.
 
Non aveva comprato alcun rossetto, perché nessun colore che aveva deciso di provare si sarebbe abbinato alla bocca di Rhys. Non che fosse importante, perché non l’avrebbe indossato quella sera, ma una tonalità era troppo accessa, l’altra troppo aggressiva e aveva sempre trovato un motivo al fatto che a lui potesse non piacere, e questo non poteva succedere, specialmente quella sera.
Si era ritrovata così nello spogliatoio di Forbes, il negozio in cui lavorava, con addosso un abito nero da cocktail che le arrivava appena sopra il ginocchio. Una gonna morbida e un po’ a palloncino, uno scollo  dal taglio classico se non fosse stato per il taglio che arrivava in mezzo al seno, lasciando a vista un po’ di carne. La giusta via di mezzo per essere elegante ma non volgare non mostrando poi molto. Delle semplici decolleté nere col tacco, un po’ di trucco e i capelli mossi.
Non doveva aspettarsi molto da quella serata, ma era più forte di lei pensare il contrario: in Rhys aveva trovato una compagnia piacevole, una sicurezza che derivava dal suo essere così abitudinario, e questo lato le piaceva molto.
Ripassò mentalmente ogni cosa: lei era a posto e quasi carina, i suoi e Naive erano a casa Voight così, in caso, se la cena fosse andata bene e avesse voluto invitarlo a casa sua a bere un drink poi, niente sarebbe stato fuori posto.
Tirò un sospiro di sollievo e iniziò a sentire l’ansia serrarle lo stomaco. Una sensazione spaventosa e rinvigorente. Era da anni che non provava una cosa simile, l’adrenalina scorrere nel corpo come un motore fluido e silenzio che corroborava ogni sua fibra. Più o meno da Nathan, perché quei pochi uomini con cui era uscita non le avevano mai dato nulla.
Guardò l’orologio affisso alla parete della stanza che, silenzioso, le diceva che mancavano un paio di minuti e tutto quell’agitazione sarebbe sparita, lasciando il posto a Rhys e a tutto quello che ne sarebbe conseguito.
Sorrise al pensiero del ragazzo: le aveva detto che sarebbe passato a prenderla. Da quanto non le accadeva? Di solito avrebbe chiamato un taxi per raggiungere il suo accompagnatore nel posto stabilito, pagando per arrivarci, ma quella volta sarebbe stato diverso.
Salutò i propri titolari e la guardia che aveva il compito di chiudere l’imponente negozio. Uscì nel buio illuminato che la città offriva, convinta di aspettare almeno un po’, invece si dovette ricredere: Rhys aveva appena parcheggiato davanti alla porta di Forbes.
Scese dall’auto e, dopo aver sistemato il cappotto, fissò lo sguardo su di lei e sorrise appena, quasi timido. Le andò incontro con la sua camminata sicura e la salutò cortese, porgendole il braccio mentre Pemberley lasciava che la sua essenza le riempisse le narici, facendole tremare le gambe al ricordo di Lione. Le piaceva non abituarsi mai alla sua presenza e alle sensazioni che riusciva a smuovere in lei.
La scortò con calma convinta verso l’auto, dove poi le aprì la portiera e la richiuse una volta che si fu assicurato che Pemberley fosse accomodata all’interno, un gesto che la sorprese per la sua antica galanteria. Aveva sempre sentito sua nonna e le amiche parlare di questi gesti d’un tempo, ma mai ne aveva avuto conferma: le uniche persone che le riservavano quella gentilezza erano gli chauffeur che, durante gli eventi a cui partecipava insieme alla sua famiglia, svolgevano semplicemente il loro lavoro e dedicavano le stesse attenzioni a tutti gli invitati.
Rhys entrò nell’abitacolo e accennò un sorriso «Ciao. Ti ringrazio per avermi dato quest’opportunità».
Pemberley non capì a cosa si riferisse «Di cosa stai parlando?»
Lui indicò la macchina mentre la mise in marcia, scivolando silenzioso nel lieve traffico di New York «Ho un sacco di auto, e mi piace guidarle, solo che non ne ho mai l’occasione. Stasera l’ho colta al volo, lasciando a casa il mio autista».
Gli sorrise gentile. Lei non poteva capire che gusto ci fosse a possedere tante auto e non guidarle nemmeno. Aveva la sua Ford, una semplice berlina grigia, che svolgeva al meglio il suo compito. Auto che aveva lasciato a casa, dato che Rhys sarebbe passato a prenderla. Per l’occasione aveva scelto l’Aston Martin.
