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Autore: Roxar    02/01/2013    4 recensioni
Anno 2021. Dopo un estenuante periodo di tensione, Russia e Stati Uniti d’America si sono reciprocamente dichiarate guerra, coinvolgendo ogni nazione del globo.
Così, impelagata in quella che è ufficialmente la Terza Guerra Mondiale, la giovane Valerie è costretta a vivere una vita fatta di ansia, nervosismo e stenti, costretta a badare alle esigenze del piccolo ranch ereditato dal nonno paterno e a Jack, un ragazzino ritrovato moribondo ai margini della strada.
Da una cosa sola Valerie è terrorizzata: vedersi piombare la nemesi in casa, in piena notte, favorita dalle ombre. E il suo terrore diventa concretezza quando Jack rinviene il corpo incosciente del giovane Aleksandr Lebedev, soldato del più efficiente corpo armato russo.
Inizia così una stretta convivenza fianco a fianco, America e Russia costrette a vivere sotto un unico tetto, con tutti i disagi, i litigi e le incomprensioni che questo comporta.
E chissà che i due giovani, infine, non riescano a giungere ad un trattato di pace.
[Dal capitolo 9:]
"Che relazione turbolenta, la nostra. Quando credevo di aver commesso un fallo, quando pensavo che la tregua fosse giunta al termine, tutto si era capovolto un’altra volta e tutto era terminato sulle nostre labbra."
Genere: Drammatico, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Mi raggiunse in due falcate ampie e ferine, agguantando la fotografia per riporla tra le sue cose; poi, ignorando il momentaneo handicap che mi affliggeva, mi strattonò per un polso, sbattendomi letteralmente fuori dalla camera.

«Hai ragione, non avrei dovuto» chiarii immediatamente, avendo anche il buon gusto di mostrarmi pentita e imbarazzata.

«No, non avresti dovuto. Non mi pare di aver mai ficcanasato tra le tue, di cose» mi redarguì aspramente e seppi con certezza d’aver distrutto il labile sentiero di pace e tregua che avevamo percorso per pochissimo tempo. Innalzò le barriere e mi chiuse fuori, inchiodandomi con occhi nuovamente ostili, nuovamente colmi d’odio.

«Infatti», convenni mansueta, «prima ero venuta a cercarti e ti ho visto guardare quella foto. Ero solo—»

«Curiosa, certo» concluse per me, deglutendo e respirando profondamente, più volte, come se stesse cercando di mantenere la calma.

«È bella» mi lasciai sfuggire, sussurrando; avevo gli occhi bassi e non mi accorsi della sua mano che, veloce e forte, volò al mio viso, schiaffeggiandomi.

Alzai la testa, la bocca aperta in una grottesca espressione di sgomento. In risposta al dolore, sentii gli occhi pungere e colmarsi di lacrime mentre mi strofinavo piano la zona lesa.

Lo vidi indietreggiare, letteralmente sconvolto, e aprire la bocca più volte per dire qualcosa, optando poi per il silenzio.

Il gesto mi umiliò profondamente, tanto fu inaspettato e deciso, ma, ancor di più, mi ferii.

Sapevo che Aleksandr fosse una testa calda, con scarso self control e una disarmante tendenza ad adoperare la violenza anche per le sciocchezze. Ma mai, mai, lo avrei creduto capace di picchiare una donna, sebbene io stessa più volte avessi corso il rischio.

Ma ogni volta era stato capace di controllarsi, ogni volta era stato un bluff.

Una singola lacrima precipitò veloce sul mento e la spazzai via con un gesto lento del dorso della mano.

In altri tempi forse avrei replicato il gesto, forse avrei urlato, forse l’avrei nuovamente cacciato. Invece, restai muta e sorrisi in direzione del pavimento, stringendomi nelle spalle e voltandomi per andare via.

«Valerie» mi chiamò e quando mi voltai – troppo velocemente – lui era già davanti a me.

