L come
legami
Quattordici anni – Gianfranco
Quando
arrivò a casa nostra era Maggio. Scelse Brucoli, e se ci ripenso mi rendo conto
di quanto quella casa abbia visto; di come abbia vissuto insieme a me le parti
più importanti della mia vita. Venne, su quattro zampe tanto magre da
strapparmi tanta compassione, e un affetto immediato.
Quattordici
anni è l’età in cui l’istinto ti obbliga a fare la crocerossina, e la mia era
una fissazione che dedicavo soprattutto agli animali. Per di più, avevo
desiderato un cane così a lungo che trovarmelo lì davanti fu una magia. Con
sorpresa, guardai il suo muso simpatico, e i suoi occhi color nocciola, ingenui
e intelligenti.
Gianfranco
non era un cane comune. Era un meticcio, ma di una bellezza unica: un incrocio
tra un pastore tedesco e un labrador. Aveva preso dall’uno e dall’altro le
migliori qualità, e, nonostante la fame, era vivace come sempre sarebbe stato.
Venne, e mio padre gli diede qualche tozzo di pane secco e un po’ di latte, e
lui li divorò senza fare capricci e senza pretendere altro. Era maggio, e tornò
sempre, puntuale come un orologio, ogni domenica. Non so se durante la
settimana si sia mai domandato dove finivamo, ma so che, da quel giorno, ogni
weekend e poi per tutta l’estate venne a trovarci, e ogni volta il pane
sembrava ingrassarlo e rinvigorirlo, fino a quando non gli bastò più e cominciò
a pretendere scatolette di manzo e vitello.
Per
mia mia madre avere Gianfranco fu un ritorno all’infanzia. Mia nonna – sua
madre – non gradiva i ricordini che lasciava nel suo immacolato giardino, e
quella ribellione la faceva sentire viva e giovane come quando le aveva
nascosto, anni prima, Snoopy, un meticcio trovato per caso e di cui impose la
presenza tanto che alla fine i suoi genitori cedettero con un sorriso.
Comprò
a Gianfranco i croccantini, e lui divenne il nostro cucciolo. Lei non lo
ammetteva, ma lo amava in quel modo un po’ strano, un po’ segreto, con cui le
madri che nascondono un passato da bambine, amano gli animali come figli non
nati dal proprio ventre ma ugualmente desiderati. Si faceva seguire
dappertutto, persino quando andava a fare jogging, o quando, per mantenersi in
forma, pedalava per ore in salita; lui era sempre accanto a lei, a scortarla. La
mattina mia madre era costretta a svegliarmi perché Gianfranco si piantava
davanti alla sua macchina e le impediva di andare a lavoro; allora dovevo
coccolarlo e rassicurarlo che lei sarebbe tornata, dovevo tenerlo con la forza
finché lei non si era allontanata abbastanza da essere sicura che lui non
l’avrebbe seguita. Perché la prima volta l’aveva rincorsa fin quasi
all’autostrada, e lei era stata costretta a caricarselo in macchina e
riportarlo indietro, perché aveva paura che l’avrebbero investito.
Lei
si faceva anche il bagno con lui, e mi raccontava di come era certa che avesse
subito un abbandono, o forse peggio. Gianfranco aveva l’istinto di un cane da
salvataggio: quando vedeva me o mia mamma nuotare in mare si tuffava con
coraggio e poi ci trascinava a riva, spingendoci con il muso oppure
mordicchiandoci la mano con la delicatezza di un padre che teme di lasciare
andare sua figlia in un mare troppo aperto e pericoloso.
Io
non gliel’ho mai detto, ma ho sempre creduto che lui preferisse mia madre a me.
Questo non mi creava problemi, né gelosie: lui aveva fatto la sua scelta, e
comunque riservava a me i giochi e le affettuosità del momento. Però quando
arrivava lei, non aveva occhi che per mia madre.
Ho
sempre pensato che le animi affini si riconoscono. Quell’estate ne ebbi la
conferma.
Mia
madre ha sempre cercato di economizzare su tutto: soldi, cibo, vestiti, tempo.
Su una sola cosa non ha mai risparmiato: l’affetto. Lui l’aveva capito, e per
di più condivideva con lei lo spirito indipendente e selvaggio che solo un cane
randagio poteva avere. Gianfranco era libero, e negli occhi di mia madre
leggeva la stessa emancipazione.
Per
questo, mia madre l’aveva chiamato Sky: quel cane
aveva la profondità del cielo, e la sua libertà. Come poi sia diventato
Gianfranco, nessuno lo sa con certezza. Ma quell’animale divenne un po’ la
mascotte di Brucoli: tutti lo conoscevano, anche se non tutti lo amavano. C’era
chi, in silenzio, covava un disprezzo violento e minaccioso.
Quando
finì l’estate, mi si strinse il cuore: abbandonarlo era quanto di più doloroso
potessi sopportare, e per giorni pregai i miei genitori di andare a prenderlo:
non potevamo lasciarlo da solo.
Gianfranco
subì un secondo abbandono, perché la nostra casa era troppo piccola e noi
troppo poveri per poter sostentare anche un cane. Ma quell’animale, fedele come
solo lui sapeva essere, non si perse d’animo. Quando, durante il weekend,
tornavamo a Brucoli, lui era sempre lì ad aspettarci.
A
Brucoli, però, eravamo tra i pochi a gradire la sua presenza. Era un cane
randagio, e come tale andavano a lui tutte le colpe: le aiuole distrutte, le
galline del portiere morte, gli escrementi al lato della strada.
Ben
presto cominciò a girare la voce che stessero avvelenando i cani randagi di
quel luogo. Quando io e mia madre venimmo a saperlo, decidemmo di andarlo a prendere, fregandocene di tutto il resto.
Giunsi
a Brucoli ad ora di pranzo, e, con mia
grande paura, lui non c’era. Col cuore in gola lo chiamai una, due, tre volte, ma
di lui non c’era traccia. Mia madre correva per il quartiere, e urlava il suo
nome; io lo cercavo ovunque, ma non riuscivo a trovarlo.
«Gianfranco»
urlai per l’ultima volta. E, con sollievo, lo sentii. Prima di vederlo, udì un
latrato basso, e il suono dei suoi passi sulla terra battuta: poi lo osservai
mentre galoppava verso di me, la lingua di fuori e le orecchie che
sbatacchiavano nella foga della corsa.
Ci
vollero ore per convincerlo a prendere il calmante che gli avrebbe consentito
un sereno viaggio in macchina; quando arrivammo a destinazione, era spaventato,
ma si fidava a tal punto di noi da camminarci a fianco, pur con la coda tra le
gambe e lo sguardo basso.
Riuscimmo
a stare con lui solo qualche giorno, poi mia madre lo regalò a una sua amica,
con un sorriso un po’ amaro e la consapevolezza che il destino ce lo aveva
fatto trovare per quel motivo: salvarlo.
Tuttora,
quando guardo negli occhi di mia madre, riesco a vedere un’ombra che vedevo
anche nello sguardo di quel cane.