Suppose che al ritorno avrebbe preso un taxi, come tutto i newyorkesi erano soliti fare. Peccato che loro dovessero pagare la tratta di una decina di isolati al massimo, lei invece si sarebbe svenata per percorrere cinquantacinque miglia; eppure l’avrebbe fatto volentieri, perché Rhys le ricordava quanto non avesse prezzo ritagliarsi dei momenti per se stessa.
«Allora, dove andiamo?» era curiosa, tanto valeva non nasconderlo nemmeno. Però constato che le chiacchiere in quella vettura la stavano tranquillizzando. Le luci dei lampioni e delle case infrangevano i vetri trasparenti e si riflettevano su di lei, scivolando silenziose e impassibili come solo Rhys poteva essere. L’auto scorreva lungo il breve tragitto senza emettere rumore, l’unico suono a tener loro compagnia erano le voci e le risate che emettevano, pacate ma sincere.
«Tra poco vedrai» ma non ci fu quasi tempo di risponderle, dato che aveva iniziato a parcheggiare l’auto in un posto libero davanti a un grattacielo imponente e all’apparenza vuoto.
Si sentì spaesata, perché quella era zona di uffici, pochi erano i ristoranti che poteva ricordarsi nei dintorni, nessuno all’altezza di un uomo come Rhys Hewitt. Era convinta di dover mettere piede in un ristorante che cucinava nouvelle cuisine e con piatti dai prezzi esorbitanti, una simile scelta l’avrebbe certo sorpresa e fatto ricredere molte cose riguardo i comportamenti dell’uomo con cui si stava accompagnando.
Rimase stupita quando si diressero proprio verso il palazzo poco illuminato e vuoto, incredulità che aumentò quando si rese conto di essere nella sede della HewittCorp.
«Cosa ci facciamo qui? Potevi dirmelo, io avrei potuto prendere un taxi e raggiungerti qui. Dio, mi sento così in imbarazzo per averti fatto arrivare fino a Forbes» si sentì in dovere di giustificarsi, non l’aveva fatto apposta, eppure le sembrava che la situazione richiedesse delle scuse, dato che si sentiva nel torto.
Salì nell’ascensore completamente rossa, si vergognava della sua dote migliore: l’ingenuità.
«Non dire sciocchezze. Ti ho già detto quanto mi abbia fatto piacere guidare. Davvero, è una cosa che mi è sempre piaciuta e di recente ho potuto dedicarci poco tempo. Sono io che dovrei scusarmi, ti ho quasi usata come scusa per riprendere l’abitudine».
Arrivarono a uno degli ultimi piani e Rhys, con una mano sulla base della schiena di lei, la guidò verso un grande spazio trasparente. Era un ufficio, solo che al posto della classica scrivania c’era un tavolo apparecchiato per due persone. La stanza non era illuminata, a farlo bastavano le luci che New York offriva in inverno, spiragli di speranza  provenienti da case e persone che si nascondevano dietro una finestra o una tenda.
«Wow» fu la reazione sbalordita di Pemberley che, presa alla sprovvista, abbandonò il suo accompagnatore per avvicinarsi alle vetrate che sovrastavano tutta Manatthan.
Rhys fu contento della sua reazione, puntava a stupirla e così era stato. Ora poteva dirsi soddisfatto e sicuro di avere la situazione in pugno. Muoversi in ambienti a lui consoni lo rendeva tranquillo e padrone di sé, sapeva di poter trarre il meglio da contesti simili.
Le si avvicinò piano, cercando di non interrompere il suo genuino stupore, una cosa che a lui mancava dall’abbandono del padre, o la scomparsa della madre.
Pemberley si guardò attorno e, nella penombra, cercò di assimilare più dettagli possibile dell’ambiente in cui si trovava «È il tuo ufficio questo, vero?»
Lui si aggiustò la cravatta sottile lasciata cadere alla perfezione sulla camicia azzurra, un gesto automatico che all’occhio di lei non sfuggì. Il movimento, di per sé casto, fece venir voglia a Pemberley di disfare il nodo e allentare i bottoni; poter accarezzare la gola e il pomo d’Adamo, sfiorare maliziosa con le labbra la pelle fresca di rasatura e stendersi sulla moquette che avrebbe attutito ogni loro movimento.
Deglutì imbarazzata, ricordandosi che, per fortuna, le luci erano spente.