Sentii le sue mani tremanti stringersi sul mio volto, piano, delicate, scendere poi sul collo e sulle spalle, per tornare poi nuovamente al mio viso.

Mormorò una sequela fitta di scuse, alternando parole russe a parole inglesi, senza mai trovare il coraggio di guardarmi negli occhi.

«Va tutto bene» dissi apatica, senza alcuna emozione, senza alcuna rassicurazione, senza niente.

«No, non è vero. Non... è...» strinse i denti, aggiungendo qualcosa in russo.

«Senti», mi alterai, stringendogli il mento per forzarlo a guardarmi, «smettila di parlare in russo. Non capisco nulla e mi sento un’idiota. Sei in America, adesso» lo redarguii e sentii la pelle tendersi tra le mie dita, curvarsi in un sorriso accennato, timido, sbagliato.

«Vse chto vy khotite» replicò lentamente e non ebbi nemmeno il tempo di irritarmi; la sua bocca mi trovò prima.

Che relazione turbolenta, la nostra. Quando credevo di aver commesso un fallo, quando pensavo che la tregua fosse giunta al termine, tutto si era capovolto un’altra volta e tutto era terminato sulle nostre labbra.

Ogni muscolo si contrasse, contrariamente alle dita, che allentarono la stretta e che ritirai al petto. Sentivo le gambe pronte a scappare, le braccia pronte ad allontanarlo, ma l’indecisione mi paralizzò, seconda solo alla goffaggine.

Alek – Alek! – mi incoraggiava con movimenti lenti e studiati, sentivo la sua lingua scivolare sul mio labbro inferiore e nella linea dritta della bocca, invitandomi a schiuderla.

Obbedii, remissiva e molto poco lucida, e assecondai le movenze delle sue labbra e della sua lingua. Mi preoccupai quando mi sentii pervadere da uno stranissimo senso di onnipotenza, malamente mescolato all’adrenalina in circolo e alla voglia di toccarlo.

Non volevo più fuggire, anzi farmi più vicina. Colse l’impercettibile cambiamento del mio umore e il bacio si trasformò velocemente: non più dolce e lento, ma rapido, rude, erotico.

Poi, come una folata di brezza autunnale, tutto finì. L’attimo dopo stavo già scendendo le scale a piccoli balzi, due gradini alla volta, goffa, sbilenca e zoppicante, dirigendomi a passo di carica verso il vecchio capannone che ospitava la riserva di fieno e mangime dei miei animali. Era il mio nascondiglio, la mia fortezza, il luogo dove poter sciogliere le briglie alle emozioni che mi passavano in viso senza essere vista o giudicata.

Era tutto sbagliato. Sconfitta e abbattuta, mi lasciai cadere su un mazzo di fieno, prendendomi la testa tra le mani.

Rabbia e sgomento mi trovarono indifesa, contendendosi equamente l’intero spazio del mio animo.

Perché l’aveva fatto? Perché baciarmi se fino ad mese prima sbandierava tanto orgogliosamente la propria avversione nei miei confronti?

Quando il buio mi impedii di vedere oltre le mie scarpe, arrancai passi lenti e incerti verso casa, le cui finestre buie si conformavano perfettamente alla facciata annerita dall’avvento della notte. Aggrottai la fronte, fermandomi.

Jack e Alek erano entrambi in casa, perché diavolo non avevano acceso le luci?

La risposta fu: perché Jack dormiva e Alek era rintanato nella propria camera.

L’idea di bussare mi solleticò per qualche secondo e il mio piede era già sul primo gradino quando cambiai intenzione, facendo un brusco dietrofront, diretta in cucina.

Sintonizzai la radio su una frequenza che trasmetteva vecchissime canzoni degli anni ’80 e mi trastullai con i preparativi della cena. Era un diversivo abbastanza impegnativo da distrarmi, ma non sufficientemente da scacciare il ricordo della sua bocca e dei suoi occhi così vicini, così azzurri, così trasparenti...

