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Autore: Preussen Gloria    26/12/2012    7 recensioni
"Il vostro bambino è nato qui?"
"Sì..."

Odino ha punito Thor ma non l'ha fatto per sopprimere la sua arroganza.
“Dovete essere molto disperato o molto sciocco per aver lasciato che vostro figlio nascesse su Jotunheim, principe di Asgard,”
"Non è mio figlio..."

Odino ha condannato Loki ma non per i crimini da lui commessi.
"Pensavo fosse tuo..."
"Sì, lo è. Solo che non è mio figlio."

Entrambi sono stati maledetti per espiare il peggiore dei peccati.
"Il neonato che tieni in braccio è mio fratello."
Ma non esiste maledizione che possa convincere Thor ad abbandonare Loki.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Altri, Loki, Thor
Note: Cross-over, Movieverse | Avvertimenti: Incest
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Prologo:
Jàrnsaxa


Járnsaxa non sapeva chi fosse quando lo vide la prima volta.
Nessuno lo sapeva, perché nessuno lo riconobbe.
Su Jotunheim si parlava di un principe dorato dai lunghi capelli del color del sole e due occhi più blu del cielo d’estate. Járnsaxa non l’aveva mai visto, come non aveva mai visto il sole o il cielo azzurro.
Era un lusso che uno come lui non si poteva permettere nella terra dell’eterno inverno.
Aveva sentito parlare del principe di Asgard solo dai soldati che, nella notte, scendevano in quel luogo che trasudava squallore per sfogare i loro desideri più perversi.
Thor.
Era questo il nome che pronunciavano con rabbia e disprezzo.
Thor.
No, Járnsaxa non l’aveva mai visto ma gli era grato in cuor suo, poiché ogni volta che scendeva dal cielo a sfogare la sua ira, molti suoi clienti perdevano la vita permettendogli un po’ di pace, prima che il suo padrone lo consegnasse a qualcun altro. Járnsaxa era nato alla fine della grande guerra che aveva visto Asgard trionfare e Jotunheim cadere in ginocchio.
Era nato in una famiglia che in quell’inferno aveva perso tutto. Era nato sbagliato.
Era talmente piccolo, quando venne alla luce, che i suoi genitori sperarono che non avrebbe superato la prima notte di gelo. Non fu così facile liberarsi di lui: al terzo giorno furono costretti a pensare ad un’altra soluzione per eliminare quell’ennesima, inutile, bocca da sfamare.
Fosse nato forte, robusto, con dimensioni degne di un vero Jotun, i suoi genitori avrebbero fatto i peggiori sacrifici per permettergli di vivere una vita che fosse degna di essere chiamata tale. Ma nato da scarto non era utile a niente se non ai lavori più disprezzabili.
Lo vendettero che aveva una settimana di vita, almeno così gli raccontarono e, da allora, non vide più la pallida luce dei giorni di Jotunheim, non sentì più il gelido vento dell’inverno sulla pelle. Nessuno in quel lurido posto avrebbe rischiato di dargli anche solo un briciolo di libertà.
Sarebbe stato poco costruttivo.
Da principio, il padrone lo aveva usato come uno schiavetto personale, senza mai essere troppo violento con lui. Appena raggiunta la pubertà, il suo lavoro era divenuto un altro e nessuno dei clienti che lo sceglievano si era mai preoccupato di non fargli troppo male. Non ricordava quanti anni erano passati da quando quell’inferno aveva avuto inizio, sapeva solo che, se quel giovane non fosse giunto in quell’ orrendo luogo quella fatidica notte, probabilmente non si sarebbe permesso di vivere ancora a lungo.
Quella volta, il padrone lo prelevò dalla sua stanza, con inspiegabile gentilezza ed un sorriso mostruoso stampato in faccia. Járnsaxa conosceva il significato di quell’espressione: doveva aver appena fatto i conti con una cospicua fonte di guadagno e lui doveva essere la merce di scambio.