«Sì, è il mio ufficio. Non mi piacciono molto i ristoranti di lusso per i primi appuntamenti, nonostante ti mettano in disparte non si ha mai la privacy che si desidera. Così ho pensato di riadattare il mio quartier generale, è tranquillo, nessuno ci disturberà e abbiamo New York come cornice».
«Stupire è il tuo forte, vero?» Pemberley non gli diede possibilità di rispondere, anche se Rhys non l’avrebbe fatto, dato che l’affermazione riguardo al suo piano svelato lo fece vacillare appena «È incredibile come tu veda ogni giorno questo spettacolo» poco più in là poteva scorgere una fetta di Central Park, come uno dei tanti laghi al suo interno sembrasse uno specchio di pece con una lacrima di perla all’interno. La calma da cui erano contornati era quasi palpabile, e sembrava estendersi fino all’Hudson e oltre, come se tutti gli Stati Uniti potessero essere contagiati da quella bolla in cui erano rinchiusi loro.
«Già, peccato che di giorno sia tutto così uguale e terribilmente grigio, diventa spettacolare solo col buio» la accompagnò al piccolo tavolo e solo allora Pemberley si accorse che c’era un maitre ad attenderli.
Questo la fece sedere e le accomodò un tovagliolo sul grembo, infine le diede un menù da cui scegliere le portate, dopo riservò lo stesso trattamento a Rhys.
«Ma dove cucinano?»
«Nelle cucine della mensa, le ho messe a disposizione degli chef» sorrise amabile da sopra la carta rivestita.
«È pazzesco» rispose con un sorriso incredulo e gli occhi sgranati.
Non erano le attenzioni a cui era abituata o che di norma le piacevano, ma erano i modi di Rhys, stava entrando nel suo mondo, poteva solo apprezzarne lo sforzo ed essergli grata per quell’opportunità; quando lui si sarebbe avvicinato al caos di lei, avrebbe scoperto le sfumature che intercorrevano tra la perfezione e l’inferno.
Scelsero i primi e i secondi da ordinare e, una volta lasciati soli dal loro cameriere personale, riuscirono a sciogliere sul serio i nervi.
«Allora, altre perle per cui ringraziare tua nonna, o ti ha rivelato solo quella che mi ha detto a Lione?» la guardò curioso e attento, era sempre pronto a carpire i segreti delle altre persone. Con il fascino o con il terrore era solito ad arrivare dove voleva.
“Il cuore si dona una volta sola” ecco cosa le aveva detto qualche anno prima di morire, quando Pemberley aveva sì e no una decina d’anni. Un ricordo che, davanti a Rhys, la fece sussultare quasi colpevole. Perché lei l’aveva donato a Nathan tempo addietro, ma se l’era ripreso nello stesso modo in cui gliel’aveva dato: in silenzio.
Nonna Sierra si sbagliava. Forse era una cosa che valeva ai suoi tempi, ma ora le cose erano cambiate. Tramite la facilità degli spostamenti in madrepatria e la semplicità con cui si poteva mantenere un rapporto mediante cellulari e computer, le persone erano portate a conoscere molta più gente; ciò, agli occhi di Pem, portava ad avere più possibilità di incontrare persone che potevano entrare a far parte della propria vita per i più disparati motivi. Rhys ne era la prova. Dopo quasi dieci anni aveva fatto battere di nuovo il cuore di lei, come se all’improvviso le avesse fatto capire che i pezzi distrutti che aveva tra le mani potevano essere rimessi insieme e, con un po’ di pazienza, le ferite sarebbero diventate cicatrici. Non era nuovo, era forse fragile, ma ricominciare era una sensazione meravigliosa che voleva godersi in ogni singolo suo istante.
Aveva riscoperto la vita in quei mesi, non l’avrebbe lasciata fuggire di nuovo.
«No, nessun’altra perla. Se ne è andata prima di regalarmene altre, o prima che io potessi capirle» sorrise rilassata dopo quelle parole. Per quanto sua nonna non ci fosse più, parlare di lei le faceva sempre piacere, era sicura che essere ricordata con un sorriso l’avrebbe resa contenta.
«Mi dispiace, avrei dovuto pensare prima di parlare» da quando uno come lui, che valutava i rischi e i pericoli di ogni singola azione, incappava in un simile errore di superficialità? Strinse i pugni attorno al tovagliolo che aveva adagiato sulle cosce, così da sfogarsi per quella pecca e passare inosservato. Odiava sbagliare.
«Non preoccuparti, mi fa sempre piacere parlare di lei, è un buon modo per ricordarla e onorarne la memoria» gli sorrise in modo che potesse trasparire la sincerità delle sue parole e aspettò una sua reazione.