«Interrompiamo le trasmissioni radio per riportare, a reti unificate, l’ultimissimo comunicato stampa della Casa Bianca. “Fratelli e sorelle americani, è con immenso orgoglio e gioia che vi informo della nostra vittoria. Le armate russe hanno innalzato bandiera bianca, le abbiamo allontanate dal nostro Paese. La guerra è finita. Sono vicino alle vostre perdite e garantisco che già da domani provvederemo ad intraprendere il lungo e faticoso cammino per la ricostruzione. Ricordate questo giorno come il giorno in cui gli Stati Uniti d’America sono tornati ad essere un Paese libero».

Il piatto mi scivolò dalle dita, impattando contro il pavimento. Le dita mi tremavano così forte da contrarsi in spasmi dolorosi, quasi volendo contenere la gioia selvaggia, quasi temendo che fosse tutto un terribile bluff.

Ma non poteva esserlo, non con la voce del Presidente che  continuava ad elogiare l’operato delle forze armate, ad elencare le battaglie che si erano rivelate essenziali per la vittoria della guerra.

«Oh, mio Dio. Jack! Jack!» strillai, scrollandolo con foga.

«Cosa?»

«Abbiamo vinto, Jack! Abbiamo vinto, la guerra è finita! Finita!»

Vidi i suoi occhi sgranarsi di stupore; poi, i suoi folti capelli neri mi oscurarono la vista, le sue braccia strette intorno ai miei fianchi

«È finita, è finita, è finita» cantilenava e rideva, coinvolgendomi in un goffo balletto di esultanza, alzandomi perfino da terra.

Stavamo ancora festeggiando quando qualcuno bussò forte alla porta, quando quel qualcuno si rivelò un Sam entusiasta e ridente, bello come mai mi era sembrato.

Mi strinse forte – nulla a che vedere con l’amichevole abbraccio di Jack – e tuffò il viso tra i miei capelli, sospirando.

«Abbiamo vinto!» sussurrai frenetica, stringendomi a lui.

In quel momento, tutto svanì, tutto venne perdonato. Il nostro ultimo quanto burrascoso incontro dimenticato, i dissapori mai esistiti. Eravamo solo Val e Sam, due ragazzi costretti a portare sulla schiena il peso della guerra, complementari l’uno all’altra.

«Lo so. È finita, Val, finita» mi assicurò, scoccandomi poi un lungo bacio sulle labbra.

Impietrita e sorpresa, me ne restai rigida tra le sue braccia, le dita goffamente strette alle sue spalle. Ad occhi sgranati, lo vidi sollevare le palpebre e fissare qualcosa dietro me; le sue labbra si curvarono, contro le mie, in un sorriso cattivo.

E poi li sentii. Freddi, insistenti, inespressivi, gli occhi di Alek piantati sulla mia nuca.

Mi sentii stranamente in dovere di allontanarmi velocemente da Sam e, codarda com’ero, non ebbi nemmeno il coraggio di voltarmi per fronteggiare l’altro.

«Il Presidente dice che dobbiamo festeggiare e io voglio prenderlo in parola. Venite da me, tu e Jack» mi chiese, ignorando ostentatamente Aleksandr, del quale colsi il suono di un ghigno di scherno, seguito dai suoi passi pesanti sulle scale.

«Non sei stato molto carino» lo schernii, ricevendo in risposta uno sbuffo contrariato.

«Senti, la guerra è finita, adesso può anche andarsene, no?»

«No!» esclamai in fretta, arretrando davanti ai suoi occhi, scuri, densi, brucianti.

«Valerie», disse, afferrandomi per le spalle, «dimmi che non hai commesso la stronzata di innamorarti di lui».

Strinsi i denti e sospirai.

«Non si tratta di questo, Sam. È solo che non posso – non voglio – mandarlo via; è una sua scelta».

Sam sorrise, accostando la fronte alla mia.

«Tu meriti di meglio. Meriti una persona migliore, che ti capisca, che ti supporti».

«Una persona come te, è questo che vuoi dire?»