Lo fece lavare e vestire al meglio dai fanciulli più giovani e lo portò con sé, in tutta fretta, in una delle sue stanze personali
“Eccolo qui, giovane signore!”
Járnsaxa non avrebbe voluto alzare gli occhi, ma si stupì di vedere che l’uomo di fronte a lui non era tanto più alto di lui. Non era di Jotunheim, questo avrebbe potuto capirlo anche il più ottuso degli idioti. La pelle rosea ed i corti capelli biondi non erano doni che uno Jotun potesse pretendere di ricevere.
Járnsaxa sapeva che non avrebbe dovuto essere impertinente, gli avevano insegnato che i suoi occhi erano degni di fissare solo il pavimento lercio di quel bordello, ma le iridi di quel giovane erano talmente surreali che non riuscì ad allontanare lo sguardo.
L’uomo lo guardò con un’espressione mista tra imbarazzo e compassione, “quanti anni hai?” Gli domandò e Járnsaxa smise di respirare: nessuno gli aveva mai rivolto una parola, a parte il padrone. Nessuno l’aveva fatto in modo tanto gentile.
“È nato alla fine della grande guerra, giovane signore,” rispose il padrone per lui.
Il ragazzo sorrise appena, “abbiamo più o meno la stessa età.”
Járnsaxa si limitò a fissarlo in silenzio.
“Qual è il tuo nome?” Domandò poi, ma il padrone aveva già perso la pazienza.
“Avrete tutto il tempo di conversare dopo, giovane signore!” Esclamò, “voglio il mio compenso!”
Gli occhi gentili del ragazzo divennero più gelidi dell’eterno inverno di quel regno, “a tempo debito, avrai ciò che ti spetta!”
“Il mio nome è Járnsaxa, signore,” si affrettò a dire lui, prima che il padrone perdesse completamente le staffe e decidesse di cacciare quel giovane tanto gentile. Fu un errore, poiché una delle prime cose che gli avevano insegnato era di non parlare senza permesso.
“Tu, piccolo, ignobile…” Ringhiò il padrone ma il colpo non arrivò mai.
“Non osare toccarlo!” Esclamò il giovane dai capelli biondi con espressione minacciosa, poi liberò un piccolo sacchetto di pelle dalla stretta della sua cintura, “questo è il tuo compenso, lasciaci andare!”
Il padrone perse completamente interesse per entrambi, troppo occupato a toccare con mano le monete d’oro che aveva ricevuto in pagamento. Járnsaxa si sentì afferrare per un polso e, quando alzò di nuovo lo sguardo, gli occhi azzurri del giovane erano tornati a brillare di una luce gentile, “vieni, ti porto via da qui.”
Járnsaxa non osò replicare.

A pochi metri di distanza dall’uscita del buco che Járnsaxa era stato costretto a chiamare casa per tutta la sua vita, il giovane dai capelli biondi si fermò e lasciò andare il polso dello Jotun per meglio avvolgersi il mantello rosso intorno alle spalle. “Sono stato in questo regno molte volte,” raccontò con naturalezza, “ma non mi sono mai abituato al freddo.”
Non si aspettava una risposta e Járnsaxa non gliela diede, troppo occupato riflettere su ciò che era appena accaduto e su quel che stava per accadere a breve. “Non devi aver paura di me,” quasi lo pregò il giovane, “non è assolutamente mia intenzione farti del male ma non posso dirti altro finché non saremo arrivati a destinazione, ho molta fretta.”
Járnsaxa era stato abituato a non porre mai domande ai clienti, mai. Tuttavia, quel giovane non era un suo cliente, era il suo nuovo padrone. Questo avrebbe dovuto modificare le regole in qualche modo?
