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Autore: Eloise_Hawkins    08/01/2013    1 recensioni
Una raccolta di ricordi che si snoda tra le pagine di una vita vissuta con tenacia e affetto. Un'accozzaglia di giorni che narra di una crescita delicata, felice, a tratti sofferta, ma tutto sommato serena. Tra risate e coccole, tra lacrime e dolori, si svolge la vita di Chiara, la protagonista di questa storia, che con un sorriso a volte dolce, a volte amaro, racconta la vita che i suoi genitori le hanno regalato, l'affetto che la sua famiglia le ha donato, il sorriso che ha faticosamente costruito. Sempre all'insegna dell'amore, e del forte legame famigliare che Cinzia e Mauro hanno saputo creare.
A mio padre, che col suo sguardo mi ha insegnato il mondo.
A mia madre, perché nei suoi occhi ho imparato la fantasia.
A mia nonna, perché attraverso i suoi racconti ho capito la vita.
Ai miei folletti, Renata e Irene, che mi hanno tenuto per mano fino ad oggi, in questo girotondo chiamato vita
.
Questa storia si è classificata prima al contest "L'alfabeto dei ricordi", indetto da Angy Lulu sul forum di Efp.
Genere: Fluff, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Raccolta | Avvertimenti: Incompiuta
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Thanks for the memories'
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L come legami

 

Quattordici anni – Gianfranco

 

Quando arrivò a casa nostra era Maggio. Scelse Brucoli, e se ci ripenso mi rendo conto di quanto quella casa abbia visto; di come abbia vissuto insieme a me le parti più importanti della mia vita. Venne, su quattro zampe tanto magre da strapparmi tanta compassione, e un affetto immediato.

Quattordici anni è l’età in cui l’istinto ti obbliga a fare la crocerossina, e la mia era una fissazione che dedicavo soprattutto agli animali. Per di più, avevo desiderato un cane così a lungo che trovarmelo lì davanti fu una magia. Con sorpresa, guardai il suo muso simpatico, e i suoi occhi color nocciola, ingenui e intelligenti.

 

Gianfranco non era un cane comune. Era un meticcio, ma di una bellezza unica: un incrocio tra un pastore tedesco e un labrador. Aveva preso dall’uno e dall’altro le migliori qualità, e, nonostante la fame, era vivace come sempre sarebbe stato. Venne, e mio padre gli diede qualche tozzo di pane secco e un po’ di latte, e lui li divorò senza fare capricci e senza pretendere altro. Era maggio, e tornò sempre, puntuale come un orologio, ogni domenica. Non so se durante la settimana si sia mai domandato dove finivamo, ma so che, da quel giorno, ogni weekend e poi per tutta l’estate venne a trovarci, e ogni volta il pane sembrava ingrassarlo e rinvigorirlo, fino a quando non gli bastò più e cominciò a pretendere scatolette di manzo e vitello.

Per mia mia madre avere Gianfranco fu un ritorno all’infanzia. Mia nonna – sua madre – non gradiva i ricordini che lasciava nel suo immacolato giardino, e quella ribellione la faceva sentire viva e giovane come quando le aveva nascosto, anni prima, Snoopy, un meticcio trovato per caso e di cui impose la presenza tanto che alla fine i suoi genitori cedettero con un sorriso. 

Comprò a Gianfranco i croccantini, e lui divenne il nostro cucciolo. Lei non lo ammetteva, ma lo amava in quel modo un po’ strano, un po’ segreto, con cui le madri che nascondono un passato da bambine, amano gli animali come figli non nati dal proprio ventre ma ugualmente desiderati. Si faceva seguire dappertutto, persino quando andava a fare jogging, o quando, per mantenersi in forma, pedalava per ore in salita; lui era sempre accanto a lei, a scortarla. La mattina mia madre era costretta a svegliarmi perché Gianfranco si piantava davanti alla sua macchina e le impediva di andare a lavoro; allora dovevo coccolarlo e rassicurarlo che lei sarebbe tornata, dovevo tenerlo con la forza finché lei non si era allontanata abbastanza da essere sicura che lui non l’avrebbe seguita. Perché la prima volta l’aveva rincorsa fin quasi all’autostrada, e lei era stata costretta a caricarselo in macchina e riportarlo indietro, perché aveva paura che l’avrebbero investito.