Lo vide poggiare le mani sul tavolo, per poi dedicarsi ancora alle posate e al cibo nel piatto, come se avesse assunto di nuovo il controllo di se stesso alla perfezione. Aveva ripreso a parlare e a sorriderle in quel modo sicuro che affascinava chiunque avesse di fronte, parlando di tutto e tenendo le redini della conversazione.
Pemberley si fece cullare dal suono elegante e rassicurante della sua voce, lasciandosi trasportare tra le portate per arrivare d’improvviso al dolce; era giunto il tempo di lasciare il tavolo e quell’ambiente ovattato.
Senza bisogno di parlare si avviarono verso l’ascensore, un viaggio riempito da sorrisi caldi e leggermente ebbri dallo champagne. Fu solo all’aria fredda di quello spoglio gennaio che si ripresero, le guance bollenti e rosse piano si adattarono alla temperatura glaciale da cui erano circondate. Guance piene e rialzate dai sorrisi imbarazzati di lei, fossette quasi saccenti quelle di Rhys.
«Ti ringrazio per la bella serata, mi è piaciuta molto… È volata» gli sussurrò felice Pem.
«Penso che bisognerebbe riperterla al più presto» ecco l’uomo che con la sua persuasione riusciva a ottenere ogni cosa che voleva, e Pemberley dopo quella cena era in cima alla lista.
«Sì, presumo di sì» sorrise divertita e lusingata, sapere che anche lui aveva avuto la stessa impressione la rinfrancava un bel po’.
«Io forse ora è meglio che vada, si è fatto tardi e trovare un taxi a quest’ora non è il massimo…».
Fu la prima volta che sentì distintamente la risata divertita di Rhys.
L’aver detto qualcosa di sbagliato, di così stupido da farlo ridere la fece vergognare di aver aperto bocca. Si ritròvo a fissare la punta delle proprie scarpe, sempre dritta su se stessa tranne per le spalle che, dopo quel momento, avevano perso l’orgoglio che le contraddistingueva.
«Pemberley…» bisbigliò più roco e serio. Non aveva avuto il coraggio di abbreviare il suo nome, non era da lui esercitare quella forma di potere che i soprannomi davano. Se l’avesse chiamata Pem avrebbe significato molte, troppe cose, il conoscerla, l’avere un certo grado di confidenza e intimità, tutte sfumature che non c’erano ancora nel loro rapporto. Aveva sempre ringraziato i propri genitori per avergli dato un nome corto che non incorresse ad abbreviazioni, non voleva che la gente si arrogasse il diritto indebito di chiamarlo come meglio credeva, lasciando che trasparisse una complicità in realtà inesistente.
Il tono utilizzato da lui le fece alzare il volto senza volerlo, assecondando il richiamo di Rhys, ben più profondo della sola voce.
Inaspettato, arrivò un bacio.
Le avvolse i sensi in una calda emozione, facendole abbassare la guardia e perdere lucidità. Il cuore aumentò i battiti, le guance presero colore e il corpo perse vigore. Pemberley si strinse al corpo solido di lui, l’ancora a cui aggrapparsi in quel mare di sensazioni in cui stava fluttuando da quando le loro labbra erano entrate in contatto.
Appoggiò con forza le mani alla sua schiena e si rilassò solo quando sentì le braccia di lui attorno alla vita, in una presa salda. Solo dopo Rhys, senza aspettare un cenno d’assenso, inoltrò la lingua nella bocca di lei, saggiando il retrogusto del dolce alla crema di cui aveva goduto Pemberley poco prima.
Fu un attimo, il tempo in cui la scintilla nei loro corpi si accese e li infiammò. Una sensazione calda e languida dietro l’ombelico che scendeva verso le gambe, intorpidendo ogni movimento e svegliando il desiderio che, in agguato, non aveva mai dormito davvero alla presenza dell’altro.
«Era da Lione che volevo ripetere l’esperienza» le disse mentre delle fossette irresistibili si formavano ai lati del suo sorriso, poi vi si posò una goccia dell’imminente pioggia e divenne ancora più bello.
La voleva, voleva provare se anche a letto avevano quell’intesa; non poteva permettersi di sbagliare a scegliere una persona, era come pattuire il contratto sbagliato a lavoro. O ti andava bene tutto il pacchetto o non se ne faceva nulla; non esistevano contratti sufficienti di partenza che poi miglioravano col tempo, in caso era l’esatto contrario.