Alzò gli occhi scarlatti in direzione della distesa di neve che si estendeva al di fuori della grotta sotterranea in cui era cresciuto. Era tra quella neve che era venuto al mondo, era a quella neve che apparteneva, non al buio che c’era alle sue spalle.
Tuttavia, non aveva mai pensato che quella neve, un giorno, potesse appartenergli in alcun modo. Non aveva mai pensato che avrebbe potuto toccarla, sentirla, oltre che ad immaginarla o vederla da lontano.
L’oscurità stava veramente lasciando la sua vita? Aveva paura, aveva una paura folle. Perché non aveva conosciuto altro per tutta la sua esistenza e non poteva immaginare come sarebbe stato finire in un luogo ancor peggiore.
Poteva rischiare? Era sicuro di volerlo fare?
“Va tutto bene?” Il giovane dovette accorgersi dell’esitazione nel suo sguardo e Járnsaxa abbassò gli occhi per impedirgli di veder qualunque cosa avesse potuto arrecargli dispiacere, “hai freddo? Stai tremando.”
Járnsaxa per poco non scoppiò in una risata isterica: quale idiota avrebbe mai potuto chiedere ad uno Jotun se aveva freddo?
“No, mio signore,” rispose cordialmente, “è che… Non ho mai lasciato questo luogo prima d’ora.”
Il giovane lo fissò per un lungo istante con espressione sconvolta e Járnsaxa provò un’infinita vergogna per essersi presentato come un essere tanto patetico da smuovere tanta pietà in uno sconosciuto.
“Ti chiedo di perdonarmi se non ti concedo molto tempo per abituarti all’idea ma…” Il giovane sembrò trovarsi in difficoltà, “ho veramente molta fretta.”
Járnsaxa annuì e lo seguì all’esterno senza indugiare ulteriormente.
L’inferno era alle spalle, l’ignoto era davanti e non sapeva dire cosa gli facesse più paura.

Camminarono a passo spedito.
Fu difficile per Járnsaxa che non aveva mai dovuto spostarsi molto in vita sua ma non osò protestare: preferiva boccheggiare che ricevere una punizione dal suo nuovo padrone. Inoltre, affaticarsi camminando all’aria aperta non era certo paragonabile al rimanere chiusi, ogni giorno, in una stanza ad aspettare che un soldato facesse il suo ingresso per usarlo per i suoi comodi.
L’aria pulita e gelida e di Jotunheim, Járnsaxa chiuse gli occhi e la inspirò a grandi boccate come se non avesse mai respirato in vita sua. Di tanto in tanto, il giovane si voltava a guardarlo e gli domandava se andava tutto bene. Járnsaxa si limitava ad annuire in silenzio e proseguire.
“Non manca molto,” lo rassicurò dopo un paio d’ore, “ho trovato rifugio in una caverna all’inizio della valle.”
Járnsaxa non era cresciuto libero e non aveva idea di come quel giovane riuscisse ad orientarsi in mezzo a tutta quella neve, ma si fidò. Non aveva altra scelta.
Una volta giunti di fronte ad una parete di ghiaccio, il giovane affrettò il passo e Járnsaxa faticò a stargli dietro. Solo allora si rese conto che al sibilo del vento si era aggiunto un altro rumore, più acuto, più forte, più vivo.
Il pianto di un neonato.
Járnsaxa si arrestò sull’uscio di una piccola caverna, troppo bassa per un qualunque Jotun di stazza normale, mentre il ragazzo vi si addentrò a grandi passi. “No, no, no. Va tutto bene, va tutto bene,” mormorò inginocchiandosi sulla neve. Járnsaxa non vide a chi si stava rivolgendo ma non faticò ad immaginare che si trattasse del neonato piangente.
“Sono qui,” continuò il giovane alzandosi di nuovo in piedi e, quando si voltò, Járnsaxa vide che stringeva al petto un fagottino scuro, “va tutto bene, sono qui,” baciò la creatura avvolta nella pesante pelliccia di lupo con dolcezza, prima di rivolgere lo sguardo verso lo Jotun che aveva appena comprato.