Annuì, baciandomi i capelli. Era strano; sapevo che questo momento, presto o tardi, sarebbe arrivato, lo sapevo da molto tempo, eppure mi sentii presa alla sprovvista, incapace di negare, incapace di spezzare la sua tenacia.

Incapace di infliggergli consapevolmente del male.

«Sam—»

«Lo so, lo so. Per te non è mai stato lo stesso, ma forse con il tempo impareresti ad amarmi» propose, senza tuttavia crederci davvero.

«Forse. O forse no. Sam, non è questo che voglio» farfugliai, facendo sempre più fatica a tenere insieme il discorso, gestirlo con le parole giuste.

«No, certo, non è questo che vuoi da me» precisò, ma fui sollevata di non trovare ostilità nella sua voce.

«Quindi, non venite?»

«No, Sam. Non senza Aleksandr».

Ci pensò su per qualche secondo, riuscendo infine a strapparsi dalla mente quelle parole che suonarono come una specie di insulto.

«Allora fai venire anche lui. Ultimamente non abbiamo avuto molto tempo per noi».

Che era come dire: “Accetto la sua presenza pur di riuscire a farmi vedere sotto una luce diversa”.

Quante forti, insistenti speranze destinate a sciuparsi!

«Meglio di no. Ma ti prometto che passerò presto a trovarti, andremo a cavallo insieme» giurai, perché ad ogni parola lo sentivo scivolare sempre più lontano da me.

«Va bene» concesse, baciandomi un’ultima volta – sulle labbra, velocemente – prima di inforcare il cappello e congedarsi.

Solo allora mi accorsi di Jack, in piedi e nascosto dalla soglia.

«Mi dispiace» mormorò, parte del viso celata dallo stipite.

«Non è colpa di nessuno» sospirai, decidendo che rimandare il momento del confronto con Alek non era più possibile.

Bussai due, tre, quattro volte, ma non venne mai ad aprirmi, fino a quando non fui io ad abbassare la maniglia per sentirla sprofondare nel vuoto, bloccata dalla sicura.

Spalle contro la porta, mi passai le mani sul viso, tenendole premute sugli occhi, sulle guance, sulla bocca per molto tempo.

Ripensai ai due baci – così diversi eppure egualmente intensi – ricevuti nel giro di poche ore di distanza e sentii il cuore battere come se dovesse implodere a momenti.

«Alek, quello che è successo con Sam... è stato solo un momento di euforia, abbiamo vinto la guerra, eravamo felici... Alek... Alek, vorrei...»

Cosa volevo, esattamente?

Avere tempo, prima di tutto. Tempo per rimettere in ordine le cose, considerarle sotto la luce giusta, attribuire loro il corretto significato, tempo per scandagliare tra i molti sentimenti che mi animavano, analizzarli e sezionarli a mente fredda, giungendo infine a capire cosa provassi per Alek e cosa per Sam.

Restai accasciata contro quella porta, senza tenere il conto dei minuti e dei secondi che mi scivolavano addosso, lenti e costanti.

Poi, in un qualche momento che non riuscivo a collocare, il sonno mi prese con sé.

E gli incubi tornarono.

 

 

 

 

 


 

*tutto quello che vuoi.

O almeno, questa è la traduzione secondo Gugol Transleit, perciò non prendetela per oro colato. Anzi.

 

 

NdA: Oh, cielo, che capitolo intenso.

Solo a leggerlo mi è venuta l'asma mentale. Tant'è. Suvvia, non fate quelle facce, sapevate che questo momento sarebbe arrivato, così come sapevate che questo è il penultimo capitolo. Eh.

Nel prossimo capitolo ci sarà la scelta definitiva di Valerie e... niente, non mi scucio e non spoilero.

Ringrazio come sempre chi segue questa storia e chi la recensisce. Un grazie speciale a Els che ha recensito tutti i capitoli e che sta stravedendo (posso dirlo?) per questa storia, lusingandomi non poco. :3

Ci si ribecca la settimana prossima con l'ultimo capitolo.

 

 

Passo e chiudo.

   
 
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