 

Lei si faceva anche il bagno con lui, e mi raccontava di come era certa che avesse subito un abbandono, o forse peggio. Gianfranco aveva l’istinto di un cane da salvataggio: quando vedeva me o mia mamma nuotare in mare si tuffava con coraggio e poi ci trascinava a riva, spingendoci con il muso oppure mordicchiandoci la mano con la delicatezza di un padre che teme di lasciare andare sua figlia in un mare troppo aperto e pericoloso.

Io non gliel’ho mai detto, ma ho sempre creduto che lui preferisse mia madre a me. Questo non mi creava problemi, né gelosie: lui aveva fatto la sua scelta, e comunque riservava a me i giochi e le affettuosità del momento. Però quando arrivava lei, non aveva occhi che per mia madre.

Ho sempre pensato che le animi affini si riconoscono. Quell’estate ne ebbi la conferma.

Mia madre ha sempre cercato di economizzare su tutto: soldi, cibo, vestiti, tempo. Su una sola cosa non ha mai risparmiato: l’affetto. Lui l’aveva capito, e per di più condivideva con lei lo spirito indipendente e selvaggio che solo un cane randagio poteva avere. Gianfranco era libero, e negli occhi di mia madre leggeva la stessa emancipazione.

Per questo, mia madre l’aveva chiamato Sky: quel cane aveva la profondità del cielo, e la sua libertà. Come poi sia diventato Gianfranco, nessuno lo sa con certezza. Ma quell’animale divenne un po’ la mascotte di Brucoli: tutti lo conoscevano, anche se non tutti lo amavano. C’era chi, in silenzio, covava un disprezzo violento e minaccioso.

 

Quando finì l’estate, mi si strinse il cuore: abbandonarlo era quanto di più doloroso potessi sopportare, e per giorni pregai i miei genitori di andare a prenderlo: non potevamo lasciarlo da solo.

Gianfranco subì un secondo abbandono, perché la nostra casa era troppo piccola e noi troppo poveri per poter sostentare anche un cane. Ma quell’animale, fedele come solo lui sapeva essere, non si perse d’animo. Quando, durante il weekend, tornavamo a Brucoli, lui era sempre lì ad aspettarci.

 

A Brucoli, però, eravamo tra i pochi a gradire la sua presenza. Era un cane randagio, e come tale andavano a lui tutte le colpe: le aiuole distrutte, le galline del portiere morte, gli escrementi al lato della strada.

Ben presto cominciò a girare la voce che stessero avvelenando i cani randagi di quel luogo. Quando io e mia madre venimmo a saperlo, decidemmo di andarlo a prendere, fregandocene di tutto il resto.

Giunsi a Brucoli ad  ora di pranzo, e, con mia grande paura, lui non c’era. Col cuore in gola lo chiamai una, due, tre volte, ma di lui non c’era traccia. Mia madre correva per il quartiere, e urlava il suo nome; io lo cercavo ovunque, ma non riuscivo a trovarlo.

«Gianfranco» urlai per l’ultima volta. E, con sollievo, lo sentii. Prima di vederlo, udì un latrato basso, e il suono dei suoi passi sulla terra battuta: poi lo osservai mentre galoppava verso di me, la lingua di fuori e le orecchie che sbatacchiavano nella foga della corsa.

Ci vollero ore per convincerlo a prendere il calmante che gli avrebbe consentito un sereno viaggio in macchina; quando arrivammo a destinazione, era spaventato, ma si fidava a tal punto di noi da camminarci a fianco, pur con la coda tra le gambe e lo sguardo basso.

Riuscimmo a stare con lui solo qualche giorno, poi mia madre lo regalò a una sua amica, con un sorriso un po’ amaro e la consapevolezza che il destino ce lo aveva fatto trovare per quel motivo: salvarlo.

Tuttora, quando guardo negli occhi di mia madre, riesco a vedere un’ombra che vedevo anche nello sguardo di quel cane.

 

   
 
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