“Primo, vorrei che tu sapessi che hai il diritto di parlare liberamente.”
Járnsaxa annuì, sebbene non sapesse bene come interpretare simili parole.
“Penso che tu abbia delle domande da pormi, a questo punto.”
Járnsaxa annuì.
“Chiedi e risponderò a quel che potrò, ma non ti rivelerò ogni cosa, sappilo. Ne va della tua stessa incolumità oltre che la mia e,” guardò il neonato, ora tranquillo, tra le sue braccia, “la sua.”
Járnsaxa annuì di nuovo, “vorrei sapere il vostro nome, mio signore,” domandò esitante.
Il giovane annuì, “mi pare il minimo, a patto che tu ti rivolga a me solo con esso. Non sono il tuo signore e non è mia intenzione trattarti come tale.”
“Mi confondete, signore.”
Il giovane annuì, “il mio nome è Thor, probabilmente hai sentito già parlare di me dagli uomini che ti facevano del male…”
Járnsaxa sbarrò gli occhi scarlatti facendo un passo indietro.
“No, no, no! Ti prego!” Esclamò Thor ed il piccolo tra le sue braccia si lamentò rumorosamente, “giuro su tutto quello che ho, anche se non è più molto, che non è mia intenzione farti del male!”
Járnsaxa tremava, “i miei clienti… I soldati dicevano che Thor, il principe di Asgard, prova piacere nell’uccidere gli Jotun.”
Thor fece una smorfia, “non è del tutto vero. Non più, comunque.”
“Per quale motivo un principe di Asgard dovrebbe nascondersi in una grotta di Jotunheim?” Chiese Járnsaxa impulsivamente. Thor scosse la testa, “mi spiace, a questa domanda non posso rispondere.”
“Allora perché il Dio del Tuono dovrebbe aver bisogno di una prostituta di Jotunheim?”
“Non ho bisogno di una prostituta,” spiegò Thor, “avvicinati, ti prego.”
Járnsaxa lo fissò duramente, poi mosse qualche passo per esaurire la distanza tra loro, ciò nonostante si assicurò di lasciare almeno un metro di sicurezza. Thor lo guardò, poi abbassò lo sguardo sul fagottino tra le sue braccia e, lentamente, ne scostò i lembi per mostrare a Járnsaxa il piccolo tesoro che nascondeva.
Al piccolo Jotun non piacque essere scoperto ed agitò le piccole braccia e gambe contro il petto di Thor trasmettendogli il suo bisogno di calore. Járnsaxa restò a fissarlo incantato: il bambino era minuscolo, probabilmente nato da pochi giorni e la pelle blu marchiata sembrava morbida, come i ciuffetti corvini che gli ricoprivano la testolina. Sorrise senza neanche rendersene conto.
“Ti ho comprato per lui, Járnsaxa,” spiegò Thor.
Lo Jotun lo guardò confuso, “che volete dire?”
Thor ricoprì il corpicino del bambino con cura, “non è mia intenzione dire nulla che possa arrecarti dolore, sappilo,” disse con espressione triste, “ma sono venuto in quel bordello cercando qualcuno che fosse disposto a nutrirlo.”
Járnsaxa sentì il cuore fermarsi, “non so come io possa esservi di aiuto,” tentò, ma non era stato Thor a sceglierlo, era stato il suo padrone ad offrirglielo, dopo aver ascoltato accuratamente ciò che il suo cliente richiedeva.
Thor fissò il bambino per non doverlo guardare negli occhi, “il tuo padrone ha detto che hai perso tuo figlio una settimana fa.”
Járnsaxa sgranò gli occhi, “che cosa volete da me, signore?”
“Chiamami pure Tho…”
“Vi ho chiesto cosa volete da me?” Ripeté Járnsaxa duramente cercando di trattenere le lacrime che gli facevano bruciare gli occhi, “mi avete comprato. Sono una vostra proprietà. Datemi un ordine e lo eseguirò.”