«Anche io» rispose a corto di fiato Pemberley, l’eccitazione che le scorreva lungo il corpo.
Dopo anni passati a conoscere le persone sbagliate, aveva trovato un uomo che con un bacio le risvegliava il torpore in cui era caduta. Desiderava spogliarlo e scoprirlo, avere il suo corpo vicino al proprio. Aveva bisogno della sua fisicità su di sé.
Si allontanò da lei senza accennare nulla, andando verso l’auto.
Aprì la portiera dalla parte del passeggero, infine si girò verso di lei «E ora su, ti accompagno a casa. Non avrai davvero pensato che ti abbandonassi qui e ti lasciassi salire su uno squallido taxi».
Era un gentiluomo, per chi l’aveva preso? Freddo forse, ma comunque conosceva le buone maniere, l’educazione e le etichette del caso, e queste non lasciavano che una giovane donna vagasse sull’auto di uno sconosciuto in piena notte. New York era sì la sua città, ma sapeva bene che non si poteva considerare sicura, niente era sicuro a quel mondo.
«Niente taxi?» aveva fatto un passo in avanti senza volerlo, ma doveva sentire la risposta in modo che non ci fossero fraintendimenti postumi. Possibile che avesse conosciuto un uomo che la apriva la portiera e la riaccompagnava a casa nonostante abitasse a cinquanta miglia da lì?
«No» e sorrise cercando di irretirla, riuscendoci.
«Grazie» riprese Pem avvicinandosi all’auto e accarezzandogli una guancia che iniziava a essere umida di pioggia, prima di entrare nell’abitacolo.
«Prego» rispose con gli occhi sgranati prima di riuscire a muoversi. Quel contatto l’aveva ghiacciato sul posto. Non riceveva una carezza dalle elementari, suo padre non si era mai azzardato ad avvicinarsi a lui se non per schiaffeggiarlo e punirlo per qualche pasticcio, sua madre era sempre stata fredda; il contatto in casa sua era bandito, specialmente se si trattava di affetto. Nemmeno le poche fidanzate che aveva avuto erano arrivate a un contatto così intimo dopo anni di relazione. All’inizio non aveva gradito una simile aggressione emotiva, ma poi si accorse che gli aveva fatto piacere, ricordandogli quanto in realtà fosse umano; sciogliendo qualcosa di congelato e dimenticato nella sua anima.
La strada scorreva veloce e silenziosa sotto di loro, l’auto aumentava di velocità come il fluire del sangue nel corpo di entrambi, sospinto dal desiderio reciproco.
C’era tensione nell’aria, e Pemberley lo sapeva bene. Voleva invitarlo a salire in casa per bere qualcosa, ma sperava di non dover arrivare e una vera e propria offerta, se non la propria.
Aveva alzato la gonna con indifferenza, lei, lasciando scoperta la coscia fasciata dai collant. Sapeva di non essere provocante, non ne era capace ed era una dote innata che non le apparteneva, ma voleva giocare con gli sguardi di Rhys fissi sulla strada.
Lui aveva osservato con interesse ciò che gli veniva proposto, gli piaceva ciò che vedeva, ma non era pronto a toccare quello che lo attraeva, posò così la mano sul cambio e si concentrò sul percorso, pigiando un po’ di più l’acceleratore.
Fu tra una chiacchiera e un sorriso che la mente di Pemberley si gelò. Avrebbe dovuto spiegare tutti i disegni attaccati al frigorifero, i giocattoli sparsi per casa, i cartoni accanto al lettore DVD, l’odore di innocenza che permeava tra quelle quattro mura. E avrebbe anche dovuto spiegargli perché non aveva mai fatto un accenno a tutto quello, a quell’esistenza così importante e silenziosa agli occhi del mondo di cui Rhys faceva parte. Come poteva dirgli che l’aveva fatto per darsi una possibilità con una persona che, per la prima volta dopo un decennio, la vedeva solo come una ragazza di ventisette anni? Come si sarebbe giustificata?
Non voleva pensarci oltre, rovinando così quel momento, decise che ci avrebbe pensato al momento opportuno, quando il problema si sarebbe presentato in tutta la sua maestosità.
«Dove devo andare?» Rhys la risvegliò dalle sue preoccupazioni poco dopo, indicando il navigatore.
«Nassau street» rispose prontamente, e lo vide inserire l’indirizzo nel computer di bordo.
Era felice di non dover parlare per dare indicazioni, stufa ormai di parlare, voleva usar le labbra per baciare quelle di lui, scorrere sulla sua pelle scoperta.