Thor annuì e non temporeggiò oltre, “io vorrei che tu lo allattassi.”
“Dov’è la madre?”
“Non c’è una madre.”
“Perché io? Sono una puttana, ho avuto un…” Trattenne un singhiozzo, “bambino solo per sbaglio!”
Thor sospirò, “ti basti sapere che non posso cercare una nutrice liberamente e qualsiasi sostituzione al latte materno che ho avuto a disposizione nuoce alla sua salute,”
“Non fatico ad immaginarlo,” Járnsaxa fissò il fagottino quasi con astio, “nessuno allatterebbe mai un bambino Jotun e nessuno Jotun allatterebbe mai un piccolo scarto.”
“Lui non è uno scarto!” Sbottò improvvisamente Thor stringendo di più il fagotto contro il petto.
“È molto piccolo,” commentò Járnsaxa quasi gentilmente, “ho visto molti bambini così piccoli nascere in quel posto. Lo ero anche io. Li chiamano scarti quelli come noi, qui. Ci uccidono o ci vendono, di solito.”
Thor rimase a bocca aperta per qualche istante, “mi scuso, non volevo aggredirti, pensavo stessi offendendo il mio bambino.”
Il piccolo alzò i pugnetti verso il viso del giovane e Thor si chinò per baciarli dolcemente, “avete tutti i capelli neri, voi…?” Si rifiutò di dire quella parola. Járnsaxa si prese una ciocca di lunghi capelli corvini tra le dita, “sì, credo di sì. I fanciulli che vivevano con me li avevano ed anche i loro bambini.”
“Capisco…” rispose Thor distrattamente sorridendo il piccolo che teneva tra le braccia, “ripeto, non è assolutamente mia intenzione farti del male. Voglio solo che nutri il mio bambino, nulla di più.”
“Non volete…” Járnsaxa trovò un incredibile imbarazzo nel dirlo e si bloccò.
“No! No! Assolutamente no!” Si affrettò a dire Thor, “non voglio approfittarmi di te in alcun modo. Voglio solo che tu gli dia il tuo latte e, quando sarà svezzato, sarai libero.”
Járnsaxa trattenne il fiato, “libero?”
Thor annuì, “hai la mia parola.”
“Non ci sono altre condizioni?”
“Oh giusto!” Esclamò Thor, “dovresti venire con me in un altro mondo. Si chiama Midgar, è un bel mondo. Ho una vera casa lì, un posto sicuro per lui. Quando il tuo compito sarà finito, ti porterò dove più desideri.”
Járnsaxa annuì: non aveva un gran desiderio di rimanere su Jothunheim comunque, non avvertiva nessun particolare senso di appartenenza a quel posto. Solo i suoi incubi vi sarebbero rimasti legati per sempre.
Il bambino riprese a piangere e Thor lo cullò dolcemente contro di sé per tranquillizzarlo.
“Quando è nato?” Chiese Járnsaxa tornando a fissare il fagottino.
“Cinque giorni fa,” rispose Thor, “non ha mai digerito un pasto da allora.”
Járnsaxa sgranò gli occhi rossi esaurendo immediatamente la poca distanza che era rimasta tra loro, “datemelo,” mormorò allungando le braccia. Thor lo guardò confuso, “accetterai?” Chiese.
“Non ho altra scelta,” ammise Járnsaxa, “ma non voglio vedere un altro bambino morire.”
Thor annuì porgendogli il fagottino con estrema cautela.
“Non è molto tranquillo con gli estranei.”
Járnsaxa annuì guardando il piccino con attenzione. Il piccolo muoveva la testolina a destra e sinistra senza darsi pace, la boccuccia era aperta ma a stento riusciva ad emettere suono. Járnsaxa passò due dita tra le ciocche corvine seguendo poi la linea del piccolo naso e poi quella di uno zigomo. Il piccino aprì gli occhi lentamente e Járnsaxa si sentì morire di fronte alla preghiera di quegli rossi che nulla avevano di mostruoso e che racchiudevano solo bisogno d’amore ed innocenza. Sì, quel bambino era innocente, come il figlio che non aveva mai potuto stringere tra le braccia e come tutti i bambini che aveva visto morire per un odio e un’indifferenza ingiustificati.
“Come si chiama?”
“Loki,” rispose Thor sorridendo dolcemente.
Járnsaxa tornò a guardare il suo nuovo proprietario, “potreste lasciarci soli o, almeno, voltarvi?” Domandò gentilmente, “so che suona stupido, ma è una cosa molto intima. Almeno io la vedo così,” sapeva che a coprire la sua nudità non vi era più di un brandello di stracci intorno alla sua vita. Non vi era più dignità sul suo corpo che dovesse andar protetta, ma almeno quel gesto d’amore, probabilmente l’unico a cui avrebbe mai preso parte, voleva che fosse solo suo.
Thor annuì goffamente allontanandosi fino a raggiungere l’ingresso della caverna e lì rimase con una spalla appoggiata contro la roccia, “è sufficiente?”
“Vi ringrazio,” rispose Járnsaxa sedendosi con cautela sulla neve e tornando a sorridere al bambino tra le sue braccia, “ciao…” Mormorò mentre il piccino lo fissava in silenzio, “ciao, piccolo Loki. Non aver paura.”
Járnsaxa mosse il piccino tra le sue braccia per alcuni istanti senza sapere esattamente quel che stava facendo. Ci mise un po’ a trovare la posizione più consona per guidare la piccola bocca affamata al suo capezzolo.
Per sua fortuna, Loki, a differenza sua, sapeva esattamente che cosa fare.
Járnsaxa sobbalzò quando quelle piccole labbra si attaccarono al suo petto succhiando vivacemente.
“Tutto bene?” Domandò Thor.
“Sì,” Járnsaxa prese un bel respiro profondo per calmare il suo cuore impazzito, “si è attaccato.”
Thor sospirò, mormorando tra sé e sé parole che lo Jotun non sentì. Loki mosse un braccino alla ricerca di qualcosa a cui appigliarsi e Járnsaxa spostò tutto il suo peso su un solo braccio porgendogli l’indice della mano libera. Solo allora, Loki si sentì abbastanza sicuro da alzare gli occhi sul suo viso.
Járnsaxa trattenne il fiato per dei secondi che parvero eterni e, in cuor suo, desiderò che lo fossero, che quel singolo momento di pace e dolcezze non avesse mai fine. Le prime poppate furono violente ed avide e Járnsaxa dovette mordersi il labbro inferiore un paio di volte per trattenere un lieve gemito, ma Thor dovette percepire qualcosa comunque, “ti fa male?”
Lo Jotun sorrise amaramente a se stesso. Magari avessi provato questo dolore per tutta la mia vita.
“Solo un po’,” ammise, “lui è affamato ed io non… Non l’ho mai fatto prima.”
“Mi dispiace…”
“Non dovete.”
Loki rallentò il ritmo molto presto e la sensazione divenne da lievemente dolorosa a completamente piacevole. Járnsaxa sospirò stringendo ancor di più il bambino a sé ed accarezzando con i polpastrelli le piccole dita strette intorno al suo indice. Loki lo guardava serenamente, inconsapevole della bruttura del mondo in cui era venuto alla luce.
“Il vostro bambino è nato qui?”
Thor girò appena il viso in un gesto automatico, “sì.”
“Dovete essere molto disperato o molto sciocco per aver lasciato che vostro figlio nascesse su Jotunheim, principe di Asgard,” commentò con una nota di acidità lo Jotun liberando la mancina dalla stretta del piccolo per potergli accarezzare la testolina lentamente, con movimenti volutamente monotoni.  