Rhys si fermò davanti al civico che successivamente gli aveva comunicato.
«Allora eccoci qua. Grazie anche per il viaggio, non pensavo potesse essere delizioso come in realtà è stato» e sorrise, facendo fissare Pemberley su quel gesto così sensuale.
«Ti andrebbe di salire a bere qualcosa prima di andare?» avrebbe voluto aggiungere altro, ma non se la sentì, mentire non le riusciva mai bene.
Negli occhi di Rhys passò un lampo di soddisfazione che andò a contagiare l’espressione del viso «Con piacere».
Pem non attese altro, non voleva che Rhys le aprisse la portiera, aveva fretta di raggiungere il primo piano, urgenza di aprire la porta e richiuderla alle loro spalle per scoprire poi cosa sarebbe successo.
Lo anticipò lungo la breve scala che portava al portone, una volta dentro Rhys le poggiò una mano sulla schiena e salì le scale al suo fianco, quasi sostenendola.
Il rumore dei passi sul marmo era forte e rimbombava come i battiti del cuore di Pem, desiderava quel momento da quando aveva conosciuto Rhys, e finalmente si stava avverando.
Aprì la porta nel rumore dei loro sospiri carichi di attesa e solo quando richiuse l’uscio Rhys la baciò di nuovo, slacciando ogni bottone del cappotto che indossava.
Presa dalla voglia seguì il suo esempio, togliendogli la sciarpa che aveva legato al collo e passando anche lei ai bottoni del cappotto. Si ritrovò, non sapeva come, contro il proprio divano, tra le mani il colletto della camicia di lui e le labbra addosso alle sue, separate solo da sospiri desiderosi di andare oltre.
Pemberley scalciò le scarpe col tacco, e con una colpì lo stipite della porta d’ingresso, facendo ridacchiare entrambi come se fossero ubriachi.
Solo poco dopo la luce del salotto si accese anche se nessuno dei due aveva premuto l’interruttore.
«Ma…»
«Naive!» si stupì di trovarla lì.
«Pem?» la voce maschile che la chiamò confusa era inconfondibile.
Sia lei che Rhys lasciarono andare i rispettivi indumenti, rimettendosi ritti e cercando di sistemare i vestiti e darsi un’aria innocente che in realtà non avevano.
«Nathan?!»
«Cosa sta succedendo?» domandò Rhys con l’orrenda sensazione che si insinuava in lui di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Pemberley sospirò, cercando di riordinare le idee prima di aprir bocca e veder svanire le sue aspettative. Non era così che si aspettava di concludere la serata, non pensava di dover rivelare in quel modo a Rhys la verità.
«Rhys, lei è Naive, mia figlia» e la indicò mentre la bambina lo salutava curiosa e incerta con la mano «Mentre lui è Nathan, suo padre».
Nate alzò un sopracciglio, non contento di quella presentazione a metà.
«Nate, Naive, lui è Rhys, un caro amico».
Lo sguardo di Nathan si fece soddisfatto.
Nonna aveva ragione: aveva trovato il modo per non farsi dimenticare più.

* * *
 

'Seeeera! mi scuso per il ritardo, avrei voluto postare domenica ma il capitolo non era pronto, mancava la parte più importante.
L'accenno a Iron Man... ammetto di saperne poco, perchè l'ho conosciuto solo nel film the avengers, sono andata a naso.
Ma bando alle ciance, no?!
Finalmente l'ultima scena vi ha svelato a quale tf faccio rifermiento. L'avete capito tutte, vero, che è Gilmore Girls o, in italiano, Una mamma per amica.
Niente, su questo non ho poi molto da dire, e preferisco tacere. Se avete voi qualcosa da dire a riguardo, ne sono felice!
Rhys è Rhys, ma Nathan anzi, Na *TA TA* thaaan! è rispuntato e ora capite a quale momento in particolare è legato il flashback del primo capitolo. La povera Naive è stata concepita in presidenza, mondieu!
Tengo a precisare che i riferimenti a Naive non sono mai stati inseriti prima per ovvii motivi. Pemberley non è una madre degenere, anzi. Io ho solo taciuto tutti i pensieri che riguardavano la bambina, o li ho scritti nei capitoli precedenti in pensieri più ampi. In questo si nomina proprio perchè alla fine viene svelata la sua identità... Spero possiate comprendere.
Ho finito. Vi lascio il link al gruppo: Love Doses,
A presto, Sbaciucchiamenti, Cris.

 

   
 
Leggi le 8 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Love_in_London_night