“Non è mio figlio.”
Járnsaxa si bloccò di colpo ed alzò lo sguardo in direzione del Dio del Tuono, “pensavo fosse vostro…”
“Sì, lo è,” confermò Thor, “solo che non è mio figlio.”
Járnsaxa non chiese altro, abbassò i suoi occhi su Loki che continuava a poppare lentamente tenuto al caldo dalla sua pelliccia di lupo e rassicurato dalle braccia che lo stringevano amorevolmente.
“Il neonato che tieni in braccio è mio fratello.”
Lo Jotun continuò a fissare il piccino che, lentamente, lasciava che la stanchezza e la tenerezza della sua prima poppata lo guidassero dolcemente nel mondo dei sogni. Era dunque un principe di Asgard quello che stringeva contro il suo petto?
Un piccolo Jotun erede del regno dorato, non ci voleva un genio per capire che quella che Thor nascondeva non doveva essere una bella storia.
“Si è addormentato,” annunciò a bassa voce lo Jotun e Thor si voltò immediatamente avvicinandosi con cautela. Dopo un primo sguardo dubbioso, sorrise, “si è addormentato,” ripeté come se non fosse ovvio.
Járnsaxa ricambiò l’espressione automaticamente, “prendetelo, cercherà voi quando si risveglierà.”
Thor non se lo fece ripetere due volte e prese il piccolo tra le braccia con un amore che Járnsaxa non credeva potesse possedere un uomo di guerra. Loki sbadigliò per poi accoccolarsi contro il petto del giovane principe.
“Piccolo mio,” mormorò posandogli un bacio sulla fronte.
Járnsaxa si limitò ad osservare la scena in silenzio, avrebbe rimandato tutte le sue domande a dopo.
Ora, Loki dormiva sereno tra le braccia del fratello maggiore e Thor non aveva occhi che per quella minuscola e splendida creatura.
Forse e solo forse, l’ignoto non gli faceva più così paura.

***

Varie ed eventuali note di comprensione:
Questa fanfiction è nata tempo fa, quasi in contemporanea a The Sins Of The Fathers (che sperò sarà il mio ultimo aggiornamento del 2012), ma fino ad un paio di settimane fa non sembrava avere un capo ed una coda, solo un’idea volante con scene sparse senza un filone cronologico.
Siccome sembra che i filoni narrativi impossibile siano il mio mestiere questo è il primo tassello in cui ovviamente non si capisce nulla! Non che nel mio caso sia una grande novità, chi ha avuto la sfortuna di sbirciare le altre due storie, ne è perfettamente consapevole.

Parliamo del Cross-Over. Perché mettere il Cross con The Avengers e non postare la fic nella suddetta sezione? Semplice, questa storia ha prettamente basi “alla Thor” ed è quasi completamente concentrata su elementi tipici di questo contesto (esempio: divinità nordiche da me abusivamente rielaborate a formato trama). Il resto dei Vendicatori sarà presente nella trama e alcuni potrebbe essere di una certa importanza in alcuni passaggi (ad esempio il prossimo capitolo), tuttavia risultano secondari rispetto al focus della storia: Thor e il suo Baby-Loki e gli immancabili casini dinastici di Asgard.
Intersex. Onde evitare possibili dubbi, gli Jotun delle mie fanfiction generalmente lo sono.

Járnsaxa, io vorrei tanto presentarvelo, davvero vorrei. Tuttavia, facendolo lancerei subito uno spoiler immenso sul futuro della trama. Per tanto, lascio a voi la decisione. Chiunque voglia saperne di più di questo Jotun (che nel mito è una lei, questo ve lo posso dire), può trovare quanto necessario googlando il nome in grassetto.

Commenti ed opinioni sono sempre molto graditi. Buon Natale in ritardo e alla prossima!
  
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